cineclubivrea - Cooperativa Rosse Torri

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cineclubivrea - Cooperativa Rosse Torri
LIV edizione
2015 - 2016
2015 - 2016 LIV edizione
Martedì 1 marzo 2016
ore 15.00, 17.10, 19.20, 21.30
Mercoledì 2 marzo 2016
ore 15.30, 18.00
titolo originale Vivir es fácil con
los ojos cerrados / regìa David
Trueba / soggetto e
sceneggiatura David Trueba /
fotografia Daniel Vilar / musica
Pat Metheny / montaggio Marta
Velasco / scenografia Pilar
Revuelta / costumi Lala Huete /
interpreti Javier Cámara,
Natalia de Molina, Francesc
Colomer, Ramón Fontserè
Rogelio, Fernández Espinosa,
Jorge Sanz, Ariadna Gil /
produzione Fernando Trueba
Producciones Cinematográficas,
in collaborazione con TVE e
Canal+ / origine Spagna 2013 /
distribuzione Exit Media /
durata 1 h e 48’
scheda filmografica 21
Lettere di
uno sconosciuto
Martedì 8 marzo 2016
ore 15.00, 17.10, 19.20, 21.30
Mercoledì 9 marzo 2016
ore 15.30, 18.00
titolo originale Gu lai / regìa
Zhang Yimou / soggetto dal
romanzo di Yan Geling /
sceneggiatura Zou Jingzhi /
fotografia Zhao Xiaoding /
musica Chen Qigang /
montaggio Meng Peicong, Mo
Zhang / scenografia Lin
Chaoxiang, Liu Jiang / interpreti
Gong Li, Chen Daoming, Zhang
Huiwen, Tao Guo, Liu Peiqi, Zu
Feng, Yan Ni / produzione Le
Vision Pictures, in associazione
con Wanda Media Co. Ltd, Edko
Beijing Film Limited,
Helichenguang International,
Culture Media Co. Ltd, Zhejiang
Huace Film&Tv Co. Ltd / origine
Cina 2014 / distribuzione Lucky
Red / durata 1 h e 51’
scheda filmografica 22
Vergine giurata
Martedì 15 marzo 2016
ore 15.00, 17.10, 19.20, 21.30
Mercoledì 16 marzo 2016
ore 15.30, 18.00
regìa Laura Bispuri / soggetto
liberamente ispirato al romanzo
omonimo di Elvira Dones /
sceneggiatura Francesca
Manieri, Laura Bispuri /
fotografia Vladan Radovic /
musica Nando Di Cosimo /
montaggio Carlotta Cristiani,
Jacopo Quadri / costumi Grazia
Colombini / interpreti Alba
Rohrwacher, Flonja Kodheli,
Lars Eidinger, Luan Jaha, Bruno
Shllaku, Ilire Çelaj, Drenica
Selimaj, Dajana Selimaj, Emily
Ferratello / produzione Vivo
Film, Colorado Film, con Rai
Cinema, Bord Cadre Films,
Match Factory Productions, Era
Film, in collaborazione con
Istituto Luce Cinecittà / origine
Albania, Italia, Svizzera, Francia
2015 / distribuzione Cinecittà
Luce / durata 1 h e 30’
scheda filmografica 23
The Fighters –
Addestramento
di vita
Martedì 22 marzo 2016
ore 15.00, 17.10, 19.20, 21.30
Mercoledì 23 marzo 2016
ore 15.30, 18.00
titolo originale Les combattants /
regìa Thomas Cailley / soggetto
Thomas Cailley / sceneggiatura
Thomas Cailley, Claude Le Pape /
fotografia David Cailley / musica
Lionel Flairs, Benoît Rault, Philippe
Deshaies, Hit’N’Run / montaggio
Lilian Corbeille / scenografia Paul
Chapelle / costumi Arianne Daurat
/ interpreti Adèle Haenel, Kévin
Azaïs, Antoine Laurent, Brigitte
Roüan, William Lebghil, Thibault
Berducat, Nicolas Wanczycki,
Frederic Pellegeay, Steve
Tientcheu, Franc Bruneau /
produzione Nord-Ouest Films, in
coproduzione con Appaloosa
Distribution, con la partecipazione di
Canal+, Cine+, Haut et Court
Distribution / origine Francia 2014 /
distribuzione Nomad Film /
durata 1 h e 38’
scheda filmografica 24
Tutto può accadere a Broadway
Martedì 5 aprile 2016
ore 15.00, 17.10, 19.20, 21.30
Mercoledì 6 aprile 2016
ore 15.30, 18.00
titolo originale She’s Funny That
Way / regìa Peter Bogdanovich /
sceneggiatura Louise Stratten,
Peter Bogdanovich / fotografia
Yaron Orbach / musica Ed
Shearmur / montaggio Nick Moore,
Pax Wassermann / scenografia
Jane Musky / costumi Peggy A.
Schnitzer / interpreti Owen Wilson,
Imogen Poots, Kathryn Hahn, Will
Forte, Rhys Ifans, Jennifer Aniston,
Cybill Shepherd, Austin Pendleton,
Joanna Lumley, Richard Lewis,
George Morfogen, Ahna O’Reilly,
Jake Hoffman, Lucy Punch, Tatum
O’Neal, John Robinson, Albert
Jones, Sydney Lucas / produzione
Lagniappe Films, in associazione
con Red Granite International,
Venture Forth, Three Point Capital,
Holly Weirsma Productions / origine
USA 2014 / distribuzione 01
Distribution / durata 1 h e 33’
scheda filmografica 25
Il 1966 è magnifico, anche nella Spagna franchista. Antonio
insegna inglese alle medie. Ed usa le canzoni dei Beatles –
di cui è scatenato fan – per meglio farsi comprendere. Si dà
il caso che in quel periodo John Lennon sia impegnato in
Almeria a interpretare Come ho vinto la guerra, di Richard
Lester. Il professore allora decide di partire con un
registratorino, determinato a incontrarlo. Durante il viaggio,
con la sua 850 Fiat raccoglie due autostoppisti in fuga da
Madrid: una splendida ragazza, Belén, rimasta incinta e che
vuole tornare a Malaga dalla madre e un sedicenne, Juanjo,
scappato dal padre severissimo e poliziotto che gli vuole
tagliare i capelli. L’improvvisato trio solidarizzerà e si
coalizzerà per raggiungere i rispettivi obbiettivi.
Il film è ispirato alla storia vera del professor Juan Carriòn
che riuscì a incontrare sul set il suo mito John Lennon. Da
quell’incontro, sarà che non sarà, i Beatles cominciarono a
pubblicare i testi delle loro canzoni sulle copertine dei dischi. Carinissimo e scaltro (e con relativamente poche incongruenze storiche) nell’intrecciare con delicatezza la commedia, lo spirito e le tensioni del tempo (…), La vita è facile
ad occhi chiusi prende dei versi dei Beatles a prestito per il
titolo, e ha raccolto messe di premi (addirittura 6 i Goya,
massima onorificenza cinematografica iberica). L’eclettico
David Trueba, sceneggiatore-scrittore-regista, realizza una
delle sue opere migliori, potendo confidare sul contributo
recitativo e fisico di Javier Cámara, perfetto nel suo essere
vero beat a dispetto del fisico tracagnotto e la calvizie (uno
dei Goya è per lui mentre il quinto è andato alla solare
esordiente Natalia de Molina). Ma occhio al sesto premio: è
per le musiche. Saranno tipicamente anni ’60, direte voi.
Non solo e non tanto: sono composte ed eseguite dal leg-
gendario jazzista Pat Metheny, coadiuvato dal contrabbasso
di Charlie Haden! Da soli valgono il biglietto.
(Massimo Lastrucci)
Una storia d’amore straziante ambientata negli ultimi
anni della Rivoluzione Culturale a Pechino. Lettere di
uno sconosciuto segna il ritorno a casa (il titolo internazionale è Coming home) di Zhang Yimou, regista che
in Cina è stato, negli anni, prima inserito nella lista nera,
poi considerato politicamente “redento” tanto da dirigere la cerimonia delle Olimpiadi 2008. Il film segna anche, per il cineasta 64enne, il ritorno del sodalizio con
la musa Gong Li: otto film insieme da Lanterne rosse a
La città proibita. Ispirato al romanzo di Yan Geling The
criminal Lu Yanshi, racconta di un’insegnante che vive
con la figlia adolescente. La ragazza non ricorda il padre, intellettuale dissidente spedito nei campi di lavoro.
(…) Quando, anni dopo, l’uomo è rilasciato e torna a
casa, la moglie lo aspetta alla stazione, ma non lo riconosce. E lui tenta ogni espediente per farsi riconoscere. (…)
(Arianna Finos)
di melodrammi che risale agli anni del muto, a dive
come Ruan Linyu, morta suicida al culmine della carriera negli anni Trenta. Anche se il gioco a tratti è scoperto, ci si appassiona fino alla fine, come non si farebbe con un equivalente europeo o americano, davanti
alle ingiustizie del potere che diventano tragedie familiari. E poi il film è anche un omaggio a Gong Li, da
parte di un regista che è stato suo compagno di vita e
oggi le cuce addosso uno di quei ruoli che ogni attrice
a un certo punto vorrebbe interpretare.
(Emiliano Morreale)
(...) elegantemente tradotto in un titolo italiano, Lettere
di uno sconosciuto, che omaggia un capolavoro del
mélo, di Max Ophüls. In effetti di un mélo purissimo qui
si tratta, efficace e classicamente impaginato. (...) Zhang
tiene ‘a vista’ i meccanismi del melodramma: l’amnesia, la rivalità tra madre e figlia e la loro riconciliazione,
le lettere in un cassetto, l’eterna attesa alla stazione, i
fiammeggianti numeri di balletto. (...) I meccanismi della storia sono riconoscibili anche al pubblico occidentale, ma ereditano anche una tradizione cinese di granStrana legge il Kanun. Là tra le montagne albanesi,
all’interno di una società dura, tribale e maschilista,
solo agli uomini sono concessi certi diritti. Le donne
sono obbligate ed educate alla sottomissione. Con
un’eccezione: se accetti di rinunciare al sesso e vivere in rustica castità, allora – giurando in apposita cerimonia – puoi “diventare maschio” e quindi imbracciare
un fucile, bere, girare da solo/a per i boschi, essere
padrone/a del tuo destino. Insomma: la libertà in cambio dell’identità. E’ quello che l’orfana Hana Doda,
accolta dalla famiglia dello zio, accetta di fare trasformandosi in Mark. Ma quando emigra in Italia dalla
sorella/cugina Lila, ora sposa e madre, la sua dura
scelta di vita torna in discussione e comincia il suo
percorso di riappropriazione della propria femminilità.
Burnesha: così in originale si definisce la “vergine giurata”, la donna che diventa uomo (ma il percorso inverso è previsto?). A neanche tanti chilometri di distanza da noi, ecco un’usanza così antropologicamente estranea da risultarci barbara e osticamente
esotica. Da un romanzo omonimo di Elvira Dones,
Laura Bispuri, fin qui autrice di apprezzati e premiati
cortometraggi (Passing Time, Biondina, quest’ultimo
Nastro d’Argento), debutta nel racconto a dimensione
lunga. Lo fa con la timidezza dell’esordiente che attenua però solo in parte la sensibilità dello sguardo. Così,
se la parte “italiana” – per così dire – suona un po’
pallida e compita come le caratteristiche della protagonista Alba Rohrwacher (sempre però enigmatica-
(
…) “Il personale è politico”, come si diceva una volta, e
questa commedia agrodolce, dai toni gentili come quelli
del suo protagonista, illumina con una storia apparentemente semplice il significato di questo slogan. (…) Spunti
reali, miti musicali e cinematografici confluiscono dunque
in un racconto che si allontana dal realismo per assumere
i toni di una favola dal forte sapore vintage, accompagnata
dalla bella colonna sonora di Pat Metheny che reinterpreta
i Beatles, e segnata da un personaggio di maestro (di vita)
che non si dimentica facilmente.
(Barbara Corsi)
Parla il regista
In occasione dei 40 anni dalla visita di Lennon in Almeria location di tanti western all’italiana - gli hanno dedicato una
statua e pubblicato sui giornali vari aneddoti sul suo periodo là, fra i quali anche la storia del professore. Mi ha subito
colpito e mi è venuto in mente un episodio accaduto nella
mia famiglia. Io sono il più piccolo di otto figli. Quand’ero
appena nato, il secondo dei miei fratelli scappò di casa per
ribellarsi a mio padre che voleva si tagliasse i capelli. Questi due fatti si sono uniti nella mia testa e ho pensato a una
storia che rendesse omaggio alla generazione che mi ha
preceduto, quella capace di reagire e dare nuova luce a
una Spagna che veniva da Franco. (…) Racconto questa
storia del passato perché parla anche all’oggi, a quei ragazzi che in tempo di crisi sono disillusi. C’è bisogno che
reagiscano, che mostrino il loro coraggio.
(David Trueba)
Parla il regista
Quello della Rivoluzione Culturale è un argomento ancora sensibile nel mio paese. Perciò ho voluto scegliere una prospettiva molto personale. Le vicende di una
singola famiglia per riflettere la società cinese di quell’epoca. Dal punto di vista stilistico, il film appartiene
alla mia cultura personale ma anche alla tradizione cinese: basta guardare alla pittura, che ha una struttura
minimalista eppure rappresenta una grande bellezza.
(…) Per Lettere di uno sconosciuto ho scelto uno stile
monocromatico, non volevo distrarre il pubblico dalle
emozioni dei personaggi. Tutti i miei film, grandi o piccoli, hanno al centro sentimenti, storie e destini di uomini e donne.
(Zhang Yimou)
mente straniante), quella balcanica coinvolge non solo
per l’aspetto etnografico, ma anche per la consapevolezza (di idee e di volontà) con cui l’occhio dell’autrice media tra la durezza della montagna d’inverno e
quella degli abitanti (…). Per questo, mentre riconosciamo le qualità della cineasta e il coraggio della Vivo
Film di Gregorio Paonessa e Marta Donzelli che insieme alla Colorado Film ha investito in una produzione indubbiamente difficile e di non facile appeal,
nondimeno ci resta il dubbio di quanto più emotivamente trascinante avrebbe potuto essere se si fosse
data appena un po’ più di libertà e spazio al calore,
alla passione, alla empatica sporcizia della realtà (per
la parte italiana).
(Massimo Lastrucci)
(…) Vergine giurata è un’opera caratterizzata da grande rigore formale, da uno stile essenziale con cui la
Bispuri privilegia l’interazione psicologica, il non detto. Il risveglio dei sensi è l’elemento centrale della narrazione, che prende il via dall’arrivo di Hana/Mark in
Italia per andare avanti e indietro nel tempo. (…) Oltre a confermare l’eccellente lavoro di scavo psicologico e di Alba Rohrwacher, che recita anche in
albanese, va menzionato il lavoro sulla fisicità dei
corpi, su una sensualità che emerge con una forza
inedita per il cinema italiano.
(Mario Mazzetti)
La commedia, più o meno sofisticata, è da sempre un
genere perfetto per raccontare la lotta tra i sessi, in maniera non necessariamente conciliante. Negli Stati Uniti,
dagli anni Trenta di Accadde una notte a Katharine
Hepburn & Spencer Tracy, da Woody Allen ai giorni nostri, è un terreno agonistico che mette ogni volta in scena, volendo, le origini del legame sociale e la forma pura
del rapporto tra maschi e femmine. Les Combattants prende alla lettera la lotta tra i sessi, e ambienta il classico
“boy meets girl” in una scuola di addestramento
paramilitare, e poi in un percorso di sopravvivenza a due
nei boschi. Arnaud ha appena perso il padre e con il fratello monta coperture per piscine e strutture simili.
Madeleine, di estrazione più borghese, è una misantropa mascolina e aggressiva, ossessionata dalla fine del
mondo, che si iscrive al campo per «essere pronta a
sopravvivere». I due si combattono dalla prima scena,
ma poi sono costretti a collaborare, e comunque è chiaro che si piacciono da subito. Infatti la foresta in cui sopravvivere diventa ben presto un bislacco e certo non
troppo confortevole giardino d’amore. Il film è passato
con successo alla Quinzaine des Réalisateurs di Cannes
e ha ricevuto vari premi César. Il regista, l’esordiente
Thomas Cailley, mostra notevole talento di scrittura e di
regìa: maneggia un ritmo sospeso e un umorismo sottile, e costruisce le gag attraverso la composizione delle
inquadrature. Soprattutto, sa far interagire paesaggio e
personaggi: i due giovani protagonisti sono molto efficaci, in particolare Adèle Haenel, buffa e irresistibile
Pentesilea moderna (sulla sua fisicità si regge molto del
film). Mentre i boschi dell’Aquitania, luogo natale di
Cailley, fungono da versione aggiornata del classico
Connecticut di Susanna e film simili, mondo verde in cui
i conflitti arrivano a scioglimento. Les Combattants, che
dapprima può sembrare perfino un po’ esile e svagato,
cresce man mano, e riserva un finale sorprendente,
metaforico ma non troppo, che suggerisce allo spettatore cosa significa, oggi, «prepararsi a sopravvivere», anche senza bisogno di perdersi nei boschi.
(Emiliano Morreale)
Valeva la pena di aspettare tredici anni il ritorno sul
set di Peter Bogdanovich: il suo She’s Funny That Way
è un gioiello di verve, di eleganza e di stile, una commedia sofisticata come non se ne vedono più, a metà
strada tra Lubitsch, Woody Allen e Feydeau, ambientata nella romantica New York dei teatri di Broadway,
nella magica metropoli che non dorme mai e sa assecondare sogni e desideri, dove è facile incontrare
l’amore e liberarsi delle nevrosi. E infatti tutti si innamorano, o si illudono di farlo, in un fuoco di artificio di
trovate che coinvolge un cast di prim’ordine, con Owen
Wilson, Jennifer Aniston, Kathryn Hahn, Rhys Ifans e
Imogen Poots.
(Titta Fiore)
indipendenti non sono riusciti a chiudere il progetto.
All’insegna del risparmio: 30 giorni di riprese in tutto,
bisognerebbe dirlo a certi registi italiani. Il cast
prestigioso ha fatto il resto. Owen Wilson, Imogen
Poots, Jennifer Aniston, Rhys Ifans, Kathryn Hahn,
Illeanna Douglas hanno subito risposto sì al regista
newyorkese, il cui nome dirà poco al pubblico dei ragazzi, ma non a chi da giovane vide L’ultimo spettacolo, Paper Moon o Saint Jack. In questo clima di affettuoso revival all’insegna della Hollywood che fu, tra
omaggi a Lana Turner e Audrey Hepburn, non sorprende l’apparizione a sorpresa di Quentin Tarantino, nel
ruolo di se stesso.
(...) la commedia, dietro la patina nostalgica, appunto
cinefila e citazionista, sfodera un cuore malizioso e
una scrittura brillante, dove tutto torna, sin troppo forse, in una chiave da pochade, tra porte che si aprono
e si chiudono, coincidenze, equivoci. Per la serie: «Una
bella storia non dovrebbe essere rovinata dalla realtà». Pensate a un film di Woody Allen, ma più frenetico e meno senile, soprattutto meno arancione nella
fotografia. (...) La frase chiave del film è: «Ridere fa
bruciare le calorie più di ogni altra cosa». La ripete
Bogdanovich incontrando i giornalisti: forse gli hanno
detto che in sala è stato un trionfo di risate.
(Michele Anselmi)
E tutti risero, verrebbe da dire, parafrasando proprio il
titolo di un film di Peter Bogdanovich che inaugurò la
Mostra di Venezia nel 1982. Un’ovazione ha accolto
She’s Funny That Way, che potremmo tradurre “É divertente (o pazza) così com’è”. Capita spesso ai festival
quando, in mezzo a disastri e desolazioni, spunta una
commedia all’antica hollywoodiana. Di quelle ritmate e
birichine, con un po’ di sesso e New York come sfondo, più le strizzatine d’occhio giuste. (...) questa storia,
nata tre lustri fa per lo scomparso John Ritter col titolo
bizzarro Squirrels to the Nuts, scoiattoli alle nocciole,
ha continuato a ronzargli in testa, finché due produttori
Un film d’amore girato come un film d’avventura, con
un’eco delle migliori commedie sofisticate americane
(amore e rivalità naturalmente, se no che amore è?). Un
film d’avventura in cui i paesaggi sono protagonisti quanto
i personaggi, ma senza la supponenza di tanto cinema
d’autore. La storia di un incontro complicato raccontata
con una fantasia e un coraggio (coraggio fisico, non per
dire) che coglie il modo di vivere e insieme i sentimenti
profondi di tanti giovani d’oggi con una nettezza, uno
slancio, una felicità a dir poco insoliti. The Fighters parte
in quarta sui titoli di testa e non si ferma più. (...) Ne esce
un film in cui i dialoghi nascono sempre dall’azione, e
non viceversa, con una naturalezza, un divertimento, una
logica emotiva semplice e insieme profonda che dovrebbero far morire d’invidia il 95% dei registi italiani. (...) un
percorso di crescita che il primo film di Thomas Cailley,
fotografato da suo fratello David, rende con rigore, energia e finezza insieme. Davvero da non perdere.
(Fabio Ferzetti)
con la collaborazione di Associazione culturale Rosse Torri
La vita è facile
ad occhi chiusi
supplemento al n 3 del 17/2/2016 di varieventuali
Federazione Italiana Circoli del Cinema
21 - 30
CINECLUB IVREA
SCHEDE FILMOGRAFICHE
Martedì 12 aprile 2016
ore 15.00, 17.10, 19.20, 21.30
Mercoledì 13 aprile 2016
ore 15.30, 18.00
titolo originale Bande de filles /
regìa Céline Sciamma /
soggetto e sceneggiatura
Céline Sciamma / fotografia
Crystel Fournier / musica Para
One / montaggio Julien
Lacheray / scenografia Thomas
Grézaud / interpreti Karidja
Touré, Assa Sylla, Lindsay
Karamoh, Marietou Touré,
Idrissa Diabate, Simina
Soumare, Cyril Mendy, Djibril
Gueye / produzione Hold-Up
Films & Productions, Lilies
Films, in associazione con Arte
France Cinéma / origine
Francia 2014 / distribuzione
Teodora Film / durata 1 h e 52’
scheda filmografica 26
Kreuzweg – Le
stazioni della fede
Martedì 19 aprile 2016
ore 15.00, 17.10, 19.20, 21.30
Mercolelì 20 aprile 2016
ore 15.30, 18.00
titolo originale Kreuzweg /
regìa Dietrich Brüggemann /
sceneggiatura Dietrich
Brüggemann, Anna
Brüggemann / fotografia
Alexander Sass / montaggio
Vincent Assmann / scenografia
Klaus-Peter Platten / costumi
Bettina Marx / interpreti Lea
van Acken, Franziska Weisz,
Florian Stetter, Lucie Aron,
Moritz Knapp, Klaus Michael
Kamp, Hanns Zischler, Birge
Schade, Georg Wesch, Ramin
Yazdani / produzione UFA
Fiction / origine Germania 2014
/ distribuzione Satine Film /
durata 1 h e 47’
VARIAZIONE DI PROGRAMMA
scheda filmografica 27
Viviane
Martedì 3 maggio 2016
ore 15.00, 17.10, 19.20, 21.30
Mercoledì 4 maggio 2016
ore 15.30, 18.00
titolo originale Gett, le procès de
Viviane Amsalem / regìa Ronit
Elkabetz, Shlomi Elkabetz /
sceneggiatura Ronit Elkabetz,
Shlomi Elkabetz / fotografia
Jeanne Lapoirie / montaggio Joel
Alexis / scenografia Ehud
Gutterman / costumi Li Alembik /
interpreti Ronit Elkabetz,
Menashe Noy, Simon Abkarian,
Sasson Gabai, Eli Gornstein, Gabi
Amrani, Rami Danon, Roberto
Pollak, Dalla Begger, Albert Illuz,
Avrahram Selektar, Keren Morr,
Evelin Hagoel, Rubi Porat-Shoval,
Shmil Ben Ari, David Ohayon,
Ze’ev Revach / produzione Marie
Masmonteil, Sandrine Brauer,
Shlomi Elkabetz, per Elzevir &
Cie, Riva Filmproduktion, Dbg
Films / origine Israele, Francia,
Germania 2014 / distribuzione
Parthénos / durata 1 h e 55’
scheda filmografica 28
Figlio di nessuno
Martedì 10 maggio 2016
ore 15.00, 17.10, 19.20, 21.30
Mercoledì 11 maggio 2016
ore 15.30, 18.00
titolo originale Ncije dete /
regìa Vuk Ršumovic / soggetto
e sceneggiatura Vuk Ršumovic /
fotografia Damjan Radovanovic
/ musica Jura Ferina, Pavao
Miholjevic / montaggio Mirko
Bojovic / scenografia Jelena
Sopic / costumi Maja Mirkovic /
interpreti Denis Muric, Milos
Timotijevic, Pavle Cemerikic,
Isidora Jankovic, Tihomir Stanic,
Borka Tomovic, Goran Susljik,
Zinaida Dedakin, Branka Selic,
Mihailo Laptosevic, Draginja
Voganjac, Marija Opsenica,
Ljuba Todorovic, Bora Nenic /
produzione Miroslav Mogorovic,
per Art&Popcorn, in
coproduzione con Vuk Ršumovic,
per Baboon Production,
Kinorama, RTS / origine Serbia
2014 / distribuzione Cineclub
Internazionale / durata 1 h e 37’
VERSIONE ORIGINALE SOTTOTITOLATA
scheda filmografica 29
Banana
Martedì 17 maggio 2016
ore 15.00, 17.10, 19.20, 21.30
Mercoledì 18 maggio 2016
ore 15.30, 18.00
regìa Andrea Jublin / soggetto
e sceneggiatura Andrea Jublin
/ fotografia Gherardo Gossi /
musica Nicola Piovani /
montaggio Esmeralda Calabria
/ scenografia Massimiliano
Sturiale / costumi Francesca
Sartori / interpreti Marco
Todisco, Beatrice Modica, Anna
Bonaiuto, Giorgio Colangeli,
Camilla Filippi, Gianfelice
Imparato, Giselda Volodi,
Antonio Zavatteri / produzione
Ginevra Elkann e Francesco
Melzi D’Eril, per Good Films, in
collaborazione con Rai Cinema /
origine Italia 2014 /
distribuzione Good Films /
durata 1 h e 23’
scheda filmografica 30
Un film da non perdere, trascinante come la sua musica (e non
solo Rihanna e ‘beautiful like a diamonds in the sky’), commuovente, scanzonato, che ci fa conoscere delle ragazzine, adolescenti, nere delle periferie da vicino e fuori, o meglio contro gli
stereotipi in cui vengono solitamente imprigionate. Ma Bande
de filles nuovo film di Céline Sciamma non è un film «sulla» vita
difficile nelle periferie francesi - casomai sulla vita difficile nell’adolescenza tout court. L’autrice di Tomboy (...) torna infatti
alle sue passioni, gender, identità, femminile per comporre un
romanzo di formazione, della scoperta di sé e del proprio essere al mondo il cui «strumento» privilegiato è ancora una volta il
corpo. E cosa di più esprime disagio di una sedicenne che vive
(appunto) nella banlieue francese schiacciata tra un esterno e
un interno entrambi di feroce aggressività? (...) La materia narrativa con cui Sciamma si confronta è estremamente delicata: il
film «banlieue», la cintura parigina dura di Hlm, le case popolari
ad alta concentrazione di scontro, abitate in maggioranza da
neri o maghrebini, francesi certo, ma come si dice con quella
patina di distorsione ipocrita del linguaggio oggi (‘adieu au
langage’ diciamo con Godard) di «origine» altra. Per questo, e
non solo, negli anni il paesaggio della banlieue è diventato letteratura (per capirsi in Italia saremmo dalle parti di Scampia/
Gomorra): criminale, poliziesca, compassionevole, punitiva, a
suon di rap e di immagini pompate e muscolose, ritmi fagocitati
e notti incendiarie. Sciamma sposta il punto di vista radicalmente. Non che quella realtà non vi sia, anzi è presente e con forza
drammatica, ma il movimento del racconto che mette al centro
la protagonista e le sue amiche cerca piuttosto la dimensione
quotidiana di una lotta per la libertà. Confusa come si può esse-
re solo da adolescenti, ed eroica nei suoi fallimenti e nella sua
incertezza. Lo sguardo della regista segue Marieme e le sue
trasformazioni con amore. Le ama queste ragazze che insieme
a lei non devono dimostrare nulla, non sono «modelli» sociali
anche se somigliano a tante altre che capita di incontrare nel
metrò parigino in zona Les Halles. Ma nemmeno incarnano una
statistica da cinema «impegnato» che assolutizza i propri tempi.
Sono al contrario personaggi unici, e semplicemente se stesse,
miscela magnifica di spavalderia e tristezza, dubbi e ricerca incessante di un posto al mondo. Così le filma la regista, piene di
vita in una trasformazione anche dolorosa che rifiuta le etichette
e i ruoli già decisi, vicine e complici, lei e le ragazze, ma sempre
nella distanza di una dimensione narrativa che inventa personaggi senza nascondersi nella «realtà». II «gender» delle ragazze diviene una scommessa di «genere» allargato, campo di
battaglia culturale in cui si confrontano i modelli di rappresentazione e di appartenenza dei personaggi (la scena in cui la ragazza arriva nel cuore della notte dal ragazzo amato è bellissima) e della regista che per avvicinarli interroga il cinema (e l’immaginario) scompigliandone le categorie. Col soffio amoroso
delle sue indomite stelle.
(Cristina Piccino)
(…) Diamante nero è (così come lo era Tomboy) un film
profondamente politico, e al di sopra di ogni programmatico “messaggio”.
(Roberto Nepoti)
La traduzione di Kreuzweg è via crucis. E infatti il film
diretto dal giovane Dietrich Brüggemann, che lo ha scritto insieme alla sorella Anna, narra le quattordici stazioni della via crucis in quattordici episodi, ma a percorrerle è Maria, una ragazzina di 14 anni. La sua famiglia
(madre forte e fanatica, odiosa, padre debole), cattolica ma lefebvriana, vive in una parrocchia dove regnano i lefebvriani. Con questa corrente integralista e anticonciliare della chiesa Wojtila tentò un accordo, ma certamente non è amata da Bergoglio, che predica l’opposto e sembra lottare per il regno di Dio su questa terra.
Le stazioni della via crucis di Maria sono tutte, tranne
due, raccontate con inquadrature fisse (anche molto
lunghe). La prima, che già riassume e lascia prevedere
il resto, è una lezione di catechismo: un giovane prete,
quattro ragazzine e due ragazzini da preparare alla cresima. Tra di loro è Maria quella che si pone più domande e che ne cerca la risposta. La sua via crucis è quella
di una rinuncia ai piaceri del mondo sollecitata, anzi
imposta, da una madre fanatica. E anche l’amore con
un coetaneo ugualmente cattolico, ma più aperto alla
vita, alla terra. I suoi tormenti si accentuano, e la via
d’uscita è quella della rinuncia, del sacrificio del bello e
del sano in nome della fede e nella speranza che i suoi
sacrifici portino alla guarigione del fratellino di quattro
anni, che non parla.
(…) Il rigore della regìa è assoluto e convincente,
Brüggemann sa quel che vuole e si rivela regista di alto
valore, perché ogni regìa dovrebbe esser mossa da una
scelta e dalla coerenza nell’applicarla e queste sono
qualità molto rare. A tratti fa pensare a Bresson e ai
nordici più “protestanti”. Sa costruire una storia quasi
per atti unici drammaturgicamente autosufficienti, e ciascuno di un’intensità e di una pregnanza inusitate, ha
un’idea di cinema non compiacente che invita insieme
più alla riflessione che all’identificazione. Sa comunicare allo spettatore la tensione intima di Maria, che è
spirituale più che sociale o culturale. Ma, come in un
bel film di qualche anno fa, Lourdes dell’austriaca
Jessica Hausner, Kreuzweg termina con il dubbio, nella giusta esigenza di rispettare chi ha la fede: è certo
che Maria muore perché vittima di un’educazione intransigente e crudele (il giovane prete e sua madre sono
figure antipatiche, anzi odiose), ma nel momento in cui
muore il fratellino parla. Il suo sacrificio ha prodotto un
miracolo? Si resta nel dubbio, e gli autori non scelgono
fino in fondo la loro parte.
Per rispetto, certamente, più che per opportunità. Lo fanno
probabilmente anche in reazione al disgustante materialismo capitalista in cui sguazziamo in attesa della fine e
alle disgustanti scorciatoie dei fanatismi religiosi. Ma
qualcuno avrebbe dovuto far leggere ai fratelli Brüggemann la Lettera a un giovane cattolico di Heinrich Böll,
che probabilmente il papa attuale conosce bene e che
probabilmente Wojtila ignorava. Parlo da non credente.
Il mistero ci sovrasta, sempre, ma il regno di Dio – ognuno lo chiami come vuole – va costruito su questa terra.
(Goffredo Fofi)
C’è una sola informazione da sapere prima di lasciarsi
andare alla visione di Viviane: in Israele non esiste il matrimonio civile, c’è solo quello religioso, e quindi il divorzio
(che esiste) può essere ratificato solo da un tribunale
rabbinico, che ha bisogno però del pieno consenso del
marito. Fatta questa premessa si è pronti per entrare nell’aula di tribunale dove Viviane e Elisha Amsalem stanno
discutendo del loro divorzio: o meglio dove Viviane chiede un divorzio che il marito non sembra intenzionato a
concedere. Gli antefatti e le ragioni dei due contendenti li
scopriremo scena dopo scena, anzi rinvio dopo rinvio,
perché la cosa chiara da subito è che il marito non vuole
concedere il divorzio alla moglie, che pure vive ormai
fuoricasa, dalla sorella, da tre anni.
(...) Costruito con ammirevole economia di mezzi, tutto
all’interno dell’angusta aula di tribunale con poche scene
nell’adiacente sala d’attesa, ritmato dalle scritte in
sovrimpressione che scandiscono il passare del tempo
(…), il film è uno dei più forti e commoventi ritratti di tenacia femminile che il cinema abbia offerto negli ultimi anni.
E non a caso la critica francese Dominique Martinez ha
paragonato alcuni dolenti primi piani della protagonista a
quelli di Renée Falconetti nella Giovanna D’Arco di Dreyer.
(…) Se lo spettatore finisce per schierarsi con la donna,
la messa in scena cerca invece di tenere i due coniugi
sullo stesso piano, o comunque di spiegare con
equanimità i punti di vista opposti, affidati ora alle parole
dei rispettivi legali ora ai silenzi dei due protagonisti.
Concedendosi solo qualche significativa scelta di regìa,
come quella delle scarpe di Viviane, eleganti e femminili
durante il processo, dimesse e «penitenziali» nell’ultima, silenziosa inquadratura. Il perché di questa scelta,
lo lasciamo scoprire allo spettatore.
(Paolo Mereghetti)
(…) Siamo alla fine degli anni 80 del Novecento, tra le
montagne della Bosnia. Una fulminante sequenza iniziale ci conduce tra i boschi in compagnia dei cacciatori
che sorprendono, circondano e catturano un ragazzino,
un bambino che (come il Mowgli di Kipling e il Tarzan di
Burroughs) non ha mai avuto contatti con la civiltà e con
gli altri esseri umani, è cresciuto tra i lupi. Dunque è nudo
e sporco, emette grugniti e ruggiti, morde, non sa camminare eretto. È come un animale. Viene condotto a forza e non senza fatica al villaggio e da lì inoltrato a
Belgrado, presso un istituto che è un po’ orfanotrofio un
po’ riformatorio. Gli danno un nome, Haris.
(…) la vicenda si intreccia, con mirabile fluidità, alla
contemporaneità storica. La disintegrazione della Iugoslavia, le guerre, la divisione e la ferocia etnica. Di cui il
piccolo Haris, fuggitivo e casualmente coinvolto, non ha
ovviamente alcuna consapevolezza. Alcuni dettagli simbolici parlano al posto delle spiegazioni: le scarpe, quelle da ginnastica sostituite con gli anfibi, la comparsa delle
armi e della reciprocità di odio tra persone che appena
poco prima convivevano. Il senso, che passa appunto
attraverso una rappresentazione quasi muta e tutta condivisa con il punto di vista selvaggio e innocente del protagonista, è quello di un percorso che al piccolo Haris
ha tolto più che dato (…). Si è parlato di “purezza” per
questo film e la definizione è calzante. La condivisione
di punto di vista si esprime delicatamente nei tagli di inquadratura che fanno propria l’altezza, variabile nel corso della storia, dello sguardo di Haris, facendo propri
tanto la sua diffidenza che i suoi incantamenti. L’inter-
prete, che si chiama Denis Muric, fornisce una prova di
grande intensità.
(Paolo D’Agostini)
Ecco un esordio che, pur con le sue fragilità, si
segnala per l’originalità di spunto, la freschezza
di dialogo e l’accattivante personalità del protagonista (deliziosamente incarnato dall’inedito
Marco Todisco). Definito dal regista Andrea Jublin
«un piccolo Don Chisciotte della periferia», Banana è in effetti un idealista in lotta contro la mentalità del «catenaccio». Anche se il fatto di essere tondetto e di avere il piede a «banana» gli
impedisce di essere un valido calciatore, il ragazzino è convinto che, sul campo da gioco come
nella vita, si può aspirare alla felicità del gol (o
al gol della felicità), gettandosi con slancio
spericolato nella mischia. Così, pur circondato
da adulti (i genitori, l’amata sorella, la prof d’italiano) depressi e rassegnati e deriso dai coetanei, Banana parte all’attacco impegnandosi nella romantica impresa di «salvare» dal disastro
scolastico la compagna Jessica di cui è innamorato. Ne uscirà malconcio ma più indomito che
mai e sarebbe auspicabile che il suo candido
vitalismo contagiasse anche noi, stanchi spettatori di questo stanco Paese.
Il film di Jublin è come il suo protagonista: sconcertante. Specie secondo i canoni del trito cinema
Viviane è uno di quei film miracolosi in cui sembra non
succedere niente e invece avvince con momenti drammatici e ironici, con una intensa sceneggiatura e attori
eccezionali: specialmente lei, Viviane, l’attrice Ronit
Elkabetz, che è anche sceneggiatrice e regista del film
assieme al fratello Shlomi. (...) La battaglia tra Viviane ed
Elisha (Simon Abkarian) e tra i due difensori, per lui il fratello Shimon (Sassen Gabay), per lei il bell’avvocato
Carmel (Menashe Noy) è fatta di parole, di silenzi, di sguardi: irridenti, inflessibili, torvi quelli del marito, sofferenti,
ostinati quelli di lei. Viviane ha una bellezza nobile e stanca, un viso pallido e intenso, meravigliosi capelli neri, che
la religione considera un’arma di seduzione scandalosa,
raccolti sulla nuca e che in un momento di stanchezza e
sfiducia lei scioglie e accarezza, un gesto sfrontato davanti ai rabbini che la richiamano immediatamente. Anche gli abiti segnano il crescere della sua insofferenza e
voglia di ribellione. Prima vestita castamente di nero e in
pantaloni, poi con una camicia bianca femminile, e ancora con le belle gambe nude e i tacchi alti o con una fiammeggiante camicia rossa. Alla fine porterà delle babbucce piatte, come per affrontare un futuro di libertà ma anche di rinuncia. (...) Viviane è l’ultima parte di una trilogia i
cui precedenti film non sono stati distribuiti in Italia. Israele l’ha candidato per l’Oscar al film straniero (...).
(Natalia Aspesi)
Il ragazzo selvaggio dei Balcani: di fronte al convincente film di Vuk Ršumovic, premio del pubblico alla Settimana della Critica veneziana 2014, è inevitabile pensare immediatamente al celebre film di François Truffaut.
Anche in questo caso, infatti, il protagonista della storia
è un ragazzino cresciuto nei boschi in completo isolamento, miracolosamente sopravvissuto ai rigori della natura, incapace di parlare e di camminare eretto. Entrambi
i film narrano due vicende incredibili, ma se Il ragazzo
selvaggio raccontava una storia vera di fine ‘700, Figlio
di nessuno risulta ancora più scioccante perché ispirato a un fatto realmente accaduto nel cuore dell’Europa
ai nostri giorni.
(…) Di fronte ad una materia così incandescente, la scelta registica del 40enne regista di Belgrado, al suo esordio, è stata quella di puntare su una messa in scena
fredda e raggelata per non cedere ad alcun ricatto sentimentale. Tutto è raccontato con una tensione crescente
che esplode in un epilogo forte e imprevedibile, simbolo di un incontenibile dolore metafisico, perché la vera
barbarie il protagonista la vive sulla propria pelle da civilizzato. È implicito il confronto fra il percorso esistenziale di Pucka e le vicende politiche della Jugoslavia,
tradita e disintegrata.
(Franco Montini)
giovanilista italiano. Ecco perché malgrado i suoi
difetti (perché ogni personaggio sente il dovere di
fare più battute di Woody Allen?), è impossibile non
provare tenerezza per il primo film di un eccentrico cineasta candidato all’Oscar nel 2008 per il corto
Il supplente. Anche qui Jublin (attore efficace ne
La solitudine dei numeri primi) riflette sulla necessaria follia della gioventù rispetto alle rinunce della maturità. La cosa migliore è il ‘Banana’ di Marco
Todisco (già visto nel delizioso Febbre da fieno):
sgraziato, volgare, romantico. Appena 16 anni ma
che personalità.
(Francesco Alò)
(Alessandra Levantesi Kezich)
Le proiezioni si svolgono presso
il Cinema Boaro di Ivrea (Via Palestro, 86)
secondo gli orari indicati nelle schede filmografiche.
SI RAMMENTA CHE IL PROGRAMMA POTRÀ SUBIRE VARIAZIONI PER CAUSE DI FORZA MAGGIORE.
CINECLUB IVREA
2015 - 2016
LIV edizione
Arrivederci a settembre per l’edizione 2016 - 2017, la L
V
LV
Schede filmografiche
21 - 30
[email protected]
Diamante nero