M`as tu vue? Da Le Striptease a Raquel, Monique. Un`indagine sulla

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M`as tu vue? Da Le Striptease a Raquel, Monique. Un`indagine sulla
M’as tu vue? Da Le Striptease a Raquel,
Monique. Un’indagine sulla ricerca artistica
di Sophie Calle
«Mi hai vista?»: è una domanda che Sophie Calle sembra rivolgerti spesso. Nel 1979, con addosso un
abito corto, un cappello e una parrucca bionda, inscena uno spogliarello in viale Pigalle a Parigi. La
performance, al di là di un’apparente denuncia al sesso mercificato, porta a galla una situazione
quotidiana dell’infanzia: un casto striptease in ascensore per raggiungere l’appartamento dei nonni
e andare a dormire. Un paio d’anni più tardi, paga un investigatore privato per farsi spiare. Poi,
confronta i rapporti scritti con il suo diario personale e dalla sovrapposizione delle due letture nasce
La filature, opera in cui l’artista si osserva e, al tempo stesso, è osservata.
I risultati più intriganti, tuttavia, li ottiene quando abbandona il narcisismo e sposta lo sguardo verso
l’altro. È il caso di Le Carnet d’Adresses, identikit di un uomo mai incontrato. Calle trova una rubrica
per strada e chiama tutti i numeri telefonici chiedendo, a chi risponde, di parlarle del proprietario.
Poi, pubblica singolarmente le interviste sul quotidiano Libération, come si trattasse di un romanzo
d’appendice. Se l’altra persona, però, non è estranea, le regole del gioco si capovolgono e la
vicinanza affettiva altera gli equilibri. Da qui, l’ultima personale Raquel Monique, ospitata al Palais
de Tokyo di Parigi e terminata lo scorso novembre. L’area in costruzione del palazzo si trasforma in
una sorta di mausoleo, un luogo sacro dove intrattenersi con la madre; nucleo del progetto è un
video, Pas pu saisir la mort,già presentato alla Biennale di Venezia nel 2007, che documenta l’ultimo
mese di vita della genitrice, immobile tra le lenzuola bianche, con i fiori freschi accanto al letto. La
videocamera, posizionata in un punto laterale della stanza, trattiene i gesti lenti di chi le sta accanto:
una mano le accarezza il volto, un’altra le bagna le labbra, qualcuno le rimbocca le coperte. Per
focalizzare l’attenzione dello spettatore, il video è racchiuso in un cubo di legno che lo protegge ed
ospita pochi visitatori alla volta.
Partendo da Pas pu saisir la mort, Calle sviluppa una serie di interventi a cascata, ciascuno isolato
negli spazi aperti dell’edificio. Come singole parti di una costellazione, fotografie, sculture e testi
occupano l’intera superficie, nati dalla stessa urgenza di afferrare una vita che scappa. Alle pareti,
lunghi elenchi stampati registrano gli ultimi desideri espressi dalla donna, le ultime parole
pronunciate, i suoi oggetti cari. Tra gli altri: un libro di Proust, una bottiglia di vodka, l’immagine di
una barca a vela sull’Atlantico, le fotografie che la ritraggono giovane e bella, alcune calendule. La
commozione prende la forma di un sorriso amaro davanti a una giraffa che sbuca dal muro e che
l’artista ha battezzato Monique. Ci si ritrova spiazzati, infine, di fronte all’installazione dedicata al
pellegrinaggio a Lourdes, intrapreso da Sophie Calle su invito di una veggente prima della
scomparsa della madre. Immagini e testi documentano le singole fasi del viaggio e l’incapacità di
esprimere una richiesta d’aiuto. L’opera si sviluppa come un racconto intriso di misticismo, in cui la
parola scritta sostiene le immagini e viceversa. Pur non essendo mossa da una tensione religiosa,
Calle vive l’esperienza lasciandosi guidare dal destino e un’insegna dell’hotel o un colore si
trasformano in tracce da seguire, tappe di un percorso obbligato. Durante il pellegrinaggio, inoltre,
scopre, con stupore, che la patologia della madre non è presente nell’elenco delle guarigioni
riconosciute come miracolose dalla Chiesa cattolica. Così, sviluppa un’ultima installazione, in cui
inserisce, in singole piastrelle, i nomi delle malattie contenute nell’elenco. Disposte a terra, di fronte
alla parete, formano un mosaico, una sorta di lapide in marmo chiaro.
In Raquel Monique la complessità delle singole opere è alleggerita dall’ironia, percepibile fin
dall’immagine che introduce il progetto espositivo: una fotografia in bianco e nero in cui la madre,
non più giovane, fissa l’obiettivo con sguardo malizioso, seduta su una tomba in un cimitero.
L’attenzione cade sulla gonna in voile troppo corta e sulla parola mother inscritta sul marmo, ad
indicare che quello sarà il posto in cui verrà sepolta. Calle, attraverso la personale al Palais de Tokyo,
racconta un legame privilegiato e sopra le righe ma, parallelamente, avvia una riflessione sulla
morte e sui riti che l’accompagnano. L’artista li documenta con piglio rigoroso, utilizza la scrittura,
la fotografia e il video per fissare l’ultimo mese e mezzo di vita di Monique, le fasi del pellegrinaggio
a Lourdes, i gesti e l’ultima parola. L’ariosità dello spazio espositivo e la distanza tra un’installazione
e l’altra suggeriscono una visione lenta, intervallata da pause regolari, come pagine bianche in un
libro ricco di parole.
Progetti e opere di Sophie Calle hanno, spesso, origine da un fatto privato o da un episodio intimo:
una lettera di addio, il ritrovamento di un oggetto smarrito, un rituale infantile. La sua ricerca, però,
è inclusiva e capace di porre lo spettatore di fronte ad uno specchio. È uno svelamento, un invito a
levarsi di dosso i vestiti e ad infilarsi nel letto dei nonni per la notte.
Saul Marcadent
D’ARS year 51/nr 205/spring 2011