La villa sopra Is Stelladas
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La villa sopra Is Stelladas
Autore: Federico Fiadini Titolo : La Villa sopra Is Stelladas Annalisa stava sbandando. Ondeggiava, nel suo percorrere il marciapiede spedita, mossa da chissà quale frenesia, mentre l’universo mondo le si liquefaceva davanti agli occhi. Era passata una mezz’ora da quando, mentalmente, aveva tentato più volte di tener premuto il tasto rewind della sua memoria, per trovare il bandolo della matassa di tutti quei pensieri. Il risultato era più simile ad un velocissimo trailer di un film popolato da attori che, pian piano, avvinta in un forzato loop mnemonico, stava riuscendo a riconoscere. L’odore di benzina, che sembrava riempirle i polmoni da quella mattina, la distraeva a tratti dal processo di ricostruzione e geromanzia di quelle frattaglie d’immagini. Un sogno ad occhi aperti. Occhi che le trasmettevano un’immagine distorta di Cagliari, mentre la pelle della spalla scoperta proiettava nel suo subconscio la consistenza dell’intonaco dell’edificio di via Amat. Mattia e Isabella. Aveva riconosciuto i due bambini che salivano nella Fiat del marito. Che belli! Paolo invece non l’aveva mai visto così scuro in volto. Non riusciva ancora a focalizzare il ricordo, ma l’impressione che le aveva lasciato quel suo sguardo torvo e nel contempo dolente non era così difficile da comprendere. Avevano certamente avuto una discussione, una di quelle belle pese…in effetti qualcuno stava anche piangendo. Era chiaramente il pianto di un bambino ma di sicuro non uno dei suoi. Occhi asciutti e labbra incollate alle sue guance per salutarla, e poi di corsa in macchina da papà! Ora anche lei stava guidando. Sul cruscotto dell’auto di Elena, la migliore vicina di casa che le potesse capitare, c’era una scatolina di fiammiferi che stava catturando la sua attenzione. Pianto di bimba celato sotto le ultime notizie del radiogiornale. Per un attimo focalizzò la sua destinazione, attraverso il caleidoscopio d’immagini trasmessole dalle lacrime che continuavano a bagnarle gli occhi - mentre il film proiettato dalla sua memoria proseguiva nel suo riavvolgersi - ricordandole la prima volta che aveva tenuto in braccio Sabrina, la figlia di Elena. Salendo a passi lenti le scale le si parò improvvisamente dinanzi il ricordo chiaro di quella scatolina di cerini nell’auto dell’amica: una collina sormontata da una villetta circondata da una cancellata ed un cielo azzurro senza nuvole con su stampato “Monteclaro”. Le parole degli uomini erano riuscite a celare, nella generale indifferenza della comunità, migliaia di persone dietro un muro alto tre metri dandogli il nome di un’innocua pensione per la terza età: archiviati a vita! La terapia elletroconvulsiva non le aveva cancellato dalla mente quel terribile olezzo di carne bruciata di alcuni ospiti della Villa che, bombardati di neurolettici, non riuscivano a separarsi dalle sigarette accese che bruciavano le estremità delle loro dita. Adesso l’odore di benzina le stava davvero dando la nausea. Si fermò a metà salita, indecisa se indietreggiare e cercare un angolo dove rimettere, oppure proseguire nonostante tutto. Compiendo un giro su se stessa nell’atto di guardarsi un po’ intorno, per valutare il da farsi e nel contempo inspirare un po’ di aria pulita, si accorse di una coppia che la stava fissando. Una volta aveva sentito Elena gridare al marito “Prendo i bambini e mi ammazzo. Giuro che una volta o l’altra…” mentre lei si era messa a fare le boccacce a Sabrina per farla ridere. Aveva pochi mesi e sembrava la copia sputata di Paolo neanche l’avessero concepita loro! Fermò l’auto di Elena davanti ad una stazione di benzina. Aveva abbassato l’autoradio e accesso il condizionatore. Ora il pianto di prima pareva essere diminuito. Fatto il pieno s’era fatta mettere un euro di benzina in una bottiglietta per la parte finale del viaggio. Prima però doveva riportare Sabrina a casa dalla madre. Nell’asciugarsi le lacrime si accorse che la coppia che la osservava davanti all’ingresso della questura di via Amat era formata da Elena e il marito. Si vergognò perché le stavano osservando il vestito che indossava, strappato e bruciacchiato. Dov’era la loro bimba? Una mano le si poggiò sulla spalla, poi un’altra le afferrò un braccio. La voltarono: Signora Paba dov’è sua figlia? Dov’è Sabrina? Sono giorni che suo marito non riesce a mettersi in contatto con voi. Quei due poliziotti che la squadravano non sembravano promettere niente di buono per lei. Sabrina? Mia figlia? Pensò. D’improvviso si sentì smarrita. Erano dieci anni che le porte del cancello della Villa le si erano chiuse dietro le spalle. Era una dei sopravvissuti, una dei duecento. L’odore di benzina era di colpo rimontato. Lo stomaco rivoltato. Nel rimettere le si riempirono nuovamente gli occhi di calde lacrime e quello specchio distorto, che le nascondeva la visione delle scale di marmo della questura di via Amat, macchiate della colazione consumata all’autogrill, le restituì l’immagine di sua figlia seduta sul sedile del passeggero che, inzuppata di benzina, ardeva al suo fianco. In quell’auto che era sua, com’era suo il disagio e sua la figlia. Sua e di Paolo le cui grida ora sentiva distintamente provenire dalla strada. La pellicola dei suoi ricordi si era riavvolta, le sue narici ora inspiravano velocemente aria pulita e le grida disperate del marito, accorso in questura al seguito dei vicini di casa, l’avevano rimessa in contatto con il mondo. Dinanzi a lei il cemento delle responsabilità ,che aveva sostituito da tempo il verde di quel colle, era l’unica strada che le restava da percorrere per riabbracciare Mattia e Isabella. “Liberamente ispirato ad un fatto di cronaca realmente accaduto un paio d’anni fa (non in Sardegna)”