Sami Modiano - I.P.S.S.E.O.A. “Amerigo Vespucci”

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Sami Modiano - I.P.S.S.E.O.A. “Amerigo Vespucci”
MIO PADRE GIACOBBE MI DISSE: “ TU DEVI RESISTERE”.
testimonianza raccolta da Michele Grimolizzi
Le leggi razziali emanate nel 1938 furono applicate anche a Rodi, isola greca
strappata ai turchi nel 1912. E’ proprio da Rodi che inizia la dura storia di Sami
Modiano, allora bambino di otto anni frequentante la terza elementare, studente
modello, sempre pronto a rispondere alle domande del maestro.
Una mattina il piccolo Sami, interrogato dal maestro, si recò alla cattedra per
apprendere un cattivo messaggio: “Samuel Modiano, sei espulso dalla scuola”. “Ma
che cosa ho fatto? Dove ho sbagliato?” chiese con un filo di voce al maestro, il quale
ponendogli la mano sulla testa gli disse: “Ora tornatene a casa, tuo padre ti
spiegherà”. Da qui inizia il racconto di Sami Modiano. “Quella mattina a Rodi, mi ero
svegliato come un bambino e la sera mi sono addormentato come un ebreo”.
Dopo l’emanazione delle leggi razziali del ’38, chi poteva tra gli ebrei abbandonava
l’italiana Rodi per un approdo più sicuro dove andare a vivere, come Canada,
America, Argentina e Africa.
Il 18 luglio del 1944 i tedeschi decisero la deportazione dei 2500 ebrei rimasti
ancora sull’isola. I tedeschi non avevano un mezzo per trasportare tutte le persone,
quindi reperirono cinque battelli per il trasporto del bestiame.
“Ci hanno stipati in cinquecento su ogni battello. Abbiamo viaggiato in condizioni
igieniche inspiegabili, in mezzo agli escrementi e ai liquami lasciati dalle bestie. Dopo
una settimana che siamo arrivati ad Atene, siamo rimasti per due o tre giorni e dopo
ci hanno portato davanti ad un treno. Sentivamo parlare di treni, ma nessuno ne
aveva visto uno vero...a Rodi non c’erano. Ci hanno stipati su questi treni ed è
iniziato il nostro viaggio per destinazione ignota.”
“Il 16 agosto del ’44 siamo arrivati al campo di Birkenau. Quando il treno si è
fermato i tedeschi hanno subito diviso gli uomini da una parte e le donne dall’altra.
Mio papà Giacobbe ha cercato di difendere mia sorella che veniva separata dal resto
della famiglia, ma i tedeschi l’hanno gonfiato di botte.”
“Al momento della numerazione mio papà, che mi precedeva nella “sauna”, aveva il
numero B7455 mentre io avevo il numero B7456. C’era un numero di differenza tra
me e mio papà, solo che lui non c’è più ma io ci sono ancora.”
“Mentre ero nel Lager A l’ufficiale medico tedesco faceva delle “Selezioni”, scartava
quelli che non erano adatti ai lavori forzati da quelli che potevano lavorare. I primi
soprattutto donne, bambini e anziani prendevano la strada delle camere a gas.
Una mattina io ed altri venti forzati siamo stati portati davanti alla camera a gas, noi
calmi, in silenzio, senza mostrare un minimo cenno di paura eravamo tutti
consapevoli di quello che ci aspettava.”
“Il caso ha voluto che quella mattina sia arrivato nel campo un treno carico di
patate. Quindi gli ufficiali tedeschi decisero di utilizzarci per lo scarico dei vagoni con
l’aiuto di un altro centinaio di prigionieri. Il tutto doveva essere fatto in fretta per
dare la possibilità al treno successivo di scaricare i prigionieri. Al termine del lavoro
gli ufficiali tedeschi ci indirizzarono di nuovo verso la camera a gas, ma videro che
noi indossavamo già il pigiama a righe, che conoscevamo le regole del campo e che
non avevamo dato fastidio nei mesi di permanenza, perciò decisero di mandare alla
camera a gas i prigionieri civili e ci fecero tornare al Lager da dove ci avevano
prelevato la mattina”.
“Nel campo di concentramento si moriva in ogni momento, i prigionieri che non ce la
facevano più si lanciavano verso il filo spinato ad alta tensione, altri si recavano in
infermeria dicendo di non stare molto bene, questi venivano inviati direttamente
alla camera a gas, mentre la morte più nobile era farsi sparare una pallottola
durante un falso tentativo di fuga”.
“Io ho avuto la fortuna che mio papà stava nella baracca 15 mentre io stavo nella
baracca 11 e ogni sera, tornato dal lavoro, le guardie mi permettevano di andarlo a
trovare.
Ogni sera mio papà mi ripeteva: Sami ma come sei combinato, sei tutto bagnato e
sporco. E io gli ripetevo “sto bene non ti preoccupare”. Dopo aver chiacchierato un
po’ con me, mio papà mi diceva vai a riposarti perché domani ti aspetta una
giornata dura di lavoro”.
“La mattina il Kapò ci svegliava alle sei del mattino, avevamo il tempo di andare alle
latrine e poi si faceva l’appello che durava un’ora. Si andava al lavoro fino alle sei di
sera, quando rientravamo si aveva diritto a una fetta di pane di 125 gr., un litro di
acqua sporca che loro chiamavano minestra e 25 gr. di margarina.”
“Mia sorella Lucia
era una bellissima
ragazza di sedici
anni, quando l’ho
rivista attraverso il
filo spinato era
molto provata.
Un mese più tardi
non l’ho più rivista.”
“Una sera vado da mio papà come al solito e lui mi dice che il giorno dopo si
sarebbe presentato in infermeria. Puntandomi il dito mi ha dato la sua benedizione
dicendomi “ tieni duro Sami, tu ce la devi fare”. Io ho tenuto duro e ce l’ho fatta. Il
tempo che sono stato al campo ho superato le “selezioni” per sette volte.”
Prima dell’arrivo dell’Armata Rossa i tedeschi decisero di far saltare i forni crematori
e le camere a gas per cancellare “la fabbrica della morte” che avevano messo in
piedi.
“Noi prigionieri ancora in vita ci misero in colonna e ci portarono al campo di
Auschwitz che dista da Birkenau tre chilometri. Lungo il percorso chi non riusciva a
stare in piedi ed a camminare veniva finito e buttato in un dirupo. Non ci dovevano
essere testimoni. A un chilometro prima dell’arrivo sono caduto a terra, due
prigionieri che mi stavano vicino mi hanno sollevato uno dalla parte destra e uno
dalla parte sinistra e mi hanno trascinato fino al nuovo campo, mi hanno lasciato
svenuto ma vivo vicino a una montagna di cadaveri. Di questi due “angeli” non sono
riuscito a sapere chi fossero. Io ho tenuto duro, ce l’ho fatta, ma sono rimasto
solo!”.