La seduzione mortale - Diastema | Studi e Ricerche

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La seduzione mortale - Diastema | Studi e Ricerche
Estetica
La seduzione mortale
Simboli e tematiche musicali nella
Montagna incantata di Thomas Mann
Claudio Bolzan
In questi ultimi dieci anni, l’interesse per il pensiero
estetico-musicale di Thomas Mann è andato progressivamente intensificandosi, determinando un considerevole incremento sia degli studi specifici o settoriali,
che delle ricerche a più largo raggio: in Italia, dopo
gli ormai “classici” contributi di Furio Jesi, Ladislao
Mittner, Cesare Cases, Giacomo Debenedetti, Tito
Perlini, Marianello Marianelli,1 si sono aggiunte, sul
versante più specificamente musicologico i saggi
monografici di Anna Giubertoni, Paolo Isotta, Vittorio
Mathieu, Roberto Favaro,2 assolutamente illuminanti
(ed imprescindibili) per ampiezza e profondità di
analisi, quanto discutibili relativamente all’approccio
metodologico, limitato pressoché esclusivamente
all’esegesi dell’opera letteraria manniana senza tener
conto — in via preliminare e in termini rigorosamente sistematici — dell’imponente corpus documentario
dello scrittore, bibliograficamente costituito da una
massa enorme di carteggi, relazioni, conferenze e
appunti di lavoro.3 A parte il denso volume di Isotta
(compromesso purtroppo da un atteggiamento polemico di fondo certamente poco conciliabile con
l’imparziale rigore richiesto ad un’indagine di questo
tipo), imperniato sull’intera produzione critica e letteraria d’argomento musicale, sono veramente pochi gli
apporti musicologici incentrati sul vasto romanzo Der
Zauberberg (La montagna incantata),4 letteralmente
intriso di simboli e di riferimenti culturali di matrice
filosofica e politica, percorso capillarmente da una
miriade di raffinate citazioni ed autocitazioni, investito dal soffio di una lucida vis critica, tale da trasformare in molti casi la pagina narrativa in saggio vero e
proprio: ci sembra dunque più che mai giustificata
questa nuova operazione di rilettura, tesa a circoscrivere gli aspetti più peculiarmente musicali dell’opera
(non sempre riconosciuti nel loro insieme), rapportandoli al più vasto universo culturale dell’autore tramite l’aiuto di un apparato di fonti bibliografiche si
spera esauriente.
1. Il romanzo in questione vide lentamente la luce in
un periodo particolarmente tormentato nella vita
dell’autore. Nel 1918 erano apparse le Betrachtungen
eines Unpolitischen (Considerazioni di un
impolitico),5 autentico “libro di guerra” concepito
20
come una strenua e dolorosa difesa della K u l t u r
tedesca di fronte agli assalti delle democrazie occidentali, identificate dal fronte della Z i v i l i s a t i o n ,6
attraverso un percorso intellettuale incentrato sulle
figure di Schopenhauer, Wagner, Nietzsche, i padri
spirituali della formazione intellettuale manniana. Sei
anni dopo esce Der Zauberberg (iniziato nel 1913-15
e terminato nel 1924), romanzo-fiume nel quale confluiscono spunti, temi e motivi sviluppati, o accennati, nelle stesse Considerazioni: tra questi, uno sembra
essere appena sfiorato:
Richard Wagner una volta scrisse che davanti alla
musica la civilizzazione si dissolverebbe come
nebbia al sole.
Che un giorno la musica, a sua volta potesse dileguare davanti alla civilizzazione, alla democrazia
come nebbia al sole, questo Wagner non se lo era
mai sognato... Questo libro invece se lo sogna: un
sogno intricato, opprimente e confuso; ma questo
e nient’altro è il contenuto delle sue angosce.
Finis musicae : questa espressione compare in un
punto del libro e vale solo come simbolo onirico
della democrazia. Il progresso della musica alla
democrazia: questo sottintende il libro dovunque
parla di progresso [...]. Il libro si batte contro quel
progresso, gli contrappone una resistenza conservatrice. 7
Proprio questo motivo, questo “sogno intricato,
opprimente e confuso”, diventa uno dei punti cruciali
del romanzo: la storia iniziatica di un giovane borghese tedesco, Hans Castorp, conteso, nel corso di
una lunga degenza in un sanatorio di montagna, da
due singolari personaggi, legati fra loro dall’interesse
politico e pedagogico, ma in antitesi riguardo i metodi e le idee ad essi sottese. Proprio in quanto “politici”, si considerano “nature antimusicali”: l’uno,
Settembrini, aperto a idee democratiche e filantropiche, non mancherà di giudicare pedagogicamente
“sospettabile” la musica; l’altro, Naphta, ebreo gesuita
e conservatore, assertore anzi di una teocrazia basata
sul terrore, affermerà che tutta l’arte è “sospettabile”
in quanto genialità e, quindi, malattia, anche se la
malattia gli appare come la sola “dignità” dell’uomo.8
Ad essi si contrappone una figura enigmatica, sensuale e affascinante: Clawdia Chauchat, simbolo di una
natura che nella sua imperscrutabile e incontenibile
energia si contrappone alla Zivilisation (Settembrini)
e che agisce come seduzione nei confronti del bor-
Estetica
ghese Castorp. Altra seduttrice è, infine, la notte,
nella quale il giovane sembra percorrere un cammino
irto di prove e tentazioni alla ricerca di una sua
dimensione e di una sua maturazione interiore, proprio perché la gioventù è “avida di luce”. Le forze del
negativo (Clawdia, Naphta) agiscono su di lui con
un’attrazione esclusiva ed inquietante (si tratta in
fondo della polarità Amore-Morte) e rappresentano le
due facce di una stessa realtà, quella di una irresistibile seduzione, ravvisabile nel richiamo misterioso
della morte, come precisa l’autore stesso in una intervista rilasciata al Neues Wiener Journal il 22 giugno
1920:
La coscienza di tenere fra le braccia una donna
votata alla morte ha in sé un fascino perverso.
Attratto irresistibilmente dalla bellezza malata di
questa donna, inebriato da una passione bruciante
che pure è percorsa da un soffio di decomposizione, il giovane si lascia irretire sempre più a fondo
nella “Montagna incantata”. Questo è il primo leit motiv: la morte come potenza seduttrice. 9
Non a caso il superamento della malattia e dell’attrazione verso le forze oscure della seduzione avviene
dopo il drammatico episodio della sciata solitaria
(introdotto proprio da una immagine musicale) e
dopo la metamorfosi dell’amore per Clawdia: dalla
sensualità orgiastica del Sabato delle streghe a l l a
sublimità spirituale degli ultimi capitoli. Che il superamento di Castorp — simbolo di una Germania in
problematica trasformazione — approdi ad esiti di
grande ambiguità, come meglio vedremo più avanti,
ci dimostra ancor più che lo scrittore non era pervenuto alla Zivilisation semplicemente e pacificamente
dopo l’esperienza delle Considerazioni, ma che il
suo più intimo e urgente problema rimaneva pur
sempre il futuro della Germania, il suo status culturale e, soprattutto, il futuro della musica dopo l’esperienza catastrofica di una guerra vissuta come scontro
fra due civiltà: non di ripudio dunque ma di autosu peramento è il caso di parlare in questa fase, nella
quale gli elementi positivi del passato cercano un
possibile congiungimento e una fusione con quanto
stava cambiando nell’universo tedesco.
2. Con il romanzo Der Zauberberg Thomas Mann
sembra compiere effettivamente una svolta rispetto
alle tematiche di base delle opere precedenti: se però
si guarda il suo itinerario spirituale, non tanto di svolta si deve propriamente parlare, quanto di uno spostamento di ottica nei confronti del rapporto ArteVita, che tanta parte aveva avuto (e continuava ad
avere) nella sua riflessione di uomo e di artista. Il
senso in cui si deve intendere questo spostamento di
ottica ci viene suggerito da Karoly Kerényi:
Questo fatto dell’esistenza umana, di essere vicino
alla morte, anzi, in realtà, di essere a contatto con
la morte, rappresentava nella Montagna incantata
un argomento, nel quale Thomas Mann si moveva
(e qui ‘movimento’ equivale a espressione linguistica) con una sicurezza, una perspicacia, una precisione che non si trovano in nessuno degli studiosi di questa materia: in questo settore del
mondo umano, nel regno intermedio tra vita e
morte egli si moveva come i Greci reputavano che
si movesse il loro dio “Ermete”10.
Questo spostamento di ottica è dato dunque dal
carattere ‘ermetico’ della storia narrata e della vicenda
del suo protagonista.11 Questi è un giovane, di origine borghese, ingegnere di professione (non un arti sta, dunque), abitante ad Amburgo. A questo giovanotto “semplice e comune” accade una “storia”: una
storia coperta “dalla ruggine del tempo” eppure
recente (“Essa è assai più vecchia dei suoi anni” sottolinea il narratore). La sua singolarità consiste nel
fatto che essa accadde prima della Grande Guerra,
baratro che delimita (e non solo temporalmente) due
epoche e due mondi resi, così, oltremodo diversi e
lontani tra loro.
Anche per lo scrittore la guerra costituisce una grande linea di demarcazione, linea segnata creativamente dalle Considerazioni di un impolitico, che riassumono la sua formazione, il suo pensiero, la sua difficile e problematica posizione culturale: che la battaglia condotta con quest’opera fosse perduta in anticipo e fosse, anzi, portata avanti con la chiara consapevolezza di questa sconfitta, ne dà testimonianza proprio il successivo percorso creativo dello scrittore,
che pure non tralascerà mai motivi e temi tipici delle
Considerazioni, ma ai quali egli sembra ora guardare
da una più ampia apertura prospettica. Questo
ampliarsi dell’orizzonte è attestato da tutta una serie
di lavori: da Herr und Hund (Padrone e cane, del
1919) al grande saggio Goethe und Tolstoj, del 1923
(del quale molti temi — e principalmente quello
della “malattia” — confluiranno nel romanzo in questione, il cui lungo lavoro di stesura si intreccia con
le opere sopra citate).
Ma ritorniamo al romanzo. Anche la “storia
ermetica”12 di Hans Castorp trae spunto, come sempre in Mann, da un fatto autobiografico, e cioè il
ricovero in una casa di cura a Davos della moglie
Katja, nel 1912.13 Qui pure giunge il protagonista
della vicenda per soggiornare tre settimane nel sanatorio e tenere così compagnia ad un cugino, seriamente malato da anni. Nel “Berghof” le giornate trascorrono inizialmente con molta lentezza, gradualmente però il giovane viene preso nell’“incantesimo”
della montagna, ove il tempo sembra subire inquietanti trasformazioni. Allo scadere delle tre settimane
egli si ammala, seppur in forma leggera, e viene convinto a fermarsi per condividere la vita di “quelli di
lassù”. Il suo essere giovane e quindi nella posizione
di uno “che non ha ancora salde radici nella vita”,14
cresciuto per di più in una società in declino, è alla
base della sua “malattia”, un’affezione polmonare che
assume la valenza di metafora e simbolo di un disagio non solo spirituale, e tale da incidere direttamente nel corpo.
Come già è stato detto, Hans Castorp è un “uomo
semplice e comune”. Innanzitutto però egli è un
tedesco: un borghese tedesco. Nella sua semplicità
egli incarna le caratteristiche del tedesco medio di
allora, diventando così il rappresentante-tipo della
21
Estetica
Germania borghese pre-bellica. La sua storia dunque
è la ‘stessa storia’ del popolo tedesco (e il termine
‘storia’ va inteso nella sua doppia accezione di complesso accadimento di fatti — Geschichte — e di
“narrazione”).15 In “pianura”, ad Amburgo, egli cresce
in un preciso contesto sociale, organizzato secondo
le direttive e i principi dello Stato: supera brillantemente il liceo, anche se non cerca di darsi molto da
fare, comportamento questo determinato dalla mancanza di valide motivazioni interiori:
L’uomo singolo può anche tener sempre presente
mete, scopi, speranze, possibilità e trarne impulso
a sforzi e ad attività maggiori. Ma quando l’elemento impersonale che lo circonda, l’epoca stessa,
nonostante tutta la operosità esteriore, manca in
fondo di speranze e di mete, quando in segreto gli
si rivela priva di tali speranze e di tali mete, quando, consapevolmente o inconsapevolmente ma in
ogni modo interrogata sul significato assoluto più
che personale di tutti gli sforzi e di tutte le attività,
oppone un vuoto silenzio, non mancherà di produrre un certo effetto debilitante specialmente in
persone di natura semplice e schietta, indebolimento che può estendersi dalla psiche anche alla parte
fisica e organica degli stessi (D. Z., I, pp. 38-39).
Per essere dunque inclini allo sforzo, all’impegno,
all’azione senza una qualche risposta della propria
epoca sono necessarie una “solitudine morale o
un’immediatezza”, piuttosto rare a trovarsi, oppure
una “vitalità esuberante”, entrambe estranee a Hans
Castorp.
Questi dunque giunge a Davos con una formazione
spirituale incline alla negatività o, per lo meno, determinata dall’esasperante “negativo” silenzio della
società e della sua epoca. In questo senso egli è già
(spiritualmente) malato e per questo la montagna lo
avvolgerà facilmente tra le sue spire, fornendogli
anche il miraggio dell’amore, un amore che si rivelerà come Liebestod, come abbraccio del negativo, o
meglio come narcotico inebriante, così come funzione narcotica aveva per Nietzsche (e per lo stesso
Mann) la musica di Wagner, massimamente il Tristan
und Isolde.16 Non a caso poco prima che gli venga
diagnosticata la malattia egli partecipa a una conferenza avente come argomento la “Potenza
dell’amore”. Molto tempo prima (e questo “molto” ha
un significato estremamente relativo, data la particolare configurazione assunta dal tempo nel luogo di
cura), Giovanni Castorp aveva fatto la conoscenza
con un singolare personaggio, il signor Settembrini
(sintomaticamente il paragrafo è intitolato Satana)
che altri non è se non il più tipico rappresentante di
quella cultura della Zivilisation, i cui punti di forza
spirituali poggiano sull’idea di progresso dei popoli,
di democrazia, ecc. che già avevano costituito i cardini della polemica manniana nelle Considerazioni di
un impolitico.
Questo nuovo personaggio, tutto dedito all’impegno
culturale e sociale, umanista e illuminista dichiarato,
rivela tuttavia una sua dimensione mefistofelica, delineata ironicamente nei tratti somatici (del resto non
si tratta di una persona “sana” e anch’egli è partecipe
del destino degli altri personaggi). Sarà questi il
22
primo ‘educatore’ di Castorp, assolvendo in tal modo
alla funzione e alla missione di “portatore di luce e
progresso”. L’inclinazione verso il negativo del
“discepolo” gli si rivela in particolare durante una
conversazione a proposito di una malata affetta
anche da ritardo mentale: “Trovo che non si accordano, che non si può immaginarle insieme, malattia e
stupidaggine. Si pensa che un individuo stupido
debba essere sano e comune, e la malattia debba
affinare l’uomo, renderlo intelligente ed eccezionale”
afferma il giovane (D. Z., I, pp. 108-109), suscitando
le rimostranze vivaci di Settembrini che rimbrotta: “La
malattia non è affatto qualcosa di distinto, non è
affatto veneranda, questa concezione è malattia di
per sé stessa o almeno vi conduce (D. Z., I, p. 110).
In questa replica egli trova inquietante e particolarmente sospetto il concetto di “santità” della malattia e
in nome della ragione e del progresso proclama la
raggiunta consapevolezza dell’uomo impegnato nella
lotta, tramite il lavoro, contro tutti i miti oscurantisti.
In questo senso l’‘italiano’ Settembrini nutre nei confronti dell’arte, e della musica in particolare, una
grande diffidenza (la stessa che ritroveremo in un
altro “umanista”: Serenus Zeitblom, l’amico e biografo
di Adrian Leverkuhn, il protagonista del D o c t o r
Faustus): “Sì, sono un amante della musica, con ciò
non intendo dire che la rispetti in modo speciale,
così come amo e rispetto la parola, la portatrice dello
spirito, lo strumento, il vomere del progresso. La
musica... Essa è qualcosa di semiarticolato, è l’elemento dubbio, irresponsabile e indifferente”.17 È la
diffidenza che nasce dall’impegno “morale” in direzione della civiltà, laddove, per contro, la musica
appare come sogno, evasione, fuga dalla realtà:
La musica è inestimabile come estremo mezzo di
entusiasmo, come potenza d’impulso all’elevazione
e al progresso quando essa trovi lo spirito aperto e
predisposto alla sua efficacia. Ma la letteratura
deve averla preceduta. La musica sola era pericolosa. Per lei personalmente, ingegnere, è pericolosa
in modo speciale. Me ne accorsi subito dal suo
viso, quando lo scorsi poco fa (D. Z., I, p. 127).
In questo concetto di arte come impegno civile al
servizio della persona e della civiltà, la musica assume un ruolo più consono alle imprevedibili forze del
male. Di fronte a questa concezione negativa il cugino di Castorp, Gioachino, replica (ed è significativo
che sia proprio il cugino a farlo):
Vede? un pezzo di musica come questo, senza
pretese, dura forse sette minuti, vero? Ma questi
minuti sono qualcosa per se stessi, hanno principio e fine, si distinguono dagli altri, sono in certo
qual modo preservati dalla sorte dei loro fratelli,
quella cioè di cadere inavvertiti nel baratro comune (D. Z., I, p. 127).
Di fronte a questa argomentazione calma, pacata,
eppure decisa, Settembrini è costretto a riconoscere
alla musica una sua “dignità morale”, una sua funzione positiva che consiste nel tener desto lo svolgersi
del tempo, nel rendere le persone coscienti e vigili di
fronte a una realtà che il tempo travolge.
Estetica
La musica però — si ribadisce ancora — può avere
una funzione contraria, assai simile alla droga,
all’oppio, acquistando in pieno una connotazione
demoniaca: “L’oppio è del diavolo, poiché origina
ottusità, costanza supina, inattività, calma servile... È
qualcosa che dà da pensare, la musica. Io resto
dell’opinione che essa sia di natura equivoca. E non
vado troppo lontano se la ritengo politicamente
sospetta” (D. Z., I, p. 128).18 È questa la conclusione
di una conversazione fondamentale dal punto di vista
estetico. I concetti espressi non saranno accantonati
da Mann: non bisogna dimenticare che il romanzo
viene iniziato nel 1913 e interrotto nel 1915, quando
ancora il processo di ‘autosuperamento’ dell’universo
culturale che aveva maturato e sostanziato le
Considerazioni di un impolitico era appena avviato.
A romanzo compiuto, dopo l’esperienza traumatizzante del crollo della Germania in seguito alla sconfitta della Prima Guerra Mondiale, lo scrittore, esplicitamente, farà sue le parole parodisticamente messe in
bocca a Settembrini. La musica lo eccita e lo suggestiona e, come abbiamo sottolineato, rappresenta un
mondo e una cultura per i quali dichiarerà il 10 gennaio 1922: “Provengo da una famiglia patriarcale, da
una città nella quale si è conservato intatto fino ai
nostri giorni il pensiero antico e lo spirito della tradizione. Sento in me la pietas per una cultura al tramonto”.19 Il suo entusiasmo per la musica, e in particolare per la musica di Wagner, comunque già gli
aveva suscitato reazioni di estrema cautela se in una
lettera a Walter Opitz del 26 agosto 1909 aveva scritto: “... Se mai ho creduto veramente in Wagner, devo
dire che anche la mia passione per lui, negli ultimi
anni, è scemata di molto”.20 Ora è un po’ tutta la
musica a destare in lui, come in Settembrini, queste
reazioni di cautela:
Lo spirito musicale deve esser considerato nebuloso e tutto ciò che è indistinto deve esser considerato estraneo alla forma. Ecco perché ci sono sempre stati dei tedeschi che in ogni tempo si sono
opposti allo scatenamento dello spirito musicale
[…]. Anch’io oggi nutro una certa diffidenza per lo
spirito musicale e sono più interessato alla chiarezza plastica e alla precisione formale. Il pericolo
di perdere il verbo razionale è troppo grande.21
Nella concezione della musica sostenuta dal personaggio Settembrini incontriamo non solo tutta la
polemica nietzschiana nei confronti di Wagner, ma
anche una forte, sintomatica cautela dello scrittore
proprio nei confronti dello stesso musicista che tanto
lo aveva appassionato e che ora è gradualmente
sostituito da Goethe (e da Schiller: si pensi alle tematiche musicali sviluppate nelle Lettere sull’educazione
estetica dell’uomo), dopo il travaglio spirituale
dell’esperienza bellica. Anche in questo caso, tuttavia,
una particolare dimensione ironica si insinua negli
episodi che abbiamo riportato. È una ironia resa
ancor più macroscopica dal fatto che proprio il
romanzo si rivela intriso di suggestioni wagneriane e
schopenhaneriane in dialettica contrapposizione con
gli apporti goethiani, altrettanto numerosi; in questa
dialettica però gli elementi wagneriani sembrano
assumere un rilievo più ampio e articolato. Uno dei
vertici di questo processo dialettico è il paragrafo
intitolato “Sabato delle streghe”, che più avanti analizzeremo dettagliatamente.
Durante il soggiorno in sanatorio Hans Castorp non
conosce soltanto Settembrini. Di natura aperta e
loquace, egli instaura buoni rapporti con molte altre
persone. Incontrerà anche un altro pedagogo, rivale
dello stesso Settembrini, il gesuita galiziano Naphta,
simbolo del conservatorismo più estremo, negatore
del progresso ed esaltatore dell’inazione. Agli antipodi rispetto alle idee della Zivilisation, egli è più vicino all’italiano Settembrini di quanto si potrebbe supporre, rappresentando il “rovescio della medaglia”,
l’altra faccia di un demonismo di cui entrambi sono
partecipi. Ciononostante, la rivalità di questi due singolari educatori sfocerà alla fine in un duello nel
corso del quale il gesuita si uccide. Prima di incontrare Naphta, Castorp ha modo però di fare la conoscenza di un’altra persona che lo attrae irresistibilmente: si tratta di Clawdia (o Claudia) Chauchat, una
russa “debole, bacata, dagli occhi da Kirghisa” (D. Z.,
I, p. 178), con gli zigomi sporgenti, “una donna piena
di fascino”. 22 La sua immagine, sempre accompagnata da un sinistro e urtante sbattere di porte,23 fa riaffiorare alla memoria del protagonista il ricordo di un
vecchio compagno di scuola, Pribislaw Hippe,
soprannominato dai compagni il “Kirghiso”, da cui il
giovane Castorp si era sentito molto attratto, al punto
di cercare — durante le lezioni scolastiche — un
qualunque motivo per stargli accanto. Sarà una matita a fornirgli questo appiglio, come, tramite una matita, si avvicinerà alla Chauchat (non a caso, proprio
questo sarà uno dei motivi conduttori nell’episodio
della sciata). Castorp si accorge della somiglianza fra
la donna russa e Hippe durante una lunga passeggiata che stimolerà, sintomaticamente, lo sfogo della
malattia: “Era proprio tutto Pribislaw in carne ed
ossa. Non avrei mai pensato di rivederlo in modo
così evidente. Come assomigliava a quella di quassù!
Per questo mi interessa dunque?” (D. Z., I, p. 138).
Una giovanile e vaga passione omosessuale è dunque alla base dell’attenzione che il giovane rivolge a
madame Chauchat, un’attenzione che però ha effetti
negativi sul suo fisico, al punto da causare vere e
proprie alterazioni febbrili. Clawdia, però, non è solo
un simbolo di malattia e di morte. È, senz’altro, la più
pericolosa rivale di Settembrini, ma non per questo
incarna una metafora puramente negativa. La sua
immagine richiama le lontananze sperdute dell’Asia,
dove anche il tempo sembra “distendersi” indefinitamente; i suoi occhi da Kirghisa sembrano alludere
alla tigre in agguato evocata in La morte a Venezia:
Vi è dunque nella sua immagine un qualcosa di
imperscrutabile, di primitivo, collegabile alla pura
energia che anima la vita. In questo senso Clawdia è
anche la vita, ma non quella degli ideali borghesi,
bensì la vita nella sua primigenia forza selvaggia,
eppure proprio per questo tanto affascinante.24 È così
23
Estetica
che la sua presenza ‘stimola’ in Castorp la ‘malattia’:
egli insegue Clawdia, ma ciò che cerca è una ‘via’ più
intima e segreta, attraverso l’eterna interrogazione del
destino, e il destino determina gli esiti che sono esiti
di malattia appunto, data la formazione spirituale del
giovane in seno alla società borghese pre-bellica, irrimediabilmente minata nell’intimo. Rivolgendosi a
Settembrini, riferisce: “Io sono d’opinione che a lei,
homo humanus, non piacerebbe troppo stare dalle
mie parti [...]. Io che sono qui e vedo le cose di lontano, ne risento davvero un’impressione di ripugnanza [...]. C’è un’aria crudele laggiù, inesorabile” (D. Z.,
I, p. 219).
Settembrini, Clawdia, Naphta: questa la triplice
costellazione che accompagna il percorso spirituale
di Castorp. Settembrini, italiano, antiromantico, partecipe e fautore di quel mondo culturale e spirituale da
Mann ricondotto alla sfera della Zivilisation: Clawdia,
emblematica e sfuggente figura di donna che oltrepassa il limite del simbolo per assurgere ad una
dimensione mitica, in cui si intrecciano la Vita, il
Destino, Dionisio (il “Dio straniero”: e Clawdia è una
russa del lontano Daghestàn), autentica rivale di
Settembrini non tanto culturalmente quanto nella sua
peculiare ed intima ‘essenza’; Naphta, infine, il gesuita reazionario, le cui idee, in opposizione a quelle di
Settembrini, sembrano andare incontro al “traviamento” ideologico di Castorp: alle sue spalle infatti si
erge, in tutta la sua cupa e tragica severità, il mondo
del Don Carlos s c h i l l e r i a n o . 25 E Castorp, ancora,
l’uomo semplice (e per questo figura non autobiografica), attratto irresistibilmente da Clawdia, in uno
slancio erotico che trova il proprio esito in un
momento di irruzione del negativo, in uno sprofondare della passione, nel cui abbraccio confluisce tutta
la forza di Dionisio e del destino. Non a caso la
‘scena d’amore’ è preceduta dall’“investigazione” di
Castorp sulla vita, sotto lo stimolo delle parole del
consigliere Behrens: “La vita è morte, non c’è niente
da abbellire, une destruction organique, come un
Francese ebbe a dire nella sua leggerezza congenita.
Del resto la vita odora di morte. Se a noi la cosa sembra diversa vuol dire che il nostro giudizio è corrotto”
(D. Z., I, p. 293). È l’antitesi delle idee di Settembrini,
il quale dunque si trova completamente solo nel suo
compito di salvare il giovane. Questi, sprofondato
nella sua sedia a sdraio, teso fra l’infinito di un cielo
stellato e le profondità abissali, insondabili, della vita,
insegue un suo percorso, una sua via che lo condurrà, di lì a poco — attraverso un itinerario costellato di malati moribondi — di fronte a Clawdia
Chauchat.26 Questo incontro diretto avviene durante
la festa notturna di carnevale quando Giovanni
Castorp è ormai ubriaco. Clawdia è l’unico personaggio non mascherato e il suo irrompere nella sala è
l’irrompere stesso di un mito, quello che Furio Jesi,
acutamente, interpreta come trasformazione dello
Zauberberg in Venusberg wagneriano.27 Una linea
interpretativa questa, che viene suggerita dallo stesso
Mann: “L’elemento mitologico in Goethe, specie nella
24
classica Walpurgisnacht, rappresenta sempre per me
il ponte fra lui e Wagner, che amava particolarmente
questa parte del Faust...”.28 La Walpurgisnacht manniana, tutta intessuta di citazioni goethiane, si trasforma dunque, gradualmente, in mito wagneriano.
Clawdia-Venus riesce a sottrarre Castorp, in virtù
della sua “forza mitologica”, dal controllo di
Settembrini che, in quanto semplice simbolo, svanisce insieme alle altre maschere, figure allegoriche cui
non è dato partecipare allo “spazio mitologico” del
Venusberg: “La sconfitta di Settembrini e il prevalere
del linguaggio mitologico cui Hans Castorp partecipa
senza riserve, sono denunciati innanzitutto da un
radicale venir meno della responsabilità e dei suoi
obblighi, già annunciato dall’uso carnevalesco del tu
che ripugna a Settembrini”.29 Castorp si avvicina a
Clawdia chiedendo una matita, come già era successo con Pribislaw Hippe. La loro conversazione proseguirà in lingua francese: “... non so quasi parlare
francese. Tuttavia con te preferisco questa lingua alla
mia, perché per me parlare francese è parlare senza
parlare, in un certo senso — senza responsabilità, o
come parliamo in sogno” (D. Z., I, p. 372. Corsivo
nostro).
L’allontanarsi dalle scene di Settembrini (e significativamente le sue ultime parole sono dette in lingua italiana) segna l’irrompere della passione, dell’Eros, in
un ‘lento’ (da intendere anche come agogica musicale) inabissarsi nel torpore oppiaceo: “Je t’ai aimée de
tout temps, car tu es le toi de ma vie, mon rêve, mon
sort, mon envie, mon éternel desir... / Je m’en ficherais, je m’en fiche de tous les Carducci et de la
République éloquente et du progrès humain dans le
temps, car je t’aime. / Le corps, l’amour, la mort, ces
trois ne font qu’un. Car le corps c’est la maladie et la
volupté, et c’est lui qui fait la mort ...” (D. Z., I, p. 378).
Ci troviamo dunque nel pieno di un vortice wagneriano, vissuto però da un solo personaggio (la Chauchat
rimane semplice spettatrice di questa Liebesszene, che
pure la vede protagonista), espressa con un linguaggio fortemente allusivo nei confronti del T r i s t a n
wagneriano. Questa Liebestod, però, paradossalmente
non culmina con la morte dei personaggi; essa, infatti, è tale ‘simbolicamente’, come percorso spirituale.
Non a caso il capitolo si conclude con un ironico sorriso: “Adieu, mon prince Carnaval! Vous avez une
mauvaise ligne de fièvre ce soir, je vous le prédis. /
N’oubliez pas de me rendre mon crayon” (D. Z., I,
p. 379).
Il singolare esito di questa scena non può sorprenderci, se teniamo presente che Castorp non è Hanno
Buddenbrook, la cui Liebestod pianistica rappresentava il risultato di una totale negazione di vita che lo
travolge in prima persona; e non è neppure Gustav
von Aschenbach, il cui perdersi nella passione era
dato dall’irrompere di forze vitali lungamente e malamente represse e non più sostenibili da una disciplina ormai priva di intime ragioni. E così, analogamente, Clawdia Chauchat non è riconducibile alla figura
di Tadzio, pur avendo molto in comune con il giovi-
Estetica
netto polacco. Questi diventa per Aschenbach l’incarnazione di un mito-pretesto che alla fine gli indicherà
la via dell’Ade solo attraverso l’allucinazione della
malattia. Madame Chauchat invece è una figura mitica che conduce la passione di Castorp in uno spaziotempo mitico (quello del V e n u s b e r g, sottolineato
dall’uso della lingua straniera) e che risolverà infine
quella passione pervasa di negativo con una battuta
sorridente.30 Settembrini risulterà così sconfitto solo a
metà. Clawdia se ne andrà dal sanatorio e il nuovo
rivale dell’italiano sarà Naphta, l’alter ego di Clawdia,
l’altro volto della seduzione. Ma, nonostante il fascino esercitato dal piccolo ebreo galiziano e dalle sue
idee terroristiche ed estremiste, il cammino di
Castorp subisce un lento quanto inarrestabile progresso,31 attestato da un’esperienza singolare come
quella del sogno durante una tormenta di neve e
dalla sublimazione (o metamorfosi) della passione
per Clawdia, ritornata al Berghof, dopo una lunga
assenza, con un compagno olandese, un’altra figura
dal fascino sorprendente. In questo senso Castorp
passa dalla sensualità allucinante e priva di connotati
spirituali a una concezione dell’amore serena e pacata, vissuta essenzialmente come sentimento. Lo stesso
Naphta finirà suicida e il cammino di Castorp, quello
autenticamente costruttivo per la sua personalità e la
sua maturità, sarà sempre più solitario, notturno: la
notte è dunque la compagna costante, muta e fedele
delle sue incessanti esplorazioni interiori ed esteriori.
A partire da questo momento l’impronta del negativo
si dissolverà gradualmente finché il protagonista, trovatosi concretamente di fronte alla morte (durante
una tormenta di neve a causa della quale si smarrisce
nel bosco) riuscirà, tramite una visione (o un sogno),
ad approdare spiritualmente alla vita, contrariamente
al protagonista de La morte a Venezia. Egli comprende che la “simpatia per la morte”, che trova espressione nella sua formazione legata al mondo romantico, e la “simpatia per la vita” non sono nell’uomo un
qualcosa di completamente separato bensì si trovano
in una posizione di assoluta inscindibilità: “Nel sogno
che fa sotto la neve egli vede che l’uomo, indubbiamente, è troppo nobile per la vita, per cui, in cuor
suo, è religioso e attaccato alla morte. Ma in modo
particolare è troppo nobile per la morte, e perciò è
libero e buono nei suoi pensieri”.32 Questi pensieri
sull’uomo e sulla sua condizione hanno la loro origine in quel paragrafo intitolato: “Investigazioni” che
“dimostra come quel giovanotto dall’esperienza della
malattia, della morte, della decomposizione, generi in
sé l’idea dell’uomo, l’alta creazione della vita organica, il cui destino adesso, diventa una cura reale e
pressante per il suo semplice cuore”.33 Non tramite
Settembrini o Naphta, dunque, egli giunge all’uomo e
alla vita, ma tramite la ricerca e l’esperienza personale, culminante appunto nella sua Winterreise. Che
l’itinerario di Castorp fosse quello dello stesso Mann,
già si è sottolineato. Il protagonista del romanzo,
però, non si identifica con il suo autore e l’esito finale della vicenda non sarà la vita, come la conquista di
Castorp lascerebbe supporre, bensì la guerra e un
significativo interrogativo: “Da questa festa mondiale
della morte, da questo malo delirio che incendia
intorno a noi la notte piovosa, sorgerà un giorno
l’amore?”.34 Il giovane passa così dal tempo come
durata bergsoniana del sanatorio al tempo come storia (Geschichte) della pianura, e lo vediamo scomparire durante una battaglia mentre canta tra sé il
L i n d e n b a u m di Schubert, ascoltato in sanatorio.
Sintomaticamente il romanzo si chiude con una doppia “immagine” sonora: il fragore di una battaglia e il
Lied schubertiano. Ma perché proprio questo Lied ?
Poco prima di scendere in pianura Castorp vede
giungere in sanatorio un giradischi e una ricca collezione di dischi. Affascinato dalla musica e dalla “scatola magica”, trascorre gran parte della giornata ascoltando alcuni dischi. La musica che ora riempie il suo
tempo e lo tiene rinchiuso in una stanza, anche nel
buio della notte, non è però quella che Settembrini,
all’inizio del romanzo, aveva definito come “pericolosa”: il giovane, che ha “raggiunto” la vita, non può
che orientarsi “positivamente”. E come Nietzsche si
era allontanato dai fumi dell’oppio della musica
wagneriana per la solarità energica, vibrante e ‘vitale’
della musica meridionale, mediterranea, così Castorp
rimane avvinto dall’Aida, dal Prélude à l’après-midi
d’un faune, dalla Carmen, dal Faust. Accanto a queste pagine musicali, però, egli ne trova un’altra,
profondamente diversa: “Non si trattava più di un
pezzo francese, sibbene prettamente tedesco, e non
di un pezzo d’opera, ma di una canzone, patrimonio
popolare e capolavoro insieme ...” (D. Z., II, p. 335):
il Lindenbaum schubertiano. Ed è a questo punto
che lo “spirito della narrazione” interviene con
un’analisi musicale ed ‘etica’ insieme di grande effica cia e suggestione. Quel brano musicale era il simbolo
di un mondo al quale Castorp era stato talmente vicino da condizionare in qualche modo il suo destino e
che si poneva alla base della sua stessa vicenda, della
sua “carriera ermetica” che pure lo aveva maturato al
punto da renderlo in grado di affrontare criticamente
proprio quel mondo e ad apportare ad esso i dubbi
della coscienza. Che cosa rappresentava dunque quel
brano e quale era l’universo spirituale dal quale era
stato formato? La risposta a questa domanda viene
data dallo stesso “spirito della narrazione”: quel
brano di musica “era la morte” (D. Z., II, p. 337). La
simpatia per esso “era simpatia per la morte; pura
religiosità, essenza di contemplazione, all’inizio, non
si poteva contestarlo, ma con successivi risultati di
tenebre” (Ibidem).
In queste affermazioni troviamo tutta la familiarità di
Mann con il Romanticismo, di cui la W i n t e r r e i s e
schubertiana (lo stesso Schubert definito nel Doctor
Faustus come il “genio bifronte, sempre toccato dal
soffio della morte”), e quindi il Lindenbaum che ne
fa parte, rappresenta uno degli esiti artistici più vertiginosi e più tragici. L’attaccamento di Castorp per
questa breve canzone può sembrare una “tendenza al
ritorno” verso la “malattia” (se si seguono le indica-
25
Estetica
zioni del Settembrini), ma la pagina è “come un frutto che, al colmo della sua opulenza, in quel preciso
istante, tendeva a corrompersi e, purissimo ristoro
per l’animo se gustato in tempo giusto, comunicava
putrefazione al mondo che lo gustava con un attimo
di ritardo” (D. Z., II, p. 337). Prodotto purissimo di
un momento creativo altamente geniale, pure il Lied
poteva assumere la dimensione di un itinerario verso
il negativo. Il mondo da cui quella pagina era scaturita era il mondo pienamente condiviso dallo stesso
Mann, era il mondo, infine, della Germania e di tutto
il suo universo spirituale: “Noi tutti fummo suoi figli,
e, servendolo, sapemmo fare cose potenti sulla
terra”.35 Ma figlio ancor più grande può essere soltanto colui che da quella canzone riesce a trarre non la
suggestione del negativo, bensì il “miracolo
dell’anima”, la vittoria su se stesso, l’amore. “Spirito
della narrazione” e itinerario spirituale di Castorp si
intrecciano così in queste pagine mirabili, nelle quali
la musica sembra elevarsi dal buio della stanza ed
espandersi nell’universo: quello stesso buio e quella
stessa vastità notturna che già avevano accolto
Castorp durante le sue “investigazioni” sulla vita.
Significativamente queste stesse riflessioni furono utilizzate in un breve saggio-conferenza del 1924, ove
però troviamo alcune importanti modifiche: Schubert
è sostituito con Wagner, l’autosuperamento è trasferito da Castorp a Nietzsche. Anche in questo senso il
romanzo ruota intorno alle due più importanti figure
della formazione culturale e spirituale manniana, in
modo particolare intorno a Nietzsche, il cui emanciparsi dal mondo romantico-wagneriano viene a subire un processo di trasfigurazione artistica: l’emancipazione di Castorp dalla morte.36
A questo punto il personaggio del romanzo è ormai
pronto per la pianura. Ma la sua terra, che già non
aveva saputo rispondere ai suoi muti interrogativi, ha
già fatto una scelta di morte, traendo dal proprio universo culturale e spirituale non il “purissimo ristoro”
ma la “putrefazione”. Castorp, maturo per la vita, con
l’intuizione di un’umanità diversa da quella in cui era
nato ed era stato formato, scompare tra il tumulto di
una battaglia con la canzone schubertiana tra le labbra. Nonostante le affermazioni dell’autore sul carattere “positivo” e ottimistico della vicenda,37 rimane
senza risposta, inquietante e indefinito, un interrogativo, che Mann stesso raccoglierà, amplificherà e
lascerà in parte irrisolto nel Doctor Faustus. Il percorso manniano — al di là dei ritorni, più o meno
denunciati, di temi e motivi contenuti in opere precedenti — è quello che dal romanticismo, e n e l
Romanticismo, tende al proprio ‘autosuperamento’.
Comprensibili, in ogni caso, i dubbi sul tramite di
questo autosuperamento, e cioè Nietzsche, il cui personale itinerario era approdato alla follia, la stessa
che annienterà Adrian Leverkühn:
Tonio Kröger [...], La morte a Venezia, e La monta gna incantata sono opere arciromantiche. Wagner
è stata la più forte e determinante delle mie esperienze artistiche. A tutto ciò, tuttavia, si aggiunge
un elemento che mi collega, in un certo senso, al
26
mondo nuovo e che conferisce ai miei scritti, oggigiorno, l’unica possibilità spirituale di esistere:
l’esperienza
dell’autosuperamento
del
Romanticismo ad opera di Nietzsche. 38
La montagna incantata diventa così una sorta di
“romanzo storico”, secondo un doppio versante:
quello della storia artistica (spirituale) dell’autore e
quello della Germania, di cui Castorp è il simbolo.39
3. In quali termini e con quale ampiezza di prospettive il pensiero di Nietzsche e l’esperienza creativa
wagneriana siano capillarmente sottesi alla trama
dell’intero romanzo ci viene ancora una volta suggerito dallo stesso Mann in una lettera indirizzata al critico Paul Amann, in data 3 agosto 1915:
Prima della guerra avevo cominciato un lungo rac conto le cui vicende si svolgono in alta montagna,
in sanatorio per malati di petto: una storia con
intenzioni fondamentalmente pedagogico-politiche, in cui un giovane uomo deve fare i conti con
la potenza più seducente, con la morte, in modo
un po’ comico e un po’ orrido, e viene condotto,
attraverso i contrasti spirituali di umanesimo e
romanticismo, progresso e reazione, salute e
malattia, ma più allo scopo di orientarlo e per
amore della scienza che per fissargli un traguardo
definitivo. Il tutto in uno spirito umoristico-nichilista, con una certa propensione a simpatizzare con
la morte.40
Se, dunque, “umanesimo” e “romanticismo” rappresentano oggettivamente — come è stato più volte
accennato — i due poli entro i quali la vicenda
“ermetica” di Hans Castorp si avvia a si sviluppa (e a
queste stessa categorie si rapportano gli altri opposti
motivi di “progresso e reazione” e “salute e malattia”), ciò deve essere ricondotto — almeno per certi
aspetti — alle problematiche affrontate da Nietzsche
in Die Geburt der Tragödie (La nascita della tragedia)
e nelle Unzeitgemässe Betrachtungen (Considerazioni inattuali), in stretto rapporto però con i nuovi
interessi maturati nei confronti delle tematiche estetiche più specificamente goethiane e schilleriane.41 E
se per lo scrittore romanticismo è essenzialmente
musica — come suggerito nelle Considerazioni di
un impolitico — il suo superamento va inteso (in termini propriamente nietzschiani) non come il ripudio
di un’intera cultura, ma come la presa di coscienza
dolorosa e traumatica di una crisi generale di valori,
come la denuncia di un progresso minato nell’intimo
da tendenze e potenzialità degenerative protese
verso l’annientamento delle forze morali e intellettuali più vitali e organiche. In questo contesto il termine
“umanesimo” diventa sinonimo di “classicismo”,
quale principio costruttivistico fondato sulla forma
consapevolmente concepita come “maschera
dell’orrore” (Baioni), dominio del caos e stimolante
di una vitalità autentica e sorgiva. Per comprendere
appieno la dimensione (eminentemente ‘esteticomusicale’) di questa linea di pensiero è necessario
ritornare ancora una volta al capitolo del romanzo
intitolato “Neve” (D. Z., II, pp. 138-172), cui abbiamo
finora solo fatto cenno.
Dopo essersi perso nel bosco durante una escursione
Estetica
sciistica, Hans Castorp trova rifugio sotto il tetto sporgente di una capanna “solitaria” e “inaccessibile”;
mentre sta per soccombere sotto l’infuriare di una
tempesta, ha una visione: una luminosissima scena di
vita quotidiana ambientata in una Grecia letteralmente impregnata di colori diafani ed aurorali. Nell’armonioso equilibrio tra individuo, società e natura, si
inserisce tuttavia qualcosa di sinistro e minaccioso,
inizialmente rappresentato dall’ampio colonnato di
un tempio, la cui immagine giunge gradualmente ad
occupare l’intera rappresentazione:
Le ginocchia quasi gli si piegarono per lo spavento di ciò che si offerse al suo sguardo. Due femmine grigie, mezze nude, dai capelli arruffati, coi
seni pendenti da streghe e capezzoli lunghi un
dito, erano intente, fra recipienti di fiamma, ad
una crudele bisogna. Esse straziavano sopra una
bacinella il corpo di un bambino, lo squarciavano
con le mani, in un silenzio selvaggio (Giovanni
Castorp vide tenui fili biondi misti a sangue) e ne
inghiottivano i pezzi, così che le ossa scricchiolavano nella loro bocca dalle cui labbra orrende
gocciolava il sangue. Un gelido orrore teneva
legato Giovanni Castorp. Egli avrebbe voluto
nascondersi gli occhi con le mani, ma non poteva.
Avrebbe voluto fuggire, ma gli sembrava di essere
inchiodato al suolo. Le streghe intanto lo avevano
scorto; minacciandolo coi pugni inveivano a lui,
inveivano senza voce ma con estrema volgarità,
con parole oscene, e precisamente nel dialetto
patrio di Giovanni Castorp (D. Z., II, p. 167).
La matrice nietzschiana di questa visione — matrice
riconducibile alle argomentazioni sviluppate ne La
nascita della tragedia — è di per sé evidente fin
nella scelta delle metafore letterarie (si pensi, ad
esempio, all’immagine terrificante delle streghe: cfr.
al riguardo il secondo capitolo dell’opera del filosofo) e, in particolare nel ricorso al sogno (tale è, in
effetti, la visione del protagonista), identificandosi
l’immagine onirica all’archetipo stesso dell’arte “apollinea”, contrapposta all’ebbrezza dell’esperienza
orgiastica dionisiaca cui pertiene “quell’orribile filtro
di streghe fatto di voluttà e crudeltà”.42 Tutto l’episodio rappresenta per il giovane, simbolicamente, l’inizio di una concreta presa di coscienza nei confronti
di una realtà sociale e culturale del tutto opposta a
quella della sua epoca. L’“impulso apollineo alla bellezza” — come evidenzia Nietzsche — era per i Greci
l’estremo gesto di difesa nei confronti delle “atrocità
dell’esistenza”, la vittoria dell’illusione e della trasfigurazione sull’indigenza:
Con gesti sublimi egli [Apollo] ci mostra come
tutto il mondo dell’affanno sia necessario perché
da esso l’individuo possa venir spinto alla creazione della visione liberatrice e poi, sprofondato
nella contemplazione di essa, possa sedere tranquillo nella sua barca oscillante in mezzo al
mare.43
Ciò che Castorp giunge ad intuire attraverso le ambivalenti immagini del sogno è proprio quella sorta di
“umanità più bella” 44 per la quale il senso ultimo di
ogni conquista spirituale non può che riposare dietro
la tragica consapevolezza dell’orrore, dell’annientamento, del nulla: finzione artistica e consapevolezza
“dionisiaca” della verità unite nell’equilibrio di una
forma che è essenzialmente “velo di Maia”, immagine
di sogno e negazione delle “atrocità dell’esistenza”. 45
Un equilibrio pericolosamente instabile, che l’esperienza della modernità ha fatalmente compromesso a
tutto vantaggio del più vuoto culto per le forme artistiche (e per le ideologie) fini a sé stesse, agenti
sull’individuo come seduzione e narcosi: mentre
l’impulso dionisiaco diventa ossessiva ricerca di
ebbrezza e stordimento, il culto apollineo per la bellezza si converte in un narcisismo individualistico, in
formalismo e decorativismo superficiale. Di qui, dunque, l’inevitabile silenzio seguito alle domande poste
dal personaggio alla sua epoca: un’epoca intrisa di
valori irrazionali, oscillante tra esteriorità delle convenzioni sociali e abbandono passivo alla forza
seduttrice di un’arte fruita come oggetto consumistico; un’epoca, infine, che sarebbe entro breve tempo
sfociata nella danza macabra dell’esperienza bellica.
E di qui, ancora, il profondo interesse dimostrato da
Castorp per il Lied schubertiano, suprema creazione
di una cultura e di una civiltà, come quella romantica, tesa sopra gli abissi dell’esistenza e sempre in
procinto di perdersi nei richiami della notte e del
nulla (e, non a caso, anche la teoresi novalisiana rappresenta una parte determinante per lo sviluppo
delle tematiche presenti nel romanzo), in un’ansia di
liberazione che non avrebbe tardato a concretizzarsi
nella ricerca di narcotici inebrianti. Il Lied romantico
rappresentava propriamente il “frutto al colmo della
sua opulenza”, la sintesi suprema tra la pulsione della
volontà — per dirla con Nietzsche — sottesa alle
“correnti dionisiache” e l’“occhio solare” della forma
apollinea, una sintesi comunque fragile e precaria,
tale da essere vanificata ogni qualvolta l’esperienza
artistica avesse perso di vista la propria essenziale
funzione al servizio della vita, per seguire la seduzione del negativo. Anche in questo Thomas Mann non
poteva prescindere dalla riflessione niezschiana. Si
legga al riguardo l’aforisma 370 incluso in Die fröhli che Wissenschaft (La gaia scienza):
Ogni arte, ogni filosofia possono essere considerate come un mezzo di cura e d’aiuto al servizio
della vita che cresce e che lotta: esse presuppongono sempre sofferenze e sofferenti. Ma vi sono
due specie di sofferenti: quelli che soffrono della
sovrabbondanza della vita, i quali, dunque,
vogliono un’arte dionisiaca e quindi una visione e
una conoscenza tragica della vita, e quelli che soffrono dell’impoverimento della vita, i quali cercano riposo, quiete, placido mare, liberazione da se
stessi attraverso l’arte e la conoscenza, oppure
invece l’ebbrezza, lo spasimo, lo stordimento, la
follia. Al doppio bisogno di questi ultimi corrisponde ogni romanticismo nelle arti e nelle conoscenze, corrispose (e corrisponde) loro tanto
Schopenhauer come Richard Wagner, per menzionare quei romantici più famosi e più significativi
che furono allora da me fraintesi. 46
È a questo preciso contesto che deve essere ricondotto quello stesso spostamento di prospettiva, — già
evidenziato, nel paragrafo precedente — per il quale
le argomentazioni relative al primo romanticismo
musicale saranno riferite in toto all’esperienza creativa wagneriana. Proprio in data 24 maggio 1921,
27
Estetica
quando l’autore aveva già abbozzato lo schema del
sesto e del settimo capitolo del romanzo, troviamo la
seguente annotazione diaristica:
A mezzogiorno ho lett o nel parco il N e u e n
Merkur, dove ho trovato cose interessanti, specialmente uno studio riguardante un nuovo libro di
Freud, che mi ha stimolato in un modo tale da
rappresentare un senso di conferma del destino.
La fine del romanticismo, al quale io ancora
appartengo si manifesta in tutti i modi, anche e
soprattutto attraverso l’impallidimento e il venir
meno del simbolismo sessuale, che è q uasi
tutt’uno con esso (Parsifal).47
Ancora una volta Wagner è indispensabile punto di
riferimento del movimento romantico (nella sua
duplice posizione di culmine ed inizio di un irreversibile declino), quale “ultimo celebratore e incantevole
perfezionatore di un’epoca”, 4 8 colui che con il
Parsifal aveva dato vita ad “un’arte pregna di sensualità e di formalismo simbolico”, sublimandola in “un
sacro mistero di alta religiosità”:49 un “celestiale”
poema della redenzione (anzi un vero e proprio
“oratorio”, come è definito dallo scrittore), inteso
come tormentato approdo di un esemplare percorso
“formativo” tra le insidie di una duplice forza seduttrice. La vicenda iniziatica del “puro-folle” — una
vicenda le cui radici affondano nell’ambito della cultura e della civiltà cavalleresca romano-germanica del
XIII secolo — diventa il simbolo più autentico di
un’innocenza pericolosamente insidiata dalle forze
del negativo, ma capace in quanto tale di raggiungere e conquistare — attraverso prove e ricadute — il
bene perduto, la luce dello spirito in grado di ricomporre ciò che le tenebre dell’individualismo avevano
diviso e, con ciò, corrotto. Hans Castorp appartiene
dunque a questa stessa sfera di incorrotta innocenza:
la sua onirica visione, che lo conduce a una “concezione di un’umanità futura, passata attraverso il più
profondo sapere intorno alla malattia e alla morte”,50
rappresenta — come l’arcana essenza del Graal — la
suprema acquisizione di una nuova forma di conoscenza e lo scioglimento dell’enigma stesso
dell’uomo, “l’idea di un’umanità che non trascura e
disdegna razionalisticamente la morte e tutto quel
che nella vita è oscuro e misterioso, ma l’accoglie
senza lasciarsi dominare intellettualmente”.51 In questo senso l’orgiastica e demoniaca esperienza del
Venusberg (espressione eminentemente “negativa” di
slancio erotico da parte del protagonista, quale raffinata parodia del Tannhäuser wagneriano) si converte, e non senza ironia, nell’agape sacra del Parsifal:
la foresta ove Castorp si smarrisce diviene così una
sorta di magico giardino di Klingsor (come evidenzia
la stessa sospensione del tempo cronologico), luogo
di perdizione e di morte per chi non sa far fronte alle
molteplici forze seduttrici (definite, nel D o c t o r
Faustus come “i mostri della notte”), ma al tempo
stesso passaggio obbligato per il raggiungimento di
una più alta sfera spirituale.
Alla base della svolta ideologica del romanzo vi è
dunque un complesso nodo dialettico nel quale non
28
poteva non confluire — accanto a Nietzsche e a
Wagner — l’esperienza intellettuale dell’ultimo
Goethe, un’esperienza ulteriormente approfondita da
Mann nel momento stesso in cui si stava dipanando il
groviglio degli ultimi capitoli, come evidenzia una
riflessione del 15 giugno 1821:
Leggendo di sera il capitolo di Bielschowsky su
Goethe come studioso della natura, mi divennero
chiari il senso e l’idea della Montagna incantata.
Essa è [...] un romanzo di formazione di tipo umanistico-goethiano, e H. C. [Hans Castorp] possiede
persino i tratti di W. Meister.52
Lo stesso personaggio dei L e h r j a h r e e dei
Wanderjahre percorre i sentieri della propria giovinezza secondo la linea di un graduale processo
pedagogico-formativo teso al superamento di ogni
tendenza individualistica a favore di una superiore
acquisizione morale e sociale, per la quale il singolo
diviene fondamento e funzione della collettività.
Parsifal e Wilhelm Meister; Wagner e Goethe, uniti
alla parabola filosofico-estetica di Nietzsche, rappresentano, in ultima analisi, la grande costellazione che
ha saputo indicare a Thomas Mann la traccia, il filo
conduttore in grado di orientarlo nei labirinti di una
trama letteraria innalzata a simbolo di una graduale
iniziazione tesa alla maturazione di nuovi ideali umanistici, nella convinzione che “quel che oggi occorre
è insegnare appunto la prosaica freddezza a un
mondo che vive rovinandosi nelle nebulosità sentimentali deleterie alla vita”.53
NOTE
1
Cfr. F URIO JESI, Germania segreta. Miti nella cultura
tedesca del ’900, Milano, Silva Editore, 1967; I D . ,
Thomas Mann , Firenze, La Nuova Italia, 1972; LADISLAO
MITTNER, Storia della letteratura tedesca. Dal realismo
alla sperimentazione (1820 -1970), Torino, Einaudi,
1971; CESARE CASES, Saggi e note di letteratura tedesca,
Torino, Einaudi, 1963; ID., Thomas Mann, 1966, recentemente ristampato in Thomas Mann. Una biografia per
i m m a g i n i, Pordenone, Studio Tesi, 1982; GI A C O M O
DEBENEDETTI, Personaggi e destino. La metamorfosi del
romanzo contemporaneo, Milano, Il Saggiatore, 1977;
TITO PERLINI, Thomas Mann. Doktor Faustus, in AA. VV.,
Il romanzo tedesco del Novecento, Torino, Einaudi, 1973;
MARIANELLO MARIANELLI, Introduzione a Thomas Mann,
Considerazioni di un impolitico, Bari, De Donato, 1977.
2
A N N A G I U B E R T O N I, Un ignorato rapporto di Thomas
Mann con la cultura austriaca. Il “Lied von der Erde” di
Gustav Mahler come Traumwort nello Zauberberg, in
“Nuova Corrente”, n. 79-80 (1979), pp. 289-308; PAOLO
ISOTTA, Il ventriloquo di Dio. Thomas Mann: la musica
nell’opera letteraria, Milano, Rizzoli, 1983; VI T T O R I O
Estetica
MA T H I E U, La voce, la musica, il demoniaco, Milano,
Spirali Edizioni, 1983; ROBERTO FAVARO, Estetica e musica
nel primo Thomas Mann: rapporti col romanticismo di
E .T. A. Hof fmann, in “Rassegna Veneta di Studi
Musicali”, II-III (1986-87), pp. 235-260; ID., Spazio e
musica: il salotto borghese nei Buddenbrook di Thomas
Mann, in “Musica/Realtà”, n. 24 (1987), pp. 68-80; ID.,
L’ ascolto del romanzo . Mann, la music a, i
Buddenbrook, Milano, Ricordi/Unicopli, 1994.
3
4
In questo lavoro faremo uso soprattutto delle seguenti
fonti: T H O M A S MA N N , Epistolario 1889-1936, ed. it.,
Milano, Mondadori, 1963; THOMAS MANN, Lettere a Paul
Amann, ed. it., Milano, Mondadori, 1967; THOMAS MANNKAROLY KERÉNYI, Dialogo, ed. it., Milano, Il Saggiatore,
1973; THOMAS MANN, Saggi. Schopenhauer, Nietzsche,
F r e u d, ed. it., Milano, Mondadori, 1980; I D . ,
Conversazioni 1909-1955, ed. it., Roma, Editori Riuniti,
1986; ID ., Tagebücher (1918-1921), Frankfurt a. M.,
Fischer Verlag, 1977; ID., Introduzione alla Montagna
incantata (1939), ed. it. A cura di Eugenio Spedicato,
in “Micro Mega”, n. 5 (1990), pp. 219-233.
Sono due le edizioni italiane dell’opera, quella di Bice
Giachetti-Sorteni edita a Milano da Dall’Oglio, due volumi, 1930 (che abbiamo tenuto come punto di riferimento nelle citazioni, segnalate D. Z.); e quella di Ervino
Pocar, pubblicata ancora a Milano da Mondadori, 1965.
Per quanto riguarda la bibliografia specifica sul romanzo cfr. soprattutto, oltre i testi già citati, K Ä T E
HAMBURGER, Thomas Mann und die Romantik, Berlin,
Junker und Duennhaupt, 1932 (lavoro assai lodato dallo
stesso scrittore); F U R I O J E S I , V e n u s b e r g - H e x e n b e r g Zauberberg, in Materiali Mitologici, Torino, Einaudi,
1979, pp. 226-237; SILVIA FERRETTI, Thomas Mann e il
tempo, Roma, Jouvence, 1980, in part. pp. 11-69.
5
Cfr. THOMAS MANN, Considerazioni di un impolitico, ed.
it. a cura di Marianello Marianelli, cit.
6
“Civilizzazione” è il termine che per Mann — come per
Nietzsche — si contrappone a Kultur (cultura, civiltà) e
rappresenta il progresso storico in quanto ragione,
democrazia (e politica), letteratura in contrapposizione
alla musica intesa come essenza stessa dello spirito
tedesco e della civiltà romantica nelle sue più profonde
acquisizioni ideologiche.
Leverkühn, i n Lo spirito diseredato, ed. it., Milano,
Adelphi, 1965, pp. 181-182.
17
D. Z., I, p. 126. L’alta funzione data alla parola (alla
“ parola politica”) deriva dall’ammirazione del
Settembrini per il Carducci e per le sue concezioni di
una poesia intesa come “ funzione civile”. Cfr.
Considerazioni di un impolitico, cit., p. 38.
18
“La cultura cui Settembrini è solito ricorrere per svolgere la sua critica pedagogica della costante sospensione
del tempo profano sullo Zauberberg, è Zivilisation, strumento di critica ironica nei confronti della Kultur” (cfr.
FURIO JESI, Venusberg-Hexenberg-Zauberberg, op. cit.,
pp. 226-227).
19
Cfr. Colloquio con Thomas Mann in Conversazioni
1909-1955, cit., p. 42.
20
Cfr. Epistolario 1889-1936, cit., p. 119.
21
Cfr. Colloquio con Thomas Mann su “La montagna
incantata”, per il Berliner Börsen-Courier, del 30 ottobre 1925, in Conversazioni 1909-1955, cit., p. 64.
22
D. Z., I, p. 87. Anche questa, come altre “donne fatali”
manniane, ha i capelli rossastri e gli occhi con ombre
azzurrine. La sua figura, però, al di là della descrizione
realistica, acquista, come vedremo, una dimensione
mitica che è estranea alle altre eroine.
23
Questo suono “potrebbe essere citazione parodistica dei
colpi del destino nella Quinta Sinfonia di Beethoven”
(cfr. FU R I O JE S I, Thomas Mann, cit., p. 60). Tuttavia
anche la Regina della notte nella Zauberflöte mozartiana
viene annunciata sempre da tuoni fragorosi.
24
Cfr. FURIO JESI, Thomas Mann, cit., pp. 61-62.
25
Nei progetti letterari di Mann in quegli anni c’era anche
un racconto su Filippo II di Spagna.
26
Questo “percorso” è delineato con chiarezza nei due
paragrafi intitolati “Investigazioni” e “Danza macabra”
che conducono al “Sabato delle streghe”, punto centrale
di tutta l’opera.
27
Cfr. FURIO JESI, Zauberberg-Hexenberg-Venusberg, cit.
28
Cfr. la lettera di Thomas Mann a C. Kerényi del 6 dicembre 1938, in Thomas Mann-Károly Kerényi, op. cit., p. 69.
29
FURIO JESI, Zauberberg-Hexenberg-Venusberg, cit., p. 235.
30
Significativamente lo stesso Mann definiva come tema
del romanzo il “tentativo di fare della morte un perso naggio comico” (cfr. la lettera a Josef Ponten del 5 febbraio 1925, in Epistolario 1889-1936, cit., p. 307).
31
“Al centro di quest’opera c’è un giovanotto completamente sano di corpo e di spirito, e ancora intatto. È
naturale, che l’inclinazione alla morte, la seduzione
mortale abbia su di lui un effetto ben diverso. La sensibilità naturale, la sana forza vitale di questo giovane si
difendono intensamente...” (cfr. Colloquio con Thomas
Mann, intervista rilasciata al Neues Wiener Journal il 22
giugno 1920, in Conversazioni 1909-1955, cit., p. 38.
7
THOMAS MANN, Considerazioni di un impolitico, cit., p. 29.
8
Riflessione di chiara matrice nietzschiana (cfr. FRIEDRICH
NIETZSCHE, Ecce Homo, ed. it., Mondadori, Milano, 1977, p. 12).
9
Cfr. Conversazioni 1909-1955, cit., pp. 37-40.
10
K A R O L Y K E R É N Y I , Considera zioni preliminari a
Umanesimo, felicità difficile, in Thomas Mann-Károly
Kerényi, op. cit., p. 112.
11
Il termine “Ermetico” qui “non va confuso con l’ermeti smo in senso gnostico o alchimistico o, peggio, con un
indirizzo della lirica moderna, ma inteso sul piano della
mitologia antica” (cfr. KAROLY KERÉNYI, op. cit., p. 113).
12
La definizione di “storia ermetica” viene data innanzitutto dallo stesso Mann al termine dell’opera. Cfr. D. Z., II,
p. 406.
13
Cfr. TH O M A S MA N N , Saggio autobiografico, ed. it. in
Romanzo di un romanzo, Milano, Il Saggiatore, 1972, p. 39.
32
Lettera a Josef Ponten del 5 febbraio 1925, in Epistolario
1889-1936, cit., pp. 307-308.
14
D. Z., I, p. 8.
33
Lettera a Josef Ponten del 5 febbraio 1925, in Ibid., p. 308.
15
Cfr. a questo proposito le osservazioni contenute in
FURIO JESI, Thomas Mann, cit., p. 52-54.
34
16
Cfr. ERICH HELLER, Da Hanno Buddenbrook a Adrian
D. Z., II, p. 406. Il significato ultimo del romanzo non è
dunque il raggiungimento della vita attraverso la morte
da parte di Castorp. Nella sua aderenza alla vita e alla
natura e nel suo essere spirituale attesta una “fonda-
29
Estetica
mentale ambiguità” (Jesi) che si stempera nel sorriso e
nella leggerezza.
35
36
37
D. Z., II, p. 338. Possiamo ancora leggere in una lettera
a Ernest Fischer del 25 maggio 1926: “le mie Radici si
affondano nel mondo culturale autobiografico di
Goethe, nel clima borghese, nel Romanticismo” (cfr.
Epistolario 1889-1936, cit., p. 337).
Per gli opportuni raffronti cfr. THOMAS MANN, Discorso
introduttivo a un concerto in onore di Nietzsche, ed. it.,
in THOMAS MANN, Saggi. Schopenhauer, Nietzsche, Freud,
cit., pp. 61-65.
Cfr. la lettera a Robert Faesi del 21 novembre 1925, in
Epistolario 1889-1936, cit., p. 330.
38
Lettera a Ernest Fischer del 25 maggio 1926, in
Epistolario 1889-1936, cit., p. 337.
39
Cfr. IBIDEM.
40
THOMAS MANN, Lettere a Paul Amann (1915 - 1952), cit.,
p. 54.
41
Per l’intera questione cfr. GIULIANO BAIONI, La filologia e
il sublime dionisiaco. Nietzsche e le Considerazioni inat t u a l i, saggio introduttivo a F ried rich Nietzsche,
Considerazioni inattuali, ed. it., Torino, Einaudi, 1981.
42
FRIEDRICH NIETZSCHE, La nascita della tragedia, ed. it.,
Milano, Adelphi, 1978, p. 29.
43
IBIDEM, p. 36.
30
44
Cfr. il colloquio di Thomas Mann con il Berliner BörsenCourier del 30 ottobre 1925, in Conversazioni 19091955, cit., p. 62.
45
Cfr. al riguardo FRIEDRICH NIETZSCHE, La visione dionisia ca del mondo, ed. it., Milano, Adelphi, 1991, pp. 49-77.
46
FRIEDRICH NIETZSCHE, La gaia scienza, ed. it., Milano,
Adelphi, 1977, pp. 247-248.
47
Tagebücher (1918-1921), p. 521.
48
THOMAS MANN, Discorso introduttivo a un concerto in
onore di Nietzsche, cit., p. 63.
49
Cfr. TH O M A S M A N N , Dolore e grandezza di Richard
Wagner, ed. it., Fiesole (Firenze), Discanto edizioni,
1979, pp. 6 e 38.
50
THOMAS MANN, Introduzione alla Montagna incantata,
cit., p. 233.
51
IBIDEM, p. 231.
52
Tagebücher (1918-1921), p. 531. In data 26 luglio 1921
leggiamo ancora: “Grandi pensieri riguardo il tema
dell’educazione, dell’entusiasmo, dell’amore e delle
serietà. Lettura dei Wanderjahren. Stupore per la sfera
propriamente goethiana della Montagna incantata.
L’esposizione diventa in questo modo per il romanzo
un puro e compiuto riscontro” (IBIDEM, p. 540).
53
T H O M A S M A N N , G oet he qu al e es pon ent e de ll’e tà
b o r g h e s e , ed. it., i n Sa g gi su G oet he , Mi la no,
Mondadori, 1982, p. 173.
Estetica
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