Senza via d`uscita

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Senza via d`uscita
LIBRO
IN ASSAGGIO
SENZA VIA D’USCITA
BARBARA GOWDY
SENZA VIA D’USCITA
CAPITOLO PRIMO
In un pomeriggio torrido d'inizio giugno, Celia Fox fuma la penultima sigaretta che si
concederà prima di andare al lavoro, affacciata alla ringhiera della sua terrazza.
L'appartamento è piccolo e senz'aria (uno degli svantaggi di abitare al secondo piano di
una casa vittoriana), ma almeno lei e Rachel hanno questa terrazza e le foglie
dell'ippocastano, simili a tanti guanti, sono già abbastanza grandi da ombreggiare tutto il
giardino davanti. Dalla terrazza si vedono sia la strada sia il vicolo che si snoda dietro ai
negozi di Parliament Street. Di solito nel vicolo c'è movimento, ma ora, essendo una giornata
caldissima, di gente fuori non ce n'è, a parte un tizio senza gambe che sonnecchia sulla sua
sedia a rotelle dietro il cassonetto dello Shoppers Drug Mart e il muscoloso dog sitter che
tiene tutti i guinzagli con una mano sola come fosse un auriga. Passa il furgone di una ditta di
elettroriparazioni e Celia si domanda se i laboratori di quel genere vendano condizionatori
d'aria usati. Solo che lei il condizionatore non può permetterselo neanche usato. E comunque
deve finire di riempire la domanda d'ammissione alla scuola per modelle, se vuole arrivare
prima che scada il termine.
Ma vuole veramente? Non ha deciso. Nove anni le sembrano un'età un po' precoce per
cominciare a sfruttare economicamente 1'aspetto fisico, anche se a sentire il tizio dell'agenzia
una bambina di nove anni è già quasi decrepita. Quando Celia gli ha detto l'età di Rachel,
quello ha risposto che gliene avrebbe dati sette e mezzo, otto al massimo. «Ma non fa
niente» ha aggiunto gettandole un’occhiata come se fosse un'auto usata. «Può andare lo
stesso».
A quel punto Celia si era già pentita di aver accettato il suo invito per un tè freddo a Java
Ville; ma quando le aveva adocchiate in Parliament Street, il tizio gli era addirittura corso
dietro e in quei primi momenti era sembrato molto giovanile e simpatico.
«Adesso c'è il boom delle bambine» le aveva detto. «Per certe pubblicità di lusso una
bambina può anche arrivare a prendere intorno ai mille dollari, più un tot per ogni passaggio».
Rachel aveva alzato di scatto la testa dal libro. «Mille dollari?». «Esatto». «Potrei
guadagnare mille dollari?». «Sì,se facciamo conoscere il tuo visino». Poi il tizio aveva
informato Celia che per una bambina col potenziale di Rachella scuola rinunciava a farsi
pagare la retta.
«Cosa significa potenziale?» gli aveva chiesto Rachel.
«Bellezza» aveva risposto quello. «Tu lo sai che sei bella, no?». Rachel aveva alzato le
spalle. «Ti assicuro che è così». E aveva occhieggiato prima lei poi Celia un paio di volte,
evidentemente stuzzicato dallo stesso interrogativo che si poneva sempre chiunque le
incontrasse per la prima volta.
Celia aveva preso i dépliant e il modulo della domanda. «Dobbiamo prima leggerci tutto
per bene» gli aveva detto. Non aveva intenzione di soddisfare la sua curiosità; però non si era
offesa. Forse non viveva anche lei in uno stupore costante all'idea d'essere la madre
biologica di sua figlia? Aveva spinto indietro la sedia per alzarsi, ma poi, dalla testa reclinata
di Rachel, si era resa conto che alla fin fine la piccola stava per dirgli il fatto suo.
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E un attimo dopo era arrivato il chiarimento: «A volte c’è chi vuole sapere se sono stata
adottata. Be', la risposta è no».
«Ah, ecco» aveva detto il tizio.
«Mio padre è nero. E probabilmente si vede».
«Infatti mi pareva».
Con un nuovo accento d'orgoglio o di sfida, come se solo ultimamente avesse capito che
l'informazione non era poi così prevedibile, Rachel aveva aggiunto: «Abita a New York e fa
l'architetto. Si chiama Robert Smith».
«Fico» aveva commentato quello. «L'architetto a New York». Oppure il veterinario a
Hoboken. Celia non ne ha idea. Non è neanche sicura che il cognome sia Smith.
Rientra in casa e legge su Harper's un racconto deprimente in cui un marito asseconda il
bizzarro esaurimento nervoso di sua moglie. Poi dà una spintarella al gatto per farlo scendere
dal pianoforte e si esercita a suonare Bésame mucho per una mezz'aretta; dopodiché si
costringe a riprendere in mano la domanda d'ammissione. Mentre è ancora alla prima pagina
("Definireste vostra figlia particolarmente sensibile alle critiche?". "Vostra figlia ha paura dei
cani?"), torna Rachel annunciando che anche Leonard vuole fare il modello. Leonard Wong
accompagna Rachel a scuola e la riaccompagna a casa in cambio di lezioni di piano gratis.
Ha dodici anni e si comporta come se ne avesse quaranta ed è un ragazzino di principi morali
così nobili che manda la sua paghetta a un orfanotrofio di Shanghai.
«Non mi sembra tanto adatto» commenta Celia diplomaticamente.
«Lo so. Dovrebbe mettersi l'apparecchio. Però non gliel'ho detto». Rachelle si avvicina e
le preme una mano sulle spalle nude, appiccicaticce di sudore. «Ehi!». Ha visto il modulo.
«Com'è che questo sta ancora qui?». Agguanta il foglio.
«Ci stavo ripensando» confessa Celia «Ti va un bicchiere di limonata?».
«Adesso no» risponde Rachel freddamente.
Celia prende le sigarette. «Andiamo fuori».
«Siamo povere, ma è chiaro che a te non te ne importa niente» dice Rachel seguendola.
In terrazza si lascia cadere sul divano e comincia a tirare fuori gommapiuma da un buco del
sedile.
Celia si è affacciata alla ringhiera. «Smettila» le fa, indicando il divano. «Comunque, noi
non siamo povere».
«Se lo dici tu...».
«Siamo parsimoniose». Celia si accende una sigaretta. «Ma tu sul serio vuoi fare la
modella? Lascia perdere i soldi e rispondi: sul serio vuoi passare il tuo tempo libero a correre
da un provino all'altro, a cuocerti per ore sotto i riflettori senza mai un attimo di svago?».
«Il tizio ha detto mille dollari».
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«Non sta a te preoccuparti delle nostre finanze».
«Quando morirai di cancro ai polmoni mi dovrò preoccupare eccome». «Sto fumando di
meno». «Bugiarda». Rachel si alza con un saltello, va da Celia e le
si aggrappa a un braccio. «Bugiarda, bugiarda!» grida in maniera teatrale. «Fumi
addirittura più di Mika».
Mika, il padrone di casa nonché il loro amico più caro. «Mika non conta» dice Celia. «Lui
fuma solo quand'è in compagnia».
Rachelle lascia il braccio e si mette a fare qualche piroetta.
«Allora?» chiede Celia. «Mi autorizzi a strapparlo, il modulo?».
«Sei tu che l'hai preso». Rachel si slancia verso la ringhiera e lì si lascia scivolare a terra.
«Bene. Quindi, discorso chiuso».
Rachel si raddrizza. Ha notato qualcosa nel vicolo.
«Che c’è? » fa Celia voltandosi. Il tipo in carrozzina è sparito. Dal lato opposto della
strada, due piccioni beccano un cono gelato caduto a terra. «Che guardi?».
«Sei mezza nuda».
«Tanto non mi vede nessuno».
Rachel prende in braccio Felix, che è appena uscito in terrazza tranquillo tranquillo. «Mi
sa che stasera vengo con te» dice a Celia.
CAPITOLO SECONDO
Celia fa due lavori. Dal lunedì al giovedì, dalle dieci alle sei, sta da Tom's Video, un
piccolo videonoleggio indipendente di proprietà di Jerry, un tipo molto alla mano, ex campione
di pugilato (Tom era il cane, morto ormai da una decina d'anni). A volte l'attività langue, ma il
negozio è vicino casa e se Celia si fa sostituire perché Rachel sta poco bene o non ha
scuola, per Jerry non è un problema.
Fino a settembre Celia ci lavorava anche il venerdì; poi, grazie a una dritta di un cliente,
ha trovato un posto al piano-bar del motel Casa Hernandez, sul Lakeshore Boulevard, dove
suona standard jazz e blues il venerdì e il sabato, dalle cinque e mezza alle nove e mezza di
sera. A quel punto le dà il cambio Bernie Silver, che sta lì dai primi anni Settanta.
È la prima volta in vita sua che suona per denaro e addirittura rimedia qualche mancia. In
passato, Celia era quella che alle feste si metteva sempre al piano e accompagnava inni
natalizi e cantanti ubriachi. Molti le dicevano che se avesse inciso un disco sarebbero andati
a comprarlo di corsa e alla fine, dopo aver arrancato per un paio d'anni alla York University,
lei aveva deciso di dedicarsi alla musica, rinunciando a coronare la sua ambizione dichiarata
(ma mai spasmodica) di fare la sociologa. Prima ancora di ingranare col programma di
esercizi, tuttavia, aveva scoperto di essere incinta. Aveva appena ventun anni. In quel
periodo lavorava mezza giornata in cassa al Valu-Mart e abitava in un minuscolo trilocale con
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sua madre, che faceva la commessa nel reparto biancheria intima di Eaton's e per colpa delle
ginocchia malandate era stata costretta a chiedere l’orario ridotto. La cosa peggiore era che
sua madre se l'aspettava. Quando Celia rientrava tardi dopo una serata con gli amici, la
madre immancabilmente le faceva la predica sul controllo delle nascite, sui pregi
dell'astinenza e sul fatto che tirare su un figlio da sola, parola sua, non era una passeggiata.
Una volta, mentre lei se ne stava semplicemente sdraiata sul divano a fumare, le aveva
anche detto: «Tu hai ereditato i miei impulsi sessuali». Lasciarle credere che ci aveva visto
giusto era fuori discussione, benché quella non fosse certo la prima ragione per cui lei voleva
abortire. Allo stesso tempo, Celia tentennava e di nascosto continuava a prendere e a disdire
appuntamenti in una clinica di Parkdale. Poi, un venerdì notte verso la fine del terzo mese,
sognò di aver partorito un esserino mostruoso tutto peli; a quel punto si decise a fissare la
data per il martedì seguente. «Stavolta mi presento» promise all'infermiera. E si sarebbe
presentata, di questo è sicura, se solo la domenica sera, mentre stavano facendo i piatti, sua
madre non fosse stata colpita da un ictus devastante.
Malgrado tutto, Celia non ha mai creduto che l'ictus fosse una punizione divina seguita
alla decisione funesta che aveva preso due giorni prima; sembrava così, ma non era. Sua
madre aveva resistito sei mesi e mezzo. Celia andava all'ospedale tre volte al giorno per
darle da mangiare e mentre tagliava i cibi, mentre le avvicinava la forchetta, sua madre la
guardava con un'espressione di stupore infantile; sapeva ancora aprire la bocca e masticare,
ma nient'altro. Portava il pannolone e lei la cambiava dicendo: «Buon per me, mamma, così
imparo le cose che mi serviranno». La madre la guardava interessata, sbavando, e
sussultava quando le sue lacrime le cadevano sulla pelle nuda.
La morte arrivò il giorno prima della nascita, cosicché per il funerale bisognò aspettare
che Celia si fosse rimessa in piedi. Non furono in molti a partecipare. A parte un fratello
maggiore che viveva in Australia e che mandò un telegramma, la madre non aveva altri
parenti. Il padre di Celia non rientrava certo nel novero; quando Celia aveva otto anni se n'era
andato in Florida con una donna di nome Hazel Beals. Per quasi tre anni aveva continuato a
telefonare la domenica sera. A Natale e ai compleanni arrivava sempre qualche regalo sia
per lei che per la madre, qualche bel regalo -sciarpe di cachemire, bracciali di giada, una
cintura a bustino di pelle bianca -che sicuramente era sempre Hazel Beals a scegliere. Sua
madre abbozzava. «Sono soldi di tuo padre» sottolineava. Un giorno, tuttavia, questo padre,
che faceva il rappresentante di vernici, aveva perso il posto ed era sparito dalla loro vita in
maniera così drastica che, pur sapendo che si era trasferito a Fort Lauderdale e che sua
madre si era sempre aspettata di vederlo tornare in ginocchio, Celia paventava !'idea di
chiamarlo e neppure in sua memoria aveva trovato il coraggio di rintracciare il numero
telefonico per dargli una notizia che probabilmente lui avrebbe accolto con piacere. La
chiesetta, comunque, si era riempita solo per metà; dei trenta presenti, alcuni provarono a
consolarla dicendole che, vista la concomitanza degli eventi, forse la bambina era proprio sua
madre, se non altro nello spirito. Celia rispose che la cosa non la convinceva, senza
ammettere che all'ipotesi di un incontro nell'etere fra sua madre e la bambina aveva pensato
sia durante il travaglio sia -ma per un paio di secondi appena -quando aveva visto gli occhi
azzurri della piccola.
Come macchina hanno una Toyota Tercel a due porte, vecchia di dodici anni, con i sedili
di plastica strappati, lo sportello del passeggero bloccato e niente lettore cd. Per salire e
scendere, Rachel è costretta a passare dal posto del guidatore scavalcando la leva del
cambio. Almeno, però, c'è l'aria condizionata. Mika, che un condizionatore in casa potrebbe
permetterseIo, d1ce che Happy e Usmo pretenscono l'aria naturale, il che significa che la
preferisce lui. Da quando sua madre le ha detto che ogni tanto con la scusa dei cani Mika
diventa più loquace, Rachel ha notato che in effetti non ha tutti i torti. Ieri, quando Celia è
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tornata a casa dal parrucchiere con i capelli corti sparati e gli ha chiesto che cosa ne
pensasse, Mika ha guardato i cani e ha risposto: «Scicchissima», ovviamente facendolo
passare per un parere loro e non suo, come più tardi ha sottolineato anche Celia. «Secondo
lui fanno schifo» ha aggiunto sua madre ridendo.
Secondo Rachel non è che facciano proprio schifo; ma così sembra che abbia la testa
stranamente piccola e le si vede di più il cuoio capelluto. Che stia diventando pelata? Rachel
si sporge sopra il bracciolo per guardare meglio.
«Che c'è?» le chiede la madre. «Gli orecchini» mente lei. Celia porta ai lobi due minuscoli
pianoforti. «Sono proprio carini».
Sua madre le lancia un sorriso nervoso. Guidare la innervosisce. Tutto quanto la
innervosisce ed è per questo che Rachel non le ha detto niente del ciccione con il berretto da
baseball. Chissà perché stava guardando verso la loro terrazza. O forse guardava la casa,
che è una delle residenze storiche di Cabbagetown con tanto di targa commemorativa. Ma
allora perché si è nascosto dietro il cassonetto quando lei si è voltata? Be', forse non voleva
farsi scoprire. Se sua madre lo avesse visto, avrebbe chiamato la polizia. George, il cuoco del
motel, dice sempre che per Celia ci vorrebbe un fidanzato, così si darebbe una calmata. È
bella sua madre? Secondo Rachel sì. Ma non lo dice mai nessuno. Guardando la sua
testolina spennacchiata, Rachel si intristisce. «Tu ti ci metteresti con Mika?» le domanda. «Se
non fosse gay, dico».
La madre cambia marcia. «Non ci ho mai pensato».
«Però gli vuoi bene, no?».
[…]
Aggiornata il giovedì 7 agosto 2008
Edizione Mondolibri S.p.A., Milano
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