La corsa di disputerà nuovamente a Long Island, su quella striscia

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La corsa di disputerà nuovamente a Long Island, su quella striscia
THE MAGNIFICENT VANDERBILTS
La Coppa Vanderbilt del 1906
Se ci si toglie la vita per l’esito di un evento sportivo mondiale, i casi sono due: o la
propria vita è così senza speranza che la vittoria della propria nazione ad un cimento
sportivo diventa un irripetibile strumento di rivalsa, perso il quale nulla può più
essere sopportato, o l’evento in questione è stato caricato di un significato che
travalica ogni ragionevolezza, si identifica con lo spirito di patria, l’onore, l’orgoglio
nazionale, e dunque l’onta della sconfitta diventa per alcuni insopportabile (il lato
bello della medaglia è che in caso di vittoria ci si può lasciare andare ad una gioia
irrefrenabile, senza tema di essere considerati imbecilli o infantili, e noi italiani
quest’anno lo sappiamo bene…). Quello che successe all’indomani della Vanderbilt
Cup del 1906 fa parte probabilmente del secondo caso. Le cronache raccontano che ci
furono due suicidi: quello di un certo Guglielmo Hesse, membro di un noto club
sportivo di New York, che dopo aver condotto la madre e la sorella in automobile alla
corsa, rientrò in casa e si suicidò per la vergogna di “aver visto l’America perdere la
Coppa”. E quello del miliardario Shirk, che si tirò un colpo di pistola alla tempia per
lo stesso motivo.
Casi isolati, fuori dalla norma? Neanche troppo. L’America, o meglio gli Stati Uniti,
di quegli anni erano divorati dalla febbre automobilistica, come pochi decenni prima
erano stati contagiati dalla febbre dell’oro. Se la pièce teatrale “The Vanderbilt Cup”*
rimase in scena per oltre otto settimane consecutive, mostrando nient’altro che due
vetture dietro cui immagini in movimento proiettate su un telo evocavano una
velocità vertiginosa (il solito vecchio trucco cinematografico di tutti i film
hollywoodiani dagli anni trenta agli anni cinquanta), significa che l’automobile stava
assumendo negli ambienti alto-borghesi americani, e a cascata in ogni ceto, per il
consueto meccanismo di imitazione delle classi alte da parte della classi più disagiate,
un ruolo assolutamente centrale. Tutti seguivano le corse automobilistiche; tutti
conoscevano nomi come quello di Emanuele Cedrino, giovane pilota emigrato a New
York dalla lontana Torino, che si copriva di gloria nelle prime gare affrontate dalla
Fiat; o quello di Lancia, corpulento ed irruente, altro grande pilota Fiat che si impose
in più di una competizione americana; tutti discettavano di marche, cilindrate,
potenze; e soprattutto tutti speravano di poter presto dimostrare alla vecchia Europa
di saper costruire vetture belle veloci ed affidabili quanto quelle del continente.
D’altronde nel 1906 in America si contavano circa 100 costruttori di automobili, per
un capitale sociale complessivo di oltre 21 milioni di dollari. Nella sola città di New
York circolavano quell’anno 14.000 automobili, 23.600 in tutto lo stato, nel resto
degli Stati Uniti 67.000, per un totale di 90.000 autovetture, che avevano a
disposizione 3.000 miglia (4.800 km) di strade. Nei primi tre mesi del 1906 a New
York furono vendute 2.000 automobili, pari all’intera produzione italiana dell’anno
precedente. Una situazione dunque in frenetica, continua crescita. E’ di pochi anni
dopo (1914) l’indimenticabile affresco della società americana in velocissima
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evoluzione contenuto nel romanzo “The Magnificent Ambersons”, di Booth
Tarkington, e incentrato sulla figura di Morgan, un imprenditore automobilistico.
Inizialmente era stata una questione per miliardari. E quando si dice miliardari, si
intende proprio una ricchezza neanche quantificabile, sfrenata, quasi oltraggiosa:
quella dei Vanderbilt, padroni dello yacht più grande del mondo, 285 piedi, di almeno
sette “family mansions” (proprietà di famiglia) a New York, tra cui la Marble House
di Rhode Island, così chiamata perché rivestita dalle cantine alle soffitte di marmi
preziosi, la residenza estiva “Idle Hour” (“ore oziose”) a Long Island, quattro piani e
110 stanze, ciascuna arredata sontuosamente, con scaloni monumentali in pietra di
Caen, fumoirs rivestiti di noce della Circassia, saloni da biliardo moreschi, bagni con
rubinetteria in oro massiccio, parati di Gobelin, boiseries Luigi XVI, impressionanti
collezioni di quadri e oggetti preziosi. Detentori di una fortuna immensa, i Vanderbilt
davano il là alla società altolocata nella quale si muovevano: il ballo in maschera dato
dalla signora Alva Vanderbilt a metà del 1880 costò 250.000 dollari e fu paragonato
per magnificenza alle opulente feste che Alessandro il Grande organizzava a
Babilonia. Fu un costo pur sempre inferiore a quello pagato per il matrimonio della
figlia Consuelo con il Duca di Marlborough, uno dei più bei nomi dell’aristocrazia
britannica: la famiglia spese nel 1895 due milioni e mezzo di dollari, più una rendita
vitalizia di 100.000 dollari all’anno per il duca, ma intanto ci si era accaparrati un bel
titolo nobiliare.
In questo gaio mondo dell’alta società, di palazzi in Fifth Avenue, di servitori in
livrea, di occupazioni divertenti ed oziose, qualche soddisfazione la diede anche il
figlio maggiore di Alva Astor Vanderbilt, Harold Sterling, laureato ad Harvard,
vincitore di quattro America’s Cup. Ma fu il secondo figlio, William Kissam, a
diventare per l’automobile americana quello che De Dion e James Gordon Bennett
erano stati per l’automobile in Europa.
All’inizio la sua passione smodata per le automobili, che si manifestò sin dal 1888,
cioè da quando l’amico di famiglia Conte De Dion se lo portò a spasso sul suo
trabiccolo a vapore, ebbe due obiettivi: diventare l’americano più veloce al mondo e
ridicolizzare l’analoga passione di suo cugino Alfred Vanderbilt. Il primo obiettivo
gli riuscì già nel 1902. Nel batti e ribatti che caratterizzò quegli anni di ricerca
spasmodica del record di velocità tra automobili a benzina e automobili a vapore, e
che vide come maggiori contendenti Camille Jenatzy, Charles Rolls, Henri Fournier,
Léon Serpollet (vedi Auto d’Epoca del febbraio 2002), si inserì William K., con tutta
la potenza dei suoi dollari e profondamente convinto della superiorità del motore a
scoppio (forse ancora si ricordava le traversie della gita con De Dion…!). Nel maggio
di quell’anno egli decise di sfidare l’amico barone Henry de Rothschild in una gara
inizialmente prevista di dieci chilometri, per stabilire chi dei due sapesse guidare
meglio l’identica vettura, una Mercedes Simplex 40 HP. Quel giorno però pioveva, le
strade erano pessime e Vanderbilt finì per condurre la gara contro se stesso soltanto,
ad Ablis (Chartres), nel chilometro lanciato, conseguendo una media di 111
chilometri all’ora. Era il miglior risultato raggiunto da un’automobile a benzina,
anche se ancora inferiore a quello conseguito dal francese Serpollet su un’auto a
vapore. Un altro barone, il belga De Caters su una vettura Mors, un mese dopo,
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pareggiò la situazione: corse il chilometro nel tratto del canale tra Bruges e
Nieuwpoort, eguagliando esattamente la velocità del Serpollet (120 km/h). I
sostenitori dell’una e dell’altra soluzione, motore a vapore e motore a scoppio, non
ebbero però il tempo di abituarsi alla parità. Ad agosto Vanderbilt si procurò venti
cavalli in più (ossia una Mors da 60 HP) e raggiunse, sempre ad Ablis, la velocità di
76,08 mph, ossia 121,728 km/h. Doppio primato: il primo americano a diventare
l’uomo più veloce sulla terra.
Suo cugino Alfred, erede a sua volta di una fortuna stimata tra 70 e 100 milioni di
dollari, rimaneva invece una spina nel fianco. Nel 1904 si era comprato una Mercedes
da 12.000 dollari e, diversamente da William K., non la guidava egli stesso ma
l’aveva affidata al pilota Paolo Sartori (lo stesso che nel 1908 compì il raid ParigiNew York su una Zust), che conseguì alcuni record su distanze varie, da sedici a
venti miglia, finché il motore si fuse irreparabilmente. Ma si poteva continuare così, a
stabilire record che duravano sì e no una settimana? Bisognava pensare in grande, e
portare l’America allo stesso livello di sviluppo automobilistico di altre nazioni
europee, si disse William K. Pensare in grande è una tendenza che hanno in molti ma
se ci si chiama Vanderbilt è tutto più facile. Gli venne l’idea (vedi Auto d’Epoca del
dicembre 1996) di creare una Coppa legata al suo nome, dotandola di un trofeo
ovviamente disegnato dalla celeberrima gioielleria Tiffany e facendo in modo di
renderla desiderabile per vetture e piloti stranieri. Si sarebbe trattato del primo evento
sportivo internazionale mai organizzato nel paese. La segreta, e neanche tanto,
aspirazione di William K. era che la Coppa Vanderbilt venisse prima o poi vinta da
una marca e un pilota americano, in modo da pubblicizzare la costruzione
automobilistica statunitense in tutto il mondo, e conferirle dignità analoga a quella
europea. Per questo impose un regolamento simile a quello della Coppa Gordon
Bennett: ossia la partecipazione per nazioni, e non per marche singole. Il carattere
nazionalistico ne venne grandemente accentuato, con grande disdoro dei francesi che
si stavano faticosamente liberando in patria della Coppa Gordon Bennett e che se la
ritrovavano pari pari in America. L’attesa di un vincitore americano crebbe di
edizione in edizione e quando si arrivò alla terza, nel 1906, era enorme. Ed ecco
rispuntare il cugino Alfred il quale decise di inserirsi nella tenzone e a tal scopo si
fece costruire quella che doveva essere l’automobile più veloce del mondo. Si affidò
ad un certo ingegner François Richard che cominciò a lavorare al progetto di una otto
cilindri da 250 HP. Lavorando giorno e notte, si arrivò alla data in cui si sarebbe
svolto il Meeting della Florida, a gennaio 1906, ottimo banco di prova per la
Vanderbilt Cup che invece si sarebbe svolta ad ottobre. Fu addirittura noleggiato un
treno speciale per condurre il mostro a Daytona, dove Paolo Sartori attendeva
fremente. Tutto inutile. Le due giornate del meeting trascorsero tra emozioni
continue, con la vittoria di Stanley su vettura a vapore nella corsa internazionale del
miglio, di Lancia su Fiat nel record del miglio, e nuovamente di Lancia su Fiat per il
record delle cinque miglia. Successe un po’ di tutto, in quelle due giornate di gare:
anche che un concorrente, il francese Heméry, non si avvedesse del segnale di “falsa
partenza”, e giungesse indisturbato al traguardo, da solo (tutti gli altri si erano
fermati), pretendendo anche che la sua vittoria “in solitaria” fosse omologata. Cosa
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che non fu concessa: ne seguì una rissa che contraddisse l’olimpico spirito sportivo,
tanto che Hemery fu squalificato, la sua macchina consegnata alla polizia, e la
partenza ripetuta. Ma della vettura di Vanderbilt, che avrebbe dovuto raggiungere
senza fatica i 283 km/h, contro i 180 km/h degli altri concorrenti, compresi i vincitori,
nessuna traccia. Rimase renitente a qualunque tentativo di metterla in moto, e dovette
essere tristemente caricata sullo stesso treno speciale per essere ricondotta a New
York, dove finì dimenticata in un garage. Chi invece non si dimenticò facilmente del
tentativo fallito fu Alfred, costretto comunque a pagare le spese dell’avventura,
centomila lire. Ma che fu spiazzato da un’ulteriore richiesta di 25.000 lire avanzata
dall’ingegner Richard per il lavoro svolto in quei tre mesi. Vanderbilt rifiutò. Fece
fare una perizia sulla vettura, che risultò soffrire di difetti fondamentali di
costruzione. Con una decisione poco comprensibile, però, il giudice della Corte
Suprema, tal Girard, condannò Vanderbilt a pagare comunque. Ciò raffreddò
alquanto l’entusiasmo di Alfred per le automobili, che si dedicò da allora in poi al
National Horse Show di Madison Square Garden. Per la cronaca, morì da eroe
nell’affondamento del Lusitania, maggio 1915.
A parte questo tentativo sfortunato, i preparativi delle case automobilistiche
americane per la Coppa Vanderbilt proseguirono tutto l’anno sempre più serrati. Già
ad aprile si erano dichiarate pronte a partecipare la Pope-Toledo (Pope Motor Car
Company, Toledo, Ohio, 1904-1909**), la Maxwell (Maxwell-Briscoe Motor
Company, Tarrytown, New York, 1904-1912), la Thomas (Erwin Ross Thomas
Motor Company, Buffalo, New York, 1902-1919), la Franklin (Herbert H. Franklin
Manufacturing Company, Syracuse, New York, 1902-1917, costruttrice delle prime
auto americane raffreddate ad aria), la Royal (Royal Automobile Company, Chicago,
Illinois, automobili elettriche, 1904-1906), la Matheson (Matheson Motor Car
Company, Wilkes-Barre, Pennsylvania, 1906-1910), la Ford (Ford Motor Company,
Detroit, Michigan, dal 1903), la Haynes (Haynes Automobile Company, Kokomo,
Indiana, 1905-1925), la White (The White Company, Cleveland, Ohio, 1906-1918,
veicoli a vapore). Non mancavano i fratelli Stanley (Stanley Motor Carriage
Company, Newton, Massachussetts, 1902-1924), assertori convinti della superiorità
del vapore sui motori a benzina. Nell’estate iniziarono i rilievi sul percorso Tracy
sulla sua Locomobile (Locomobile Company of America, Bridgeport, Connecticut,
1900-1929), J. Walter Christie, sulla vettura a trazione anteriore che portava il suo
nome (dal 1905 al 1907 la sua società si chiamò Direct Action Motor Car Company,
New York, N.Y.), e Robertson su Apperson, degli Apperson Brothers, con sede a
Kokomo, in Indiana, attiva dal 1902 al 1924. La corsa si sarebbe disputata
nuovamente a Long Island, su una striscia di terra lunga quasi duecento chilometri
che si protende nel mare, cominciando da Brooklyn, il quartiere dove già si
addensavano in prevalenza gli immigrati italiani.
Il circuito adottato per quell’anno era l’antico circuito allungato e modificato, che non
a caso utilizzava parte del Long Island Motor Parkway costruito da Vanderbilt.
Dell’antico percorso si mantenne solo la parte che andava da Greenvale a East
Norwich, Jericho e Mineola, abbandonando l’altra metà per passare da Manhasset,
Hill, Lakeville e Searington, di modo che mentre l’antico circuito era di 28 miglia
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l’attuale era di 38 (km 48). La corsa si sarebbe svolta su dieci giri, cioè circa 500 km.,
con 64 curve e 8 tornanti ad angolo retto. La svoltata di Jericho restava come negli
anni precedenti uno dei punti più difficili ma il tornante più pericoloso era senza
dubbio quello del Bull’s Head Corner a causa della sua strettezza e della quantità di
chalets, pali telegrafici e grandi alberi che vi si trovavano. Alcuni concorrenti
calcolarono che in quel punto non si sarebbe potuta superare la velocità di 16 km/h.
In compenso però era stata eliminata la terribile strada di Albertson ove l’anno prima
l’americano Foxhall Keene fece una fantastica caduta ed ove Lancia e Christie
vennero a collisione togliendo così all’Italia e alla Fiat una vittoria già quasi in mano.
Partenza prevista a Mineola ad East Williston dove la strada larga ed eccellente si
prestava a meraviglia allo scopo.
Intanto l’Europa non restava a guardare. Qualche settimana prima della gara partì per
l’America la squadra dell’Itala con Cagno e Fabry, insieme ai meccanici Moriondo,
Piacenza e Vaccarino; qualche giorno dopo li seguirono Lancia, Nazzaro e “il dottor
Weillschott”, come era sempre citato sulla stampa, insieme ai meccanici Ayassa,
Colombo e Pagnoni, per la Fiat.
Quando si giunse al momento di affrontare le eliminatorie americane, in calendario
quindici giorni prima della Coppa, ossia il 22 settembre, la folta schiera di costruttori
statunitensi si assottigliò. Risultarono iscritte, delle marche descritte in precedenza,
tre Thomas, una Pope-Toledo, una Locomobile, una Maxwell, una Apperson, una
Christie, una Haynes, una Matheson. Ed inaspettatamente si fecero avanti anche
anche tre new entries: ossia una Olds (Olds Motor Works, Detroit, Michigan, 18991907); una B.L.M. (Breese, Laurence & Moulton Motor Car & Equipment Company,
Brooklyn, New York, 1906-1907) e tre Frayer Miller (Oscar Lear Automobile
Company, Columbus, Ohio, 1904-1907). Di queste quindici vetture ne arrivarono al
traguardo soltanto tre, dopodiché la folla invase la pista e la gara venne sospesa. I tre
arrivati erano la Locomobile guidata da Joe Tracy, britannico naturalizzato
americano, una delle Thomas, guidata dal francese Le Blon, la Haynes guidata da
Harding, ex pilota della Daimler inglese. Successivamente si decise di considerare
qualificati (perché in testa al momento dell’invasione della pista) la Pope-Toledo con
al volante Lyttle***, e Walter Christie a bordo della sua Christie. A questi si
aggiunsero quindi i concorrenti europei. Per la Francia una Bayard Clément guidata
da Clément, una Hotchkiss, pilota Shepard, una Panhard Levassor, pilota Heath, una
Lorraine Dietrich guidata da Duray, una Darracq guidata da Wagner. Per la Germania
concorrevano due Mercedes, con al volante Jenatzy e Luttgen; per l’Italia le tre Fiat
di Lancia, Nazzaro e Weillschott e le due Itala di Cagno e Fabry.
Il giorno della gara, poco prima dell’alba, una folla enorme cominciò ad ammassarsi
ai bordi della pista, in attesa del via previsto per le sei. Il tempo era il peggiore
immaginabile: piovoso, freddo, nebbioso. Al Garden City Hotel, che ospita i
commissari e i giudici di gara, la concitazione è parecchia: dare o no il via in queste
condizioni? Si opta per un ritardo, che però non potrà essere lungo, vista l’eccitazione
della folla. Alle 6,15 perciò parte il primo concorrente: Le Blon, su Thomas; quindi
Heath, che aveva vinto la prima Coppa e che costringe la sua Panhard ad un
demarrage violento. Lo segue Jenatzy, l’antico “diavolo rosso”. Si fa avanti Lancia,
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uno dei beniamini del pubblico che, contrariamente al solito, si avvia con dolcezza.
Tra il gruppo dei piloti americani Tracy è il più agitato. Snervato dalla troppa folla, si
irrita per il poco spazio che la folla lascia ai piloti sulla pista, e protesta per
l’organizzazione che fin dalle prime battute della gara si rivela pessima. Arriva anche
il momento del via per Wagner, velocissimo. Cagno lo segue, ma non sembra in
forma: è reduce da un incidente in prova. Tra gli ultimi a partire sono Clément, molto
sicuro della sua Darracq, Weillschott, tutto sorridente, e Christie. Come questi si è
avviato, la folla torna ad invadere la pista, incurante del pericolo di venire travolta.
“E’ un momento di grande ansietà – scrive la cronaca di L’Auto d’Italia – perché il
primo, Le Blon, dovrebbe passare. A furia di energia alcuni pochi riescono a
sgombrare la strada, ed appena in tempo, perché alla velocità di 140 km all’ora
passa il primo Jenatzy”. Queste saranno le condizioni della pista per tutta la gara: un
pericolo continuo, un infinito stress per i piloti, e naturalmente molti incidenti, alcuni
dei quali mortali. Secondo a passare, a ben sette minuti, é Lancia. Nel mentre
Weillschott, proprio per non aver visto bene una curva a causa del pubblico assiepato
disordinatamente, va in derapage ed esce di strada, travolgendo tre persone, ferite
lievemente, e un ragazzo, che invece riporta lesioni molto gravi. Weillschott stesso,
insieme al meccanico, sembra in brutte condizioni: giacciono svenuti sulla strada.
Poco dopo però si riprendono e, come se niente fosse, risalgono in macchina.
Wagner, che non è in testa, ha però segnato il giro più veloce, 28’ e 26”, e meno
ancora segna al secondo giro (complessivamente 51’22”). Alla fine del terzo giro
Wagner ha impiegato un’ora, 24’ e 19”; è inseguito da Lancia, Jenatzy, Clément,
Shepard, Cagno e Nazzaro. Al quinto giro Duray muove la classifica impossessandosi
del terzo posto; al sesto Wagner rafforza il suo vantaggio. A questo punto si scatena
tra lui e Lancia una lotta all’ultimo respiro, favorita dal miglioramento del tempo ma
terribilmente ostacolata dal comportamento del pubblico, sempre più scomposto.
Shepard, per evitare delle persone, sterza bruscamente e finisce per investirne un altro
gruppo, ferendo mortalmente un uomo. Sempre più emozionante il duello tra Wagner
e Lancia: li dividono, in classifica, sette minuti, ma sulla pista appena cinquecento
metri, e all’ottavo giro Lancia riesce addirittura nel sorpasso. Al giro successivo,
nuovo sorpasso tra i due in testa: stavolta è Wagner che passa Lancia. Tutto questo
tra urla, incitamenti, persone investite, altri gravi incidenti, confusione dentro e fuori
la pista. Al nono giro Lancia ancora una volta supera Wagner e “PRIMO TAGLIA IL
TRAGUARDO” scrive L’Auto d’Italia. La folla è in delirio, la banda attacca la
Marcia Reale, alcuni spettatori si slanciano per prendere il pilota italiano e portarlo in
trionfo, quando arriva Wagner, ancora in vantaggio di qualche minuto. E’ lui il
vincitore. La banda cambia rapidamente l’inno da suonare, la confusione aumenta,
arrivano intanto Duray, Clément e Jenatzy, dopo il quale l’invasione della pista è tale
da far sospendere la gara.
La Francia finì così sul gradino più alto del podio. Per l’Italia, onore delle armi ma
molta delusione, tanto più che di cinque vetture una sola si era classificata. “Lancia,
bisogna riconoscerlo, è un bravissimo conduttore, il più veloce e il più audace forse,
ma non il miglior corridore. Perché non basta saper prendere un virage a 90 all’ora,
slittando magari e rovinando le gomme, bisogna studiare la corsa giro per giro, non
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sforzare soprattutto e non spingere a quella corsa endiablée (indiavolata) a cui
Lancia è solito. Nazzaro, più calmo e preciso, riesce meglio di Lancia e non
sappiamo per quali incidenti abbia dovuto rinunciare alla lotta; certo le condizioni
disastrose del circuito non potevano favorire il nostro campione. Quanto alle Itala,
crediamo difettino di una seria mise au point, perché è troppo disgraziata la loro
corsa…”
Negli Stati Uniti, la delusione non si poté neanche consolare dell’onore delle armi,
perché non entrò in classifica alcuna vettura nazionale. “Il donatore della Coppa,
disperando di ottenere dalle autorità un miglior concorso di servizio di polizia, e dai
compaesani una miglior educazione politica, ed una disciplina adeguata al momento,
rifiuta di far disputare ulteriormente il trofeo in America. Chiederà ad un club
europeo di assumersi l’incarico di organizzare e difendere la prova e, in caso di
rifiuto, questa sarà annullata”.. Per la verità il regolamento prevedeva che, dalla
terza edizione, la gara si trasferisse nel paese detentore della Coppa. Già nel 1906
avrebbe dunque dovuto svolgersi in Francia: a maggior ragione l’edizione seguente,
essendo la Francia vincitrice di due edizioni consecutive. Il proposito di Vanderbilt
era meno drammatico di quel che sembrava. Certo, l’organizzazione era stata
pessima, e su questo il giudizio fu unanime, sia sulla stampa americana sia su quella
europea. “Le organizzazioni di corse d’automobili non possono essere alla mercé del
sentimento e della sentimentalità del pubblico…La popolazione più educata ai
colossali spettacoli sportivi come quella nordamericana, ha dimostrato colla sua
condotta sufficientemente tragica il pericolo di chiamarla ad assistervi senza essere
sufficientemente prevenuta, trattenuta ed impedita con energia e materialità di
ripulsa eguale all’energia della sua convinzione e della sua malaugurata facilità di
adattamento. Vanderbilt ne è scoraggiato per sempre e Shirk si è ucciso”. In realtà,
come tutti i proclami enunciati a caldo, anche questo durò lo spazio di un mattino.
Era troppo il desiderio di vedere un americano arrivare a vincere la fatidica coppa per
arrendersi. Inizialmente Vanderbilt decise di costruire delle strade nuove, più
facilmente controllabili, dove far disputare l’edizione del 1907: ma il progetto venne
tirato in lungo, e a metà dell’estate apparve chiaro che non si sarebbe riusciti ad
organizzare la gara per l’autunno, né entro l’anno. Per l’edizione del 1908, da
disputarsi di nuovo a Long Island, a poca distanza dalla chiusura delle iscrizioni si
registravano soltanto cinque concorrenti (contro i diciotto della prima volta, i
diciannove della seconda, e i diciassette della terza). Vanderbilt si diede da fare con i
suoi amici europei per rinfoltire il gruppo, e iscrisse persino una sua vettura, la
Mercedes guidata da Bill Luttgen. E poté finalmente assaporare la gioia di vedere una
vettura americana guidata da un americano (Gorge Robertson su Locomobile)
tagliare per prima il traguardo, osannata da una folla per domare la quale la polizia
dovette ricorrere a violenti getti d’acqua.
L’America ce l’aveva fatta, il compito di Vanderbilt era concluso. Forse per questo il
suo interesse per la gara, che si svolse per l’ultima volta nel 1916, scemò
vistosamente. Cominciò ad interessarsi soltanto di navi e di mare, e l’ultimo colpo
alla sua passione automobilistica glielo inferse la tragica morte del suo unico figlio,
nel 1933, ucciso in un incidente stradale. Era diventata un’America difficile, colpita
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nel profondo da una crisi economica che divenne tragedia sociale. A chi gli chiedeva
cosa pensava di fare, Vanderbilt rispose: “Personalmente penso che trascorrerò parte
del tempo che mi rimane navigando, vedendo un po’ di mondo e cercando di restare
in salute. Se avessi venti anni di meno…oh, ma perché dirlo. Non ho venti anni di
meno”. Morì a 65 anni, nel 1944, a capo di una fortuna valutata 36 milioni di dollari.
*in cui debuttò sulle scene l’allora sedicenne Elsie Janis, la più giovane star di
Broadway
**le date di attività si riferiscono alla ragione sociale così come era nel 1906. Le
aziende potrebbero aver proseguito la loro attività oltre le date indicate, sotto altra
ragione sociale, o in altre sedi.
***non si presentò alla Vanderbilt. Fu sostituito da Lawyell su Frayer Miller.
BIBLIOGRAFIA
L’Auto d’Italia. Rivista Settimanale Illustrata per l’incremento de l’Automobilismo,
Milano
The Beaulieu Enciclopedia of the Automobile. By Nick Georgano, London, 2000.
Willie K. The saga of a racing Vanderbilt. By Beverly Rae Kimes, Automobile
Quarterly, vol. 15 n. 3
Enciclopedia dello Sport Treccani. Motori.
The Autocar. Settimanale, Londra, 1906
La Vie Automobile. Settimanale, Parigi, 1906
Donatella Biffignandi
Centro di Documentazione del Museo Nazionale dell’Automobile di
Torino
2006
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