Poesie - Argentina Olcese
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Poesie - Argentina Olcese
Argentina Olcese. Poesie scritte nel 1988 PAROLA Nulla esiste al mondo di più sacro che la parola allorché questa a verità risponde. Sarà dono la parola allora, e nulla di più sacro, nulla di più grande, al mondo sarà donato. GENOVA Se vedi una città che sale e subito scivola dall’altra parte, che stende superba il suo mercato d’antico e nuovo sulla roccia erbosa mista la cattedrale al violetto, e credi di guardare il mare, ma inciampi l’occhio nel verde più verde che spunti alla stagione allegra, e per trovare il mare scendi, o Sali di nuovo, non si sa mai, una città dove il panorama non finisce lì dove ti trovi, e anche se la giri tutta arrampicandoti su come il gatto ti rispunta sotto gli occhi sempre nuova, o ti vien voglia di girarti indietro perché d’un tratto s’è levato in aria su dal nulla tra il verde di conifera marina un magico castello co’ merli stagliati in acqua che come sfondo s’è costruito il porto, e se ti volti ai monti ne vedi un altro sbattuto su nel cielo con alberi e palazzi sotto che gli fan supporto, col vento che quando ci si mette non si sa se spettini di più in Piazza della Vittoria, a Sampierdarena, Sturla, De Ferrari o S. Martino, dove la gente, quando non ti sbatte in faccia le sue verità fa i fatti suoi: Quella è GENOVA. (dal romanzo Mamma sono io, in origina Polvere amica) GIOIA S’apre la campanella al sole. La gioia è tutta lì. Gioia è corolla al sole. Gioia è goccia di rugiada posata sul capo chino delle campanelle che aspettando di vedere il sole, in silenzio dormono. STANCHEZZA Ho i piedi stanchi. Camminare a vuoto sui deserti infuocati del male fa stanchi i piedi. A furia di salire e scendere le scale agli uffici dell’incompetenza, ho stanchi i piedi. Sono stanca di girare il mondo in cerca di perle rare e ho i calzari consunti, troppo consunti perché mi consentano di calpestare i bagherozzoli che zampettano e mi sgambettano attorno. AURORA Sorge al mattino la Vita sul mondo addormentato. Ha in mano la magica bacchetta del risveglio che lungo il giorno dolore e morte le strappano di mano. Troppo alta e profonda, sia pur che al genio dell’intelletto appaia, nessuno mai saprà dir com’è: Vita che nulla crea e mai distrugge perché da sempre in atto E’. Noi, piccolissime scintille di questo E’ l’universo intero di parole attinte alla miglior filosofia potremmo stipare che mai sapremmo dir cos’E’. Vita che sboccia, amara nel calice la morte. Ma chi spera (si spera) di primo mattino, un giorno, sui fiori del male vedrà sorgere l’aurora. (dal romanzo Mamma sono io, in origine Polvere amica) STENDE LA NOTTE Stende la notte affumicato il velo firmato in calce da suo pugno oscuro. Scende la notte sui campi di fiordaliso e grano, sulla nave in porto e su quella in mare. Cupe le ombre a mescolar gli spettri al sonno, da sortilegi balzano in magie annerite. Svolazza l’ultimo pennuto e sotto grandi ascelle trova riparo. Volano basso i pipistrelli, urtano le ali contro i raggi spenti della notte e tornano indietro. Il canto sbandato del grillo s’allontana e guizzi rassegnati lo sotterrano. S’aggrovigliano i fili del pensiero e l’ombra del sussurro al labbro stanco s’accolla. Cade la palpebra sulla pupilla spenta che di sonno si riempie quando la notte scende dalla montagna al piano. Scende in mantiglie la stanca notte e di sue mani oscure l’affumicato velo, stende su campi, stende su mari. VANNO BELANDO Vanno belando le pecore al macello. Vanno belando al macello gli agnellini. Perché non sanno e nulla sanno chiedere a nessuno. Unico conforto è il sonaglio al collo. Vien loro tolto, e senza sonaglio vanno al macello le pecore belando. SIGNORE, TI CHIEDO PERDONO Signore, ti chiedo perdono delle bugie che ho detto, ma ti chiedo perdono aspettando che tu mi redarguisca interrogandomi così: “E’ per me che hai mentito?” Sì, Signore, ho fatto il tuo nome, risponderò sincero. Allora, tu, guardandomi disteso, sorridendo mi dirai: “Metti l’animo in pace figliolo e subito. Sappi che chi mente per me, prima ancora di nascere perdonato per sempre e benedetto è già.” PROVA Chiedo scusa, ma qui è prova, posto per voi non c’è. Accomodatevi fuori, tanto è prova. L’altoparlante annuncia: prova…prova… questa è prova. La voce s’assesta e annuncia: è finita la prova. E i figli prova? Dove sono finiti i figli prova? Nel cesto dell’immondizia, risponde la voce prova. Erano fogli, non figli prova. Finché si prova, tutto è prova. Diamoci là. Perché non scegliamo di vivere in prova? Troppo dura è la realtà. Ma se prova, nulla prova, quel che è prova, tutto promette, nulla regala e duro è. Sconfigge alle volte la realtà, ma non tutti sanno capire che razza di conquista è la realtà. TERRE PROMESSE Arriveremo un giorno alle promesse terre che la vita asconde? Chini oggi alla fontana a bere acque di tenere speranze raggelate al morso di grottesche contraddizioni, alzeremo noi il capo, o la lunga attesa che l’anima avvelena e il troppo silenzio morderanno il virgulto alla radice prima che s’alzi e al vento s’affidi? Chiusi i passaggi nel nulla, ai novelli momenti s’affacciano i sentieri di sangue umidicci. Misteri sofferti e conquiste violate, fra carte stradali arruffate e su mezzi affollati affogano. Sempre così saremo? Sempre così aggrappati ai bordi del tempo in cerca di spazi? Quali spazi? (comparsa su Internet) SEMAFORI IN ROSSO Errate dimensioni di specchi concavi e convessi travolgono i semafori brucianti il rosso. Traveggole agli occhi hanno seminato di morti le strade, e i pochi semafori rimasti in piedi, quelli del buon senso brucianti il rosso, l’ennesimo pericolo avevano segnalato. ZODIACO INNAMORATO Non sapevamo più che dire. Su di noi s’abbruniva il cielo illuminandosi di stelle. Già dispiegate l’ali e fisso l’occhio al traguardo di vertiginosi, consumati spazi, ribolliva l’aquila grifagna, d’intrepido coraggio. Fedelissime al tenace affetto che le lega e frementi d’aspettazione l’orse sospiravano l’araldico segnale che le sfrenate corse, tra fulminee mosse di cadenti stelle, per le vie del firmamento slega. Sulla via di bianco latte stava posato il cigno. L’ali maestose a croce era al navigar proteso. E sfaccendati, il piccolo carro e il grande, prestavano l’orse al traino del regale. Sciolti da cavalli slittarono i carri. Tra guizzi e capriole, scherzi e giochi marini inventati dal delfino, per le oniriche sponde di stellati cieli i focosi cavalli smarrirono le briglie. E pronta nell’attesa, la lira che fu d’Orfeo, già cantava sulle vibranti corde gli accenti del silenzioso, immane, altissimo concerto. FRONDA IMMOBILE Perché non t’agiti o fronda immobile? Non è la notte già cupa da sé che tu alleata di fronde immobili, muta congiuri e inventi la foresta immobile? Già nella notte è steso, muto del silenzio l’inno. Già nella notte muto, l’annuncio dei futuri giorni, del rito sfaccetta e assottiglia il lembo. E le infinite maglie di infinite fronde, su infinite onde, nell’universo muto, vanno. Forse che tu, alleata di fronde tese a silenzi immobili, muta congiuri e inventi dell’universo il fremito, ai paralleli, sconfinati mondi teso, ove il divenire immobile, varcati i labirinti cosmici, trascende della materia il gemito, e al volo d’eterni, sonori silenzi immobili s’accende? (poesia musicata) CAOS DEL DUEMILA Sprizzano riti in dissonanza. Stridori, metallici suoni, a manovre, da strumenti musicali sfuggono. Imbottiti d’ormoni, festini da parata apparecchiano i robot filtranti le negate speculazioni dell’essere e non essere esistenziale d’oggi. Su panorami solari fluttuanti nel vuoto di luci e d’ombre, convergono le parallele di catastrofi vere o fasulle da menti umane guidate, che l’alba del duemila al tramonto, danno per aggrovigliate. Infranto il mito e ripudiato, l’ombra di sé che stenta a credere a sé ricalcitra, su vaganti veleni inciampa e tenta la fuga nello spazio la ragione in cerca di inganni, veri o fasulli ancora non si sa. FATALITA’ E’ strada di campagna. Passa un ragno sull’asfalto. Di botto si ferma. Sta arrivando un mezzo. La traiettoria delle ruote lo scansa e la corrente d’aria lo fa traballare. Ancora due macchine. E’ salvo. Sa d’aver corso rischio e in fretta corre al marciapiede. E’ sotto. Passano due uomini. Lo scansano. E’ salvo. Ma un attimo di riflessione lo fa tornare indietro e la macchina che arriva lo centra. ALLA CADUTA FATALE Sui platani di Corso Torino scendeva l’autunno. E un vento di scirocco molle sui rami alteri, giocava alla caduta fatale soffiata sulle foglie arrugginite che un po’ tristi e un po’ no, spossate al peso della breve estate, tremavano sul punto di spiccare il volo. Poi, volteggiando intorno, quasi a volersi sganciare da un destino che le vuole a terra, tuffate in quell’attimo d’effimera libertà ignara, le grandi foglie frastagliate ai bordi scendevano ai tronchi macchiati d’acquarello, verdolino e grigio chiaro. E un armeggiar di foglie inquiete accucciate a terra chiuse nel delirio tra la vita e l’ultimo grido spento, scorazzava, spinto dal traffico, ai lati della strada fino a sommergere l’incedere dei miei piccoli passi scricchiolanti. ANGOSCIA Vanno a rilento i treni pesanti, i treni arrugginiti della notte. Scorie raggomitolate dal vento, su rotaie di lunghe, deserte strade ferrate hanno sollevato. Bandiere ammainate già da tempo a brandelli hanno maciullato. Sui binari abbandonati della notte, le smorte pupille dell’angoscia hanno caricato, i treni pesanti, e ora, grondando lacrime vanno. Cigolando nella notte, vanno a rilento i treni pesanti, arrugginiti, i treni dell’angoscia che non cessa mai. (poesia musicata) MARE SENZ’ANIMA Se non fosse stato per lo spruzzo gigantesco di cristalli tremolo luccicanti tuffati a galla che è il sole proiettato in mare, e per i piccoli salti scherzosi della spuma carezzanti l’anima impietrita degli scogli posati a fior d’acqua, e non avessi avuto in mente la forza dei cavalloni galoppanti spaccarsi il muso e la criniera contro le rocche muscose, avrei detto il mare senz’anima, steso giù a terra, appiattito, palpitante al tremolio levigato che l’immenso smeriglio Zeffirino stende sull’acqua del mare acquietata. (dal romanzo Mamma sono io) VOCI NEL NULLA Canta della cascatella nel ruscelletto il tonfo. Risponde il gallo chissà dove. attorno, voci di galli non ce n’è. S’ode il frastuono d’una motosega a scoppio, s’arresta e a valle risponde una sirena in corsa. C’è una fabbrica vuota al Borgo. Rifrangono le mura il silenzio delle voci di protesta ormai nel nulla perse, e avanzano sterpaglie là dove smantellato il passo, l’ombra dell’ombra tace. S’estingue l’acqua della cascatella e il chiacchiericcio s’allontana. Su nella stanza d’un appartamento, imploranti aiuto, urla di bimbo straziato si spengono nel nulla. Non ha più voce il bimbo. E ora, estinta l’acqua della cascatella, nel ruscelletto, anche il canto tace. COSI’ E’ PRIMAVERA Trilli d’allegro folletto fremono a monte. Sgambetti e capriole, a valle rimbalzano. Calcetti agli intontiti alberi saettano, e qual risveglio di gemme ai rami partono frecce di sonori baci. Così è primavera. Geme l’inverno. quando sbarazzina s’affaccia alla finestra primavera e il sottobosco s’intreccia di rinnovati boschetti in tresche. Ricca di verde la campagna, piazze fiorite annuncia. Castelli d’erba s’alzano a difesa di mai raggiunti sentieri e miraggi d’accesso a dirupi, a crinali ammantati di frescura s’affollano in barriere sommerse da pizzicotti e baci di tintinnanti suoni. Voli d’uccello al timo profumati sfrecciano su scintillanti ori che ginestre e botton d’oro da vecchi, rintanati scrigni hanno scovato. MESSAGGI Socchiudono le palpebre, le stelle quasi spente del mattino. Stanche della notturna veglia lanciano messaggi al prato che l’indecifrato, tremolante linguaggio ascolta. E brillano come stelle le gocce di rugiada a terra, ai primi raggi del titubante sole. Curvi al delicato peso, spighe, campanule e vilucchi, dondolano. Guardano giù le spighe, nell’erba di menta, potentilla e trifoglio colorata. Guardano giù e dondolano. Stanno le pervinche ai lati e la morella assieme. Si interrogano. Sarà lontano il giorno, o forse già stasera sarà, che i sovrastanti rovi allungati su sul nostro piccolo cielo nascondano a noi le stelle? E’ L’ORA CI SIAMO Faticò la notte a spegnere il sole, all’imprecisate tombe del cielo sotterrarlo e in cupe maschere accecarsi, ma finalmente giù dai tetti s’allungò, nere e scarne le dita su riquadri d’accese finestre e muti tendaggi ingialliti. Fin giù sulla strada la notte arrivò. Tamponò disegni di strade ingorgate. Seminò scherzi d’anabbaglianti misti al groviglio luminoso di statiche insegne. E tra suoni di clacson (s) impazziti sprizzanti scintille nervose di vetro infranto agli orecchi, ingollò lo scheletro di macchine in fila poi disse: E’ l’ora…ci siamo. (dal romanzo Mamma sono io) TEMPO I tempi delle rose in boccio e delle mele s’avvicendano spezzettati in lampi d’illusione che tutto ritorni bello come prima o meglio ancora, si spera. E tu, ragazzo scanzonato che sei, d’inesorabili sondaggi garante, chino ad arco a segnare l’arco addietro nella notte dei tempi perso, chiedi tempo al tempo e riemergi galantuomo a dire che le rose son fiorite. Erano rose di macchia, ma vere. Non veri, ma falsi erano invece i boccioli di rovo che promettevano rose. E da scanzonato ragazzo qual sei, in attimi rinato te la ridi se la cicala crede d’ingannarti ed ammazzarti cantando. GRAZIE DI CUORE Ce l’hai fatta finalmente, Signore, a portarmi via l’ombrello! Non è per il denaro, di quello me ne impipo ne butto via tanto ai giochi d’azzardo per menare avanti la vita! E’ per il colore bianco e celeste a righe. Non ce n’è. Da cento peripezie l’avevo salvato con mille e uno guasti al cuore. Una volta in un negozio. Attaccato a una ringhiera, anche, l’avevo lasciato. E al mercato! Oh miracolo! Al mercato! Quella volta, tutti gli sforzi degli dei a salvarmi l’ombrello erano puntati e passo, passo, all’indietro, per un soffio, l’avevo riacchiappato. Ma finalmente l’ho perso. Grazie di cuore. Tientelo. Ne avrai bisogno. Forse anche lassù piove. SOGNAVO Sognavo la casetta bianca, il tetto rosso, il prato verde e i fiori gialli in tondo attorno. Ho visto lo stemma del giaguaro, il leone e la pantera impressi nel blasone delle macchine sfreccianti sulle strade e ho detto: “no.” Sognavo la casetta bianca in mezzo al prato verde, il tetto rosso e i fiori gialli attorno. Diceva uno sfrecciante nel giaguaro: “Poverina, non ha trovato ancora la casetta bianca col tetto decente in cima.” E l’altro nel leone: “E’ una cretina andarsene così da sola tutto il giorno in cerca della casa bianca che per lei non c’è.” E io, sotto l’ombrello, a furia di camminare e guardare in giro, non sapevo più se la casetta fosse bianca, rossa, verde o gialla, e se avesse il tetto rosso o il prato verde in cima. RAGAZZI ALATI Seduti ai bordi della strada, cantavano i ragazzi canzoni tolte ad altri pianeti in festa. Monili incandescenti erano le chitarre in mano. Gli sguardi loro sprizzavano gioia di meraviglie innocenti ad occhi di pargoli rubate, e gli abiti, di sole inzuppati scendevano increspati ai fianchi mossi da vento di brezza marina S’alzarono i ragazzi lucenti e danzando invasero la strada. Videro gente che li derideva, altri li scansava e i più si facevano vanto di ignorarne il viso. Adesso non ci sono più i ragazzi. Ora che le bianche voci si sono perse in cielo, il mistero è rimasto intatto. Nemmeno noi li abbiamo visti i ragazzi alati. Guardavamo l’inquinamento. ARRIVO IO Sempre in ritardo, ad imboccar le strade giuste, arrivo. Sempre in ritardo. Son fuori di stalla i buoi, tutti son scappati, e arrivo io. I numeri al lotto non li ho saputi giocare e l’uovo caldo di nido è rotolato via. Tendo la mano, ma troppo tardi arrivo, la gallina è corsa prima e tutta contenta s’è già bevuta il tuorlo. NON VOGLIO PIU’ Non voglio più sorrisi artefatti sulla mia nave. Piuttosto annegherò fra i salati cristalli delle onde che frangono l’ali sulla coperta. E sul ponte di comando della mia nave, punterò sul chiaro risveglio del mattino. CADONO I MITI Cadono i miti come folgore dal cielo, cade la folgore, s’aprono i cieli e l’abitacolo dell’universo appare. Castelli di sabbie mobili allevati, a terra sbriciolati s’afflosciano. Accelerato il corso, rotola il mondo sui binari del futuro proiettato, e l’io nel dedalo perso d’opinioni e immagini che brucianti le fratture tra coscienza e vita frappongono, il segnale liberatorio da mali fisici e morali aspetta. Gettiamo la maschera e guardiamoci in faccia chi siamo. Tutti, sulla stessa nave da più onde sollevata salpiamo. Ciao. Ti dico ciao. Non cercarmi sulla strada delle statue o su quella dai gamberi segnata. E’ la voce del vento la mia casa. Il vento che non si sa da dove venga né dove vada. Ecco, l’abitazione mia qual è. Non ho tempo d’accendere i fari che già al mattino il lume del tramonto arriva, mi precede, investe la Storia e se ne va. SOLE MATTO Sole, balza indietro! Fermati una buona volta anche tu! Ma come? Tu, di strade non ne sbagli mai? Siamo noi, gente della terra che non sbaglia mai. Ma solo che tu, ad arrufar matasse al tempo, splendido, un colpo di testa macchinassi all’indietro, un’unica volta, dico, subito ne approfitteremmo per ricominciare tutto da capo, noi, gente della terra che non sbaglia mai. QUANDO VEDRAI Quando vedrai le nuove foglioline affacciarsi alle finestre di sparuti ramoscelli, e le bave dei ragni legare di traverso le stradicciole non battute di montagna, dirai: è primavera. E’ il grande occhio del sole spuntato a cavallo sul pendio. Smorto non sa che fare. E’ incerto se continuare la strada o tornare indietro e ricacciarsi a letto a dormire. Ha visto che c’è tutto da rifare. Ma ecco, s’è deciso. Allegramente s’è rimboccato le maniche e su per la scala del cielo arrampicato è già.