Sangue sul collo del gatto

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Sangue sul collo del gatto
Persinsala Teatro
Alessandro Paesano
aprile 21, 2012
Una riscrittura iperbolica e pop-lisergica del testo di Fassbinder che
costituisce una sontuosa celebrazione dell’estetica
dell’Accademia degli Artefatti, autoreferenziale e a tratti
manierista.
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Sangue sul collo del gatto – come viene tradizionalmente reso il titolo
originale Das Blut am Hals der Katze che si può anche tradurre
“Sangue sulla gola della gatta” – è incentrato sul personaggio di Phoebe
Zeitgeist la quale, come annuncia una voce maschile da un altoparlante a
inizio pièce «è stata inviata sulla Terra da una stella lontana per scrivere
un reportage sulla democrazia tra gli uomini. Ma Phoebe Zeitgeist ha
qualche difficoltà: non capisce il linguaggio umano benché ne abbia
imparato le parole».
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La protagonista della commedia di Fassbinder incontra diversi abitanti del
pianeta Terra assistendo a dinamiche seduttive, di sopraffazione, di
violenza, di desiderio di amare o di essere amati senza capire non solo
l’essenza dei loro dialoghi, ma nemmeno l’esteriorità dei loro gesti che
l’aliena si limita a ripetere.
Quando crede di avere imparato abbastanza sulle parole e sui gesti che ha
osservato Pheobe cerca di comunicare ma usa parole d’odio per esprimere
amore e viceversa. L’effetto di questo fallimento comunicativo induce nei
suoi interlocutori una apatia che quasi li immobilizza.
Il nome Phoebe Zeitgeist ha un doppio significato, uno semantico –
Zeitgeist in tedesco significa “spirito del tempo”, la tendenza culturale
predominante di una determinata epoca – e uno culturale:
il fumetto The Adventures of Phoebe Zeit-Geist pubblicato nel 1966
per la rivista statunitense Evergreen Review dal disegnatore Frank
Springer e dall’autore di testi Michael O’Donoghue.
Nel fumetto Phoebe viene denudata, torturata e frustata senza che la
ragazza si ribelli, subendo senza reagire.
Come in tutto il teatro di Fassbinder anche in questo testo del 1971, alla
descrizione del comportamento dei singoli personaggi corrisponde una
analisi delle dinamiche di gruppo, che si sviluppano e prendono forma nel
dipanarsi interno tra tensione sociale e modello antropologico che il
drammaturgo andava desumendo dalla società tedesca a lui
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contemporanea, nella quale vedeva ancora i caratteri sadici e autoritari
del nazismo.
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In un universo fatto di sfruttatori e di sfruttati, dove chi è sfruttato non
evita di sfruttare a sua volta, dove uomini e donne, militari e poliziotti,
prostitute e marchette, travestiti e omosessuali sono al contempo vittime
e autori di violenze, Fassbinder addita il nemmeno troppo sotterraneo
gioco di potere che sembra dirimere i rapporti interpersonali guidati dal
tornaconto.
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Stefano Arcuri si avvicina al testo allestendo un meccanismo di citazioni
non solo della cultura pop degli anni ’50-’60 – a cominciare da alcune
sequenze dell’astronave “C-57-D,” del film Il pianeta proibito, (Usa,
1956) di Fred McLeod Wilcox, videoproiettate per mostrare il mezzo sul
quale Phoebe arriva sulla Terra o dal brano Starman di David Bowie
eseguito dal vivo, mentre il pubblico prende ancora posto in sala.
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Un meccanismo citazionale – il costume indossato da Phoebe, omaggio al
glam rock – che si rifà anche agli spettacoli precedenti della compagnia,
dei quali sono presenti alcuni rimandi visivi, come la bandiera americana e
il passamontagna/cappuccio “da condannato a morte” della serie Spara
trova il tesoro e Ripeti di Ravenhill.
Presentando un immaginario collettivo “colonizzato” dalla cultura pop
angloamericana Arcuri piega il discorso del testo fassbinderiano alla
sensibilità teatrale della sua compagnia, allestendo uno spazio
drammaturgico all’interno del quale si muovono e agiscono i personaggi di
Fassbinder e non solo – ci sono anche Fay Wray e King Kong – i quali
esternano gioie e dolori in maniera mai spontanea ma strutturata e
costruita su una retorica della rappresentazione che è talmente invasiva e
onnicomprensiva da averli fagocitati in una standardizzazione di senso
svuotata di qualunque significato precipitando in una accelerazione
iperbolica dove si cerca di colmare l’assenza di senso con la
spettacolarizzazione.
Così se il tentativo di comunicare di Phoebe ha come effetto nel testo
originale quello di rendere tutti apatici, nell’allestimento di Arcuri, Phoebe
trasforma tutti in zombie, mordendoli. Così trasformati tutti i personaggi
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vengono minacciosamente verso il pubblico fino a lambire la prima fila di
platea interrotti dal buio e da alcune note di Thriller di Michael Jackson.
La trasfigurazione che Arcuri effettua dell’impianto drammaturgico
originale restituisce con grande efficacia allo spettatore il punto di vita di
Phoebe, come possiamo figurarcelo “noi terrestri”, impiegando gli orpelli
della retorica pop(olare) – baraccona e approssimativa – proprio come noi
dobbiamo appariamo all’aliena.
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In questa riscrittura iperbolica e pop-lisergica, però, l’effetto ottenuto sul
pubblico, più che straniante o dissacrante come voleva Fassbinder, è
squisitamente comico e, nonostante una certa irrazionale e ingiustificata
propensione del pubblico romano a ridere anche di fronte alle situazioni
più violente e drammatiche (stupri, calci inflitti a vittime già cadute a
terra, disperazione di donne lasciate dall’uomo di turno) è innegabile che
la messinscena strizzi l’occhio a un grottesco che tradisce un certo
moralismo col quale Arcuri sembra guardare ai personaggi della pièce.
Un moralismo di valore opposto a quello col quale di solito ci si avvicina ai
personaggi del teatro di Fassbinder, dove l’omosessualità viene ridotta a
vizio come la prostituzione o al degrado come la violenza fisica, mentre
Fassbinder denuncia la mancanza totale di solidarietà anche tra persone
“diversamente discriminate”.
Arcuri non cade in questo perbenismo borghese ma non sa sottrarsi alla
tentazione di irridere i personaggi che mette in scena (anche tramite un
impiego del nudo cui generosamente attori e attrici si prestano) dei quali
sembra vedere solamente l’aspetto ludico-grottesco a discapito del vissuto
personale ancora altamente drammatico dove l’iperbole performativa e
pop prende il posto della valenza socio-antropologica che sottendono alle
dinamiche irrise.
Anche gli attori, sostituendosi ai personaggi del testo originale e
vestendone i panni – per rappresentare se stessi – degli attori-performer di
una compagnia di successo, indulgono nel manierismo
dell’autoreferenzialità dove i propri tratti recitativi e le modalità
comunicative che li distinguono diventano l’unico segno riconoscibile della
drammaturgia a discapito dei personaggi del testo da interpretare, che
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risultano delle vuote silhouette.
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Nell’allestire questa iperbole pop Arcuri sfiora quasi la parodia proponendo
una drammaturgia la cui cifra più significativa sembra essere la stessa
messinscena, il suo farsi piuttosto che il suo contenuto, e dove la “realtà
della rappresentazione” cui Accademia degli Artefatti da sempre si
propone in opposizione alla “rappresentazione della realtà”, sembra ormai
sganciarsi da qualunque necessità di riflessione critica e si offre come alibi
per un pubblico borghese il quale, dinanzi a personaggi così
grottescamente eccentrici, ride del diverso da sé, ristabilendo una
normalità che, espulsa dal palco, sta tutta nella platea.
Per cui agli occhi del pubblico l’incomunicabilità rischia di non essere più
percepita come problema politico – nel senso di “vita nella città” – ma
come occasione di intrattenimento, essenzialmente estranea alla pratica
teatrale di Fassbinder.
Lo spettacolo continua:
Teatro India
Lungotevere Vittorio Gassman (già lungotevere dei Papareschi), 1 – Roma
fino a domenica 22 Aprile
orari: da martedì a sabato ore 21.00, domenica ore 18.00
Accademia degli Artefatti presenta
Sangue sul collo del gatto
di Rainer Werner Fassbinder
traduzione Roberto Menin
regia Fabrizio Arcuri
con Miriam Abutori, Michele Andrei, Matteo Angius, Emiliano Duncan Barbieri, Gabriele Benedetti, Fabrizio
Croci, Pieraldo Girotto, Francesca Mazza, Fiammetta Olivieri, Sandra Soncini
luci Diego Labonia
scene Andrea Simonetti, Aldo Baglioni
video Lorenzo Letizia
co-produzione “Festival Post Paradise Fassbinder Now”, Residenz Theater/Marstall Theater (Monaco)
in collaborazione con Teatro di Roma
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