I DOMENICA DI QUARESIMA – Mt 4, 1

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I DOMENICA DI QUARESIMA – Mt 4, 1
I DOMENICA DI QUARESIMA – Mt 4, 1-11 – SIMBOLO: accessori
“Beati i poveri in spirito”
Il povero in senso biblico non è il pitocco, l’affamato, il disoccupato, è l’uomo normale che ha casa, figli,
lavoro, che veste come tutti gli altri, che va al mercato, all’ufficio, che si compra un soprabito se ha freddo
e va dal medico se è malato. È l’uomo normale, il ministro, il vescovo, il contadino, l’artigiano, il vecchio, il
ragazzo, la mamma, l’artista, il poeta, l’operaio.
È l’uomo!
Ma quale uomo può dirsi povero nel senso evangelico? L’uomo che sotto la spinta del dolore o sotto la luce
di Dio prende coscienza di ciò che significa essere uomo.
È l’uomo che scopre il suo limite, che entra nel mistero di ciò che significa essere creatura, non creatore.
È l’uomo che sa di essere malato, piccolo, debole, vulnerabile, ignorante, peccatore, bisognoso di tutto, in
balia della storia e della malvagità dei prepotenti, incatenato dalle condizioni avverse, reso umile, discreto
dall’esperienza dolorosa e angosciosa, assetato di aiuto e di amore.
Insomma il povero è l’uomo che ha scoperto il suo limite. Ed è beato e diventa beato se accetta tale limite
come proveniente dalle mani di Dio e per realizzare il Regno. Naturalmente in questa categoria entrano
anche i pitocchi, gli affamati, gli straccioni – e come c’entrano! – ma non sono i soli e non è detto che per il
fatto che siano senza cibo siano beati.
Solo chi accetta per amore la sua miseria diventa <<beato>>, altrimenti può essere, pur essendo povero
fisicamente, un ricco nello spirito.
Gesù parlando del povero e al povero, aveva nel suo pensiero l’umanità intera, non una categoria di
uomini. Non stava cioè facendo o iniziando un razzismo alla rovescia o predicando una religione adatta per
alcuni iniziati o per gruppi di fanatici.
Ponendo la beatitudine della povertà alla base del suo programma, la faceva entrare di colpo nella
universalità del reale.
Difatti nulla è più reale per ciascuno di noi del fatto di essere povero. Perché nascendo siamo poveri come
bimbi bisognosi di tutto; perché vivendo siamo poveri come creature assetate di tutto; perché morendo
siamo poveri che lasciano tutto. Non è forse stato definito l’uomo il povero di Jahve?
E Gesù stesso nn ha assunto per sé questo titolo incarnandosi? Dalla culla alla croce, da Betlemme al
Calvario, dall’esilio al lavoro, dall’incomprensione agli schiaffi?
Non ci sarebbe nulla di nuovo da parte di Gesù nel dirci che siamo poveri. È la realtà, e la vita è data per
capirla sempre meglio.
Ma il nuovo nella parola di Gesù è l’averci detto <<Beati>>, cioè l’averci spiegato che se noi accettavamo
con amore, con pace, con confidenza, con convinzione questà realtà di essere poveri, saremmo stati beati,
avremmo conosciuto già da questa terra un po’di felicità.
Non dubito nel dire che la maggior parte delle pene nella vita di ciascuno di noi sono più dovute allo sforzo
di reagire al reale che agli autentici mali che possono raggiungerci.
C’è chi passa tutta la vita a non accettarsi.
Ho conosciuto donne che sarebbero state meravigliose se non fossero state complessate da un piccolo
difetto fisico. C’è chi non è più capace di attraversare la strada senza pensare con tristezza di essere piccolo
di statura o di avere un fisico un tantino voluminoso o di avere la propria bellezza oscurata da una macchia
sulla pelle o da un naso un po’sproporzionato.
È triste ammetterlo ma è così.
La beatitudine della povertà potrebbe liberarci anche da queste schivitù e, resi liberi da Cristo, potremmo
vedere anche sul volto dell’uomo più deformato dalla natura comparire in trasparenza la bellezza suprema
dello spirito.
È per questo che Papa Innocenzo III, quando vide Francesco, tornò ad essere un po’ottimista. Aveva visto
l’uomo libero dai complessi, l’uomo reso autentico dall’accettazione di se stesso, l’uomo senza maschera. E
la maschera è la ricchezza. Non lo diremo mai con abbastanza forza.
La ricchezza del Vangelo non è <<ciò che ci occorre>>, è il di più, è il lusso, è l’ammucchiare, è il privare gli
altri, è il nascondere, è un badare solo a se stessi escludendo dal festino i fratelli. E li esclude anche quando
non si tratta di pane o di abito ma di cultura, di parola di Dio, di dignità, di pace, di amore.
Ma cosa significa dunque essere povero? Cosa intendeva Gesù proponendoci la beatitudine della povertà?
La risposta non è così facile (…).
Il fatto è che sbagliamo strada e vorremmo ottenere il frutto senza badare all’albero su cui deve nascere.
La povertà, la divina povertà, la sposa bella di Francesco è un frutto dolce e maturo, non la risposta a un
problema. Ed è un frutto dolce che nasce da un albero ricettacolo di tutte le dolcezze: l’albero dell’amore.
E l’albero dell’amore non è l’albero della giustizia sociale (sovente lo è anche ma non sempre), o l’albero
della filantropia, o peggio ancora l’albero della testimonianza orgogliosa di chi mi vuol dimostrare di essere
migliore o più generoso degli altri.
L’albero dell’amore è l’albero dell’amore e solo chi ama lo può capire e vivere la povertà evangelica.
Senza l’amore la povertà è mutilazione, non una beatitudine.
Ecco perché devo cominciare ad amare prima di pormi il problema di essere povero.
Sì, debbo cominciare di qui, devo amare i fratelli, amarli fino a sentirli miei simili, miei uguali. Se imparerò
ad amarli di amore vero, autentico, gratuito, tale amore mi spingerà molto molto lontano.
Innanzitutto mi spingerà a scendere. Di balza in balza mi farà scendere dall’altro della mia presunzione fino
all’umiltà dell’uguaglianza.
Naturalmente la povertà evangelica riguarda anche la povertà di denaro, di cibo, di vestito, di casa, e in tal
senso il <<povero>> come lo intende il vocabolario di oggi è a tutti gli effetti un <<povero evangelico>> e
può diventare <<beato>> se accetta per amore la sua indigenza.
Ma il discorso non è facile e dobbiamo davvero invocare la luce di Dio per penetrare un tantino nei gusti di
Gesù che non sono purtroppo i nostri gusti.
Ci vuole coraggio a dire <<beato>> a colui che ha difficoltà a pagarsi l’affitto, che non riesce a quadrare il
bilancio familiare, che deve rinviare l’acquisto di un soprabito o di un paio di scarpe.
Eppure è così, e Gesù per dimostrarcelo si è messo nella categoria di coloro che hanno tali difficoltà e ben
altre.
Eppure disse <<beati i poveri>>.
Forse, dicendo così, Lui vedeva più in là di noi.
Vedeva soprattutto il contrario, vedeva ciò che capitava a chi non era povero.
Vedeva dove conduceva la ricchezza, l’avarizia, l’accumular di denaro, l’attaccamento alle cose.
Vedeva e diceva convinto:
<<Guai a voi, ricchi,
guai a voi che siete sazi,
guai a voi…>>
II DOMENICA DI QUARESIMA – Mt 17, 1-9 – SIMBOLO: mani
“Beati i miti”
Quando Dio volle scegliere delle immagini per rappresentarsi davanti alla nostra sensibilità e alla nostra
fantasia, ne scelse due e sono le uniche: la colomba e l’agnello.
La colomba indica la vivacità, la dolcezza, la mobilità dello Spirito, e l’agnello rappresenta la mitezza, la
piccolezza, l’umilità della vittima divina, il Cristo.
L’uomo che si crede più astuto sceglie di preferenza il leone o un animale che gli somigli, pensando nella
sua idiozia che con la forza o il sopruso farà più in fretta a conquistare la terra.
È da tante migliaia di anni che si sforza di conquistarla e ancora non c’è riuscito. Si è che a leoni o a tigri o a
serpenti ricamati su bandiere all’attacco si oppongono altri leoni, altre tigri, altri serpenti che hanno la
stessa intenzione e che fatalmente vengono a cozzare con i primi. Ne deriva una storia terribilmente
semplice e terribilmente monotona: la sera del combattimento le opposte schiere della violenza riposano
in un lago di sangue, tra montagne di rovine e mali incalcolabili.
Ci si riposa un po’, ci si fascia le ferite più grosse, si dimentica un tantino la grande paura, si torna a
ricamare il leone sulle bandiere con una grinta più feroce e si ricomincia da capo pensando che questa sarà
la volta buona e che poi sulla nostra vittoria ci sarà la pace vera, perpetua, la nostra pace. Dite se il gioco
non è un triste gioco da giustificarsi solo con una parola: siete pazzi, tutti pazzi.
Ma non è questa forse la conclusione a cui giunse Gesù morendo in croce?
Non fu Lui a dire in un momento in cui non si è abituati né a scherzare né a mentire il giusto titolo
dell’uomo <<pazzo>>? Difatti morendo vittima dell’uomo, rivolse il suo sguardo di agonizzante verso il
Padre e pronunciò il giudizio che aveva dell’uomo: <<Padre perdona loro perché non sanno cosa fanno>>. È
questa la giusta definizione del pazzo.
Ma questo uomo definito da Gesù <<pazzo>> credete che accetti il titolo, che si convinca di esserlo?
Tutt’altro: semmai lo pensa per coloro che furono prima di lui, per coloro che non calcolarono bene le
forze nella guerra precedente, che commisero questo o quell’errore, ma lui… pazzo? Oh! No, e ve lo
dimostrerà di non esserlo.
Anzi, a proposito di pazzi, chi è il primo pazzo in mezzo a tutti? Ecco trovato: il primo pazzo è Gesù, e lo si
copre, nel processo, di una tunica bianca e lo si fa tacere con lazzi e scherni.
Sei tu il pazzo che vuoi vincere con la non violenza, che vuoi conquistare la terra cona la mitezza.
Noi non siamo pazzi come te, e certe stupidaggini non solo non le facciamo ma non le pensiamo.
Ma quanto è difficile credere nella mitezza!
In nessun caso come questo aveva ragione Gesù nel dire: <<Oh, se aveste fede come un granello di senape,
potreste dire a questa montagna: spostati.>>
Non è molto un granello di senape di fede, ma noi non ce l’abbiamo. In altre parole non crediamo a Gesù.
Siamo, senza volerlo, dall’altra parte. La sua parola ci urta, ci scandalizza, per lo meno ci stupisce. Come
fare a far cedere il lupo senza una sventagliata di mitra nel suo carpaccio?
Sì, la beatitudine non guarda il risultato, la beatitudine guarda il volto dell’Eterno, l’Immutabile, Colui che
disse: io ho vinto il mondo.
La beatitudine non sta nel vincere ora, sta nell’aver fede in Lui che ha già vinto.
La beatitudine sta nell’essere miti.
Il risultato non dipende sempre da noi e non sempre dobbiamo essere portati in trionfo. La beatitudine
può condurre anche alla morte, come è stato per Luther King e Gandhi, ma conduce alla morte beata, e
tale beatitudine non finisce quando le palle della violenza dilaniano il nostro povero corpo.
La beatitudine è eterna come Dio, e io affido a Lui, morendo a questa terra, il compito di fecondare il mio
sangue.
Il risultato forse verrà cent’anni dopo: Lui sa e io so in chi ho sperato.
Chi non sa separare la propria virtù, il proprio impegno da questo ipotetico risultato umano sarà un povero
rivoluzionario di questa terra di rovine ma non un rivoluzionario del Regno di Dio.
Se Gesù avesse guardato al risultato in quella sera del Venerdì Santo, avrebbe smesso di fare il mite e
avrebbe forse chiamato le legioni degli angeli a sterminare la terra. E poi? Che risultato sterminare la terra?
Bel gusto possedere una terra di morte! Una landa desolata dove Lui, il più forte, avrebbe dominato.
Che diremmo noi di Gesù? Sei contento ora? Sei venuto per avere dei cadaveri?
Sarebbe degna di Dio tale vittoria?
No. Gesù non chiama le legioni dei suoi angeli per distruggere il violento, per vincere il male. È fedele al suo
programma.
Anche Lui è beato nella sua mitezza e sa che vincerà con la mitezza.
Il tempo è dalla sua parte.
L’ultima parola non è stata ancora detta sulla scelta che farà l’uomo al termine della sua esistenza.
E la mitezza di Dio attende l’uomo in quell’ora.
È quindi un problema di fede. Ma, come davanti alla beatitudine della mitezza, Gesù ci chiama a guardare
al di là delle cose, al di là del contingente, al di là della storia.
Noi facciamo la storia non interessandoci di chi scriverà la storia e di che cosa diranno gli uomini immersi
nella storia. Noi facciamo la storia guardando al Regno di cui le beatitudini sono la legge fondamentale e di
cui Gesù è il Testimone eterno.
Se Gesù mi ha detto: <<beati i miti perché possederanno la terra>>, io devo possedere la terra con la
mitezza.
Non ditemi che è difficile; lo so, è terribilmente difficile, perché il nostro peccato è la mancanza di fede
nelle parole di Cristo e la mancanza di un cuore di fanciullo per avere il coraggio di andare fino in fondo
all’esigenza del Vangelo.
Ed è per questo che non siamo beati e le nostre notti sono tormentate dalla paura e la nostra azione è
caratterizzata dall’indecisione e dalla pusillaminità.
III DOMENICA DI QUARESIMA – Gv 4, 5-42 – SIMBOLO: Vangelo
“Beati i misericordiosi”
Quando arriveremo alla porta del Paradiso, dopo un adeguato numero di millenni di regolare purgatorio, e
ci troveremo ad affollare l’entrata specie con amici, parenti e conoscenti, e un angelo del buon Dio si farà
in mezzo a noi gridando <<ai vostri posti!>>, tutti – ne sono certo – ci precipiteremo regolarmente
all’ultimo posto e la ressa si farà non verso l’entrata ma nell’estremo angolino, specie se sarà un po’in
penombra.
Avverrà cioè esattamente il contrario di ciò che avviene qui in terra quando si cerca di prendere un filobus
in città e tutti i cristiani danno gomitate per arrivare primi.
Si è che nella lunga e paziente attesa fatta in quel luogo di pace e di preghiera che va sotto il brutto e
antipatico nome di purgatorio avremo avuto tutto il tempo di capire e credere fino in fondo che siamo dei
fieri mascalzoni e che se siamo giunti, pur arrancando, finalmente alla porta agognata della salvezza, lo
dobbiamo con certezza e senza equivoci alla misericordia di Dio.
Poi capiterà questo: che sarà tale e tanta la gioia di essere stati perdonati, veramente perdonati, da non
avere più nessuna voglia di metterci a discutere con qualcuno, specie dei più vicini, sui nostri presunti
meriti terreni, anzi…saremo presi dal gran desiderio di andare in giro tra la folla a trovare chi credevamo –
prima di partire dalla lontana terra – essere stata veramente causa di sofferenza per noi.
Peccato però che queste cose le comprenderemo solo lassù e che qui continueremo a dar gomitate per
passare avanti agli altri, a rotolarci nel letto pieni di rabbia per una mancata promozione, a tenere nel
cuore il rancore sordo contro l’imprudente marito che ha avuto il coraggio di dire: <<Ma sai che sei
noiosa?!>>
Oh se aprissimo i nostri cuori alla luce del giorno e se sfondassimo tutti i loro reconditi nascondigli, che
razza di letamaio ne uscirebbe! Quale miserabile serie di pensieri, di sentimenti, di antipatie, di odi, di
giudizi amari verrebbe alla luce!
E non contro i cinesi o i lontani abitanti della Papuasia ma contro il fratello che dice il breviario nel
medisimo coro, contro la sposa con cui condivido tutta la vita, contro mia madre che mia ha generato,
contro il mio collega d’ufficio con cui sudo il pane di ogni giorno.
Chi di noi non ha da dire o da fare <<contro>> qualcuno?
Ed è per questo che non siamo beati.
Perché la beatitudine incomincia proprio dal momento in cui abbiamo superato noi stessi, perdonando per
misericordia al fratello che ci ha offesi e mettendo così una caparra sulla misericordia di Dio verso di noi.
Beati i misericordiosi perché otterranno misericordia.
Non siamo beati perché non siamo misericordiosi, non siamo misericordiosi perché ci sentiamo superiori a
qualcuno.
La misericordia è frutto del più alto grado di amore, perché è l’amore che rende uguali e perché un più
grande amore ci rende inferiori.
Si potrebbero stabilire queste tre equazioni:
Chi non ama si sente superiore a tutti.
Chi ama si sente uguale a tutti.
Chi ama molto si fa inferiore a tutti.
Ognuno di noi si trova tra queste tre posizioni che sono i tre gradi di vita spirituale sulla terra:
Nella morte, chi non ama.
Nella vita, chi ama.
Nella santità chi ama molto.
La beatitudine della misericordia appartiene, come ogni beatitudine, alla santità e dobbiamo dire che Gesù
ha puntato molto in alto per aver avuto il coraggio e la fiducia di proporcela come impegno davvero
sublime.
È la beatitudine che ha vissuto Lui fino in fondo abbassandosi all’ultimo posto per amore e fino al punto da
essere rigettato come un malfattore da appendere al patibolo.
Ci saranno dei momenti in cui, per quanti sforzi tu faccia, sentirai difficoltà insormontabili ad amare tuo
fratello.
E questo a causa del suo peccato, della sua malvagità, della sua superficialità.
Ricordati allora che è soprannaturale saper amare quando si vede sul volto del fratello il male, la
menzogna, la sciatteria; e noi invece siamo terribilmente immersi nell’umano.
È allora che devi <<fare come se>> tu lo amassi con lo stesso amore di Gesù in croce.
Non si tratta di muovere i tuoi sentimenti: non ci riuscirai. Devi porre dei fatti.
I sentimenti seguono non precedono le verità razionali o soprannaturali.
Sarebbe impossibile imporre un amore di sentimento a un cuore esacerbato dal dolore per un’offesa
ricevuta, o peggio.
Ma si possono sempre porre dei fatti che giochino sulla volontà o la preghiera.
Ecco la soluzione del difficile problema dei rapporti umani, la forza per trovare il superamento di se stesso
per passare dalla <<porta stretta delle beatitudini>>: <<essere figli dell’Altissimo che è benigno per gli
ingrati e per i cattivi>>.
In fondo dobbiamo ricordare una cosa ed è questa: nei momenti di contrasto non dobbiamo
assolutamente invocare solo la verità o la giustizia. Se faremo così, ben presto saremo bloccati dalla stessa
giustizia e verità.
E mi spiego. Davanti al fratello che pecca, che mi ferisce, che mi insulta, che mi deruba, non posso non dire
<<ho ragione>>. Non posso chiudere gli occhi cercando di trovare delle scuse. Sì è vero: lui mi sta facendo
del male, lui mi sta derubando, lui mi sta schiaffeggiando. E lo dico e lo penso a mente fredda, perché la
verità è la verità. Ma anche a mente fredda continuo: pur vedendo chiaramente che tu hai torto ed io ho
ragione, non invoco la ragione, non invoco la giustizia, ma mi impegno sulla difficile strada dell’amore.
Altrimenti non potrò mai uscire dal dilemma perché alle mie ragioni, lui, il fratello, opporrà le sue, fino
all’infinito.
E qui ricordiamo una cosa: che è in nome della giustizia che si fecero le guerre; è per difendere la verità che
si scannarono tanti uomini, perché ognuno ha la sua verità da difendere.
Ma il pensiero di Gesù è un altro e lo dovremmo finalmente capire, specie dopo il suo esempio
inconfondibile. Gesù superò la giustizia con l’amore, vinse la verità col sacrificio di sé.
Oh se Dio non avesse trovato la strada dell’amore davanti all’uomo peccatore e se avesse solo invocato la
giustizia e la verità, come avrebbe superato per noi lo spartiacque della salvezza?
Gesù morendo in croce chiude il capitolo della sola giustizia e instaura sulla terra l’autentico capitolo della
<<misericordia>>.
IV DOMENICA DI QUARESIMA – Gv 9, 1-41 – SIMBOLO: occhiali
“Beati i puri di cuore”
Non so trovare una frase più bella per esprimere la beatitudine della purezza.
Il <<beati i puri di cuore>> di Gesù oggi lo tradurrei così:
Beato colui che sa abbracciare castamente l’universo.
Perché Gesù non è venuto ad opprimerci, è venuto a liberarci, non è venuto a privarci dell’abbraccio ma a
renderlo casto.
Esser puri significa abbracciare castamente le cose, essere impuri significa abbracciarle in modo libidinoso
tanto da sporcarle, violentarle, prostituirle. Non è così?
Si abbraccia castamente la propria sposa, non una donna comprata dalla nostra prepotenza di maschi.
Si abbraccia castamente il nostro lavoro, la nostra casa onesta, la nostra fatica, la nostra amicizia, non i
nostri furti, le nostre prepotenze, le nostre bestemmie, la nostra falsità, le nostre ossessioni.
C’è una bella differenza tra l’abbraccio creatore dello sposo e l’abbraccio senza unità del soldataccio di
ventura che sfonda la porta dei vinti e stupra la prima donna che incontra.
Il giorno in cui capiremo che Gesù non è venuto a negarci l’amore e l’unione ma a sublimarcela e a
rendercela più bella, più umana, più gaudiosa, più vera, avremo fatto un gran passo avanti nella
comprensione del Vangelo.
Ma sovente, troppo sovente vogliamo fare la nostra esperienza, e i nove decimi delle nostre disgrazie
nascono proprio da questo <<voler provare>>, da questa negazione pratica se non teorica della legge che
Dio ci ha dettato per amore.
Oh se potessero tornare indietro coloro che non han voluto ascoltare le beatitudini di Gesù! Coloro che
han preferito marciare sulla strada del <<possesso>> della materia e che passo dopo passo si sono ingolfati
nelle sabbia mobili del vizio e della colpa! Parlino qui i medici, parlino qui gli avvocati per dirci su quali
trame dolorose si è intessuto il peccato dell’uomo! Non c’è limite a tanta sofferenza, a tanti sbagli, a tanta
turpitudine, a tanta malvagità!
Quant’è amaro il cammino della colpa! Quante lacrime ha fatto versare il cattivo possesso delle cose, la
violenza di chi è forte e vuole diventare più forte, la libidine di chi ha e vuole avere di più, la menzogna
d’una lussuria chiamata amore, di una prostituzione definita <<la dolce vita>> ?
Ma possibile che l’uomo sia così cieco?
Ma possibile che la parola di Gesù debba realizzarsi solo tra contraddizioni così amare e che la visione della
beatitudine della purezza debba scaturire solo da un mare di fango e di schifezze?
(…) La beatitudine non consiste solo nell’evitare l’inferno dentro di me, consiste nello stabilirci il paradiso.
La beatitudine è il paradiso!
Il <<beati i puri>> è una cosa positiva, è una convizione profonda, è un vivere ora la felicità di questo
<<abbracciare castamente l’universo>>, è uno sfolgorare di gioia pur nel limite della legge morale e nella
disciplina che mi impone la carità.
Ed è per questo che Gesù ha detto: <<Beati i puri di cuore perché vedranno Dio>>.
Ecco l’aspetto positivo della beatitudine, lo scotto dello sforzo titanico di accettare l’impegno morale, la
risposta allo spogliamento di me, delle mie sensualità, della mia ricchezza, del mio orgoglio.
Vedere Dio! La purezza di cuore mi conduce alla visione di Dio.
Abbracciando castamente le cose imparo a distinguere sul fondo delle cose stesse i tratti del volto di Dio.
E chiedete poco? Se sapesse il mondo com’è grande la gioia di vedere Dio, brucerebbe inorridito i quattro
stracci della sua ricchezza per gettarsi di corsa sul sentiero di Lui!
Non lo sa. E chi può farglielo sapere? Chi profeterà su questo cimitero di morti la grande speranza di
vedere Dio? Non certo chi porta parole.
Bisogna convincere che l’apostolato di oggi si fa con la vita, che il Vangelo va gridato con la vita.
Vuoi dunque insegnare le beatitudini? Sii tu beato.
Vuoi dunque canatere la beatitudine dei puri di cuore? Sii tu puro di cuore.
Vedendo Dio attraverso le tue pupille abituate alla lotta per un abbraccio casto, darai ai tuoi fratelli la
nostalgia della purezza e la speranza della grande vittoria.
V DOMENICA DI QUARESIMA – Gv 11, 1-45 – SIMBOLO: veste bianca
“Beati i pacifici”
Non c’è limite alla dolcezza della preghiera come non c’è limite alla sua aridità: sono questi due segni
inconfondibili dell’azione di Dio in noi e mai li potete tenere in mano, mai sarete capaci di prevedere cosa
sta arrivando. L’azione è sempre in mano a Dio.
Ma non importa: Lui è Dio e io creatura; Lui sa, io non so.
Ed è giusto che qualche volta Lui sbarri il cammino alla mia fretta, cambi il disegno che era il mio disegno.
È Lui che deve impostare il colloquio, non io.
È Lui che vede nella notte più buia dov’è il sentiero su cui condurmi.
La cosa certa che mi dà lo sforzo di pregare o almeno di voler pregare è intanto la pace.
Provatevi e vedrete.
La resistenza che metterete alla noia, alla distrazione, alla natura, lo sforzo per dominare la sensibilità, la
fantasia e soprattutto la voglia di scappar via, vi farà entrare poco alla volta nella pace, una pace vera,
autentica, nuova, non di questo mondo.
È allora che prenderete gusto a una realtà che si forma nel fondo abissale del vostro essere e imparerete
meglio a conoscere tale realtà nei minimi particolari e a sentire l’eccezionalità del suo valore.
Naturalmente qualche volta la sentirete dopo aver corretto il vostro giudizio, protestato il vostro amore,
rinnovato il desiderio di cambiare vita, promesso di fare questo o quel distacco. In fondo è Dio che vi fa
prendere coscienza che non c’è pace nel disordine, non c’è adorazione nell’idolatria della creatura.
Non per nulla la pace è stata definita <<tranquillità nell’ordine>>.
È difficile sentire la pace di Dio senza prima aver fatto propositi seri di vivere con una sola moglie, di
perdonare chi ci ha offesi, di vivere del nostro lavoro, di disciplinare un po’i nostri istinti e le nostre voglie.
L’unità fra il vivere e il pregare, tra il giorno e la notte, tra il pensiero e l’azione, tra Dio e i fratelli è
indiscussa, e Dio ce la fa notare con tanta delicatezza ma con altrettanta fermezza. Ma una volta stabilito
quest’ordine, anche se sarà sempre un ordine molto relativo come la cartella d’un ragazzaccio poco
disciplinato ma che ama la sua casa: ben al di là delle nostre debolezze e delle nostre difficoltà, Lui ci
concede la gioia della sua intimità e della sua pace.
Non abbiate fretta, fratelli, a lasciare quel luogo di preghiera!
Non siate ossessionati dal tempo!
Godetevi quella pace più che potete.
Essa diventerà come una luce sul vostro volto. E sarà la luce di cui hanno bisogno i vostri fratelli quando
ritornerete da loro.
L’apostolato consiste nel portare quella luce, non il vuoto delle vostre parole.
La pace di Dio è una luce che irradia il volto di coloro che il Vangelo chiama i <<figli di Dio>>.
<<Beati i pacifici perché saranno chiamati figli di Dio>>.
Conquistato da questa luce che irradia l’uomo di pace, ho desiderato diffonderla. Intanto ho capito una
cosa con l’esperienza: che non è la virtù a creare la preghiera ma è la preghiera che crea la virtù.
La cosa è molto importante da sapere, perché generalmente siamo portati a fare il cammino alla rovescia.
Crediamo cioè che i risultati dipendono dai nostri sforzi, mentre dipendono molto di più dal nostro pregare
lungamente, pazientemente, coraggiosamente.
Se viene ora alla mia cella una coppia di sposi a dirmi: siamo in difficoltà, non ci amiamo più come prima,
sovente bisticciamo, io non esito a dire loro: pregate molto, migliorate il vostro rapporto con Dio e vedrete
che sarà facilitato il rapporto tra di voi.
Se viene da me un giovane a dirmi che si sente uno straccio nella volontà e umiliato dalle sconfitte morali,
io mi sforzo di convencerlo a non puntare più le sue carte sulla ginnastica o sullo yoga o sulle
considerazioni umane ma sulla grazia, sulla presenza di Dio, sull’Eucaristia e soprattutto sul beneficio di
passare almeno qualche ora al giorno in preghiera umile, paziente e il più possibile spogliata di sentimento
o di umana fantasia.
Nei casi gravi di tossicomani, di invertiti, di drogati, di alcolizzati, sono giunto ad avere tanta fede nella
forza della grazia e della potenza trasformatrice della preghiera da dir loro con sicurezza: Abbi fede, se vuoi
guarire, fa’ la cura del sole!!!
Beati i pacifici perché saranno chiamati figli di Dio.
Ecco il dono della pace: la figliolanza di Dio, la consapevolezza autentica e profonda di essere entrati a far
parte di una famiglia che ha Dio come padre e che vive già <<nei cieli>>.
Penso che questo sia l’estremo dono all’uomo che vive su questa terra, il superamento della barriera
terribile della paura e della morte, la vittoria radicale sulla sua angoscia di essere solo e di morire solo.
Non per nulla questa verità entra a far parte dell’unica preghiera che Gesù ci ha insegnato a dire:
<<Padre nostro che sei nei cieli
Sia santificato il tuo nome
Venga il tuo regno
Sia fatta la tua volontà
Come in cielo così in terra>>.
Dio è mio padre!
E se è mio padre, <<interviene sempre con me suo figlio>>…
Interviene nelle grandi come nelle piccole cose, interviene nel pane come nella salute, interviene nella mia
vocazione come nella mia morte. Proprio come ci ha raccontato Matteo al capo 6 del suo Vangelo: <<Ecco
perché vi dico: Non vi affannate per la vostra vita e di ciò che mangerete e di ciò che berrete, né per il
vostro corpo di che vi vestirete. La vita non vale forse più del cibo e il corpo più del vestito? (…)>>
La pace viene dalla certezza che queste cose sono vere.