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Il fisico dell'ambiente nell'epoca della scienza post-normale
Angelo Piano1, Marco Casazza1
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Dipartimento di Fisica, Università degli Studi di Torino, via P. Giuria 1, 10125, Torino
Premessa
Attorno agli anni '60 nacque la consapevolezza di potere unire, gradualmente, lo studio derivante da differenti
discipline afferenti all'ambito, principalmente, delle scienze della natura. In particolare si pensò di poter studiare
l'insieme delle condizioni fisiche, chimiche e biologiche nelle quali si svolge la vita. Da questo sforzo nacquero le
scienze ambientali.
Per riflettere sui frutti e sulle prospettive di questa disciplina è saggio fare qualche passo indietro, domandandosi, ad
esempio, come mai non nacque una scienza dell'ambiente sviluppata in maniera organica ai tempi di Galileo. La
domanda non è sciocca, se pensiamo che molti studi sulle caratteristiche fisiche dell'atmosfera (la misura della
pressione atmosferica, ad opera di Evangelista Torricelli; lo studio del ghiacciamento e della condensazione del vapore
d'acqua atmosferico, ad opera di Daniello Bartoli [2] ed alti studi ancora) avvengono nel medesimo secolo del Galilei.
Ci si doveva principalmente sganciare dalla fisica aristotelica, qualitativa e terrestre, dove l'esperimento era sostituito
dall'evidenza dei sensi [2]. La ricerca e l'eliminazione dell'attrito – altro problema serio, che Galileo trattò in molti scritti
– portò, evidentemente, a scartare lo studio di tutti i sistemi aperti in favore di quelli isolati, che erano essenzialmente
costituiti da Terra – altra massa. Per arrivare allo studio sui sistemi aperti bisogna fare un salto in avanti di più di tre
secoli.
La formulazione rigorosa del concetto di ecosistema non è ancora data. Possiamo, comunque, definire, alcuni passi
importanti [2]. Il suggerimento che l'energia solare sia originata dalla fusione di idrogeno ed elio è dovuto ad Eddington
(1920). La spiegazione dettagliata dei cicli nucleari alla temperatura e densità stellari è di Bethe (1939). La misura del
quasi vuoto di radiazione nello spazio interstellare si ha con la determinazione della temperatura della radiazione
elettromagnetica di fondo (osservazioni di Penzias e Wilson, 1965). Questi sono i capisaldi per valutare il bilancio
energetico dell'ecosistema Terra: una sorgente di radiazione (e di entropia) a 5.800 K di temperatura di corpo nero e un
pozzo di energia (e di entropia) a 3,5 K di temperatura di corpo nero.
La prima idea sulla teoria della CO2 risale a Tyndall (1861), che considerò l'effetto di questo gas, essendo poco
trasparente alla radiazione infrarossa in quell'intervallo di emissione tipico del nostro pianeta. Le misure di CO 2
sistematiche risalgono al 1958, a Mauna Loa, nella Hawaii, a cura di C. D. Keeling.
Lo studio della vita dal punto di vista fisico si evolve dagli dagli studi ottocenteschi sulla fisiologia (ricordiamo, per
amor di patria, tutti gli esperimenti compiuti dal Prof. Mosso, a Torino). L'evoluzione è segnata da domande più
generali su cosa sia la vita, come nel caso di Schrödinger [3] o di Bohr [4] o, per arrivare a recentissimi studi, di
Sertorio e Tinetti [5].
Lo studio dell'interazione tra chimica dell'atmosfera e chimica degli organismi viventi è trattato compiutamente nei
lavori fondamentali di Gordon MacDonald negli anni ottanta del secolo scorso (1982, 1989). Il bilancio globale fra
dinamica dell'ecosistema fisico, atmosfera e oceani, e la dinamica dell'ecosistema biologico, inteso come biomassa
totale (escludendo le dinamiche interne, cioè quelle delle specie), è trattato nel lavoro fondamentale di Robert May nel
1973 [6]. May però trascura la dinamica della componente fisico – chimica. La migliore approssimazione della
dinamica delle specie accoppiata ai flussi di radiazione è di James Lovelock (1988).
Agli ultimi quarant'anni risalgono anche gli studi più diffusi sui sistemi complessi. Bisogna ricordare, in tal senso, le
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intuizioni del Gesuita Teilhard de Chardin S.J., che ipotizzò un modello evolutivo della società umana in funzione
dell'entropia (intesa come funzione di probabilità) (1952) [7]. Dei rapporti tra complessità, strutture organizzate ed
entropia si inizia a leggere qualcosa di più diffuso nell'ultimo decennio, in riviste specializzate (e sono passati, oggi, più
di sessant'anni dall'intuizione di Teilhard de Chardin).
Queste premesse ci servono per affermare che stiamo trattando di una disciplina giovane e in fase di definizione,
oltre che di evoluzione.
Il rapporto tra uomo e natura
Il pensiero e le esplicazioni materiali riguardanti il rapporto tra uomo e natura sono frutto, immateriale e materiale,
delle domande di senso, che l'uomo si è sempre posto. Il vocabolo natura, dal punto di vista etimologico, deriva da
natus (in italiano: nato; generato) e -urus (participio futuro). Significa, dunque, ciò che è per generare (la forza, che
genera). Si tratterebbe, perciò, di affrontare il rapporto tra uomo e ciò che lo genera. Natura può anche indicare l'insieme
degli esseri che compongono l'universo. Quindi si può trattare, in questo ambito, del rapporto tra gli uomini e le altre
specie e oggetti presenti nell'universo fisico. Naturalmente sorge spontanea la distinzione tra oggetto animato e
inanimato, ma ne rifletteremo al termine di questo paragrafo.
È ovvio, in primis, che la descrizione di questa relazione è stata vista a partire dall'essere umano. Si tratta, perciò, di
una visione antropocentrica. Né potrebbe essere differente, poiché colui che riflette su questi temi, esprimendo il suo
pensiero, è l'uomo stesso e non un altro essere vivente (almeno nel caso da noi conosciuto e trattato). La natura, diceva
Aristotele, non ha fatto nulla di inutile e ogni cosa ha un suo scopo [8]. Ciò rientra in una visione finalistica, che è
propria della descrizione attuale di ogni essere vivente anche da parte della scienza attuale. Naturalmente una grande
influenza ha avuto la narrazione biblica (Gn 1, 28-31): «Dio li benedisse e Dio disse loro: “Siate fecondi e
moltiplicatevi, riempite la terra e soggiogatela, dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e su ogni essere
vivente che striscia sulla terra”. Dio disse: “Ecco, io vi do ogni erba che produce seme e che è su tutta la terra, e ogni
albero fruttifero che produce seme: saranno il vostro cibo. A tutti gli animali selvatici, a tutti gli uccelli del cielo e a
tutti gli esseri che strisciano sulla terra e nei quali è alito di vita, io do in cibo ogni erba verde”. E così avvenne. Dio
vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona.[...]». Poi pose l'uomo nel giardino dell'Eden, perché lo
coltivasse e lo custodisse (Gn 1, 15). Come noto il rapporto mutò dopo il peccato originale, causa di uno
sconvolgimento universale. Così la narrazione della Bibbia ci riporta (Gn 3, 17-18): «”[...] maledetto il suolo per causa
tua! Con dolore ne trarrai il cibo per tutti i giorni della tua vita. Spine e cardi produrrà per te e mangerai l'erba dei
campi”». Anche molti animali divennero feroci. Così l'uomo dovette riaddomesticarli. Dopo il diluvio universale, Dio
instaurò nuovamente l'autorità dell'uomo sul mondo animale (Gn 9, 2-3): «”Il timore e il terrore di voi sia in tutti gli
animali della terra e in tutti gli uccelli del cielo. Quanto striscia sul suolo e tutti i pesci del mare sono dati in vostro
potere. Ogni essere che striscia e ha vita vi servirà di cibo: vi do tutto questo, come già le verdi erbe.”». L'uomo è
diventato onnivoro.
Molti contemporanei di Galileo interpretavano la superiorità dell'uomo sulla natura, come supremazia e l'uomo
quasi come fine a sé stesso. Ogni animale, vegetale o minerale era visto come ricchezza a pura disposizione dell'uomo.
Addirittura l'addomesticamento degli animali era visto come bene per gli animali stessi. Naturalmente in quell'epoca la
visione orientale rispetto agli animali e la loro vita era ritenuta una pura follia. Siamo ben lontani, ovviamente, dalla
ripresa dell'idea di custodia, che era, anch'essa, presente nel libro della Genesi. Ma già alla fine del '600 in Inghilterra
Thomas Tryon aveva messo a confronto la moderazione degli indiani del Nord America rispetto all'approccio europeo.
Egli riconosceva, tuttavia, che la causa di tale rapporto fosse dovuta non alla religione, ma alla pressione dei commerci
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internazionali. Marx, in tal senso, osservò che questo sfruttamento nacque con l'avvento della proprietà privata e
dell'economia monetaria e non con la religione. Ciò che chiamava il “grande influsso civilizzatore del capitale” segnava
la fine della “deificazione della natura” [9]. Si potrebbe osservare, in realtà, che lo sfruttamento delle risorse era già ben
presente nel caso dei Romani in epoca pre-cristiana. Come si potrebbe considerare il fatto che l'adorazione della natura
da parte dei Giapponesi, non ha impedito loro di inquinare.
Gli uomini erano descritti in vario modo per sottolineare, attraverso le differenze (animale politico; animale che
fabbrica utensili; animale religioso; animale che fa cuocere i suoi alimenti; animale dotato di mente), le doti morali
ideali. Tra le caratteristiche – interessante a dirsi – dell'uomo vi è la proprietà privata (lo ricordano Martin Lutero, nel
1530, e Papa Leone XIII, nel 1891). Infine l'uomo è stato riconosciuto come capace di scegliere: dunque vengono
riconosciute le attitudini al libero arbitrio e alla responsabilità morale. A tutto questo va aggiunta la presenza dell'anima
nell'uomo.
Con l'avvento del meccanicismo, con cui si cercò di descrivere ogni manifestazione del mondo naturale, si
spiegarono gradualmente gli esseri appartenenti al mondo animale e anche l'uomo. Cartesio concedeva l'impulso
animale, negando, comunque, che nel gesto di picchiare, ad esempio, un cane, questo potesse sentire del male. Il gemito
era, piuttosto, il suono prodotto dalla compressione di un organo interno... Ulteriore passo nella distinzione tra uomo e
animale riguardava le “buone maniere”, per le quali l'uomo si distingueva (ancora oggi si parla di comportamento
bestiale, per indicare un atteggiamento o un gesto molto riprovevole). Infine, la distinzione tra uomini e animali portò
alla differenziazione tra uomini e uomini. Ovviamente, quindi, i criteri eugenetici settecenteschi, furono trasposti anche
all'interno della società umana.
Nel seicento si inizia a condannare la conoscenza della natura espressa dal “popolo” e dagli antichi scrittori,
derubricando tutto come “errori volgari”. Il disprezzo per la conoscenza del passato fu rimarcato ancor più
dall'introduzione di una nomenclatura specifica per i vegetali e per gli animali. Non bisogna meravigliarsi se i primi
naturalisti fossero compilatori di dizionari di nomi latini ed equivalenti vernacolari. L'avvento del microscopio
trasforma, poi, la visione della natura, che viene studiata, per la prima volta, come fine a sé stessa e non in relazione
all'uomo.
Mostrando gradualmente una maggiore simpatia per il mondo animale, l'uomo ha rivolto anche maggiori attenzioni
ai vegetali. Nel settecento piantare alberi e creare giardini divenne il passatempo dei ricchi inglesi. Naturalmente il
progressivo processo di “conquista” della civiltà, vedeva la diminuzione delle foreste, in favore dei terreni coltivati. Con
il termine di wilderness indicavano un luogo selvaggio, cupo, con vegetazione fitta, orribile, deserto e desolato.
L'atteggiamento iniziò a mutare per motivi pratici: c'era bisogno di legname da costruzione, per usi domestici e come
combustibile. Così compare la legge sul rimboschimento della Foresta Reale di Dean (1668). Le esigenze di protezione
della selvaggina furono un'altra ragione di inizio delle politiche di protezione forestale. Lo sviluppo di un senso estetico,
nella metà del '600, rispetto alle piante e ai fiori, contribuì ad un approccio differente. Già nel 1625 Sir George Heneage,
un gentiluomo di campagna, lamentava il fenomeno del disboscamento incontrollato. Contemporaneamente si sviluppa
la sensibilità per la coltivazione ornamentale. Nel 1661 John Evelyn sviluppo l'idea di città – giardino. Lo sviluppo
dell'estetica legata alle piante, l'inizio di un'opera di massiccia piantagione di alberi ad alto fusto e l'aumentata
sensibilità per le piante portò a mutare l'approccio estetico in approccio di conservazione nell'ottocento.
Lo studio del mondo naturale come cosa a sé porta, in due secoli, alla possibilità di formalizzazione di una filosofia
della natura per opera di Hegel (1770 – 1831) [10]. Per il filosofo la natura è l'idea (cioè ciò che è oggettivo e
dimostrabile) esterna a sé. Si tratta dunque di ciò che è manifestazione (esterna) di ciò che è oggettivo e dimostrabile.
La natura è diventata esterna e non legata all'uomo ed è studiabile attraverso la fisica (alla quale Hegel dedica parte del
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suo testo).
L'evoluzione del pensiero e delle conoscenze sulla natura e sul rapporto uomo – natura, esposto brevemente nelle
premesse, ha portato l'uomo a modificare la visione meccanicistica del mondo naturale, fino a sviluppare una visione
organica, che considera gli esseri viventi come suoi componenti [11]. L'estirpazione graduale dell'antropocentrismo,
naturalmente, porta in sé anche delle contraddizioni. Se esiste il rischio di una inaffidabile descrizione dei fenomeni
osservabili dal punto di vista scientifico (come condurre degli esperimenti, ovviamente contando sulla osservazione
umana, avendo una descrizione che è basata su un osservatore indefinito?), esistono dei problemi addirittura maggiori
dal punto di vista filosofico. La questione sollevata non è infondata. Infatti Jürgen Habermas, nella sua Teoria Critica,
sviluppa una idea di politica, in cui le classi di esseri i cui interessi debbano essere considerati, non sia solo limitata a
quella umana, ma anche a quella “non umana” [12]. Ma come sarebbe possibile valutare gli interessi delle altre specie
correttamente? Meglio considerare l'interesse del cavallo o dell'erba? Del leone o della gazzella? Risulta difficile, al di
là di alcune considerazioni generali, avere un sistema filosofico che sia eco-centrico. Proprio perché facilmente sarebbe
privo di un reale punto di riferimento fisso e coerente. Cosa rientrerebbe nella categoria del “naturale”, riferito, questa
volta, alla essenza e qualità insita negli specifici esseri presi in considerazione? Si otterrebbe, seguendo questa via, uno
sdoppiamento della definizione di natura, che non gioverebbe ad un approccio filosofico ordinato della materia da
trattare.
Considerando lo status quo nel descrivere il rapporto tra uomo e natura, dobbiamo considerare degli ulteriori aspetti,
che possono apparire come scontati. In primis l'ingresso massiccio delle tecnologie nella vita delle persone. Dal punto
di vista fisico, infatti, ciò ha delle implicazioni notevoli (in termini di flussi di massa e di energia). Ma anche dal punto
di vista filosofico le implicazioni sono ritenute interessanti o, perlomeno, curiose. Si sviluppa l'idea del “post-umano”,
partendo dalla domanda “cosa significa essere umani”, in un mondo in cui le tecnologie digitali stanno rimodellando le
nostre idee di spazio e di tempo e nell'epoca delle biotecnologie. La narrativa del post-umano evoca una realtà altamente
tecno-scientifica, nella quale, grazie alla cibernetica, che circonda gli esseri umani di intelligenza artificiale, realtà
virtuale, chirurgia plastica, terapia genica e riproduzione assistita [13]. In tal modo l'umanità sarebbe come formata da
un inseme uomo – macchina, avendo, come prodotto finale, una integrazione indistinguibile tra tecnologie e natura. Si
può, ovviamente, concordare con le conclusioni tratte da Elaine Graham, che solleva alcune questioni: il fascino
narrativo che questo tema riveste ha origine dalla riflessione, più antica, del rapporto tra uomo e sue invenzioni (il mito
di Prometeo insegna); si tratta di una riflessione, che ha senso più che altro rispetto al potere creativo degli esseri umani;
si tratta di una visione limitata e materialistica, che considera, da una parte, l'impossibilità di distinguere una essenza
dell'uomo e, dall'altra, il potere delle tecnologie di trascendere i limiti del corpo; si tratta di una prospettiva in cui o
l'uomo diventa balia delle sue macchine o tutto è a disposizione di un ego smisurato dell'uomo stesso.
Rimane, in tutto questo, una visione più equilibrata, dove l'uomo è custode nonché responsabile della salvaguardia
della natura, essendo pensante e dotato di libero arbitrio. Si tratta della prospettiva già indicata in Gn 1, 15. Per
rispondere alla domanda sul ruolo dell'uomo nella natura e nella società ([14], punti 14 e 15), la Chiesa ha sviluppato la
cosiddetta Dottrina Sociale (corpus di temi di rilevanza sociale, così definito dal Papa Pio XI), partendo dalla
considerazione che questi sono interrogativi essenzialmente religiosi. Il rapporto uomo – natura - riflessione nata da
considerazioni sulla società post-industriale fatte dal Papa Paolo VI nella Lettera Apostolica Octogesima adveniens trova compimento nelle considerazioni sul bene comune, cioè sull'insieme di tutte quelle condizioni della vita sociale
che permettono sia alle collettività sia ai singoli membri, di raggiungere la propria perfezione più pienamente e più
celermente ([14], punto 164). Si tratta di bene di tutti e indivisibile, perché soltanto insieme è possibile raggiungerlo,
accrescerlo e custodirlo, anche in vista del futuro. Del bene comune sono responsabili tutti ([14], punto 166). La
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destinazione del bene comune è universale ([14], punto 171). Ecco perché i beni della terra hanno destinazione
universale. Per lo stesso motivo esiste il diritto universale all'uso dei beni ([14], punto 171) ed esistono modi, limiti ed
oggetti di questo uso ([14], punto 172). Da qui si sviluppa sia l'idea di custodia della natura sia di sforzo comune per
ottenere le condizioni (per il presente e per il futuro) per l'accesso al bene comune.
Stabilita, almeno parzialmente - come vedremo - la descrizione filosofica del rapporto tra uomo e natura, ci
domandiamo come la scienza si rapporti a questo pensiero.
L'ambiente e la scienza post-normale
L'uso di un nuovo vocabolo si è affacciato per parlare di natura e, gradualmente, è diventato prevalente. Si tratta
della parola ambiente. Dal punto di vista etimologico, deriva da ambiens (participio presente di ambire, che significa
“andare attorno”). Si tratta, quindi, di ciò che circonda alcune cose oppure dei luoghi e delle persone in mezzo alle quali
si vive. Queste sono le definizioni originarie di ambiente. La prima più generale, la seconda più specifica. Esistono altre
definizioni: contesto o intorno in cui e con cui un elemento si rapporta o relaziona. Si parla anche di tutto ciò che
condiziona o può influire sul metabolismo o il comportamento di un organismo o di un essere vivente (ecologia). Si può
trattare dello sfondo in riferimento al quale acquista significato una azione dei singoli (pedagogia – si parla di ambiente
educativo). Inoltre si può considerare come tale il contesto socio-culturale in cui si svolge la vita degli individui e nel
quale l'individuo è stato educato (sociologia). Si può definire, inoltre, come l'insieme delle condizioni fisiche, chimiche
e biologiche in cui si svolge la vita (Strategia Nazionale per la Biodiversità, 2010). Con questo elenco qualsiasi
scienziato di buon senso, abituato a definizioni univoche, si troverebbe quantomeno perplesso. A conferma, nell'ultimo
documento citato, gli scrittori, quasi colti da ispirazione agostiniana, dichiarano che, nel momento in cui si volesse dare
una definizione (di ambiente) si entra in un altro ordine di idee e al posto dell'ambiente onnicomprensivo si presentano
delle fattispecie. (Strategia Nazionale per la Biodiversità, 2010). In questo modo lo scienziato formato può entrare
“serenamente” in una fase di sconforto. In assenza di una definizione univoca dell'oggetto in studio, infatti, è
impossibile fondare una ricerca organizzata e ordinata. Ritorneremo sul problema di assenza di definizione univoca di
ambiente dopo.
Da qui nasce la prima domanda ovvia: che cosa studio? La risposta più seria viene accettando la definizione
originaria di ambiente: ciò che circonda le cose; il contorno in cui e con cui un sistema in studio interagisce (cioè si
relaziona). Parlare di sistema, di contorno e di interazione ci riporta, quantomeno, a trattare di cose note per un fisico.
Naturalmente ci si potrà armare di metodi per osservare e misurare quantità note (massa, energia, tempo, ecc.),
arrivando fino alla descrizione dinamica degli ecosistemi, attraverso la modellazione dei flussi. Ovviamente non potrò
trattare in maniera completa – con buona pace di alcuni – di educazione o di sociologia. Potrebbe sopraggiungere una
provocazione: posso trattare l'ambiente (cioè il contesto) digitale della Rete? La risposta potrebbe essere, almeno
parzialmente, positiva, tenendo conto di poter effettuare un bilancio di masse e di energie. Masse relative al materiale
con cui si costruiscono e operano le infrastrutture materiali della rete ed energie complessivamente consumate (il settore
ICT consuma globalmente 1010 W [15]).
Una seconda domanda, meno ovvia, è: quale contributo, come fisico, posso dare allo studio delle scienze
ambientali? Negli anni '70, probabilmente, esistevano una serie di risposte plausibili: mi occupo di quantificare certe
osservabili ambientali per capire le relazioni tra di loro; mi occupo di misure ambientali per comprendere come le
attività umane influenzino l'ambiente; mi occupo di ambiente perché voglio capire le relazioni tra sistemi viventi e il
nostro pianeta; mi occupo di ambiente perché voglio capire come ciò che si trova al di fuori dell'ambiente terrestre
possa influenzare le condizioni osservabili (e misurabili) in un dato pianeta, come la Terra. Queste risposte erano vere
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sia perché di questo ci si è occupati, sia perché il contesto sociale, culturale e politico hanno concesso agli scienziati di
portare avanti il loro lavoro e di compiere il proprio dovere, con sforzi individuali e collettivi di notevole entità.
Parlare di concessione parrebbe avventato, se non si considerasse l'evoluzione del contesto, nel quale gli sforzi
teorici e sperimentali degli studiosi si sono svolti. Dunque è necessario considerare questi aspetti per comprendere
meglio il senso del verbo “concedere”. Dal movimento per la conservazione della natura, nato all'inizio del XX secolo,
si deve andare agli anni sessanta, per vedere nascere, in seguito ai dibattiti sull'uso dei pesticidi in agricoltura, del
movimento ambientalista, stimolato, tra le altre cose, dallo scritto Silent Spring di Rachel Carson (1962). Il libro era
dedicato ad Albert Schweitzer, che disse: "L'uomo ha perduto la capacità di prevenire e prevedere. Andrà a finire che
distruggerà la Terra". Il primo partito “verde” nacque in Australia nel 1972, mentre in Europa il primo movimento
politico ecologista nacque nel 1973 in Inghilterra. Una ulteriore spinta al movimento ecologista fu data dal Rapporto
sui limiti dello sviluppo, a cura del Club di Roma, nel 1972. Si parlava di conseguenze nefaste sull'ambiente dovute alla
crescita della popolazione e all'incontrollato uso delle risorse. Oltre ai partiti nacquero dei movimenti internazionali,
come il WWF o altri, nazionali, come Legambiente. I temi trattati si sono evoluti, passando dall'energia fino ai
cambiamenti climatici.
In quest'ultimo caso si è visto, nel 1988, nascere l'Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC), agenzia
inter-governativa, che si occupa di effettuare una valutazione sul cambiamento climatico (così si auto-definisce l'IPCC).
Non conducendo ricerche né occupandosi del monitoraggio dei dati, si occupa di revisionare e valutare le più recenti
informazioni scientifiche e socio-economiche rilevanti nella comprensione del cambiamento climatico, preoccupandosi
di riflettere una varietà di punti di vista e conoscenze. Approvando i reports dell'IPCC, i governi riconoscono l'autorità
dei loro contenuti scientifici1. Se l'ultima frase, per caso, agghiacciasse qualche scienziato... è ritrovabile nel sito
dell'IPCC (non è inventata: la frase in inglese è anche riportata sotto). Dunque l'autorità scientifica sui contenuti delle
conclusioni è validata dall'appoggio dei governi, ovverosia i governi sono i valutatori della bontà scientifica di report
dal contenuto tecnico. È come se un matematico si mettesse a valutare la bontà di un intervento chirurgico dal punto di
vista tecnico. Ma, mentre nel caso di un medico, i contenuti tecnici della sua professione non vengono messi in
discussione (ci mancherebbe altro: come sarebbe possibile, per un non tecnico, disquisire, ad esempio, sulla bontà di
una tecnica operatoria avanzata utilizzata da un chirurgo esperto?), in questo caso si afferma – almeno potenzialmente –
il contrario.
I contenuti di conoscenza sviluppati da uno scienziato, che si occupi di ambiente, sono valutati, dunque, prima dai
pari (peer review) e, poi, dalla politica. Per giocare sul vocabolo, l'ambiente in cui si svolge l'attività del fisico
dell'ambiente è, quindi, ben diverso da quello in cui si svolgono altre professioni. Da una umana e seria preoccupazione
sullo stato e sulla tutela del contesto in cui si può sviluppare la vita per gli uomini (questo è, in fondo, il preoccuparsi
dell'ambiente) si è giunti ad una situazione ben diversa. Diversa, sicuramente, da quella mossa, nelle intenzioni iniziali
anche dagli ambientalisti, semplicemente (e giustamente) preoccupati di avere una politica, che prendesse in
considerazione non unicamente i prodotti industriali o il derivante Prodotto Interno Lordo di una nazione (il problema
della forzante economica sui consumi energetici della tecnosfera sono, peraltro, irrisolti, arrivando oggi i prodotti
tecnologici a consumare cento volte di più della potenza necessaria all'intera specie umana per esistere ed agire [15]).
Ma il quadro del contesto in cui si possa svolgere l'attività di fisico dell'ambiente non si conclude qui. Nel periodo
del post-umano e del post-industriale, abbiamo, infatti, anche la scienza, che diventa post-normale. Basandosi sulla
gestione politica dei rischi, si è ritenuto che non tutti i problemi fossero risolubili in termini scientifici ortodossi [16].
1
By
endorsing
the
IPCC
reports,
governments
acknowledge
the
authority
of
(http://www.ipcc.ch/organization/organization.shtml#.UTUzIY7mpis). Consultato il giorno 5 marzo 2013.
6
their
scientific
content.
Cosicché per tutti i problemi di natura scientifica di interesse globale, con elevato grado di incertezza, presenza di
gruppi di interesse legittimo e necessità di soluzioni pratiche e politiche, si è iniziato a parlare di scienza post-normale
(PNS) [17]. In tale quadro, il futuro politico per la PNS è caratterizzato dalla sostenibilità, intesa come sopravvivenza
fisica, sociale e culturale [16]. Il futuro è visto, dai padri della PNS, come lotta tra i ricchi, per espropriare l'ecosfera
(l'idea di espropriazione è tratta da Marx) e dei poveri, che vogliono diventare ricchi. Insomma: tutte e due le categorie
impoveriscono il mondo, nella speranza di un futuro in cui i due pensieri si uniscano. In questo contesto il ruolo dello
scienziato è quello del consulente professionale [16]. Un consulente professionale che ha a che fare con: elevato grado
di incertezza (ma presenza di indirizzi, a volte notoriamente nefasti, che rientrano nelle applicazioni del principio di
precauzione); gruppi di interesse legittimo (legittimo è diverso da buono: posso essere legittimamente interessato allo
sfruttamento delle risorse acquifere poiché ho una industria, che consuma acqua, a discapito di chi si vede privato di
questa risorsa di primaria importanza); necessità di soluzioni pratiche – politiche; prospettiva secondo la quale l'uomo,
indipendentemente dalle condizioni sociali, porta alla rovina della natura (è la stessa narrativa della sovra-popolazione,
quando non si riesce a vedere che gli artefatti umani, che sono distribuiti non uniformemente, consumano cento volte di
più rispetto all'intera popolazione umana, fatta di poveri e ricchi). Tutto ciò è visto nel contesto della sostenibilità,
descritta sotto la chiave di lettura (filosofica) o dello sviluppo o della decrescita (entrambi sono ossimori: mantenere,
che è legato all'idea di sostenibilità, entra in contraddizione sia con crescita sia – anche se meno - con decrescita,
tenendo conto del fatto che i due termini sono prevalentemente usati rispetto alle pratiche economiche).
Conclusioni
In questa prospettiva il fisico, che si occupi di ambiente, rischia di trasformarsi inesorabilmente in: consulente
prezzolato, sottoposto al servizio e al giudizio della politica (il problema fu già intravisto, per tutta la cultura, da
Nietzsche, nel 1872); opinionista, che fornisce informazioni e soluzioni, utili a gruppi di interesse legittimo (siano essi
buoni o meno, non importa); fornitore di opinioni qualificate, a causa della formazione, ma pesate, nell'uso, in base a
criteri sociali, culturali ed economici; esperto di una materia il cui argomento di studio non è chiaramente definito, con
tutte le conseguenti limitazioni nella possibilità di ottenere dei risultati chiari ed effettivamente utilizzabili. Quali tristi
conclusioni per chi ha intrapreso questa via o dedicando una vita alla ricerca o avendo appena compiuto, da più o meno
tempo, una scelta per motivi anche ideali, nella speranza di fornire un valido contributo, che sia ascoltato in funzione
delle competenze acquisite.
Come agire e/o reagire? Una soluzione viene dal considerare il fisico delle origini: il filosofo naturale. Di fronte ad
una filosofia dell'ambiente, che tratta, senza fondamenti ontologici e metafisici, di etica e di estetica, è necessario
fondare una ricerca filosofica, che si distingua da quella di Hegel. Si deve partire sia dall'ontologia sia dall'etica.
Accanto ad una rifondazione in ambito ontologico, servirebbe una operazione di rovesciamento di tutto ciò che l'uomo
ha trasformato in idolo (la tecnologia; il computer; l'ambiente …), per compiere una trasvalutazione, cioè una
trasformazione dei valori (ad esempio eliminando la possibilità di concepire la validità o l'accettabilità condivisa di
un'etica utilitaristica in ambito ambientale, cosa che invece è tollerata e proposta da alcuni scritti pubblicati in riviste
internazionali di filosofia). La definizione di una epistemologia è altrettanto importante. Così come si può definire
meglio una estetica. Un sistema organico di tal genere è concepibile, stabilito un sistema di riferimento ed un suo
orientamento, che, se non neutrale, ci permetterà di riordinare ciò di cui vogliamo parlare. Il bello, definito dall'estetica,
e il buono, definito dall'etica, non bastano come metro di una buona scelta. Anche alcune dittature, come il nazismo,
puntano o hanno puntato su una sua articolazione particolare di bello e buono (si pensi al Trionfo della volontà di Leni
Riefenstahl, che non a caso sollevò, successivamente, delle questioni di confine tra arte e moralità). Accanto al buono e
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al bello dovrebbero trovarsi “il meglio”, “il gradito” e “il perfetto” (cioè ciò che conduce a perfezione, conducendo alla
realizzazione, alla soddisfazione e alla gioia piena). Ricondotto ad una prospettiva filosofica ordinata, l'uomo deve
tutelare il bene comune, al quale, a ragione, appartiene anche l'ambiente (come comunemente inteso, nel momento in
cui non venga discussa la definizione di questo vocabolo). E un modo per farlo è dato dallo studio e dalla ricerca. A quel
punto il fisico potrebbe tornare ad occuparsi serenamente, in maniera responsabile e anche utile, di fisica.
Bibliografia
[1] Bartoli, D., 1681. Del ghiaccio e della coagulatione. Roma: per il Varese.
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