Nono dialogo della historia

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Nono dialogo della historia
L’approfondimento del pensiero utopico di Francesco Patrizi
nel “Nono dialogo della historia”
Helvio Moraes
Universidade do Estado de Mato Grosso /revista Morus – Utopia e Renascimento
Riassunto
L’obiettivo di questo intervento è stabilire una relazione fra due scritti della fase giovanile
di Francesco Patrizi da Cherso: La città felice, la sua opera utopica di 1553, e i Dialoghi della
Historia (1560), in specifico il nono dialogo, nel quale Leonardo Donà, il principale interlocutore,
fa un discorso sull’utilità della storia, tenendo come punto di partenza la realtà política veneziana,
aspetti centrali del pensiero utopico del filosofo.
Parole chiave
Utopia italiana, Francesco Patrizi da Cherso, Filosofia della Storia.
Helvio Moraes è professore di Storia Letteraria presso l’Universidade do Estado de Mato Grosso –
Unemat. È co-editore della revista Morus – Utopia e Renascimento e anche membro del U-topos –
Centro de Pesquisas sobre a Utopia presso l’Universidade Estadual de Campinas. Svolge
attualmente una ricerca post-dottorale presso l’Università degli Studi di Firenze, che ha come scopo
lo studio e la traduzione della Nuova Atlantide, di Francis Bacon. È borsista della Coordenação de
Aperfeiçoamento de Pessoal de Nível superior (CAPES) – Brasile. Ha pubblicato, nel 2011, lo
studio e la traduzione dell’utopia di Francesco Patrizi da Cherso, La Città Felice.
MORUS – Utopia e Renascimento, 10, 2015
O aprofundamento do pensamento utópico de Francesco Patrizi
no “Nono Diálogo da História”
Helvio Moraes
Universidade do Estado de Mato Grosso /revista Morus – Utopia e Renascimento
Resumo
Esta comunicação tem por objetivo estabelecer uma relação entre dois escritos da fase juvenil de
Francesco Patrizi da Cherso: La città felice, seu texto utópico de 1553, e os Dialoghi della Historia
(1560), especificamente o nono diálogo, em que Leonardo Donà, o principal interlocutor, faz um
discurso sobre a utilidade da História, tendo como ponto de partida a realidade política veneziana,
aspectos centrais do pensamento utópico do filósofo.
Palavras-chave
Utopia italiana, Francesco Patrizi da Cherso, Filosofia da História.
Helvio Moraes é professor de Literatura da Universidade do Estado de Mato Grosso – Unemat. É
co-editor da revista Morus – Utopia e Renascimento e membro do U-topos – Centro de Pesquisas
sobre a Utopia, junto à Universidade Estadual de Campinas. Atualmente, desenvolve uma pesquisa
pós-doutoral junto à Università degli Studi di Firenze, que tem por objetivo o estudo e a tradução da
Nova Atlântida, de Francis Bacon. É bolsista da Coordenação de Aperfeiçoamento de Pessoal de
Nível Superior (CAPES) – Brasil. Publicou, em 2011, o estudo e a tradução da utopia de Francesco
Patrizi da Cherso, A Cidade Feliz.
MORUS – Utopia e Renascimento, 10, 2015
L’approfondimento del pensiero utopico di Patrizi nel “Nono dialogo della historia”
due testi che prendiamo come punto di partenza per questo studio segnano la fase
giovanile del vasto lavoro del filosofo Francesco Patrizi da Cherso: il primo, La Città
Felice, può essere considerato il suo primo scritto ed è stato pubblicato poco dopo aver
completato i suoi studi di medicina a Padova (1553). Possiamo considerarlo il suo scritto utopico
per eccellenza, sotto forma di un trattatello in cui sostiene di aver fatto una sintesi di alcuni libri
della Politica di Aristotele, anche se si può percepire, con il pretesto del pensiero peripatetico,
un’immagine della città che si collega ad altre filosofie contemporanee, come il neoplatonismo
ficiniano e l’ermetismo. Il secondo testo, Dieci dialoghi della Historia segna, a sua volta, la fine di
questa fase di formazione intellettuale, quando, dal 1556, si stabilisce a Venezia e mantiene uno
stretto rapporto non solo con i letterati appartenenti al patriziato veneziano, ma anche con gli
intellettuali coinvolti nell’intensa e prolifica attività editoriale, uomini che si mostrano ancora
ricettivi a idee non facilmente adattabili al clima spirituale che inizia a stabilirsi nei centri più
importanti della penisola, mentre si avvicina il completamento dei lavori del Concilio di Trento. I
Dialoghi della historia, pubblicati nel 1560, sono opera di questo giovane dallo spirito inquieto e
non di rado presentano polemiche, che si intensificheranno ancor più negli anni della maturità,
soprattutto a causa della sua crescente difesa della filosofia platonica, argomento appena sfiorato
nel suo scritto utopico. Essenziale per la maturazione del suo orientamento filosofico sembra essere
stata la sua presenza nei dibattiti e nelle attività dell’Accademia Veneziana o della Fama, che ha
abbracciato un ambizioso progetto di rinnovamento culturale e politico, riuscendo ad attirare, in
breve tempo, non solo dall’aristocrazia veneziana, ma anche da diverse regioni della penisola,
menti illuminate, relativamente tolleranti (o aperte) al pensiero riformato, ma soprattutto disposte a
diffondere in volgare scritti legati alle contemporanee filosofie non esattamente convenzionali, o
che necessitano una più ampia diffusione, testi, questi, classici e contemporanei, molti dei quali di
stampo fortemente platonico.
Nella presente relazione ho intenzione di discutere di come il pensiero utopico di Patrizi si
concentri dieci anni dopo nelle sue riflessioni sulla Historia, prendendo in considerazione
soprattutto il nono dialogo, nel quale Leonardo Donà, il principale interlocutore, fa un discorso
sull’utilità della storia, tenendo come punto di partenza la realtà politica veneziana.
Per avere un’idea di come si strutturano i Dialoghi si può stabilire una suddivisione in tre o
quattro gruppi, a seconda della prospettiva con cui vengono affrontate le loro tematiche. Dunque, i
primi due dialoghi si concentrano sulla critica delle classiche ipotesi circa la storia e la storiografia,
nel tentativo di stabilire una nuova base per la definizione del concetto e della pratica. La
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definizione della storia sarà il tema del terzo dialogo, pienamente inserito in una cornice
neoplatonica, con il motivo del furore che ne permea i passaggi principali. Patrizi stabilisce una
forte relazione tra il “mondo inferiore” (la dimensione umana) e il “mondo superiore” (il cosmo) e
afferma la propria convinzione secondo cui non è possibile comprendere cos’è la storia senza
considerare queste due dimensioni. Il quarto e il quinto dialogo affrontano temi ben noti alla
trattatistica dell’ars historica: lo scopo e la verità della storia. Quest’ultimo giunge a una triste
conclusione, che sembra suggerire l’inutilità dell’approccio platonico per la ricerca della verità e
della sua rivelazione in un mondo in cui chi detiene il potere si mostra ad essa avverso. Le
discussioni dei seguenti dialoghi (dal sesto al nono) seguono un approccio più “politico” e
finiscono, infatti, per celebrare la conoscenza storica come uno dei pilastri che sostengono una sorta
di felicità civile, ovvero ciò che Nicolò Zeno, nel sesto dialogo, sostiene sia lo scopo di una
comunità politica: “[...] non mi ristringo [...] à quella felicità strettissima, cantata solo da filosofi;
laqualle non che città ma huom alcuno peraventura non fece mai beato. Ma io parlo di quella, che ci
puo dare l’uso della vita humana” (Patrizi, 1560, p. 32v). Tale nozione di felicità sembra essere
invero il punto di arrivo di questo scritto, così come era stata l’elemento fondante della sua Città
Felice.
L’idea di felicità civile come scopo della conoscenza storica verrà ripresa costantemente,
fino a ricevere la sua completa elaborazione nel nono dialogo. È sempre a tale idea che gli
interlocutori mirano. L’aspetto secolare della sua proposta appare evidente. Anche se ribadisce più
volte la necessità di ripristinare la connessione originale con la divinità, la nozione che elabora di
Dio si risolve più a livello filosofico che teologico. Già nella Città felice, nel breve intervallo
dedicato alla religione (un paragrafo), il culto e il modo di concepire il sacro diventano una sorta di
deismo in cui Dio si intreccia con la natura, con l’ordine cosmico che governa l’universo intero,
concetto che sarà molto più vicino al pensiero di Telesio che non al clima culturale che si instaura
con la Controriforma.
Pur esprimendo un giudizio negativo sui fondamenti della vita civile, Patrizi ritiene che solo
l’esperienza urbana consenta di elaborare stili di vita migliori che possano garantire la
soddisfazione dei tre desideri insiti in ogni essere umano: essere, bene essere e sempre essere. Gli
uomini sono cattivi, ma, a tal proposito, le istituzioni possono essere create in modo tale da
garantire che ci sia un modo equo di usufruire dei beni che “la ragione ci ordina di condividere”.
Nei Dialoghi non si parla mai di un intervento della provvidenza divina all’interno delle vicende
della vita umana. Come negli utopisti del tempo, ciò che sta al centro del pensiero politico
patriziano è ancora l’“implicita esaltazione umanistica della ragione e dell’autonomia dell’uomo,
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l’immanentismo recondito che è nell’intimo di quelle società immaginarie così radicalmente
autarchiche da sussistere senza verun presupposto di trascendenza” (Firpo, 1948, p. 78).
Dopo queste osservazioni preliminari, passiamo alla discussione del nono dialogo. Intitolato
Donà o sull’utilità della historia, si apre con una visione sconfortante del destino umano, una
rielaborazione del topos del grande teatro del mondo.
La storia inizia riprendendo l’idea aristotelica che l’uomo, sin dalla nascita, porta in sé “lo
studio dell’imitazione”, dato che nulla può recargli maggior piacere, tanto che i grandi scultori
sono in grado di infondere “in alcune statue lo spirito e la vita [...] sforzatisi di rassembrare i Dei: i
qualli hanno fatto l’huomo pieno d’anima” (Patrizi, 1560, p. 49r). E, così come l’uomo si compiace
di ciò che gli è simile, allo stesso modo gli dèi gioiscono della sua creazione, “prendendo festa”.
Così, proprio come gli istrioni nella tragedia che, per “l’esempio” e il diletto degli uomini, si
rendono simili “a re, reine, huomini grandi” (idem, p. 49v), pur non essendolo in realtà, questi, per
l’eterno divertimento degli dei, imitano le azioni divine. La differenza sta nel fatto che gli attori
recitano i loro ruoli consapevolmente, mentre gli uomini no. E le loro azioni, di divino, hanno
soltanto l’apparenza.
Di fronte a questo desolante quadro dell’incapacità umana di una piena conoscenza del
mondo presentata da Patrizi, si sviluppa subito in contrasto il discorso di Leonardo Donà su una
conversazione che ebbe con uno zio, Giovanni Donà.
Il futuro doge di Venezia parte dal
presupposto che, proprio come la tragedia può “portare ad intendente huomo utilità” (idem, p. 50r),
anche la storia è in grado di farlo, trasformando, però, “lettione in attione” (idem, p. 50v). Così,
anche se sul palcoscenico della nuda esistenza la condizione umana è essenzialmente tragica, è
possibile che essa trovi un senso nel momento in cui l’uomo recita il suo ruolo nel dramma politico.
Non si tratta di una risoluzione, ma può essere un lenitivo, dato che, in conformità con il pensiero
di Machiavelli, osservando la storia “l’huomo savio [...] puo alla sua vita norma sottrarre; con la
quale poi indrizzando tutte l’attioni sue, possa quanto comporta la fortuna humana, fuggire i casi
adversi e infortunosi in tutto; o star loro almen lontano tanto, che essi non l’aggiungano” (idem, p.
50r).
L’ampio quadro illustrato in precedenza negli altri dialoghi è ridotto in maniera drastica
all’utilità della conoscenza storica, e perfino anche si rifiuta il suo empiego dall’uomo a beneficio
proprio, giacché “piu eccellente servigio tragge dall’historia chi il tragge per la patria sua, che se il
fa per se medesimo” (idem, p. 50v).
Il vecchio Donà ribadisce che il fine della storia è la felicità, la quale, “come ci insegnò [...]
Platone, altro non è, che un riunirsi, che noi facciam con Dio, per lo mezzo della contemplatione”
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(idem, p. 51r). Patrizi contrasta sottilmente le posizioni filosofiche di zio e nipote: mentre Giovanni
(l’insegnante) riprende l’impostazione platonica, Leonardo (l’allievo) ha definito la felicità come il
fine della vita civile ed è stato presentato come “aristotelico”. La vita contemplativa si realizza,
dunque, quando sono placate gli affetti, dalle “virtù, & i buon costumi, & l’altre cose necessarie a
questo”, il ché si verifica soltanto se l’uomo “si conduce à vivere in comune con altri huomini in
commune”, nella città, in quanto questo è l’unico luogo favorevole alla soddisfazione dei suoi tre
desideri: essere, bene essere e sempre essere.
È la Città Felice patriziana che, appena annunciata dalla lode di Zeno nei confronti delle
istituzioni veneziane, si palesa con chiarezza nel discorso di Giovanni Donà. Non a caso, come
abbiamo detto, i due dialoghi (VI e IX) si distinguono dagli altri per via della forma “didattica” con
cui vengono presentati, sia celebrando che proponendo l’ideale di una repubblica aristocratica. In
questo senso, tanto l’utopia quanto i dialoghi interessati sono testi che si completano
vicendevolmente. Il sesto dialogo si conclude con una lode della Serenissima, mentre gran parte
della città utopica patriziana prende forma sulla base del mito di Venezia. Il nono dialogo chiarisce
il ruolo della conoscenza storica nella conduzione degli affari pubblici, cosa che nella Città Felice si
può soltanto dedurre. Al contrario, con Donà abbiamo la difesa di una forma di organizzazione
sociale, la cui immagine, nel trattatello, è più vivida1.
Ecco come si configura la città patriziana. In essa è prevista una classe sociale che si
costituisce e si conserva per mezzo di caste, simile a quella delle duecento famiglie patrizie che, nel
mito, detengono il potere. Se è possibile parlare di un comunismo, dato che questo è uno degli
elementi di maggior fortuna su cui si pone l’accento negli scritti utopici, esso si trova all’interno di
questa classe, come mezzo per tenere insieme in equilibrio le famiglie che compongono questo
gruppo ristretto, non solo attraverso un’equa distribuzione di ricchezza, benefici ed onori, ma anche
mediante l’unione coniugale unicamente tra i membri ad esse appartenenti e, infine, con
l’istituzione di banchetti pubblici.
Al vertice della gerarchia, proveniente da questo gruppo privilegiato, si trova un po’ una
versione della nozione platonica del re-filosofo, che tutta la tradizione umanistica precedente fa
1
Il pensiero utopico patriziano è complesso dal rapporto che stabilisce con il proprio genero. Firpo (1948, p. 84), nel
suo studio sull’utopia nella Controriforma, è contundente riguardo al modelo sociale proposto dal Patrizi: “Ne riesce
una apologia retriva e reazionaria, in cui il più vivo impulso dell’utopismo rinascimentale, la ribellione all’ingiustizia
sociale, appare rinnegato brutalmente”. Lo storico ammette che tale modelo, insieme all’utopia di Anton Francesco
Doni, si stabiliscono come le due tipiche scritture utopistiche del Rinascimento italiano, nel senso che “il razionalismo
continua ad escogitare forme più opportune di convivenza organizzata”. Comunque, nel caso di Patrizi, questo
razionalismo si volge a “tutto beneficio di una minoranza esigua, cui l’aureola della “operazione virtuosa” dà il diritto
di sfruttare la turba servile dei contadini, degli artigiani, dei mercanti, privi d’ogni diritto civile”. Qualcosa di simile
dirà più tardi riguardo alla città di Leonardo, come una “città signorile, di una aristocrazia e di una borghesia agiata, che
aspirano alla quiete e al decoro” (Firpo apud Garin, 1990, p. 252).
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coincidere con l’immagine del doge veneziano, e che Patrizi accoglie decisamente nella figura del
grande legislatore (una sorta di sacerdote saggio) perché in esso sono armonicamente rappresentati
gli ideali di saggezza, prudenza ed esperienza necessari per colui a cui è affidato il governo della
città. Di queste tre qualità, l’esperienza, per lo meno, si può osservare soltanto nei cittadini più
anziani. Pertanto, secondo la tradizione politica veneziana, la Città Felice tende ad una sorta di
gerontocrazia.
Quindi questa classe, composta da magistrati, guerrieri e sacerdoti, è al di sopra di un altro
grande gruppo, formato da contadini, artigiani e commercianti, che la serve soltanto. Questo gruppo
appare nei primi capitoli dell’operetta, mentre è in corso la costruzione delle fondamenta della città.
Giacché nasce, sulle orme di Platone, solo da ciò che è essenziale alla felicità dei cittadini, per ogni
esigenza prevista viene elencato un gran numero di professioni che dovranno esser sufficienti a far
vivere la città in modo autarchico.
Sono quindi due le classi che compongono una società fortemente stratificata, le cui
funzioni sono definite con grande precisione. L’immagine che il filosofo crea per rappresentare il
modo in cui queste classi convivono nella sua città è la scalata di un monte, dove la felicità si trova
sulla vetta. Stando a quel che dice Patrizi, può essere felice solo chi vive “secondo la virtú perfetta,
senza impedimento, in vita compiuta” (Patrizi, 1996, p. 83) 2 . Gli ultimi due termini della
dichiarazione (vivere “senza impedimento”, una “vita compiuta”) sono necessari per la
realizzazione del primo, che comprende l’esercizio di virtù morali e intellettive, attributo che
caratterizza il cittadino patriziano. Essi inoltre si legano, o portano, a quelli che Donà sostiene
essere i tre desideri dell’uomo che cerca la felicità nella vita sociale: essere, bene essere, sempre
essere. Ci rendiamo conto, quindi, che c’è una convergenza tra i concetti di felicità che sono
presenti in Platone e in Aristotele (che nel “Nono dialogo” saranno rappresentati dal pensiero
dell’aristotelico Leonardo e del platonico Giovanni). Di fatto, un atteggiamento concordista sembra
caratterizzare questa prima fase del filosofo.
Convinto che non tutti i cittadini possano esimersi dalle attività necessarie al mantenimento
della vita e del bene comune, Patrizi nega il diritto di cittadinanza a contadini, artigiani e
commercianti, perché, anche se possono vivere “tutto lo spazio del corso del vivere umano” (idem,
p. 84), gli afanni e le fatiche delle loro occupazioni quotidiane gli impediscono di coltivare le virtù
necessarie per il raggiungimento della felicità. Possono, ciò nonostante, andare “inanzi spianando
ed acconciando la via” (idem, p. 101), in modo che il ceto superiore raggiunga, più
2
Si tratta della nozione aristotelica di felicità, così come si trova nell’Etica Nicomachea (I, 10): “Che cosa dunque
impedisce di definire felice chi è attivo secondo perfetta virtù ed è sufficientemente provvisto di beni esteriori, e ciò non
occasionalmente e temporaneamente, ma per tutta una vita?”
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confortevolmente, la vetta del monte, dove “la virtù tiene il paradiso delle sue delizie” (idem, p.
109). E là, “i tre primi faticosi ordini non possendo vestirsi la veste nuziale [la città sposa la felicità]
e sedere insieme a mensa con i vestiti, non saranno da annoverare tra i convitati. Ma serviranno a
questo convito gli uni come cuochi, gli altri come apportatori di vivande, e i terzi come servitori di
coltello e di coppa” (idem, p. 102).
La città patriziana, come la maggior parte delle città utopiche, rivela una concezione
organica dello Stato (che si può riscontrare anche nel discorso di Zeno nel sesto dialogo). Essa si
struttura a partire dalle condizioni materiali di vita, giacché, innanzitutto, “è bisogno che noi, a tutto
nostro potere, conserviamo intero e tenace il legame, col quale il corpo sta all’anima legato” (idem,
p. 84). In effetti, le proposte di Patrizi sul rapporto corpo/anima sono ridimensionate e trasposte nel
binomio uomo/città: per l’uomo (cittadino, per intenderci), solo una “vita senza ostacoli”
(soddisfazione del corpo) conduce alla felicità (pienezza intellettuale); quanto alla città, coloro che
la strutturano e la mantengono materialmente (contadini, artigiani e commercianti), costituiscono la
base necessaria affinché essa raggiunga la sua perfezione politica (attraverso magistrati, sacerdoti e
guerrieri). Come la vita umana si muove tra il negotium e l’ozio contemplativo, la città vive tra gli
stati di guerra o di pace. Di conseguenza, come il fine delle attività umane è l’“esercizio delle virtù
intellettuali”, così la pace deve essere il fine della guerra, volontaria oppure no, e della sedizione,
perché
Laquale [la pace] piu eccellente cosa essendo, è posta in alto de cuori humani, e si
fa dall’altre due [la guerra e la sedizione] desiderare. E cio non è per altro, se non
che per lei noi habbiamo la sofficientia della vita, e l’adempimento de i tre nostri
desideri naturali. Nel qual adempimento è veramente posta la vera nostra felicità;
laquale io dissi essere il raccongiungimento con Dio (Patrizi, 1560, p. 51r).
Il legislatore della Città Felice, o il patrizio veneziano del nono dialogo, hanno sempre in
mente questo stato di pace, quali che siano le azioni che devono intraprendere. Nel trattato, l’idea è
snocciolata in due fasi, ovvero: quando l’autore elabora le basi di un programma educativo
(capitolo XII
- “Della felicità de’ cittadini) e quando riflette sulle condizioni ideali per la
convivenza civile e per le relazioni esterne, che occupano la parte centrale (capitoli VI – Della
popolazione e della sua uguaglianza; VII – Delle leggi e delle magistrature; VIII – Del governo
della città; IX – Della difesa della città e delle milizie). Nel dialogo, gli stessi motivi invitano la
ripresa e un esame più approfondito del concetto di pace come orizzonte utopico, partendo però
dalla questione dell’utilità della conoscenza storica, sia come allenatore dell’uomo pubblico che
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come strumento di azione politica, che Donà sintetizza così bene nell’espressione «è bisogno
convertir [...] lettione in attione” (Patrizi, 1560, p. 50v).
La storia insegna la prudenza, forse non nel modo in cui Bidernuccio la recepisce nella lode
che apre i Dialoghi. Guidone (“Dialogo settimo”) aveva già fatto menzione di una «prudenza
acquistata per lo studio delle dottrine” (idem, p. 41r) e Valier (“Dialogo ottavo”) la considerava una
virtù che sottende gran parte della vita civile e oltre a quella militare: “due virtù sono le civili, la
prudenza e la giustitia, e due le militare, la prudenza e la fortezza” (idem, p. 46r). Non a caso, lo
stesso Donà si presenta come un uomo prudente e saggio, lui che, poco più avanti, metterà in
evidenza le qualità che dovrebbero portare la sua città alla pace: “Ora, il saper la strada di pervenir
à questa pace, si acquisterem noi per due vie ottimamente. Per quella dei filosofi, e quella degli
historici. Gli uni de quali ci insegnano per via delle ragioni, stando in su gli universali: e gli altri per
via de particolari, e della sperienza” (idem, p. 51r). In seguito, ribadisce la finalità pubblica della
storia, che
dandoci per la via della sperienza il modo del governo della nostra patria per la
pace vera, e per la possibile felicità, conviene che ella da noi si habbia in
grandissimo, e alto pregio molto diverso dalla opinione di coloro, i quali a fin di
ragionarne solamente leggono le historie. [...] Per laqual cosa, [...] vorrei che voi vi
indrizzaste co’ studii vostri dell’historia, e con gli altri, al bene e alla felicità di
questa patria vostra, e per conseguente di voi stesso. Percioche dove tutti sono
felici i cittadini, quivi è anco felice ciascheduno” (idem, pp. 51r-51v).
Anche in questo caso, sono utilizzati congiuntamente il termine “felicità” e “pace” che, in
precedenza, abbiamo visto connessi alla nozione di felicità come contemplazione del Sommo Bene,
applicata alla sfera politica. Nel punto in questione, i termini si riferiscono ad un’altra idea di
stampo platonico: la realizzazione del bene comune è superiore alla soddisfazione individuale. Due
i punti centrali della Repubblica, il primo trova la sua formulazione più completa nella forza delle
immagini del mito della Caverna, e sfocia, a livello politico, nella figura del re-filosofo. Un
riferimento a questo sovrano ideale è fatto nel passo in cui Socrate dice che il filosofo deve tornare
alla caverna per liberare coloro che erano rimasti lì3.
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“Sarà nostro preciso dovere di fondatori dello Stato costringere le nature più dotate a indirizzarsi verso quella che
prima avevamo definito conoscenza massima – ossia la visione del Bene – e a incamminarsi per quella erta salita. Però,
sarà anche nostro dovere, una volta che siano arrivati in cima ed abbiamo contemplato quanto basta, non permettere
loro ciò che oggi è concesso [...]: di starsene lassù, [...] e di non voler più saperne di tornare dai compagni in catene, e di
condividere i loro onori e le loro fatiche, grandi o piccole che siano” (Platone, Repubblica, VII, 519c-519d).
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Di fronte all’affermazione di Glaucone, secondo cui tale esigenza sarebbe un’ingiustizia per
questi uomini dotati di un’intelligenza superiore, Socrate sostiene che lo scopo della legge non è
quello di favorire una sola classe, ma di creare consenso tra i cittadini, in modo che “si scambino
reciprocamente quei servizi che ognuno individualmente ha la possibilità di rendere alla colletività”
(Platone, Repubblica, 519e-520a).
Questa è un’idea strettamente legata al tema della felicità collettiva di cui parlavamo sopra.
Uno dei pilastri alla base di qualsiasi edificio utopico, il contenimento della volontà individuale
(garantito da leggi molto austere) al fine del mantenimento del benessere comune, ha sede nel libro
IV, in cui Platone, dopo aver “costruito” la sua città ideale, si occupa della sua legislazione e delle
relazioni tra le classi che la compongono4.
È, essenzialmente, la medesima configurazione socio-politica che troviamo nell’utopia
patriziana. L’idea di rendere felice “tutta la città” non si pone in contraddizione con il fatto che ogni
classe riceva la sua giusta quota di felicità, a seconda della sua “natura”, vale a dire che essa viene
conferita in proporzione al suo grado di “perfezione”, della sua maggiore o minore vicinanza
all’esercizio delle virtù speculative. Solamente la piena realizzazione dello stato fornisce la
soddisfazione individuale, o quella che corrisponde, in maniera “giusta”, a ciascuna classe. Non è
quindi un’ingiustizia da parte del filosofo - come sostiene Glaucone - il voler condividere la sua
conoscenza con il resto della città, stabilendo le sue leggi e tutelandone l’osservanza, garantendo
“la vera pace”, dal momento che, altrimenti, non si potrebbe raggiungere “la felicità possibile”.
Questo è il paradigma di città presente nelle intenzioni di Giovanni Donà quando conclude la prima
parte del suo discorso.
Pertanto, siccome questo stato di pace è essenziale per qualsiasi città che desideri essere
felice, su richiesta di Leonardo, suo zio continua a discorrere, “più partitamente”, sul modo di
“osservare nell’historia le cose, che alla felicità, e alla pace della nostra città fossero giovevoli”
(Patrizi, 1560, p. 51v). C’è una ripresa della discussione circa le condizioni in cui può trovarsi una
città (pace, guerra e sedizione) e la giustificazione delle leggi che la regolano, a partire dalla
creazione e dall’educazione dei bambini per il funzionamento degli “uffici di ciascun’ordine della
cittadinanza”. Anche in questo caso si esaminano le questioni legate alla autosufficienza materiale
4
Ora, noi abbiamo l’intenzione di costruire una Citta felice, non privilegiando alcuni pochi cittadini per farli tali, ma
volendo rendere felice l’intera Città (ibidem, 420C): [...] o istituiremo la classe dei Custodi, prefiggendoci come scopo
che essa goda della maggior felicità, oppure, con l’occhio fisso all’interesse generale dello Stato, vedremo se questa
felicità possa tocargli, inducendo con la convinzione o con la costrizione questi Custodi e questi difensori a compiere
con solerzia il loro dovere; e non solo loro, ma anche, in pari misura, tutti gli altri cittadini. In tal modo, con lo sviluppo
e con la buona amministrazione della Città, nel suo complesso, potremmo lasciare a ciascuna classe la sua porzione di
felicità, quella che la natura le concede (ibidem, 421B-421C).
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della città – dato che “il mancamento adunque delle cose, che sostengono la vita, rompe la pace” –,
ed alla rilevanza del accesso di tutti i cittadini agli incarichi ed onori “contentamento dell’animosa
parte dell’animo nostro”. Ovviamente, la guerra deve essere evitata, oppure, se è necessario
intraprenderla, deve avere come scopo la pace, che si raggiunge con la sua conclusione. Comunque,
ancora più pericolosa è la sedizione, perché essendo
dimestica nemica [...], [distrugge] l’essere, per le uccisioni e per le morti che ella
porta seco. Distrugge il bene essere, co’ sospetti, e con le nemistà, co’ privamenti
delle robbe, e degli honori, con i continui affanni, e con i continui temori, e con
simili altre miserie infinite. Annulla anco il sempre essere uccidendo, con la
privation de figliuoli e con lo sbandimento degli ottimi studii, dell’altre opere
egregie, l’altrui cotanto bramata eternità (idem, p. 52v).
In questo passaggio, vengono fatte considerazioni che affrontano, nel dettaglio, le idee già
sostenute da Sanuto (“Dialogo quarto”) e Zeno (“Dialogo sesto”) e soprattutto, grazie a questo
esame più attento, è evidente anche la presenza dello scritto utopico. In realtà, Donà offre una sorta
di catalogo dei principali motivi che causano – così come i mezzi principali attraverso i quali si
possono evitare - guerre e sedizioni. Quello che ci appare degno di nota è la fiducia nel potere
regolamentare dello Stato e nella lettura delle “historie altrui”, che ci permette “osservare le cose
fatte dalle antiche nationi, o dalle presenti, o da quelle che verranno” (idem, p. 53r). A Leonardo
resta solo da informarsi su come valersi delle “contate cose, per lo studio, e per l’osservatione della
historia”.
La parte finale del dialogo studierà la possibilità di una lettura della storia che si basa sul
rapporto di causalità. Fino a quel momento, era stata data importanza alla storia, che non si limita
alla sola narrazione dell’evento, ma che ne chiarisce altresì la causa e le circostanze concomitanti.
Quest’ultima parla di Donà tratta la possibilità di confronto tra due eventi - loro cause ed effetti – ,
siano essi contemporanei o appartenenti a periodi diversi. È probabile che il punto di partenza sia
un passaggio del Protagora (330C-335C), infatti è presente anche un riferimento esplicito al
pensatore greco. Ciò rappresenta, ad ogni modo, uno slittamento dal piano filosofico a quello
dell’analisi storica, sia essa proveniente da fonti testuali o dai fenomeni stessi, e quel che si evince
attraverso la discussione, in modo piuttosto evidente, è il metodo utilizzato da Machiavelli –
considerando nello specifico i Discorsi –, così come i principi guicciardiniani circa causa-effetto.
Nella lettura delle “historie” è bisogno stabilire costanti rapporti tra gli eventi riportati, visto che
tutte le cose [...] o sono, intra di loro le medesime, o sono contrarie, o diverse, o
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simiglianti [...]. Et quindi è, che tra loro si fanno i paragoni, o della medesimità
[...], o della contrarietà, o della diversità, o della simiglianza [...]. La onde secondo
che sono le attioni degli antichi tali, e tali le cagioni loro, e gli effetti: tali conviene
anchora che sieno le attioni nostre, e le cagioni, e gli effetti loro, per una delle
quattro vie proposte (ibidem).
Di queste forme, irrilevante è quella che, all’osservazione del lettore, si basa sulla diversità
di cause ed effetti, essendo “interminata, e infinita”. Di conseguenza, resta
che si faccia il paragone delle tre altre maniere. Et à ciò facil molto. Imperoche
esse si farà il piu tra due termini soli finiti, e pochi: e anchora agevoli à regolarsi.
Conciosia che in due cose medesime, sieno e le cagione medesime, e gli effetti. Le
contrarie cose anchora non sono mai altro che due. Et perciò, se l’una attione è
all’altra contraria, sono e le cagioni, e le effetti dell’una, e dell’altra contrarii infra
di loro sempre. [...] Ma ne simili, che tra queste due sono quasi mezani, è alquanto
l’osservation piu faticosa, secondo che è piu varia la simiglianza, dell’altre due,
[...] ma [...] non è tanta per lo vero, quanta è la larghezza della diversità; e che di
lei altri non possa commodamente osservare (idem, p. 53v).
Leonardo ancora indica la difficoltà di concepire due azioni come identiche, dato che
“cotesto nome che voi dite di medesimità, non stia se non in una cosa sola”. In questo punto, siamo
davanti ad una situazione molto simile a quello che Guicciardini afferma nel ricordo 117 5, con cui il
vecchio Donà sembra essere d’accordo, sebbene suggerisca una soluzione più positiva di quella del
storico fiorentino, nel stabilire che l’identità di cui parla non si trova nelle cose singolari, ma ci
sono certe particolarità negli eventi che li fanno diventare quasi uguali: medesime cause che
producono i medesimi effetti, anche se le circostanze non siano esattamente le stesse.
Donà chiude la sua lunga lezione al promettente Leonardo, il futuro grande Doge, con
l’esempio di Filopemene, in una rielaborazione del passaggio del capitolo XIV de Il Principe,
dedicato alla figura del comandante acheo in quanto esempio di virtù militare: contemporaneamente
ai frequenti esercizi e costante osservazione del paese dove viveva, “le historie d’Alessandro così
lesse e osservò, che non se ne valse per ragionarne. Ma si bene ei converti in suo uso tutto cio, che
di la potea sotto all’attion sua cadere”. L’artificio escogitato da Patrizi ci consente di mettere in
relazione Filopemene non solo con Leonardo, ma anche con il lettore dei Dialoghi, o, più
direttamente, con l’intero patriziato veneziano: “Di questa guisa adunque vorrei io, che i nostri
gentilhuomini, e i nostri giovani, e voi messer Lionardo mio, le cose avvenute all’altre genti, e ne
tempi della pace, e ne travagli delle seditioni, e delle guerre, convertissero in giovamento della
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“È fallacissimo el giudicare per gli esempli, perché, se non sono simili in tutto e per tutto, non servono, conciosa che
ogni minima varietà nel caso può essere causa grandissima variazione nello effetto: e el discernere queste varietà,
quando sono piccole, vuole buono e perspicace occhio” (Guicciardini, 1999, p. 143).
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L’approfondimento del pensiero utopico di Patrizi nel “Nono dialogo della historia”
patria loro, e le traducessero in uso di lei” (idem, p. 54r).
Pertanto, questo dialogo “conclusivo” può essere letto come una sintesi dei principali
dibattiti che hanno avuto luogo in precedenza, il ché non vuol dire che alcune questioni giungano a
piena conclusione. Di fronte a uno scenario utopico di forte ispirazione neo-platonica, si dispiega
una concezione storiografica che deve molto al pensiero politico fiorentino, insieme alla difesa
della tradizione politica veneziana.
Come il filosofo stesso afferma, questa è solo la prima parte di un lavoro di più ampio
respiro. Tuttavia, è evidente con chiarezza la proposta di una “riunificazione” dei campi della storia
e della filosofia che, in un mito caro a Patrizi, si allontanano l’una dall’altra dal momento in cui
l’uomo caduto usa il linguaggio per ingannare e sottomettere gli altri uomini alla propria volontà, e
nel corso della storia, dal momento in cui il discorso è elaborato con fini diversi da quello della
conoscenza della verità, oppure come un modo per metterla a tacere. Patrizi identifica nella lunga
tradizione aristotelico-ciceroniana il grande centro diffusore di tale presa di posizione. In questi
primi scritti, pare vi sia l’idea che la conoscenza filosofica dovrebbe comprendere la conoscenza
storica in quanto passo verso la crescita spirituale dell’uomo nel miglioramento delle pratiche civili,
dal momento che tale crescita è possibile così soltanto nell’esperienza della città. La storia, a sua
volta, al di fuori dalla concezione che la vede come unica strada per la conoscenza della verità se
connessa alla ricerca filosofica, finisce per diventare uno strumento che promuove la menzogna,
utilizzato per soddisfare le aspirazioni di coloro che, in un dato momento, detengono il potere.
Alla fine del dialogo, abbiamo l’impressione che il quadro estremamente sconfortante
presentato all’inizio risulti, in qualche modo, attenuato. E questo, nella forma caratteristica del
neoplatonismo patriziano:
Cosi fatto, adunque, e tanto alto, ò Patritio, fu il ragionamento di messer Giovanni.
Ilquale certamente si mi piacque, e si mi fece egli penetrarlo dentro all’anima, con
la maniera forte del suo dire, che io credo di non iscordarlomi giamai. Et à voi
come pare di cio? Ma io vi veggo attonito: e non mi rispondete? (idem, p. 54r).
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Riferimenti bibliografici
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Sandra Plastina. Genova: Marietti, 1996.
FIRPO, Luigi. “L’utopia politica nella Controriforma”, Quaderni di “Belfagor”, I, Firenze:
Vallecchi Editore, 1948.
GARIN, Eugenio. Rinascite e Rivoluzioni. Roma: Laterza, 1990.
GUICCIARDINI, Francesco. Ricordi. Milano: Garzanti, 1999.
PATRIZI, Francesco. Della historia diece dialoghi di M. Francesco Patritio ne’ quali si ragiona di
tutte le cose appartenenti all’historia, & allo scriverla, & all’osservarla.Venezia, 1560.
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