Michael`s Fire - contemporary locus
Transcript
Michael`s Fire - contemporary locus
Michael’s Fire di Steve Piccolo Quando frequentavo le elementari, la nostra famiglia andava due volte l’anno a far visita a mia zia, mio zio e ai loro sei bambini. Una grande famiglia americana con la tipica casa di campagna, proprio il genere di persone che mi esasperava. Non sono mai stato a mio agio con lo stereotipo dell’americano di provincia: giardino con steccato bianco e grande auto. Erano vistosi, rumorosi, quasi violenti, certamente non molto interessanti. I ragazzini di provincia erano sempre molto competitivi. Potevo tenere testa ai migliori di loro negli sport che prevedevano velocità, agilità, strategia, ma odiavo le gare che contemplavano la forza bruta. Ero esile, smilzo, diligente. Forse la mia propensione per i libri veniva dal fatto che ero intimorito dalla forza fisica. I ragazzini americani con nomi dal normale suono inglese mi prendevano in giro anche per il mio cognome italiano, che ha un suono bizzarro per gli anglofoni. Piccolo. Il nome di un minuto, insignificante strumento musicale. Gli americani non sapevano nemmeno come pronunciarlo. Dicevano Piccòlo, con l’accento sulla prima O. Era irritante. Poi le cose peggiorarono. Una sitcom televisiva idiota prendeva in giro gli italiani (con un orribile personaggio chiamato Fonzie) e citava spesso una famiglia di vicini di casa, mai apparsa sullo schermo, i Piccolo. Erano sempre menzionati, specialmente la figlia Jenny, ma non si vedevano mai, questo suppongo fosse lo stratagemma comico. Verso la fine della serie, negli anni ottanta, Jenny finalmente apparve sullo schermo, con un taglio di capelli fuori moda e con la reputazione di essere una ragazza facile. L’attrice non era assolutamente italiana. Era la figlia di un famoso comico ebreo russo, un personaggio un po’ viscido, Phil Silvers, che nella stessa serie televisiva realizzò persino un cameo come Signor Piccolo. La cosa strana era che mia madre odiava Phil Silvers. Diceva sempre che era volgare e cinico. Ma neanche lei era italiana. C’era anche stato un calciatore di nome Brian Piccolo. Il suo triste destino --- morte per cancro testicolare, fatto che andava sempre bene per farsi una risata tra bulli americani di provincia - era stato documentato ampiamente, finendo anche in un terribile film strappalacrime intitolato Brian’s Song. Una delle cose forti di questo tipo era la sua grande amicizia con un attaccante di colore di nome Gayle Sayers. A quanto pare, fino alla fine degli anni sessanta le squadre di calcio separavano giocatori bianchi e neri, sistemandoli, quando erano in trasferta, in stanze di hotel diverse. Quando la politica razzista incominciò a sgretolarsi, Sayers e Piccolo diventarono compagni di stanza. Quindi la loro intensa amicizia, secondo il film e la stampa, fu un segno dell’America che cambiava. Tra i ragazzini americani di provincia, però, il nome Gayle aveva un che di femminile, così aggiunsero battute circa i gay agli insulti che già si accumulavano sui due giocatori. Era tutto molto irritante e avevo paura di lasciare la grande città. In città i ragazzini avevano cose, se non migliori, più urgenti a cui pensare. Tutti i ragazzi comunque, di campagna e di città, avevano un pensiero in comune: costruirsi una tana, un rifugio. Persino in grandi città c’erano ancora chiazze di verde, terreni liberi e case abbandonate dove si poteva tentare di marcare il proprio territorio. Penso che Mark Twain abbia giocato un ruolo fondamentale in questa cosa. Vicino alla mia scuola elementare c’era una piccola zona boscosa, dove trovammo piastre di cemento che sembravano lanciate da un gigante impazzito. C’era stato sicuramente un edificio ma era stato fatto esplodere, lasciando sul terreno pesanti lastre in cemento armato, spaccate e ammassate in modo casuale a formare caverne, fessure e tunnel, irti di appuntite barre di ferro. Ci era stato detto di starne alla larga perché era pericoloso, forse c’erano ancora candelotti di dinamite inesplosi che potevano scoppiare e ucciderci. Ovviamente nulla poteva essere più allettante. Vi giocavamo tutto il tempo. L’istinto tanificatore aveva anche a che fare con il formare delle bande. I ragazzini si raggruppavano in vaghe alleanze, non sempre con un nome specifico, ma che spesso nascevano a scuola oppure su una base geografica. Le aggregazioni raramente erano basate su razza, origine etnica o età, per lo meno nei luoghi dove ho vissuto io. Era più che altro una questione di affinità elettive. C’erano anche i lupi solitari, ragazzini che facevano tutto per i fatti loro, innalzando i propri monumenti privati e occasionalmente invitando amici per una partita a carte, una birra, una sigaretta proibita. I rituali di cameratismo maschile includevano gare di pisciata e di sputo, confronto di peni e sessioni di masturbazione collettiva. Le ospiti di sesso femminile erano rare, nonostante l’idea di attirarle per giocare al gioco della bottiglia o a strip poker fosse il principale pensiero di molti soci. La maggior parte dei nascondigli era fornita di porno (riviste rubate da edicolanti distratti, o quelle che si potevano trovare nei cestini, di solito male stampate e incredibilmente laide, piene di annunci con incomprensibili codici segreti). Scorte di cibo e sigarette erano spesso conservate in cestini da picnic sotterrati o nascosti. Per il fumatore neofita, un nascondiglio asciutto per un pacchetto di paglie al mentolo era essenziale, per evitare di essere scoperto con l’erba proibita una volta tornato a casa. La cosa migliore era trovare una capanna abbandonata, ma una baracca poteva anche essere costruita con rifiuti. Nelle città le aree boscose e i terreni liberi erano pieni della spazzatura più intrigante, la gente vi abbandonava qualsiasi tipo di roba. Uno dei miei esercizi mentali preferiti era provare a ricostruire la serie di eventi che aveva portato alla perdita di vestiti o di altri oggetti sparpagliati nel sottobosco. Come v’erano finiti una scarpa logora col tacco alto, un maglione rosa succinto, tre guanti e un rossetto alla base di un grande albero di pino? Ma torniamo ai miei cugini. Erano un gruppo turbolento, quattro maschi e due femmine, con una particolare aura di speciale stranezza. Tutti, tranne uno, erano afflitti da una malattia ereditaria debilitante. La medicina somministrata per curarla limitava la loro crescita, quindi erano bassi per la loro età e avevano degli strani denti grigi, anche quelli causati dai farmaci. Appena fui abbastanza grande da capire cosa fosse una malattia ereditaria, mi sentii confuso e tormentato sul perché i loro genitori avessero generato una famiglia così grande. Voglio dire, se sai che i tuoi bambini soffriranno e probabilmente moriranno giovani, perché continuare a farne ancora dopo il primo? Il crudele scherzo del destino era che il secondo figlio, in ordine di nascita, era stato risparmiato. Se era in salute lui forse c’era la possibilità che anche un altro lo fosse . Ma gli ultimi quattro avevano tutti ereditato la malattia. C’era una strana allegria forzata a casa loro. Un sacco di rumore, che forse proveniva da un fatalismo in stile ‘‘vivi ora e goditela finché puoi’’. Il loro padre, mio zio, era esile di costituzione e immutabilmente cordiale. La loro madre si truccava molto, anche con rossetto rosso brillante, e aveva l’abitudine snervante di baciarmi sulla bocca, invece del solito bacetto sulla guancia riservato ai ragazzini dai loro parenti. Fumava, cosa interessante. Il terzogenito era Michael, che aveva solo un anno più di me ed era di solito più calmo degli altri. Il mio preferito era suo fratello minore, un anno più piccolo di me, di indole molto tranquilla. Ma Michael era più interessante. Era forzuto, arrabbiato, con un costante sguardo truce sul volto. Rissoso. Di solito aveva graffi, lividi, segni di litigi e di contatto fisico su faccia, gomiti e ginocchia. Mentre gli altri cugini sembravano prendere bene la loro malattia e persino trovavano un’unione fiduciosa al riguardo, lui era ovviamente incazzato verso il padreterno, verso i suoi genitori, verso chiunque e qualsiasi cosa. Non riuscivo a non essere attratto dalla sua intensità, ma di solito non mi prestava attenzione. A volte i nostri sguardi si incrociavano quando, in mezzo al fracasso dell’intera famiglia, stavamo entrambi zitti, immusoniti. Lui mi faceva una specie di smorfia. Non sono mai riuscito a capire cosa significasse, però. Era come un alzare gli occhi al cielo. Un giorno --- penso fosse il Ringraziamento --- arrivammo alla grande casa in campagna sul presto, e ci sedemmo immediatamente intorno ad un sontuoso pranzo festivo. Non mi sono mai sentito a mio agio a mangiare con quella grande famiglia. Mia madre voleva che mi comportassi bene, che aspettassi il mio turno e dicessi per favore e grazie e in generale che mi comportassi come un bambino beneducato. Ma i sei cugini rendevano ogni pasto una mischia. Si rubavano vicendevolmente il cibo dai piatti, litigavano per l’ultima porzione di questo o quello, si rimpinzavano come se non avessero visto cibo da settimane. Mi chiedevo se era a causa della malattia o della medicina. O forse mangiavano cose buone solo quando c’erano visite. Forse i loro genitori avevano subdolamente instillato in loro questo senso di competizione famelica, come una figliata di gattini che litigano per raggiungere i capezzoli migliori della mamma gatta. Di certo non si doveva convincerli a mangiare. Niente ‘‘finisci le tue verdure’’. Probabilmente era solo una questione di numeri. È difficile controllare sei bambini. E la loro madre era molto rilassata, più interessata a fumare, bere e riposare che a tormentare i propri pargoli riguardo alle maniere da tenere a tavola. Io mi trattenevo, come mi era stato ordinato, dall’entrare nella lotta per fare il bis, e il cibo spariva presto. Dopo pranzo, d’un tratto Michael mi chiese di andare a fare una passeggiata nei boschi. Ero sorpreso perché non mi aveva mai considerato più di tanto. Gli chiesi se sarebbe venuto qualcun altro. Disse di no, solo noi, altrimenti non saremmo andati da nessuna parte. Dissi OK. Camminammo per la strada di campagna e ci addentrammo in una foresta con sentieri battuti e sottobosco rado, con un sacco di aghi di pino, insomma un tipico bosco ben tenuto del New England. C’era una grossa roccia vicino a un albero alto. Michael mi chiese di aiutarlo a spostarla. Era pesante, ma lavorando insieme riuscimmo a muoverla. Sotto c’era una tavola di compensato, di circa un metro quadrato. Michael la fece scivolare di lato sopra gli aghi di pino. C’era un grosso buco. Una scala di legno improvvisata conduceva giù nell’oscurità. Michael scese per primo, ed io seguii. La luce dal buco era sufficiente per permetterci di vedere che eravamo in un antro che conduceva a una grande caverna sotterranea. Michael raggiunse uno degli angoli bui e ritornò con una torcia. Poi salì di nuovo la scala e rimise al suo posto la tavola. Scese di nuovo e ritirò la scala, deponendola nella grande stanza. Altrimenti un nemico avrebbe potuto tirare su la scala e noi saremmo rimasti bloccati lì, immaginai. E se i nemici avessero rimesso la roccia al suo posto? Calcolai che avremmo potuto farci strada con la forza. Il fascio della torcia mostrava pareti di terra e radici che pendevano dal soffitto. C’erano sassi impilati in piccole piramidi, vecchie sedie, sedili di automobili e tavoli fatti con cassette d’imballo. Una scatola di plastica conteneva alcune bibite e snack, il coperchio assicurato con pesanti sassi per evitare che gli animali potessero aprirlo. Quel luogo era sorprendentemente asciutto, non aveva l’atmosfera umida e appiccicaticcia che mi sarei aspettato. Michael mi condusse attraverso una serie di stanze sotterranee, almeno tre o quattro, che si estendevano dalla stanza principale. Gli chiesi perché non crollasse tutto. Non era pericoloso? Sì, disse lui, era molto pericoloso. Avremmo potuto rimanere in trappola e morire di fame prima che i soccorsi ci avessero trovato. O potevamo soffocare. Nessuno sapeva che eravamo lì. Nessuno della famiglia conosceva questo posto. L’odore di radici e terra era intenso. Avevo paura e non ero sicuro di cosa stavamo facendo laggiù, ma ero anche meravigliato di quale incredibile nascondiglio avesse... ma era suo? Avevo paura a chiedere. Sembrava sapere dove fosse ogni cosa. Ma un lavoro d’ingegneria sotterranea come questo, con assi di legno, travi di rinforzo in alcuni punti, come una miniera... un bimbo di dieci anni avrebbe potuto fare tutto questo da solo? Sembrava più un lavoro di un gruppo di ragazzi più grandi. Comunque, ero troppo giovane per essere davvero in grado di fissarmi su questi dubbi, che presto vennero sepolti dal puro brivido di essere lì e dal desiderio di pensare che il mio cugino malato era incredibilmente fico e pieno di risorse. Alcuni muri erano stati coperti con strati di finta pelle, forse strappati a qualche vecchio divano. Erano stati disegnati simboli, e incise delle iniziali. Niente di particolarmente strano, per la maggior parte nomi e simboli di squadre locali. Un paio di quei tipici cuoricini incrociati, del tipo che si vedono intagliati nella corteccia dei faggi nei parchi. E c’erano birre in un contenitore termico. Michael beveva birra? Io non ne avevo mai bevuta una. Disse che non potevamo farlo, perché rimaneva l’odore in bocca e i genitori ci avrebbero scoperto subito. Come per le sigarette. Pensai che stesse solo provando a fare il gradasso. Poi smise di rispondere alle mie domande. Sembrava che cercasse qualcosa. Rivoltò le cassette senza preoccuparsi di rimetterle a posto. Per quanto strano possa sembrare c’erano anche dei cibi in scatola, zuppe della Campbell e roba simile. Poi lo trovò... una scorta di libri e riviste. Per la maggior parte Playboy, fumetti e altre cose stupide. Ma anche libri, libri che non avevo mai visto in biblioteca né a casa sugli scaffali. Disse che erano libri proibiti. Aleister Crowley è l’unico nome che ricordo. Non so perché ma mi è rimasto in testa. Mi chiedo ancora se erano le Confessioni, o il Libro delle Bugie. O qualcos’altro. E cosa erano gli altri libri? Avrei dovuto fare più attenzione. Improvvisamente Tom Sawyer e Huck Finn erano molto lontani. Misi insieme le travi e il cibo in scatola e mi ricordai dei film di propaganda che ci avevano mostrato a scuola l’anno prima, su cosa fare se i russi ci avessero attaccato con testate nucleari. Forse questo era ciò che rimaneva del progetto di qualcuno per un rifugio contro la bomba atomica! Forse lo avevano iniziato e poi abbandonato, o si erano trasferiti in un altro luogo. Non c’era tempo per chiedere. Mio cugino aveva un’espressione seria sulla faccia. Michael disse che mi aveva portato lì perché da solo non riusciva a spostare la roccia. E aveva bisogno di me per completare la missione. Era il momento di bruciare tutto e poi scappare attraverso il buco. Credevo stesse cercando di spaventarmi. Gli chiesi perché volesse distruggere quel posto fantastico. Non era il suo nascondiglio segreto? Disse che si erano infiltrate delle brutte persone e che dovevamo dare loro una lezione. Avremmo bruciato tutto, distrutto la scala e spinto la grossa roccia giù nel buco. Gli dissi che in questo modo avremmo potuto far scoppiare un grave incendio nella foresta, che qualcuno poteva rimetterci la pelle. Non volevo essere responsabile per quello. Stupidamente pensai all’Orso Smokey (ndt mascotte del corpo forestale degli Stati Uniti) e alle cose che ti insegnano al campo estivo. Gli incendi si possono anche diffondere sottoterra e riaffiorare in altri luoghi. Possono covare sotto la cenere per giorni o settimane prima di divampare di nuovo. Non era così? Alla fine si arrese, dicendo che sarebbe tornato e l’avrebbe fatto da solo, visto che io ero troppo femminuccia per distruggere la caverna. Decisi che era meglio correre il rischio di essere disprezzato piuttosto che beccarmi una punizione per aver appiccato un fuoco in una foresta. Tornammo a casa. Ma non prima che mi avesse fatto giurare solennemente di tenere il segreto. Nessuno, nemmeno i suoi fratelli e sorelle, doveva sapere del nascondiglio. Gli promisi di non dirlo a nessuno. Che avrei tenuto la bocca chiusa. Tom e Huck erano tornati. La mia idea della vita fuori dalla città era stata profondamente scossa. C’era qualcosa di vagamente adulto e inconsueto riguardo al nascondiglio di Michael. Qualcosa di interessante. Mi era dispiaciuto che fossimo andati via così presto. I miei genitori erano già preoccupati. Dove eravamo stati? Perché non avevamo detto a nessuno dove eravamo andati? Tutti erano molto turbati. Eravamo stati via per due o tre ore. Vi siete persi tutto il divertimento! Abbiamo fatto la corsa coi sacchi e la corsa a tre gambe e il tiro alla fune. Quella era proprio la mia idea degli orrori della vita in campagna. Ero felice di essermeli persi. Ancora bibite gassate, altri giochi. Persino touch football (ndt football americano senza protezioni), in un’ingenua imitazione della famiglia Kennedy in vacanza a Cape Cod. Presto sarebbe arrivato il momento di imbandire di nuovo il grande tavolo, per una cena veloce prima di tornare lentamente verso la città. Poco prima di cena stavo giocando a dama con mia sorella nella veranda. Michael ci guardava, in silenzio. Lasciai vincere mia sorella quindi chiesi a Michael se mi avrebbe riportato lì, la prossima volta che fossi venuto in visita. Non potevo farne a meno, volevo esserne sicuro. Non avevo detto a nessuno dove eravamo stati. Avevo mantenuto il segreto. Ma sembrava comunque arrabbiato. Poi, proprio di fronte a mia sorella e al resto della famiglia sparsa tra la grande veranda e il giardino, con grande sangue freddo mi diede un pugno sulla mascella, abbastanza forte da far male e da far gonfiare il mio labbro inferiore. Ero così sorpreso che non provai neanche a bloccare il colpo o a difendermi. Seguì il caos totale, genitori e fratelli urlanti... fu mandato in camera sua, senza cena. Protestai e dissi che non volevo che fosse punito. Dissi che era colpa mia, forse. Ma nessuno mi ascoltava. Mia madre disse che Michael aveva una vena di cattiveria. Era l’unico dei cugini ad essere così cattivo. Aveva dei problemi. Tutti mi chiesero cosa avessi fatto, perché si era arrabbiato. Non lo sapevo. Non sapevo cosa dire. Non potevo dire della tana sotterranea. Risposi che c’eravamo divertiti molto nel pomeriggio e che non sapevo che cosa fosse successo. In qualche modo mi sentivo colpevole... come se pensassero che gli avessi detto qualcosa di male sulla sua malattia o chissà cosa. Voglio dire, mi sentivo sempre colpevole quando ero con quei ragazzini perché loro erano malati ed io no. Ero fortunato. Io non volevo distruggere il mondo. Non avevo la sua rabbia. Non potevo dire che mi ero rifiutato di diventare suo complice in un grande atto di distruzione che avrebbe potuto corrispondere, tutto sommato, a quello che c’era nel suo cuore. Non dissi che aveva provato a fidarsi di me, che aveva scambiato il mio silenzio pensieroso per una affinità di carattere con la sua energia ribollente. Non dissi che avevo tradito la sua fiducia e lo avevo deluso, per pura codardia e mancanza di grinta. La ragione principale per la quale non avevo appiccato l’incendio era che avevo paura di essere scoperto e punito. Non mi importava realmente che la foresta bruciasse o che qualcuno potesse rimanere senza casa. Io avevo qualcosa da perdere. Michael stava già scontando una pena, condannato senza processo. Mi aveva dato un pugno ed io non avevo nemmeno provato a ridarglielo. Sapevo di meritarmelo. contemporary locus 2 - luoghi riscoperti dall’arte contemporanea Anna Franceschini e Steve Piccolo Cannoniera di S. Giacomo Città Alta, Bergamo, dal 29.07.12 al 09.09.12 www.contemporarylocus.it Progetto curato da Paola Tognon In collaborazione con Paola Vischetti Coordinamento progetto Guendalina Damone Responsabile ufficio stampa Alice Panti Ufficio stampa Francesca Ceccherini Responsabile guardiania e accoglienza Laura Grigis Supporto alle ricerche e accoglienza Elena Vitali e Laura Pellegrinelli Media Project Elisa Bernardoni Grafica Elisabetta Brignoli Fotografie Maria Zanchi e Simone Montanari Video Beatrice Marchi e Marco Chiodi Michael's Fire pubblicazione realizzata da Temporary Black Space, in collaborazione con contemporary locus 2 e Steve Piccolo - www.t-blackspace.com