Untitled - Barz and Hippo

Transcript

Untitled - Barz and Hippo
Un'apertura alla speranza nella solidarietà confonde i fan più accaniti dell'umorismo gelido e spesso
cinico di Kaurismaki: senza contare che questo suo ultimo film è un po' più 'parlato' rispetto alla media
del regista finlandese. Miracolo a Le Havre coinvolge lo spettatore grazie all'arguta delicatezza con cui
tratta un tema di stringente attualità, con toni toccanti, ma senza assolvere il sistema.
scheda tecnica
durata:
93 MINUTI
nazionalità:
FINLANDIA, FRANCIA, GERMANIA
anno:
2011
regia:
AKI KAURISMÄKI
sceneggiatura:
AKI KAURISMÄKI
fotografia:
TIMO SALMINEN
montaggio:
TIMO LINNASALO
costumi:
FRÉDÉRIC CAMBIER
scenografia:
WOUTER ZOON
distribuzione:
BIM
interpreti:
ANDRÉ WILMS (Marcel Marx), KATI OUTINEN (Arletty), JEAN-PIERRE
DARROUSSIN (Monet), BLONDIN MIGUEL (Idrissa), ELINA SALO (Claire), EVELYNE DIDI (Yvette),
QUOC-DUNG NGUYEN (Chang), FRANÇOIS MONNIÉ (Il droghiere), ROBERTO PIAZZA (Little Bob),
PIERRE ÉTAIX (Il dottor Becker), JEAN-PIERRE LÉAUD (L'informatore).
Aki Kaurismäki
Aki Kaurismäki, nato nella campagna finlandese, si trasferisce a Helsinki in gioventù con il fratello Mika,
con il quale coltiva fin dall'infanzia la sua passione per il cinema. Sopravvive con umili lavori manuali,
frequentando contemporaneamente cineteche e cineclub, e ben presto inizia la sua carriera come
critico cinematografico. Lui stesso racconta: “Forse ho pensato di fare cinema perché non sono capace
di nessun lavoro onesto. Camminavo ogni giorno su e giù per le vie del centro di Helsinki cercando di
rimediare i soldi per bere, ma era sempre più difficile trovarne. Allora ci siamo detti: cominciamo a fare
film. Uno ha chiesto: su cosa? Io ho risposto: su questo schifo che è la nostra vita”. Decide così di
creare con il fratello la casa di produzione Ville Alpha Filmproductions (chiamata così dal film Alphaville
di Jean-Luc Godard).che realizza a budget ridotto i film di entrambi, opere minimali caratterizzate da
uno stile tipicamente nordico, laconico ed essenziale. I due debuttano nel 1981 con il film La sindrome
del lago Saimaa, documentario sulla musica rock girato a quattro mani sulle sponde del più grande lago
della Finlandia. Nel 1983 realizza poi un Delitto e castigo tratto da Dostoevskj. Poi vengono Calamari
Union, Ombre nel paradiso e nel 1987 Amleto si mette in affari, personale rilettura della tragedia
shakespeariana in chiave anticapitalistica.
Dopo Ariel (1988) realizza nel 1989 La fiammiferaia, con cui prosegue la sua indagine attraverso
l'universo del proletariato tramite la storia di Iris, un'operaia di cui racconta la triste esistenza in fabbrica
e le delusioni amorose. Nello stesso anno porta di nuovo la musica sul grande schermo con Leningrad
Cowboys Go America, folle e surreale road movie che si dipana attraverso il mondo del rock
americano. Dopo Ho affittato un killer (1990), realizza Vita da Bohème, ispirato al romanzo di Henri
Murger, entrambi con l'attore feticcio di Truffaut (Jean-Pierre Léaud) come protagonista. Invece delle
musiche di Puccini, Aki utilizza Mozart e i valzer francesi, spogliando la tragica storia di Mimì da ogni
romanticismo. Con Tatjana (1994) Kaurismäki giunge alla più pura essenzialità realizzando un'opera
quasi priva di dialoghi, ambientata in un mondo surreale, dolce e sconsolato allo stesso tempo. Due
anni più tardi esce Nuvole in viaggio, commedia che prende spunto dall'attualissima problematica della
disoccupazione, mentre nel 1999 Kaurismäki realizza, nello stile del cinema muto con tanto di
didascalie, il film in bianco e nero Juha, adattamento di un classico della letteratura finlandese di Juhani
Abo. Del 2002 è L'uomo senza passato, acclamato da critica e pubblico e premiato a Cannes con il
Grand Prix speciale della Giuria. Dopo il piccolo episodio The Trumpet, per il film collettivo Ten minutes
older (uno degli episodi è firmato dall'amico americano Jarmusch, attore in alcuni suoi film), nel 2006 il
maestro finlandese conferma lo stile surreale e malinconico del suo cinema, commuovendo il pubblico
con la triste storia di un solitario guardiano notturno innamorato di una donna che si rivelerà un'esca
per una rapina (Le luci della sera). Nel 2011 fa centro ancora una volta con il toccante Miracolo a Le
Havre.
la parola ai protagonisti
Aki Kaurismaki
Perché ha scelto un tema come l’immigrazione?
Ho scelto di fare un film su questo tema perché la situazione dei rifugiati insulta la mia dignità. C’è una
totale indifferenza da parte delle autorità su questa situazione, anche in Italia: basta vedere quello che
succede ogni estate a Lampedusa. Ho realizzato questo film non per dare delle soluzioni a queste
problematiche, non è questo il mio lavoro. Ma di questi tempi sembra che non sia il lavoro di nessuno.
Per questo motivo, il problema dell’immigrazione non ha ancora trovato una soluzione.
Ha girato in largo e lungo l'Europa per trovare la location adatta per girare il suo film, come ha scelto Le
Havre?
Me ne stavo tornando a casa deluso e scoraggiato quando sono giunto a Le Havre, una cittadina
portuale che al contrario di altre sue 'sorelle' ha ancora il porto nel centro città e non dislocato in zone
periferiche. E' considerata un po' la Memphis francese, un luogo in cui le contaminazioni musicali del
soul, del blues e del rock'n'roll sono molto forti. Insomma è un piccolo angolo di mondo non molto
moderno, la mia macchina da presa non ama la modernità, le architetture moderne mi fanno male agli
occhi (ride).Avevo pensato di girare a Cadice, in Spagna, ma era una cittadina troppo piccola per le
esigenze di produzione della mia troupe, non volevo aggiungere complicazioni a quelle che già ci sono
di solito durante la lavorazione di un film che coinvolge la movimentazione logistica di trenta o anche
quaranta persone ogni giorno di riprese. Avevo pensato anche a Marsiglia, ma avrei reso la vita
impossibile a tutti visto che per viaggiare da una parte all'altra della città si possono impiegare anche
ore. Le Havre fu bombardata durante la seconda guerra mondiale ma quando fu ricostruita le strade
vennero concepite per essere ben mezzo metro più larghe degli Champs-Elysées, quindi girarci il film
non mi avrebbe creato alcun problema logistico.
Perché i protagonisti del film sono tutte persone di bassa estrazione sociale?
Può sembrare una frase scontata ma è vero che la solidarietà si trova più facilmente tra le persone
povere. Poi sinceramente non saprei cosa raccontare sui ricchi, non sarei capace di immaginare un
dialogo. Le Havre è un luogo dove questa solidarietà si incontra per le strade, è una città abitata solo
da anziani perché i giovani sono tutti a Parigi a cercare lavoro, ma, nonostante ciò, lì tutti fanno musica,
chiunque per strada ti dice che suona in un complesso.
Per uno come lei che vede il cinema come emozione, quanta importanza ha la scelta delle musiche e il
loro uso non solo come colonna sonora ma più come 'presenza'?
La verità è che sono un pigro da Guinness dei Primati, soprattutto nella scrittura dei dialoghi, e quindi
uso la musica come riempitivo dei silenzi che caratterizzano i miei film. Ho cominciato a fare questo
lavoro trent'anni fa, sia come sceneggiatore che come regista, e all'inizio scrivevo dialoghi lunghissimi,
anche di sei pagine ciascuno, poi mi accorgevo che in sala montaggio tutto il mio lavoro veniva
vanificato e allora col passare degli anni ho finito per asciugare il tutto riducendo al minimo le parole.
Questo è uno dei miei film più parlati, quindi pensate gli altri (sorride). Ci tengo a precisare che non
disdegno i film parlati, mi piace guardarli e talvolta penso anche di farli, ma poi quando arrivo al dunque
mi faccio sopraffare da una specie di blocco e torno ad essere conciso.
Molti scrittori scandinavi hanno raggiunto il successo a livello mondiale grazie ai loro thriller. Lei ha mai
pensato di girare un film thriller?
Sì, avevo in mente di girare un thriller, poi mi sono reso conto che tantissimi registi si dedicavano a
questo genere e allora ho cambiato idea, accantonando il progetto. Quando ero giovane, bastava un
solo omicidio per tenere alta la tensione per tutto il film. Oggi, le pellicole sono piene di uccisioni e di
squartamenti, anche nelle serie tv non c’è più il semplice detective, ma il protagonista è il medico che
seziona continuamente cadaveri. Credo che tutto questo sia un segno dei nostri tempi e della nostra
società.
C’è un regista italiano che l’ha particolarmente ispirata per la realizzazione di questo film?
Zavattini e De Sica sono sicuramente due dei miei registi preferiti e il loro “Miracolo a Milano” è uno dei
film che apprezzo di più, anche se non ci sono riferimenti diretti nel film, a parte la similitudine del titolo
italiano del mio film. Soprattutto perché il loro è un film positivo, c’è un barlume di speranza, ma al
giorno d’oggi la condizione della classe operaia è peggiorata.
Alla luce della crisi economica, ha maggiori problemi a trovare i soldi per girare i suoi film al giorno
d’oggi?
Io non ho mai avuto particolari problemi a trovare i soldi per i miei film, anche perché se non li trovavo,
giravo il film lo stesso. Ho sempre seguito il detto: “Smettila di lamentarti! In caso prendi in prestito la
pellicola e ruba la macchina da presa!”
Ha detto che va spesso al cinema, cosa pensa del cinema americano della Hollywood di oggi?
Ci sono due diverse Hollywood per me, quella fino al 1962 e quella successiva. Per me il cinema vero è
quello di Truffaut, di Kurosawa di Robert Bresson, ma mi piace molto il cinema indipendente americano.
Nonostante gli enormi mezzi economici di Hollywood se vi chiedo qual è secondo voi l'ultimo vero
capolavoro sfornato dalle majors negli ultimi venticinque anni scommetto che nessuno mi sa dare una
risposta convincente. Se volete sapere la mia opinione, l'ultimo capolavoro americano che ho visto è
stato Il lungo addio di Robert Altman. Non ci sono più buoni scrittori purtroppo, il cinema americano è
come un serpente a sonagli, sembra morto ma continua a cercare di mordere alzando piano piano la
testa ogni tanto.
Il suo film è anche un omaggio a Melville, c'è un poliziotto vestito di nero, un inseguito, un omaggio
anche al noir francese. Ci spiega a tal proposito la presenza del cattivo del film interpretto da JeanPierre Léaud, l'attore de I 400 colpi di Truffaut?
All'epoca de I 400 colpi Léaud aveva tredici anni e interpretava un ragazzo in fuga perseguitato dalla
società. Con questa interpretazione ho voluto mostrare le sorprese che la vita talvolta può riservarci se
non stiamo attenti e non ci rendiamo conto di cosa succede intorno a noi. E' bizzarro che lui qui faccia
la parte dell'informatore della polizia svelando la presenza del giovane rifugiato in fuga dopo aver
vestito gli stessi panni molti anni prima. Credo che questa sia la nota più pessimistica della storia, un
aneddoto che mette in luce come la società riesca indirettamente a privarci della nostra moralità.
Perché tutti i suoi film sembrano e a volte sono ambientati negli anni '50? Cosa la spinge verso quei
colori particolari, quegli arredamenti e quella tipica luce? Cosa l'affascina di quell'epoca?
Non so, è come se mi sentissi ancorato in maniera indissolubile agli anni in cui ero piccolo, come se
non mi sentissi a mio agio in questo mondo di oggi, sono nato negli anni '50, un'epoca gloriosa in cui ci
si conosceva tra vicini di casa. Ora hanno tutti il videocitofono con la telecamera di sicurezza e amano
trincerarsi in casa. Sarà per questo che ho scelto di vivere in montagna.
Recensioni
Paolo Mereghetti. Corriere della Sera
Lo stile è quello di sempre, la regia e la direzione degli attori anche, così come non cambia la voglia di
scegliere i suoi protagonisti tra i reietti e i perdenti. Ma per una volta non sono la disperazione e lo
sconforto a vincere bensì il sogno e la speranza, con il cinema che per una volta offre i suoi «poteri»
per cambiare la realtà in meglio, per piegarla ai desideri più belli.
Succede così in Le Havre, l'ultimo film di Aki Kaurismäki, ambientato in questa città di moli e container
ma anche di vecchi bar, piccole case di periferia e negozietti sfuggiti alla globalizzazione. Qui si è
rifugiato lo scrittore Marcel Marx, già conosciuto in Vita da bohème: interpretato dallo stesso attore,
André Wilms, ha scelto di fare il lustrascarpe, «l'unico lavoro, con il pastore, che ti permette di stare
vicino al popolo» anche se la diffusione delle sneakers rende la vita della categoria sempre più
problematica.
Così Marcel tira a campare come può con la moglie Arletty (Kati Outinen, un'icona kaurismakiana) e il
cane Laika quando il caso gli fa incontrare il giovane Idrissa (Blondin Miguel), immigrato clandestino
sfuggito alla polizia che finisce per nascondere in casa, proprio mentre Arletty deve essere ricoverata in
ospedale per una malattia senza speranze.
Ma siamo in un film di Kaurismäki e la logica stringente della realtà può lasciare il campo a inaspettati
capovolgimenti di senso. Così Marcel che si mette alla ricerca dei parenti africani di Idrissa può
presentarsi al direttore del centro di accoglienza come «l'unico fratello albino» di una famiglia
decisamente nera, l'investigatore dal fiuto sopraffino (Jean-Pierre Darroussin) incaricato di ritrovare il
giovane clandestino preferisce inseguire veri criminali e durante i suoi giorni di riposo può anche offrire
preziosi «suggerimenti» a Marcel, mentre gli abitanti del quartiere fanno prova di una solidarietà senza
limiti. E per la malattia di Arletty? In fondo anche il professore che l'ha in cura (Pierre Etaix) deve
ammettere che in Giappone si era già verificata una guarigione miracolosa...
E proprio miracolo è la parola giusta da usare, per sintetizzare lo straordinario equilibrio tra intenzioni e
realizzazioni, tra semplicità della messa in scena e poesia della recitazione e dei dialoghi. Ma se a
questo «miracolo artistico» potevamo essere già preparati con Kaurismäki, quello che stupisce è
proprio il ricorso a un miracolo vero e proprio per invertire la marcia della realtà. Il regista non chiude gli
occhi di fronte al dolore del mondo: parla di povertà, di immigrazione clandestina, di repressione, di
malattia. Ma poi chiede al cinema di cambiare le carte in tavola, alla ricerca di quell'happy ending che
una volta era visto come la prova provata del cinema oppio dei popoli.
E curiosamente, qui a Cannes, anche due registi non certo accusabili di manipolazione della realtà
come Woody Allen e i fratelli Dardenne hanno sentito il bisogno di mettere dei «miracoli» nei loro film.
In Midnight in Paris serve a liberare il protagonista dalle sue repressioni ma anche dai suoceri «zombi
parafascisti» (cioé militanti dei Tea Party) mentre in Le Gamin au vélo (Il ragazzo con la bicicletta) non
c'è neanche bisogno del taxi che viaggia attraverso le epoche: colpito da una pietra - cioè dall'odio di
chi non sa perdonare - e caduto da un albero, il giovane Cyril «è» morto. Ma poi l'intervento dell'angelo
buono (non può essere un caso che a risvegliarlo sia il suono della telefonata di Samantha, la
personalissima «fata» del film) fa sì che il ragazzo «miracolosamente» si alzi.
Né Woody Allen né tanto meno i Dardenne o Kaurismäki avevano nascosto nei loro film precedenti la
nevrosi o la cattiveria o la disperazione del mondo. Ognuno a loro modo ce ne aveva restituito un
ritratto decisamente cupo, dove il pessimismo della ragione cancellava anche gli sforzi dell'ottimismo
della volontà.
E nei film presentati quest'anno a Cannes il quadro era poco o niente allettante: stupidità e idee
reazionarie per Allen, abbandono e corruzione per i Dardenne, povertà e malattia per Kaurismäki. Poi
un miracolo cambia tutto. Come se questi registi sentissero intuitivamente che qualche cosa deve
cambiare, che il mondo non può andare avanti così. Il cinema per i miracoli è attrezzato da tempo, oggi
questi autori ci invitano a farlo anche nel mondo reale. E senza perdere tempo.
Fulvia Caprara. La Stampa
Che meraviglia vivere nel mondo di Aki Kaurismäki, nella stradina quieta di una città di mare dove i
vicini di casa si aiutano l’uno con l’altro, dove un giovane clandestino africano trova riparo e protezione,
dove ci si ammala gravemente e si guarisce perché sarebbe giusto che ad ogni buona azione
corrispondesse un premio. Ieri mattina Le Havre ha ricevuto tanti applausi felici e soddisfatti. Il pubblico
lasciava la sala con un gran sorriso sulle labbra. Ogni tanto, in mezzo agli orrori e alle ingiustizie,
qualcosa che provi a riconciliare con la parte buona dell’umanità, ci deve pur essere. Le Havre è nato
da questa disposizione d’animo, dalla scelta di affrontare un tema serio e grave come l’immigrazione,
con la doppia lente della favola ironica e della passione cinefila. Da una parte le figure tipiche del
mondo dell’autore, con le loro facce più vere del vero, dall’altra i rimandi alle atmosfere dei film di
Bresson, Melville, Tati, Carnè.
Anche i nomi dei personaggi non sono scelti a caso, ognuno ha il suo rimando cinematografico, ognuno
ricorda qualcosa e qualcuno. Il protagonista, lustrascarpe con un passato da intellettuale bohémien, si
chiama Marcel Marx, vive con la dolce Arletty che lo aspetta a casa preparandogli la cena e
conservando i guadagni della giornata in una scatola di latta. Un giorno, nella loro vita semplice, entra
Idrissa, un ragazzino in fuga dalla polizia, appena sbarcato da un container, rimasto senza padre e
senza aiuto, con l’unica prospettiva di raggiungere la madre che lavora a Londra. Marcel lo accoglie in
casa, proprio nei giorni in cui Arletty viene ricoverata in ospedale con una pessima diagnosi. Gli amici
del quartiere gli danno manforte, tutti d’accordo a depistare le indagini del commissario Monet e a
rendere inutile la delazione di un Jean Pierre Leaud più sinistro (e invecchiato) che mai. «Era da un po’
che avevo in mente l’idea di questo film - spiega il regista -. Il cinema europeo non si è interessato
abbastanza alla crisi finanziaria, politica, e soprattutto morale, che ha reso sempre più irrisolvibile la
questione dei rifugiati. Persone che cercano una maniera di sopravvivere nei nostri Paesi e che
vengono trattate in maniera assolutamente inadeguata. Non ho risposte per questo problema, ma
volevo occuparmene, da una prospettiva non realistica». Crisi di ottimismo? «Ho sempre prediletto la
versione di Cappuccetto Rosso in cui è il lupo a essere divorato e non il contrario , ma nella vita reale
preferisco i lupi ai visi pallidi di Wall Street».
Nel tentativo di aiutare Idrissa, Marcel va fino a Calais, dove il nonno del bambino vive in un centro di
accoglienza. Per entrare dice di essere un parente, ma la sua pelle è bianca: «Sono l’albino della
famiglia», spiega, provocando una valanga di risate in platea. L’altra battuta clou spetta ad Arletty. Il
medico le spiega che difficilmente potrà guarire, anche se, certo, i miracoli esistono: «Non nel mio
quartiere», risponde la paziente. I soldi che consentiranno al bambino di partire per l’Inghilterra
vengono raccolti grazie al concerto organizzato su due piedi da Marcel e dai suoi amici. La star è Little
Bob, rocker attempato ma ancora grintoso. Gli italiani al Festival hanno subito pensato a Little Tony,
Kaurismäki spiega: «Le Havre è la Memphis di Francia e Little Bob è la versione locale di Elvis
Presley». (...) «Mi auguro che la fratellanza esista ancora, così come la speranza e la voglia di ridere,
altrimenti staremmo già vivendo tutti in quel formicaio che Ingmar Bergman aveva più volte
pronosticato». Di Le Havre si è detto subito che potrebbe entrare nel Palmarès, magari un Gran Premio
della giuria, ma ancora mancano diversi pezzi forti e la sensazione è che, quest’anno, i giurati avranno
davvero l’imbarazzo della scelta.
Fabio Ferzetti. Il Messaggero
Tra i tanti grandi autori 'abbonati' al Festival di Cannes, uno dei pochi ancora misteriosamente mai
premiati con la Palma d'oro è Aki Kaurismäki. Eppure il grande finlandese di 'Nuvole in viaggio', 'L'uomo
senza passato', 'Le luci della sera', è uno di quei registi che fanno sempre lo stesso film ma ogni volta ci
incanta. Non è ancora un aggettivo perché il nome non si presta. E non sarà mai popolare come merita
perché si ostina (per fortuna) a fare l'elogio della povertà attraverso dropout, barboni, operai, lavoratori
dai gesti lenti e dalla lingua curata. Filmati con tutto l'amore, la fantasia e l'umorismo a miccia lenta con
cui riprende i muri scrostati, le insegne scolorite, i bar di quartiere dove la gente ancora si parla e
magari si dà una mano. Perché da nemico della modernità (dei suoi costi, della sua estetica)
Kaurismäki sa che la solidarietà è sorella della penuria; e che solo dove manca quasi tutto si trova
ancora l'essenziale. (...) Altro che ottimismo della volontà. Qui siamo al potere taumaturgico della bontà,
che sconfina nella fede - fede nel cinema - ed esige spettatori devoti. Anche se Kaurismäki 'predica'
attraverso oggetti desueti quanto carichi di sentimento come vecchi juke box, lunghe chiacchierate,
bicchierini di calvados; e gesti invisibili che spostano le montagne. Gli scettici alzeranno le spalle, ma è
un problema loro.
«Perché un film sugli immigrati? Perché il modo in cui vengono trattati in Europa insulta la mia dignità di
uomo. E perché non avevo altre idee al momento», dice sornione il grande finlandese, anche lui a suo
modo un migrante visto che da 22 anni ormai vive in Portogallo. Ma ha ancora senso, coi tempi che
corrono, proporre un mondo popolato da marginali altruisti che ricorda «Miracolo a Milano» di De Sica e
Zavattini, autori amatissimi da Kaurismàki? «Non so se l'altruismo sia una soluzione. Non spelta a me
trovarne, non è il mio mestiere, anzi forse non è il mestiere di nessuno visto che nessuno fa nulla.
Quanto a«Miracolo a Milano», Bunuel odiava il suo ottimismo, lo trovava falso, socialdemocratico, e per
reazione girò il durissimo «Los Olvidados». Ma chi scaglierà la prima pietra contro De Sica? Certo non
io». Le Havre non è il primo film di Kaurismaki girato in Francia, ma visto quanto succede lungo le
nostre coste avrebbe potuto anche farlo in Italia. «Conosco la vostra situazione, anche se preferivo i
tempi in cui Lampedusa era solo l'autore del Gattopardo», scherza ma non troppo il regista. «Il fatto è
che l'Italia mi fa paura. Gli italiani hanno tutti dentro una specie di Etna che può risvegliarsi da un
momento all'altro. Coi francesi e più facile: sono così borghesi...». E oggi rifarebbe lo stesso film, o
pensa che le cose stiano cambiando? «Qualcosa si muove, lentamente. Oggi ho saputo dell'appello del
vostro presidente Napolitano per riconoscere la nazionalità italiana a tutti i figli di migranti nati qui.
Chissà, le cose forse camberianno davvero. Solo dieci giorni fa, prima della caduta di Berlusconi, non
lo avrei mai detto». Un italiano però c'è in «Miracolo a le Havre». Il rocker Little Bob, una specie di Elvis
arrabbiato e di mezz'età che sembra nato dentro un film di Kaurismàki. «A Le Havre è un'istituzione. Si
candidasse sindaco, vincerebbe a mani basse». E poi c'è il mestiere del protagonista. Lustrascarpe. Un
lavoro quasi scomparso ma famoso nel mondo grazie a un titolo tutto italiano. Sciuscià.
Silvio Danese. Nazione-Carlino-Giorno
La crisi della migrazione africana secondo il Chaplin finlandese Aki Kaurismàki è una storia che si ripete
nel suo universo di colori tenui, cinema classico e personaggi perduti, ma non perdenti, nella composta
e taciturna solidarietà sulla frontiera permanente tra la malinconia degli onesti e l'aggressività degli altri.
E'un mondo a parte, quello di Kaurismàki, l'unico grande "stilista" del cinema europeo, un microcosmo
perfetto per accogliere la peripezia di Idrissa, ragazzino magrebino in fuga per ricongiungersi con la
madre a Londra, di passaggio e braccato dalla polizia nella imperturbabile Le Havre. Lo aiuta il
bohémien Marcel Marx, scrittore e lustrascarpe (André Wilms, uno dei volti dei dipinti di Kaurismàki,
con l'immancabile icona Kati Oiainen), sostenuto da un rude, ma benevolo commissario (Jean-Pierre
Daroussin, che rivela la sua attitudine fisiognomica al cinema di Kaurismàki). Nel borgo di baracche di
legno verde e rosa, tra i mobili di tek invecchiato, le auto di cinquantanni fa, i volti portuali di ceffi teneri
e donne trapassate da speranze perdute, i fatti e i sentimenti sono chiarì ed eterni, la moralità e la
solidarietà senza condizioni. In concorso, applaudito a lungo come un maestro (di lunghi e accaniti
alcolismi) merita, "Le Havre" non è un omaggio al cinema di Carnè, Arletty, Ophuls o della poesia di
Prevert, ma l'incarnazione di un possibile nuovo soffio di quella sensibilità artistica e umana.
Andrea Scanzi. Il Fatto Quotidiano
“Restano i miracoli", dice il dottore. "Non nel mio quartiere", replica Arletty. Una delle protagoniste di
Miracolo a Le Havre, l'ultimo (e ottimo) film di Aki Kaurismaki. Un lustrascarpe, una moglie malata, un
cane. E un ragazzino africano immigrato, arrivato in Francia con un container. Il titolo rimanda a
Miracolo a Milano, lo stile ricorda Melville, Renoir e Bresson. Un film poeticamente terribile. E un lieto
fine che non nasconde il chiaro "messaggio politico" del regista. Come ha scritto Lorenzo Rossi su
Doppio Zero: "Ce l'ha con l'Europa tutta, Kaurismaki. Ce l'ha con un sistema globale che privilegia il
denaro e dimentica le persone e con un apparato sovranazionale che utilizza i mezzi della legge per
escludere invece che per accogliere. Ma soprattutto ce l'ha con la società contemporanea, una società
che crede nei miracoli senza rendersi conto invece, che le tragedie accadono ogni giorno". Il cinema
degli altri racconta il mondo, ci si confronta e ci si sporca. Rischia, denuncia, disturba. Il nostro, quasi
sempre, alla storia preferisce il cazzeggio e al dramma il ridanciano. Perfino gli americani, che sul
predominio de 11 ' entertainment ha uno costruito un impero, sembrano tornati qua e là alla militanza
sanamente didascalica (Le idi di Marzo).
In Italia la tendenza è appena diversa. Salvo rari casi, il menu prevede cinepanettoni scaduti e
commediole accomodanti, con quel dolciastro retrogusto assolutorio che tanto rassicura. Addio cinema
civile, ma pure arrivederci commedia all'italiana (quella vera). Del presente non si parla, a meno che
non sia pittoresco. Niente disoccupati, niente immigrati, niente sindacali. Niente razzismo, se non per
tramutarlo in salamelecco bipartisan (Benvenuti al Sud. Benvenuti al Nord, Benvenuti nel Nulla). Al
cinema si va per ridere, che la vita è già triste di suo: mica vorrete pensare anche guardando un film?
Disimpegno, dunque: e risa, e ammicchi, e famose du' spaghi. Tutti insieme appassionatamente,
bamboccioni e maggiorate, anelando ardentemente a un invito di Bruno Vespa per un pregnante
dibattito sull'immaturità dei quarantenni. Eppure altrove non è così. Ancora Francia, ancora un film
semplicemente calalo nel suo tempo. Le nevi del Kilimangiaro, di Robert Guediguian. Un uomo
licenziato, rapinato da un (apparente?) gruppo di balordi di cui fa parte un ex collega di lavoro.
Licenziato pure lui (...).
Curzio Maltese. La Repubblica
«Nel suo caso ci vorrebbe un miracolo. I miracoli a volte accadono», dice il medico alla paziente grave
e povera. «Non nel mio quartiere». Chi l'avrebbe immaginato? La migliore battuta della rassegna di
Cannes è in un film di Aki Kaurismäki. Dopo il pessimismo e la malinconia di Le luci della sera, il
maestro finlandese torna ai toni più leggeri e all'humour geniale con Le Havre, uno dei film più belli in
concorso. Riso e commozione sono da sempre colori presenti nella tavolozza di questo magnifico
pittore di cinema, ma di rado capita di vederli così ben distribuiti sulla tela dello schermo.
È la storia di Marcel Marx (Andrè Wilms), ex scrittore e bohémien sulla sessantina, rifugiato da Parigi a
Le Havre, dove conduce una vita povera e felice, fra il lavoro di lustrascarpe, svolto con solenne
fierezza, le bevute al bar e il caldo ritorno a casa dall'amore, la moglie Arletty (Kati Outinen).
L'esistenza di Marcel viene però rivoluzionata da due eventi inattesi, la malattia di Arletty e l'incontro
con un ragazzino del Gabon, Idrissa, scappato al porto da un container di clandestini. Per l'anziano
bambino è venuto il tempo di crescere in fretta, lucidare le proprie scarpe, vestirsi da adulto e partire
come uno sgangherato, sublime super eroe di periferia, alla guerra contro l'ingiustizia.
Qui si assiste a una trasformazione al cui confronto lo Spider Man di Hollywood fa pena. Marcel riuscirà
non soltanto a mandare avanti la casa, pur orfano della materna compagna, ma a proteggere il piccolo
rifugiato dai poliziotti e dalla feroce caccia di un vicino fascista, a coinvolgere nella solidarietà mezzo
quartiere e infine a organizzare un concerto rock per procurare a Idrissa i soldi necessari per
raggiungere la madre a Londra. L'impresa si compie con la progressiva complicità del commissario di
polizia un po' cinico e misantropo.
È una storia universale. «Avrei potuto girarla in Italia, Grecia o Spagna» dice Kaurismäki, che dice
d'aver scelto Le Havre per il blu, il paesaggio del Nord e il rock'n'roll. Nell'affrontare il tema
dell'immigrazione, il più importante in politica e anche nel cinema di oggi, l'artista finlandese non si
pone nemmeno per un istante lo scrupolo del politicamente corretto o scorretto. Parte dalla semplice
constatazione che qualsiasi stato, ordinamento, autorità, legge, necessità politica, arrivi a vietare il
ricongiungimento di un bambino con la madre, diventa per ciò stesso spregevole, disumana, criminale.
È una legge che un uomo, se è tale, può soltanto disobbedire.
L'aspetto triste è che il film di Kaurismäki sia stato accolto a Cannes come un pura favola
sull'immigrazione, la nostalgia di un artista sensibile per una solidarietà che si può vedere soltanto al
cinema e non nella vita. «Spero proprio di no» ha risposto l'autore. Per fortuna, ha ragione. La realtà
delle città nostre, spagnole, francesi, è piena di gente di quartieri poveri che aiuta immigrati ancora più
poveri a sfuggire alla caccia all'uomo. Soltanto, non fanno notizia. Spesso perché non possono e non
vogliono. Ed è un amaro paradosso che sui media si possa esercitare ogni giorno il più miserabile
razzismo, mentre i protagonisti di atti di solidarietà meravigliosa sono costretti a nasconderli per evitare
la galera.
Le Havre è stato accolto con entusiasmo dai giornalisti e dal pubblico, per una vota d'accordo. La
qualità visiva e gli attori sono come sempre straordinari. Rispetto alla famiglia di attori coinvolta da
Kaurismäki, bisogna annotare l'esordio del grande Jean-Pierre Daroussin, già ammirato l'altro giorno
nelle Nevi del Kilimangiaro di Guédiguian, nella parte del commissario. Folgorante l'apparizione in
concerto di Litte Bob, al secolo Roberto Piazza, idolo del blues rock francese. Notevolissimo il cammeo
di Jean-Pierre Léaud, nei laidi panni del vicino di casa. Proprio lui, l'Antoin Doinel de I 400 colpi di
mezzo secolo fa, nel ruolo dell'infame cacciatore di un bambino in fuga per amore, l'Idrissa di Blondin
Miguel, un altro dei piccoli grandi attori di questa Cannes.
Maurizia Ciotta. Il Manifesto
Contro «chi guarda ma non vede», Aki Kaurismaki esercita il suo occhio allo stupore, popola il suo
cinema di figurine pietrificate di fronte a un mondo capovolto. Non fa il poeta che orchestra una sinfonia
irreale, semplicemente indica l'essenza delle cose, l'incanto dei dettagli. Inquadrature limpide, fermoimmagine sul «nulla». Un po' Marcel Carné nel Porto delle nebbie, ed è proprio a Le Havre che sbarca
il regista finlandese con il suo ultimo capolavoro, omaggio al maestro. «Ho studiato i film di Carné ma
non sono riuscito a rubargli molto», la location e il nome sì, perché in Miracolo a Le Havre (nel titolo
originale il «miracolo» non c'è) il protagonista (André Wilms) si chiama Marcel, di cognome Marx, e non
parliamo di Groucho. Il nome è tutto un programma, e fa miracoli. Aki Kaurismàki deve far sfoggio di un
«ottimismo innato» per giustificare il suo ultimo capolavoro, Le Havre (concorso), una storia di ordinaria
umanità, ma di di questi tempi chi non è «moderato»» si sa, è un terrorista. L'”estremista di sinistra” è
accettato solo nelle «favole» (e a Milano). Così il regista finlandese, applaudito più di ogni altro ieri
mattina nella proiezione stampa, ha eliminato «chi guarda ma non vede», e disseminato il film delle sue
solite figurine pietrificate, sbalordite di fronte a un mondo all'incontrario. Kaurismäki disegna il suo
presepe laico - il miracolo è tutto umano - e dà il via a un thriller emozionante, gioco di equivoci e
tranelli, 'realismo poetico' con humour. Questo si che è un 'cinepanettone', degno di Frank Capra. Gli
angeli però sono il ciabattino e il fornaio, la signora della porta accanto, il portuale, e perfino l'ispettore
Monet. (…) Kaurismàki se ne va a Le Havre, Normandia, per raccontarci di Marx (André Wilms),
scrittore bohémien in esilio volontario al suo banchetto di lustrascarpe. La cittadina sul bordo della
Manica ha i contorni disadorni amati dal regista di Nuvole in viaggio, un crocevia di stradine, misero
fruttivendolo, bar scalcinato, facce prosciugate, casette ammassate sul porto, una Francia perfetta per il
poemetto dedicato a Idrissa (Blondin Miguel) un ragazzino africano sbarcato da un container. «Ho
studiato i film di Marcel Carnè ma non sono riuscito a rubargli morto», dice il regista, che trascina «i
bambini del paradiso» sulla terra e fa del «realismo poetico» alla sua maniera, solenne e minimalista.
C'è un po' di Jacques Tari nello stupore di Kaurismàki, surrealtà dei dialoghi, sciabolate comiche, antirecitazione beckettiana, opere in cui non succede nulla e dove tutto viola la forza di gravità.
Idrissa si divincola dai poliziotti, gli altri saranno probabilmente rimpatriati, e capita davanti a Marx e a
Laika («cagnetta della quinta generazione»), un trio dal linguaggio forbito, alleato contro il triste e
solitario ispettore Monet (Jean-Pierre Darroussin), cacciatore di «clandestini», un ometto dal cappello
nero, sospettoso e deciso a scovare il fuggitivo. Con i tratti di matita di un Peanuts, Kaurismàki disegna
le coordinate dell'avventura «extracomunitaria», Idrissa nascosto nell'armadio, dentro un carretto, dietro
una. porta mentre il lustrascarpe, malvisto fino a quel momento dal vicinato, diventa la primula rossa di
Le Havre e come in un musical orchestra l'opera di soccorso corale. Chi riempie cassette di viveri, chi
nasconde il bambino, chi organizza un concerto con il mitico Little Bob, «l'Elvis di Le Havre», ex
rockstar dai capelli bianchi e arruffati, per raccogliere i 3000 euro necessari al noleggio del
peschereccio che porterà Idrissa sul suolo britannico, la mamma lo aspetta a Londra, il padre,
professore, è morto chissà come.
Marx si dà da fare nonostante la malattia dell'amata moglie Arletty, ricoverata in fase terminale. E basta
con tragedie, miserabilismo, sentimentalismo. Il film lievita nell'esilarante tocco di chi ha «inventato» i
Leningrad cowboys, e non ama i simboli («non ci sono nei miei film») ma le persone, mai «eccedenti»,
tributo «al problema non risolto dei rifugiati», di cui «il cinema europeo si occupa poco». Non c'è niente
di meglio da vedere che un ispettore, sedotto dal dono imprevisto di un ananas, seduto sul boccaporto
sbarrare il passo a un suo agente, dopo aver incrociato lo sguardo con il bambino nascosto nella stiva.
Roba da Casablanca, Omaggio a Marx.