RELAZIONE: il processo allo straniero Dr. Marco Picco
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RELAZIONE: il processo allo straniero Dr. Marco Picco- Tribunale Torino Torino 25.11.2015 PROFILI PROCESSUALI Prima di iniziare occorre premettere che le novità legislative più recenti e, in particolare, le riforme in materia di assenza e di traduzione degli atti mirano a trasformare una serie di garanzie formali in garanzie sostanziali di effettiva conoscenza del processo e del suo contenuto da parte dell'indagato/imputato: pertanto, tutte le problematiche inerenti il processo allo straniero dovranno essere affrontate tenendo presente tale filo conduttore consistente appunto nella effettività delle garanzie previste dal legislatore. La traduzione degli atti Ovviamente il problema che si pone immediatamente quando si ha a che fare con cittadini stranieri sta nella comprensione della lingua italiana da parte di costoro: in proposito occorre immediatamente premettere che la nuova formulazione dell'art. 143 c.p.p., differentemente dal passato, impone che vi sia la prova positiva della conoscenza della lingua italiana da parte del cittadino straniero al fine di disporre o meno la traduzione degli atti processuali. Si deve, altresì, premettere che tale prova di conoscenza non deve essere attestata da un atto ufficiale, ma può desumersi anche da una serie di elementi presenti nel fascicolo processuale correlati alla comune esperienza in ordine all'acquisito apprendimento della lingua italiana , quali, ad esempio, la presenza sul territorio nazionale (ricavabile da dattiloscopici o da casellario). Tale affermazione risulta avvallata dalla giurisprudenza secondo cui: " In particolare, disciplina la traduzione degli atti l'art. 143 c.p.p. - norma per adeguamento ai dettati comunitari recentemente novellata dal D.Lgs. 4 marzo 2014, n. 32, art. 1 "Attuazione della direttiva 2010/64/UE sul diritto all'interpretazione e alla produzione nei procedimenti penali" -, che non connette automaticamente la traduzione degli atti alla condizione di straniero, bensì al presupposto che l'interessato non conosca la lingua italiana. Come era già stabilito anteriormente alla riforma normativa (v. sul punto Cass. sez. 5, 27 febbraio 2014 n. 33775 e Cass. sez. F, 4 settembre 2014 n. 44016), l'accertamento della conoscenza della lingua italiana costituisce un'indagine di fatto, che spetta al giudice di merito, e non è censurabile dal giudice di legittimità se è motivata in termini corretti ed esaustivi che ne dimostrino la congruità (tra i più recenti arresti Cass. sez. 4, 18 gennaio 2013 n. 39157; Cass. sez. 6, 17 aprile 2012 n. 28697; S.U. 29 maggio 2008 n. 25932). Costituisce quindi adeguata motivazione dell'accertamento di adeguata conoscenza quella che indica elementi specifici e correlati alla comune esperienza in ordine all'acquisito apprendimento della lingua italiana da parte di chi non l'ha avuta come madrelingua, come, per esempio, l'acquisizione della cittadinanza italiana (cfr. il caso trattato da S.U. 29 maggio 2008 n. 25932) e l'utilizzazione della lingua italiana negli incombenti processuali e nel contatto con il difensore (cfr. da ultimo Cass. sez. 5, 9 ottobre 2014 n. 52245, a proposito di un caso in cui lo straniero aveva risposto in italiano alle domande e aveva tenuto un colloquio di un quarto d'ora in italiano con il suo difensore). (Cass. Pen., Sez. III, n. 16794 del 25.3.2015; Rv. 263392). Segnalo anche Cass. Pen. Sez. 5, n. 52245 del 9.10.2014; Rv.262101 secondo cui "In tema di traduzione degli atti, l'accertamento relativo alla conoscenza da parte dell'imputato della lingua italiana, previsto dall'art. 143, cod. proc. pen., come modificato dal D.Lgs n. 32 del 2014, non deve necessariamente essere compiuto personalmente dall'autorità giudiziaria, in quanto la conoscenza della lingua italiana può essere verificata anche sulla base degli elementi risultanti dagli atti di polizia giudiziaria, rimanendo comunque salva la facoltà per il giudice di compiere ulteriori verifiche ove tali elementi non siano concludenti. (Fattispecie in cui la Corte ha considerato immune da vizi l'ordinanza del Tribunale del riesame che aveva ritenuto accertata la conoscenza della lingua italiana sulla base della annotazione della polizia giudiziaria in cui si dava atto che l'indagato aveva in italiano declinato le proprie generalità, risposto alle domande rivoltegli, affermato di non voler sottoscrivere alcun atto se non alla presenza del difensore, ed aveva intrattenuto con questi un colloquio di circa quindici minuti in lingua italiana). L'elezione di domicilio Tra gli atti processuali il più problematico in ordine alla tematica che ci occupa è senza dubbio l'elezione di domicilio, atteso che normalmente è il primo (e spesso l'unico) atto con cui l'autorità ha diretto contatto con il cittadino straniero. Atto, peraltro, che ha ricadute - sotto diversi profili - sia in tema di corretta notificazione degli atti, sia in tema di dichiarazione di assenza. Anche in questo caso, affinché si possa ritenere valida la dichiarazione di domicilio occorre che, in caso di cittadino straniero, venga accertata da parte dello stesso la conoscenza della lingua italiana, nei modi sopra esposti ovvero o mediante accertamento diretto da parte della P.G., che ne dia atto a verbale o mediante ulteriori elementi ricavabili dal fascicolo processuale che attestino che al momento del compimento dell'atto il soggetto era in grado di comprendere la lingua italiana. Nel caso, invece, che l'indagato non comprenda la lingua italiana l'elezione di domicilio deve essergli tradotta sempre mediante l'assistenza di un interprete e la mancata traduzione comporta la nullità della elezione stessa con conseguente nullità delle successive notificazioni effettuate presso tale domicilio. Sul punto Cass. Pen. Sez. Sez. 1, n. 32000 del 31.5.2013; Rv.256113 secondo cui: "In conformità all'interpretazione estensiva dell'art. 143 cod. proc. pen., operata dalla Corte Cost. con sentenza n. 10 del 1993 in applicazione del diritto di difesa costituzionalmente garantito, si deve ritenere che "il diritto all'interprete", previsto dalla norma del codice di rito, sia inclusivo del diritto per l'imputato straniero, che versi in una situazione di effettiva ignoranza della lingua italiana, alla traduzione del decreto di citazione la giudizio, diritto la cui violazione integra una ipotesi di nullità generale a regime intermedio ai sensi dell'art. 178 cod. proc. pen., lett. c e art. 180 cod. proc. pen. (Sez. U, n. 12 del 31/05/2000, Jakani, Rv. 216259). Il diritto di difesa, riguardante in primis il diritto di comprendere l'oggetto dell'accusa, assicurato a chiunque, cittadino o straniero, dall'art. 24 Cost., comma 2, unitamente al principio stabilito dall'art. 6 comma 3 CEDU, secondo cui ogni imputato ha diritto di essere informato "nella lingua che conosce" del contenuto dell'accusa, inducono a ritenere che la garanzia del "diritto all'interprete" debba valere anche per la redazione del verbale di dichiarazione o elezione di domicilio effettuato da uno straniero che non conosce la lingua italiana, trattandosi di un atto tipico del procedimento avente incidenza immediata sul diritto di partecipazione al processo, comportando la notificazione presso il domicilio dichiarato o eletto dell'atto di citazione a giudizio, la cui conoscenza è indispensabile per garantire all'imputato il diritto primario di partecipare al proprio processo. Poiché, nel caso in esame, la non conoscenza della lingua italiana da parte del ricorrente è circostanza attestata dagli stessi ufficiali di polizia giudiziaria che hanno redatto il verbale di identificazione ed elezione di domicilio presso il difensore assegnato d'ufficio, ne discende la nullità della elezione di domicilio, tempestivamente denunciata dal difensore nel giudizio davanti al Giudice di pace, con conseguente invalidità del decreto di citazione a giudizio notificato presso il domicilio eletto e della sentenza pronunciata, la quale deve essere annullata con rinvio al Giudice di pace perché proceda a nuovo giudizio, previa rinnovazione della citazione, debitamente tradotta e notificata nei modi previsti dall'art. 157 cod. proc. pen., e segg." (nello stesso senso Cass. Pen., Sez. 1, n. 2263 del14/05/2014; Rv. 261998 e Cass. Pen. Sez. 1, n. 26705 del13.6.2013; Rv. 255972). Si precisa, quindi, che la mancata traduzione della elezione di domicilio a soggetto che non comprende la lingua italiana comporta una nullità generale a regime intermedio. Per il futuro, anche alla luce della normativa sull'assenza, sarebbe opportuno predisporre moduli multilingue per l'elezione di domicilio che consentirebbe di superare molti dei problemi sopra esposti. Traduzione sentenze Anche la traduzione della sentenza può suscitare alcuni profili problematici sotto due aspetti: 1. rapporti tra il deposito della traduzione della sentenza ed il decorrere dei termini per proporre appello. 2. necessità di disporre sempre la traduzione della sentenza, o solo in caso di esplicita richiesta, nonché anche in casi particolari, come nel caso dell'imputato irreperibile o dell'imputato latitante. Sotto tale ultimo profilo si è espressa di recente la Suprema Corte in generale sul tema degli atti processuali rilevando che: "L'obbligo di traduzione degli atti processuali in favore dell'imputato alloglotta che non comprende la lingua italiana, anche a seguito della riformulazione dell'art. 143 cod. proc. pen., è escluso ove lo stesso si sia reso, per causa a lui imputabile, irreperibile o latitante, con conseguente notificazione degli atti che lo riguardano al difensore". (Cass. Pen., Sez. 2, n. 12101 del 17.2.2015; Rv. 262773). In relazione al fatto, invece, se sia necessaria esplicita richiesta da parte dell'imputato per la traduzione della sentenza l'art. 143 c.p.p. appare orientato verso la traduzione di tutte le sentenze (eccettuate probabilmente quelle a imputato irreperibile o latitante). Si evidenzia un principio affermato però, prima della riforma dell'art. 143 c.p.p., secondo cui: "L'imputato alloglotta che non conosca la lingua italiana non ha diritto ad ottenere la traduzione della sentenza "tout court" ma solo se ne faccia espressa richiesta, sulla base dei principi contenuti nell'art. 3 della direttiva 2010/64/UE , che impongono agli Stati membri di assicurare la traduzione scritta dei documenti fondamentali per l'esercizio del diritto di difesa, ivi comprese le sentenze. (Fattispecie riferita al regime precedente al recepimento nell'ordinamento interno della citata normativa europea, avvenuto con il D.L. n. 32 del 4 marzo 2014, emanato successivamente ai fatti oggetto della decisione)"(Cass. Pen., Sez. VI, n. 32 del 30.12.2013;Rv. 258558). Tale principio risulta confermato anche da Cass. Pen., Sez.VI, n. 1199 del 8.1.2015; Rv. 261639, in tema di M.A.E. in cui incidentalmente sembra dire che, anche dopo riforma, la traduzione della sentenza deve essere richiesta da parte dell'imputato (richiamando espressamente la pronuncia prima citata) - nello stesso senso sembra andare anche Cass. Pen., Sez. I, n. 23608 del 11.2.2014; Rv. 259732. Tale interpretazione appare funzionale al fine di evitare molte traduzioni inutili. In ordine ai rapporti tra traduzione della sentenza e appello le menzionate sentenze n. 1199 del 2015 e 23608 del 2014 risolvono il problema sostenendo che a seguito di specifica richiesta da parte dell'imputato i termini per l'appello decorrono per l'imputato dal momento del deposito della traduzione. In particolare la prima sentenza afferma che: "Ne discende, ancora, che a fronte di una specifica richiesta in tal senso formulata, i termini d'impugnazione non potrebbero che decorrere dal momento in cui la motivazione della decisione sia stata messa a disposizione dell'interessato nella lingua a lui comprensibile (v. Sez. 1, n. 23608 del 11/02/2014, dep. 05/06/2014, Rv. 259732)". Anche altre pronunce vanno in questo senso, cioè che il termine per l'impugnazione decorre dal deposito della traduzione della sentenza. Seguendo questa linea, nel caso di traduzione di tutte le sentenze anche senza richiesta, il termine per l'appello dell'imputato decorrerebbe dal deposito della traduzione. Vi sono tuttavia anche altre pronunce che non fanno discendere alcuna conseguenza dal deposito della traduzione dell’atto processuale (vedi Cass. Pen. Sez. II, n. 4283 del 8.1.15; Rv. 263191 in tema di sequestro ). Lingua veicolare/lingua madre A questo punto si pone il problema della lingua di traduzione degli atti: anche alla luce delle direttive europee appare corretto privilegiare la traduzione degli atti mediante utilizzo della lingua madre dell'indagato. In caso di impossibilità o eccessiva onerosità di traduzione degli atti nella lingua madre del predetto gli atti devono essere tradotti nella lingua ufficiale del paese d'origine o mediante lingua veicolare (inglese - francese - spagnolo) in qualche modo conosciuta dal cittadino straniero. In caso di comparizione dell'imputato all'udienza si ritiene comunque corretto nominare un interprete di lingua madre dell'imputato, qualora la sua lingua madre non corrisponda alla lingua ufficiale del paese d'origine e non sia in grado di comprendere altra lingua c.d. veicolare (ad esempio soggetti che parlano solo lingua wolof o hausa). Incidentalmente, in tema di nomina dell'interprete, si rileva come la S.C. abbia evidenziato che: "In tema di traduzione degli atti, anche dopo l'attuazione della direttiva 2010/64/UE ad opera del D.Lgs. 4 marzo 2014 n.32, la mancata nomina di un interprete all'imputato che non conosce la lingua italiana dà luogo ad una nullità a regime intermedio, la quale deve essere eccepita dalla parte prima del compimento dell'atto ovvero, qualora ciò non sia possibile, immediatamente dopo e, comunque, non può più essere rilevata né dedotta dopo la deliberazione della sentenza di primo grado o, se si sia verificata nel giudizio, dopo la deliberazione della sentenza del grado successivo". (Cass. Pen., Sez. III, n. 30891 del 24.6.2015; Rv. 264330). Rapporti tra espulsione e diritto di difesa Parte su U.P. Sul punto la Cassazione ha poi affermato che “la pronuncia della sentenza di non luogo a procedere a seguito di espulsione dello straniero dal territorio dello Stato non è consentita una volta che sia stato emesso il decreto che dispone il giudizio o altro provvedimento equipollente” (Cass. Pen., sez. I 47454 del 30.10.2013; Rv. 257471) Si segnala una giurisprudenza di merito secondo cui tale condizione di improcedibilità possa essere applicata anche nel corso del dibattimento, ora per allora, nel senso di ritenere applicabile tale condizione nel caso in cui il GUP non abbia rilevato l’avvenuta espulsione dell’imputato ed abbia comunque emesso decreto che dispone il giudizio sulla scorta dei seguenti argomenti: - La Corte Costituzionae avrebbe avvallato la possibilità di procedere a interpretazioni estensive dall’art. 13 comma 3 quater, in caso di procedimenti a citazione diretta (ordinanza 143 del 2006) - Sarebbero perseguite esigenxze deflattive Il problema si fonda sul rapporto tra diritto di difesa e rilascio del nulla osta all’espulsione dello straniero. Sul punto si è pronunciata Cass. Pen. 25706 del 2008 che richiamando quanto esposto dalla Corte Costituzionale con a sentenza 142 del 2006 ha ritenuto che la “previsione del rientro difensivo di cui all’art. 17 del T.U. sull’immigrazione non può considerarsi tamquam non esset in termini di apprestamento a beneficio dell’espulso delle condizioni per un ragionevole esercizio dei diritti di difesa, dì da fugare il sospetto di illegittimità della esecuzione immediata dell’espulsione per violazione degli artt. 11 e 24 Cost”. PROFILI SOSTANZIALI Reato di cui all’art. 6 del decreto legislativo 286 del 1998. In ordine al reato di cui all’art. 6 comma 3 del decreto legislativo 286 del 1998 si deve premettere che, secondo l’orientamento della Suprema Corte: “Il reato di inottemperanza all'ordine di esibizione del passaporto o di altro documento di identificazione e del permesso di soggiorno o dell'attestazione della regolare presenza nel territorio dello Stato è configurabile soltanto nei confronti degli stranieri regolarmente soggiornanti nel territorio dello Stato, e non anche degli stranieri in posizione irregolare, a seguito della modifica dell'art. 6, comma terzo, D. Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, recata dall'art. 1, comma ventiduesimo, lett. h), L. 15 luglio 2009, n. 94, che ha comportato una "abolitio criminis", ai sensi dell'art. 2, comma secondo, cod. pen., della preesistente fattispecie per la parte relativa agli stranieri in posizione irregolare” (Cass. Pen., Sez. Un, n. 16453 del 24.2.2011; Rv.249546). Occorre quindi prova positiva di regolarità in Italia, in ogni caso utile acquisire dattiloscopici per verificare se soggetto sia stato raggiunto da ordini di espulsione. Reato di cui all’art. 10 bis del decreto legislativo 286 del 1998. La legge delega 67 del 2014 ne prevede l’abrogazione Oggetto di pronuncia della Corte di Giustizia con sentenza 6.12.2012 Sagor – interessante il fatto che l’espulsione può essere disposta solo nel caso di pericolo di fuga, altrimenti deve essere concesso termine per allontanamento volontario. Reato di cui all'art. 13 comma 13 d. lgs 286 del 1998 in ordine a tale reato occorre evidenziare che la Corte di Giustizia UE si è espressa circa la compatibilità di tale reato con la direttiva rimpatri. Il giudice del rinvio chiedeva alla Corte di valutare "se le disposizioni della direttiva 2008/115 ostino all'esistenza di norme nazionali degli Stati membri che prevedano la pena della reclusione sino a quattro anni per un cittadino di un paese terzo che, dopo essere stato rimpatriato non a titolo di sanzione penale né in conseguenza di una sanzione penale, abbia fatto nuovamente ingresso nel territorio dello Stato, in violazione di un legittimo divieto di reingresso, senza che tale cittadino sia stato previamente sottoposto alle misure coercitive previste dall'art. 8 della direttiva 2008/115 ai fini del suo pronto ed efficace allontanamento". La Corte prende le mosse dai principi già enunciati nella propria giurisprudenza riguardo al rapporto tra la direttiva rimpatri ed il diritto penale dei singoli paesi membri. Tale direttiva, non prefiggendosi "l'obiettivo di armonizzare integralmente le norme degli Stati Membri sul soggiorno degli stranieri , non vieta, in linea di principio, che il diritto di uno Stato membro qualifichi come reato il reingresso illegale di un cittadino di un paese terzo in violazione di un divieto di ingresso" (§ 20, in cui vengono "per analogia" richiamati i precedenti Achughbabian e Sagor"). Tuttavia, "secondo costante giurisprudenza, uno Stato membro non può applicare una disciplina penale idonea a compromettere il conseguimento delle finalità perseguite dalla suddetta direttiva, privando così quest'ultima del suo effetto utile" (§ 21, in cui viene ancora citata Sagor); ed "è ben vero che, conformemente alla giurisprudenza della Corte, le norme e le procedure comuni sancite dalla direttiva 2008/115 sarebbero compromesse se lo Stato membro interessato, dopo aver accertato il soggiorno irregolare del cittadini di un paese terzo, anteponesse all'esecuzione della decisione di rimpatrio, o addirittura alla sua stessa adozione, un procedimento penale idoneo a condurre alla reclusione nel corso della procedura di rimpatrio in quanto tale modo di procedere rischierebbe di ritardare l'allontanamento (§ 26, dove, oltre ai precedenti già citati, si rinvia alla sentenza El Dridi)". Il passaggio centrale nella motivazione è immediatamente successivo a quello appena citato. Dopo aver infatti ricordato come nei precedenti in materia fosse stata dichiarata illegittima la disciplina penale che anteponesse alle procedure di rimpatrio la detenzione in sede penale dello straniero irregolare, la Corte afferma che "ciononostante, il procedimento penale dinanzi al giudice del rinvio riguarda la situazione di un cittadino di un paese terzo, il cui soggiorno è irregolare, nei confronti del quale, per mettere fine al suo primo soggiorno irregolare nel territorio di uno Stato membro, sono state applicate le norme e le procedure comuni previste dalla direttiva e che entra nuovamente in tale territorio trasgredendo un divieto di reingresso (§ 27). Pertanto, le circostanze di cui al procedimento principale si distinguono nettamente da quelle oggetto delle cause conclusesi con le sentenze El Dridi ed Achughbabian, nelle quali i detti cittadini di paesi terzi, il cui soggiorno era irregolare, erano oggetto di un primo procedimento di rimpatrio nello Stato membro interessato (§ 28)". La Corte ricorda poi come nella sentenza Achughbabian fosse già stato precisato che la direttiva non ostava all'applicazione di misure penali nei confronti degli stranieri nei cui confronti fossero state esperite infruttuosamente le procedure amministrative di rimpatrio, e che continuassero a permanere illegalmente nel territorio dello Stato: "si deve dunque considerare, a fortiori, che la direttiva non preclude la facoltà per gli Stati membri di prevedere sanzioni penali a carico dei cittadini di paesi terzi, il cui soggiorno sia irregolare, per i quali l'applicazione della procedura istituita da tale direttiva ha condotto al rimpatrio e che entrano nuovamente nel territorio di uno Stato membro trasgredendo un divieto di ingresso" (§ 30). Sostanzialmente la Corte ritiene conforme alla direttiva rimpatri l'art. 13 comma 13 trattandosi di secondo ingresso irregolare e non primo ingresso. In ordine, poi, al termine quinquennale del divieto di reingresso occorre valutare quando vi siano decreti di espulsione che prevedono un termine superiore (decennale) rispetto a quello di 5 anni. Sul punto la Suprema Corte ha stabilito che: "Integra il reato di cui all'art. 13, comma 13, del D.Lgs. 25 luglio 1998 n. 286, la condotta del cittadino di un paese terzo che rientra,senza autorizzazione, nel territorio dello Stato prima del decorso di cinque anni dal suo allontanamento forzato, anche ove nel provvedimento di espulsione era indicato un termine superiore ai cinque anni in violazione di quanto indicato all'art. 11 par. 2 della direttiva 2008/115/CE del Parlamento Europeo" (Cass. Pen., Sez. I, n. 5878 del23.10.2013; Rv. 259155). Si segnala una giurisprudenza di merito che, in caso di decreto di espulsione con un termine superiore ai 5 anni, ha disposto la disapplicazione in toto dell'atto amministrativo, con conseguente assoluzione dell'imputato. Infine, in ordine ad eventuali giustificazione di reingresso dovute alla presenza del coniuge sul territorio nazionale si rileva che tale evenienza non fa venir meno il reato, atteso che, in questi casi, lo straniero deve attivare la procedura di ricongiungimento. Sul punto la S.C. stabilisce che: "La condotta di reingresso non autorizzato nel territorio dello Stato non è scriminata dall'avere lo straniero, destinatario di un precedente provvedimento di espulsione, contratto matrimonio con una cittadina comunitaria (nella specie, di nazionalità rumena) domiciliata nel territorio nazionale, poiché, al fine di poter legittimamente attuare il proprio diritto al ricongiungimento con il coniuge, il soggetto espulso deve preventivamente richiedere l'autorizzazione alle Autorità italiane" (Cass. Pen., Sez. 1, n. 6876 del 5.12.2014; Rv. 262347). Si evidenzia il caso del cittadino rumeno espulso a seguito dell'adesione della Romania alla UE, secondo cui:"L'adesione della Romania alla Unione Europea a decorrere dal 1° gennaio 2007 non determina la liceità del reato di reingresso nel territorio dello Stato dello straniero espulso commesso, prima di tale data, da cittadino rumeno". (Cass. Pen., Sez. 1, n. 27628 del 5.6.2012; Rv. 253330). Reato di cui all'art. 495 c.p. In ordine al reato di false generalità la S.C. ha più volte affermato il principio secondo cui, qualora l'imputato, di cui si ignorano le reali generalità, abbia in diverse occasioni declinato generalità differenti, il reato di cui all’art. 495 degve ritenersi commesso tante volte quante sono le attestazioni discordanti rese nelle occasioni precedenti l’ultima: questo per il fatto che l’imputato, quando fornisce due diverse generalità, ha certamente fornito, in almeno in un caso, generalità false, con la conseguenza che è possibile ritenere che una delle due, ma non entrambe, le generalità siano false Sul problema di stabilire quale delle due sia effettivamente quella falsa, la S.C: ha affermato il principio secondo cui quando l’agente ha reso più dichiarazioni tra loro contrastanti o incompatibili, deve ritenersi provata, sul piano logico la falsità di tutte le dichiarazioni eccetto l’ultima. A tale conclusione la S:C. è pervenuta sul principio del favor rei, sostenendo che “nell’ipotesi in cui l’imputato abbia rilasciato in più occasioni generalità differenti, essendo indiscussa la perpetrazione del reato, l’incertezza della data di consumazione potrà rilevare ai fini della prescrizione, dovendosi adottare, per il principio del favor rei, quale tempus commissi delicti, quello dal momento in cui ha rilasciato le prime generalità” (Cass. Pen. sez. V del 17.12.1999 n. 1074). Si segnala che nella giurisprudenza di merito si era affacciata la tesi secondo cui , in caso di dichiarazione di difformi generalità, ognuna di esse, inclusa l’ultima, deve ritenersi falsa, in considerazione del fatto che il reo non potrebbe non aver detto il falso anche nell’ultima occasione avendo dichiarato il falso in quelle precedenti. Tale conclusione, tuttavia, non appare condivisibile per le seguenti ragioni: - rovescia l’onere della prova; - sovrappone la condotta consistente nel rendere false dichiarazioni con quella di non ottemperare all’obbligo di esibire i documenti; - mette l’agente nella condizione di compiere necessariamente un altro reato atteso che o non declina le proprie generalità o se le declina deve essere in grado di provarne la veridicità, con l’ulteriore conseguenza che, se anche l’agente volesse dire il vero, commetterebbe un ulteriore reato in assenza di prova di veridicità delle proprie dichiarazioni La conclusione sopra riportata, circa la veridicità dell’ultima dichiarazione, fondata su un ragionamento logico, può però essere disattesa nel caso in cui vi siano specifiche circostanze che inducono ad una conclusione opposta (es: il soggetto ha sempre declinato le stesse generalità, tranne nell’ultimo caso). In relazione alle contestazioni di 495 c.p. risulta molto importante l’acquisizione di casellario aggiornato e sviluppi dattiloscopici, atteso che vi sono molti casi di ne bis in idem Falsità documentali (in particolare esibizione di false patenti) In relazione alla specifica tematica che ci occupa, occorre valutare l'integrazione del reato di cui all'art 477 - 482 nel caso di cittadino straniero con documento estero, in particolare la patente, falsa. Occorre, in primo luogo, soffermarsi sulla rilevanza penale della contraffazione, trattandosi di documento non italiano: è infatti evidente che, se la patente fosse priva di ogni validità nell’ordinamento italiano e non fosse idonea a produrre alcun effetto in Italia, non potrebbe neppure essere considerata “certificazione o autorizzazione amministrativa” ai sensi dell’art. 477 c.p. e la sua falsificazione sarebbe penalmente irrilevante. In proposito occorre ricordare che, secondo la S.C. “la falsificazione non grossolana della patente di guida rilasciata da uno Stato estero può costituire reato qualora sussistano le condizioni di validità di tale documento ai fini della conduzione di un veicolo anche nel nostro Paese, come fissate dagli artt. 135 e 136 C.d.S”. (vedi Cass. Sez. 5, Sentenza n. 12693 del 08/03/2007-27/03/2007,Rv. 236180, Aghohawa, in cui la Corte, chiamata a valutare una patente di guida apparentemente rilasciata dalle autorità della Costa d'Avorio, aveva ritenuto che essa, pur non assumendo validità come documento di identificazione personale, fosse comunque idonea, nei limiti fissati dagli artt. 135 e 136 C.d.S, a consentire la conduzione di veicoli in Italia, e dunque, a rientrare nell’ambito di applicazione del reato previsto dagli artt. 477-482 c.p.). In sostanza, è esclusa l’idoneità della patente rilasciata da Stato estero ad assolvere le funzioni proprie del documento di identificazione, ma non l’idoneità a consentire la guida di veicoli in Italia. In proposito si ricorda che l’art. 135 C.d.S., nel testo in vigore al momento della commissione del fatto, prevedeva che “i conducenti muniti di patenti di guida rilasciate da uno Stato estero possono guidare in Italia veicoli per i quali è valida la loro patente o il loro permesso, purchè non siano residenti in Italia da oltre un anno” (si precisa che il comma 1 della norma è stato recentemente sostituito dall’art. 15 del D.lvo 18.04.2011 n. 50 entrato in vigore il 19.01.2013). Ne deriva che, decorso l’anno di residenza, la patente estera perderebbe l’idoneità a consentire la guida dell’autoveicolo. Peraltro, anche in questo caso la patente estera continua a produrre effetto in Italia, in quanto l’art. 136 c.d.s. consente ai titolari di patente rilasciata da Stato estero, che abbiano acquisito la residenza anagrafica in Italia, di ottenere la sostituzione della patente straniera con una patente italiana. Pertanto, alla luce di quanto disposto dalla suddetta norma, non verrebbe integralmente meno l’idoneità del documento a produrre effetti sul territorio nazionale neppure nel caso in cui il detentore della patente estera falsa fosse residente nel territorio nazionale da più di un anno, atteso che, anche in quel caso, quest’ultimo, in qualità di titolare di patente rilasciata da Stato estero, avrebbe sempre la facoltà di chiederne la sostituzione con una patente italiana. A ciò occorre aggiungere che, come ha precisato la S.C., “in tema di circolazione stradale, ai fini dell'applicazione dell'art. 135 c.d.s. - per la quale i conducenti muniti dipatente di guida o di permesso internazionale rilasciati da uno Stato estero possono guidare in Italia veicoli per i quali è valida la loro patente o il loro permesso, purché non siano residenti in Italia da oltre un anno - rileva la data di acquisizione della residenza e non quella del rilascio del permesso di soggiorno, che non implica necessariamente l'immediata iscrizione dello straniero nelle liste anagrafiche, considerato che l'attribuzione della residenza segue un diverso procedimento amministrativo che si instaura con la presentazione della domanda dell'interessato al Comune, il quale, previo svolgimento delle opportune verifiche, procede all'iscrizione del richiedente nel registro dei residenti”(Cass. Sez. 4, n. 7283 del 27/10/2011-23/02/2012, Rv.251935, Palucaj). In altri termini, la patente straniera perde validità in Italia non quando l’intestatario ha il permesso di soggiorno da oltre un anno ma solo in caso di attribuzione della residenza, con conseguente iscrizione nelle liste anagrafiche (d’altra parte, come hanno avuto cura di precisare i giudici di legittimità, il rilascio del permesso di soggiorno e l’attribuzione della residenza seguono procedimenti amministrativi diversi). In questo quadro si è poi inserita, qualche anno dopo la commissione dei fatti oggetto del presente processo, una nuova normativa dedicata alle patenti di guida rilasciate dagli Stati membri dell’Unione Europea: la normativa attuale, e segnatamente l’art. 136 bis CdS (introdotto però dall’art. 17 del D.lvo 18.04.2011 n. 50 entrato in vigore il 19.01.2013), infatti, consente al titolare dellla patente di guidare in Italia ma gli chiede di procedere alla conversione definitiva della patente straniera con quella italiana “trascorsi due anni dall’acquisizione dela residenza normale”. Va, infine, ricordato che, anche nei casi in cui non è o non è più possibile procedere alla conversione della patente di guida rilasciata da autorità estera in un corrispondente documento italiano, la patente estera comunque produce un qualche effetto giuridico in Italia, nel senso che la sua esistenza impone di contestare a chi guida, sprovvisto di patente italiana o patente estera "convertibile", ma in possesso di patente estera "non convertibile", la sanzione stabilita dall'art. 136 cds e non quella indicata dall'art. 116 cds. Chiarito ciò, occorre valutare, nel caso in cui il cittadino straniero abbia materialmente effettuato o abbia concorso ad effettuare il falso (ricavabile, ad esempio, dall'apposizione della foto e dei dati personali), occorre stabilire se il reato sia stato commesso in Italia o all'estero. Sul punto in relazione all’eventuale operatività della condizione di procedibilità di cui all’art. 10 c.p., si deve ricordare il pacifico orientamento giurisprudenziale secondo cui “l'operatività del citato art. 10 c.p. richiede, se non la certezza assoluta, quanto meno la ragionevole probabilità, sulla base di specifici elementi di fatto, che il reato sia stato commesso in territorio estero piuttosto che in Italia, dovendosi altrimenti, nel dubbio, lasciare pieno campo di azione all'esercizio della giurisdizione da parte dell'autorità italiana” (Cass. n. 38762 del 2008).