Noir in banca

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Noir in banca
Noir in banca
a camera mortuaria è ghiacciata, avanzo
nella luce azzurrognola, il freddo mi anestetizza la mente. Mi ha prelevato la polizia
mezz’ora fa. Sono arrivati a casa in due.
«Stefan Mihail Bogorichi?». Ho annuito,
senza emettere un suono. La gola secca ed il
cuore fuori dal petto. Hanno esaminato il mio documento, poi mi hanno chiesto di seguirli. Ho sfilato le
chiavi dalla toppa e fatto un passo avanti. Siamo scesi
dalla macchina nel parcheggio sotterraneo dell’ospedale.
Mi hanno affiancato in silenzio su per una rampa di scale
e poi lungo un largo corridoio fino alla porta dell’obitorio.
Solo allora mi hanno rivolto ancora la parola. Mi hanno
chiesto di riconoscere un corpo. Almeno credo, non parlo
bene la lingua. Ho pensato a Nicolae. È uno che mi
hanno presentato, sta organizzando un furto. Sono entrato nella stanza confuso, un vago presentimento di tragedia ancora mi attanaglia i muscoli come un crampo.
Ho buttato l’occhio sul morto senza trattenerlo a lungo.
Ed eccomi qui, un passo dopo l’altro, in questa luce irreale. Mi avvicino al letto. Un seno prominente spinge in
su la tunica che hanno infilato al cadavere, sembra se ne
infischi della legge di gravità. Un livido bluastro taglia in
due il collo. Porto lo sguardo sul mento, sugli zigomi, sul
cranio pelato. Un malessere senza fondo mi invade, mi
sento mancare. I due poliziotti mi afferrano per le braccia
e mi aiutano a sedermi su uno sgabello di ferro. «La riconosci?». Sembra sia la divisa a parlare. La voce mi raggiunge da lontano. La divisa si avvicina. E parla ancora,
a pochi centimetri da me. «La riconosci? E’ tua madre?».
Le lacrime mi cascano dagli occhi, pesanti come palline
di piombo. Scuoto la testa. «Non la riconosci?». Faccio
ancora di no, i muscoli del viso continuano a negare neanche fossero sotto l’effetto di un’onda d’urto. «Ci risulta
essere Ştefăniţă Bogorichi. La riconosci? E’ tua madre?».
Faccio di sì e di no con la testa, in un movimento ondulatorio e sussultorio assieme, che mi da le vertigini. «Da,
da. Este Ştefăniţă Bogorichi. Tatăl meu». La mia voce parla
al mio posto. I due si guardano senza capire. Sì ripeto in
un italiano stentato, è Ştefăniţă Bogorichi, mio padre.
Mio padre è morto a quarant’anni. L’ha trovato
una pachistana nel bagno di un noto istituto bancario di
Lugano. Era arrivato in Ticino quattro anni prima. In
Moldavia aveva lasciato me, mia madre e i suoi abiti da
uomo. Mezza giornata in day hospital per rifarsi il seno,
una giornata intera per rifare il resto, due anni per rettificare il sesso anagrafico e mezz’ora per fare le valigie.
Quello che manca, aveva detto, lo compro quando arrivo.
A me aveva lasciato una promessa, appena diventi maggiorenne mi raggiungi. Il nome l’aveva tenuto così com’era. “Ştefăniţă” era adatto anche a una donna, questo si
era ripetuto per mesi, non volendosi disfare di un nome
che era appartenuto a un principe moldavo. Dopo neanche una settimana dal suo ingresso in Svizzera, già lavorava in un night di Lugano. Un metro e ottanta di carne
magra, sotto una cascata di riccioli rossi. I capelli a mio
padre piacevano così, la parrucca gli era costata una fortuna. Il suo viso aveva tratti talmente delicati che nessuno
dubitava fosse una donna. Solo nell’ora della morte le ossa
della testa avevano rivelato una durezza inaspettata. Mio
padre aveva conosciuto il direttore della banca una notte
al night. Lui gli aveva procurato un lavoro come donna
delle pulizie presso la filiale. Ştefăniţă prendeva servizio
con Shazana, la pachistana che l’aveva trovato morto, alle
18:00 in punto. Quella sera in banca, oltre a loro due,
L
Cooperazione — «Concorso Giallo 2012» — Noir in banca
Daniela Natale, Lopagno
c’erano Paolo, la guardia giurata, Roberto, un impiegato
trattenuto lì dal direttore, il direttore stesso e due importanti clienti. Tutti avevano un alibi, a parte Shazana. Il
direttore garantiva per i clienti, con cui dichiarava di essersi trattenuto in riunione dalle 17:00 fino al ritrovamento del cadavere, avvenuto alle 18:15 quando l’urlo di
Shazana aveva trapassato i muri della filiale, i clienti per
il direttore. Paolo garantiva per Roberto, sostenendo di
averlo visto seduto alla scrivania dalle 17:30 in avanti,
cioè da quando aveva preso servizio, e Roberto per Paolo,
affermando che quello era rimasto nei pressi della sua postazione ininterrottamente. Del resto, sembrava impossibile che Shazana, col suo metro e cinquanta e due mani
da bambina, avesse avuto la forza di strangolare Ştefăniţă.
Morte per strangolamento, questa era infatti la conclusione alla quale erano giunti gli investigatori, esaminando
il cadavere. Mio padre e il suo assassino si erano fronteggiati, poi quello era riuscito ad atterrarlo, quindi aveva
stretto i baveri della divisa in una sorta di nodo scorsoio,
fino ad ammazzarlo. Durante il primo breve interrogatorio, Shazana aveva continuato a piangere, Paolo aveva
continuato a cercare con gli occhi Roberto, Roberto a stirarsi un polsino sbottonato. Il direttore e i clienti avevano
mantenuto un contegno freddo e stralunato. Chi di loro
era forte abbastanza? Paolo era un esperto conoscitore di
arti marziali, Roberto ed il direttore erano entrambi alti
e muscolosi. Quanto ai clienti? All’apparenza sembravano inermi. E il movente? Tutti, direttore compreso, negarono di conoscere personalmente mio padre e di
nutrire nei suoi confronti sentimenti di astio o di rancore.
Devo reagire. Lui è morto. Sono rimasto solo. Mi
alzo dallo sgabello e mi avvicino alla sua salma. Com’è
potuto accadere? Lo osservo ancora. I piedi mascolini, le
gambe lisce. Una forma leucemica l’aveva reso completamente glabro da bambino. La linea sottile delle sopracciglia gliel’avevano tatuata. Gli prendo una mano. Le
unghie laccate di rosso luccicano macabre sulla pelle grigia. Ne accarezzo le falangi fredde come marmo, le vene
sporgenti. Rivolto il palmo verso l’alto. Nell’unghia del
medio scorgo un piccolo bottone incastrato. Lo estraggo
stupito. Gli agenti mi sono subito a fianco. Mostro loro
il bottone, forse l’unico indizio lasciato dall’assassino.