03 april 2 col saggi e dibat ok

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03 april 2 col saggi e dibat ok
mondoperaio
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mondoperaio
10/2014
rivista mensile fondata da pietro nenni
10
ottobre 2014
eugenio colorni
becherucci > valvano > d’andrea > rolando > dastoli > cerchiai > r. colorni
articolodiciotto
liso
riforme e partiti
pombeni > spada > iacovissi > monaco
mastromartino > del corno > salvatore > baldacci
romano > benzoni > capogrossi > ballistreri > damele
ocone > di matteo > giuliani > covatta
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Questo numero è stato chiuso in tipografia il 9/10/2014
mondoperaio
rivista mensile fondata da pietro nenni
>>>> sommario
10
ottobre 2014
editoriale
Luigi Covatta Undicesima ora
3
articolodiciotto
Franco Liso L’eterno ritorno del sempre uguale
5
riforme e partiti
Paolo Pombeni Un sistema al capolinea
Celestino Spada Se si vola troppo alto
Vincenzo Iacovissi Le province in via di estinzione
Matteo Monaco Cronache di rottamati
21
saggi e dibattiti
Fabrizio Mastromartino Il rigore e l’impegno
Nicola Del Corno Il socievole eremita
Antonio Salvatore Da Voltaire a Norimberga
Valentino Baldacci Le vestali della bellezza
39
aporie
Antonio Romano Risse non negoziabili
58
eugenio colorni
Andrea Becherucci Soprattutto socialista
Livio Valvano L’esilio di Melfi
Giampaolo D’Andrea L’antifascista moderno
Stefano Rolando Profilo di un visionario
Pier Virgilio Dastoli Il laboratorio di Ventotene
Geri Cerchiai Il filosofo militante
Renata Colorni Ricoscoprire un padre
59
biblioteca/recensioni
Alberto Benzoni Diario di un migliorista
Luigi Capogrossi La continuità di uno Stato improvvisato
Maurizio Ballistreri La concertazione non è un pranzo di gala
Giovanni Damele La società della sfiducia
77
biblioteca/schede di lettura
Corrado Ocone Le religioni dell’uomo-Dio
Danilo Di Matteo La Riforma e la democrazia
92
www.mondoperaio.net
sommario / / / / mondoperaio 10/2014
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>>>> editoriale
Undicesima ora
>>>> Luigi Covatta
I
l Vangelo secondo Matteo (quello vero) riporta una parabola che a lungo ha tormentato gli esegeti: quella del
vignaiolo che, dopo avere ingaggiato un certo numero di operai per l’intera giornata, ne chiama altri - alla terza, alla sesta
e perfino all’undicesima ora - e poi retribuisce tutti con lo
stesso salario. E’ il paradosso cristiano per cui gli ultimi
saranno i primi e i primi saranno gli ultimi. Ma può insegnare
molto anche in un contesto mondano, come è per definizione
quello in cui si svolge la vicenda politica di una nazione.
Nella sinistra italiana, ora, sono scesi in campo gli operai dell’undicesima ora. Quelli a cui nessuno pensava all’inizio della
giornata. Quelli che per undici lunghe ore non hanno faticato.
Quelli che vengono premiati con la stessa moneta che altri si
sono dovuti sudare. Onestamente, è difficile da digerire. Specialmente da parte di chi, nel corso della giornata, della vigna
aveva imparato a conoscere tutti i segreti, e comunque era
stato chiamato per primo in ragione della propria riconosciuta
professionalità. Si può capire, dunque, lo sconcerto con cui ha
reagito all’avvento di Renzi quella che un giornalismo pigro
e ripetitivo ha subito ribattezzato la “minoranzapiddì” (tutto
attaccato, come si addice alla comunicazione tweet): la reazione, cioè, di quanti per vent’anni si sono affannati fra tralci
e filari, hanno sperimentato innesti e concimi, senza peraltro
arrivare mai alla vendemmia.
La vendemmia, infatti, è toccata proprio agli operai dell’undicesima ora. Ma non si tratta nè di un paradosso, né di un
capriccio del vignaiolo. Il paradosso, semmai, è quello per cui
vent’anni fa i postcomunisti – prima di diventare, insieme con
la Bindi e con Mucchetti, la “minoranzapiddì” - si trovarono
proiettati al centro del nuovo assetto di potere proprio nel
punto più basso della loro parabola politica, culturale ed elettorale, e furono destinatari di un’offerta faustiana che non
potevano rifiutare ma che non erano nemmeno in grado di
gestire in prima persona, come scrive nelle pagine che
seguono Alberto Benzoni recensendo l’onesto diario di
Umberto Ranieri.
Quanto al capriccio del vignaiolo, nulla di più razionale del
premio assegnato all’ultimo venuto. E non solo in ossequio
al teorema del TINA (there is no alternative ), che pure
sarebbe facilmente dimostrabile. Soprattutto perché gli operai dell’undicesima ora mostrano di saper leggere lo scenario politico (a cominciare da quello che sta fuori dal recinto
della vigna) con maggiore lucidità di tanti professionisti di
lungo corso.
Molti, per esempio, si sono stupiti per il gesto politico con cui
Renzi ha interrotto la litania di quelli che non volevano
“morire socialisti” ed ha aderito al Pse. E qualcuno ha addirittura ritenuto di poter mettere in contraddizione quella scelta
con la deriva “centrista” del suo governo. C’è da chiedersi in
che mondo vivano certi commentatori, se non in quello dei
sogni della loro gioventù. Non, comunque, in quello in cui
Marine Le Pen si appresta a fare un sol boccone della destra
“repubblicana” francese, ed in cui Cameron e la Merkel sono
incalzati da movimenti antieuropeisti sempre più aggressivi.
E’ in questa Europa reale che la posizione del Ppe, benchè
ancora lievemente maggioritaria nel Parlamento, diventa ogni
giorno più insostenibile (e prima se ne convinceranno anche i
socialisti del Nord meglio sarà per tutti). Ed è in questa
Europa reale che il Pse costituisce il principale argine a una
deriva di destra che altrimenti travolgerà anche i Tories e la
Cdu, dopo avere già travolto Berlusconi e Sarkozy.
Anche per questo, del resto, Renzi può permettersi di sfidare
i mandarini di Bruxelles: non perché, come dicono, assomma
l’incoscienza di un Giamburrasca all’irruenza di un Capitan
Fracassa; ma perché ha capito che è finito il ciclo politico nel
quale gli eurocrati hanno fatto il bello e il cattivo tempo, e che
tocca ai socialisti aprirne uno nuovo, per rappresentare quella
maggioranza di cittadini europei che crede ancora nell’Unione, e che anzi ad essa si affida per tutelare il proprio
modello sociale. Il quale non si fonda sull’articolodiciotto
(anche questo tutto attaccato, come si addice a un feticcio che
ormai vive di vita propria), ma sulla crescita economica.
Se questa è la sfida, si fa fatica a comprendere non tanto il
diciannovismo di Landini, quanto la disponibilità della Cgil a
farsi strumento di manovre correntizie in seno al Pd. Anche
perchè non è più il tempo in cui, al congresso del Pds del
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1997, Cofferati poteva costringere D’Alema a rimangiarsi
nella replica quel Jobs Act ante litteram che era stato il leitmotiv della sua relazione. Ora i ruoli sembrano rovesciati. E
se allora la pretesa di sostituirsi al partito comunque non fece
bene al sindacato, si può immaginare quali vantaggi avrà il
sindacato oggi nel diventare “base di massa” di una corrente
di notabili spodestati.
Fu per questo, fra l’altro, che allora gli operai della prima ora
fallirono il disegno che avrebbe consentito un’evoluzione più
lineare della vicenda della sinistra italiana, attraverso la formazione di un grande partito socialdemocratico che si
lasciasse alle spalle sessant’anni di conflitti, da Livorno a San
Valentino. Ed è per questo, forse, che oggi c’è ancora chi
evoca l’occupazione delle fabbriche e chi minaccia sfracelli
sull’articolodiciotto con la stessa orgogliosa sicurezza con cui
li aveva minacciati su due punti di scala mobile.
Che Renzi lo sappia o no, infatti (e che gli faccia o no piacere), quello che è andato in scena fra settembre ed ottobre è
un copione già visto. Ed è un copione a lieto fine non solo per
chi è uscito vincente dal confronto, ma anche per chi nell’immediato ne è uscito soccombente. Per il sindacato, almeno,
che allora si vide restituito un potere di contrattazione salariale che ormai aveva appaltato all’Istat, ed ora può vedersi
restituire un potere di contrattazione nell’organizzazione
aziendale ormai appaltato alla magistratura del lavoro. E
pazienza se non lo capiscono i marxisti immaginari che non
solo non hanno appreso la lezione del Diciotto Brumaio, ma
preferiscono navigare nell’empireo dei “diritti” invece di lottare sul terreno della conquista dei poteri.
Minore pazienza, invece, nel seguire i ragionamenti di chi (per
secondarlo o per contrastarlo) sospetta che Renzi, dopo essersene impossessato in limine, voglia ora spiantare la vigna della
sinistra. Sempre che, s’intende, l’europeismo rappresenti
ancora per la sinistra un valore (come settant’anni fa auspicava
Eugenio Colorni, la cui figura rievochiamo in questo numero
della rivista); e sempre che non si identifichi la sinistra con i
cimeli di un partito di opposizione del secolo scorso: con tanti
saluti a una “vocazione maggioritaria” che non può ridursi
banalmente alla voglia di vincere le elezioni, ma consiste nella
capacità di rappresentare gli interessi, i bisogni e le aspirazioni
della maggioranza dei cittadini, senza preoccuparsi di diventare perciò il “partito della nazione” (aspirazione, peraltro, che
dovrebbe stare nel Dna di ogni partito).
I problemi, semmai, sono altri. San Matteo (quello vero) non
ci ha raccontato quale fu l’esito della vendemmia portata a
termine dagli operai dell’undicesima ora. Se cioè essi, abili a
mondoperaio 10/2014 / / / / editoriale
vendemmiare, fossero stati altrettanto capaci nel vinificare.
La procedura, come si sa, è complessa, e se non si conosce
bene l’enologia il vino può andare in aceto: dopo di che non
c’è marketing che tenga per poterlo smerciare.
Da questo punto di vista non guasterebbe qualche enologo in
più, e non sarebbe inutile neanche una più attenta manutenzione delle cantine. Se non altro per evitare che si crei il vuoto
fra il leader e quei cacicchi di periferia il cui ruolo – anche per
il combinato disposto di sistemi elettorali vecchi e nuovi –
rischia di essere ulteriormente potenziato. Se anzi il dibattito
pubblico si concentrasse su questo, invece di ridursi alla dialettica dei “mi piace” e “non mi piace” sull’immagine di
Renzi, avremmo già fatto un passo avanti. E un altro ne
faremmo se ci dedicassimo alla manutenzione della nostra
democrazia con la stessa assiduità con la quale altri ne denunciano il crollo ogni mattina, ora per la fine del bicameralismo
perfetto, ora per il superamento dell’articolodiciotto.
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>>>> articolodiciotto
L’eterno ritorno del sempre uguale
>>>> Franco Liso
Avevamo chiesto a Franco Liso un commento sullo psicodramma che si sta rappresentando
a proposito dell’eventuale superamento dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori.
Ci ha mandato un suo saggio pubblicato negli “Studi in onore di Giorgio Ghezzi”
editi da Cedam nel 2005. Lo pubblichiamo così com’era, a testimonianza della ripetitività
di un dibattito che non approda mai a un risultato.
Devo convenire con la redazione che quanto scritto
una decina di anni fa mantiene una sua attualità.
Nonostante l’articolo 18 rappresenti un elemento decisamente marginale ai fini del problema della disoccupazione, lo scontro intorno ad esso continua ad
avere un’alta valenza ideologica. La novità, questa
volta, è data dal fatto che esso si svolge in casa Pd, e
che, per chi lo ha attizzato, sembra funzionale ad una
modernizzazione della propria immagine sul mercato
politico.
In quanto ideologico, lo scontro non mi appassiona:
ma devo confessare che avverto tristezza per una sinistra che emotivamente si arrocca nella difesa di un
tabù, salvo poi accettare arretramenti strategici. Un
arretramento è stato già compiuto due anni fa con la
legge Fornero, che ha eliminato l’assurda situazione
della reintegrazione come sanzione unica per qualsiasi
forma di illegittimità del licenziamento. Arretramento
saggio, ma compiuto attraverso formule che hanno
vieppiù complicato il quadro normativo a beneficio
del ceto consulenziale e forense. Un altro arretramento
è ora disposta a compiere con l’accettazione della figura del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti, che costituisce la risultante di una situazione
in cui si dà per scontato che il tabù è intoccabile. Ma
diciamo la verità: non rappresenta, questo, l’ammissione che l’articolo 18 evidentemente costituisce un
fattore che spinge le imprese a favorire forme di lavoro
temporanee?
Peraltro, come si mette in evidenza nell’articolo, il problema non è rappresentato tanto dall’articolo 18, quanto
dal contesto in cui esso opera, e in particolare dalla disciplina dei licenziamenti individuali e dal modo grezzo
in cui attraverso di essa si cerca di promuovere la
stabilità della condizione lavorativa, affidata all’iniziativa
del singolo ed alle variabili sorti della mediazione giudiziaria. Sarebbe il tempo, per quella sinistra, di uscire
dalla difensiva: e non certo per chiamare il popolo del
Pd a dire un si o un no con un referendum, ma per misurarsi fattivamente con l’esigenza di promuovere e tutelare
nel concreto la dignità dei lavoratori attraverso nuove
modalità più coerenti con l’attuale contesto.
L’
aspro conflitto che si è svolto nel nostro paese sulla
questione dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori originato dall’iniziativa assunta dal governo con il disegno di
legge A.S. n. 848 – ha offerto una rappresentazione enfatica
delle grandi tensioni alle quali il diritto del lavoro è sottoposto nel tempo presente, che sembrano implicare una messa in
discussione della sua capacità di continuare a fornire – come
in passato – un’efficace difesa degli interessi dei lavoratori.
Nello stesso momento, i modi in cui quel conflitto si è svolto
e si sta svolgendo offrono una prova di come nel nostro
sistema politico l’attitudine allo scontro ideologico prevalga
sulla riflessione.
Non altrimenti può dirsi, a quest’ultimo riguardo, ove si
consideri che un tema sul quale già da tempo erano state
avanzate autorevoli proposte di innovazione1 si sia prestato
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ad essere oggetto di uno
scontro condotto all’insegna di simboli il cui utilizzo mira a chiedere lo
schieramento
facendo
appello all’emozione. Ed
infatti da un lato quelli
che vorrebbero manomettere l’articolo 18 affermano che chi si oppone
vuole difendere il privilegio dei padri a danno dei
figli, condannati alla disoccupazione o a rapporti
di lavoro precari proprio
dall’esistenza di quel privilegio. Dall’altro lato quelli che si oppongono alla manomissione affermano che è in gioco la dignità del lavoro e la
sopravvivenza del sindacato in azienda. Condotto in questi
termini, lo scontro sembra non lasciare vie d’uscita: o da
una parte o dall’altra.
Che questa piega prendesse il confronto era forse inevitabile, peraltro, nel momento in cui l’iniziativa assunta dal
governo ha configurato un quadro nel complesso fortemente
destabilizzatore (prevedendosi flessibilità portate a limiti
estremi2, e nella sostanza una riduzione del ruolo della
mediazione collettiva), e nella materia che ci interessa si è
sostanziata in una disposizione3 che - prevedendo in via sperimentale, per un certo periodo, la disattivazione della disci-
1
2
3
Ricordo, in particolare, per la loro autorevolezza, una proposta del Cnel,
dei primi anni ’80, relatore Mengoni, nella quale si prospettava l’opportunità che il regime della reintegrazione venisse riservato ai casi di licenziamento per discriminazione; ma anche proposte, peraltro non formalizzate, di colui che non senza ragione viene ricordato come padre dello Statuto dei lavoratori, Giugni.
In particolare nella materia degli appalti di manodopera e del trasferimento di azienda; ma anche del lavoro a tempo parziale, ove non intervenga l’autonomia collettiva.
Art. 10 (Delega al Governo in materia di altre misure temporanee e sperimentali a sostegno della occupazione regolare, nonché incentivi alle
assunzioni a tempo indeterminato)
1. Ai fini di sostegno e incentivazione della occupazione regolare e
delle assunzioni a tempo indeterminato, il Governo è delegato ad
emanare uno o più decreti legislativi per introdurre in via sperimentale, entro il termine di un anno dalla data di entrata in vigore della
presente legge, disposizioni relative alle conseguenze sanzionatorie a
carico del datore di lavoro in caso di licenziamento ingiustificato ai
sensi della legge 15 luglio 1966, n. 604, e successive modificazioni,
in deroga all’articolo 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300, preve-
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plina dell’articolo 18 in una determinata serie di situazioni –
nella sostanza parte dall’assunto che quella disciplina debba
essere non opportunamente ricalibrata, bensì semplicemente
soppressa4: in altri termini, la sperimentazione sarebbe finalizzata a comprovare l’influenza negativa dell’articolo 18
sull’occupazione, e quindi a porre le premesse per una sua
definitiva cancellazione.
Perché questo conflitto offre una rappresentazione enfatica delle
grandi tensioni alle quali il diritto del lavoro è sottoposto nel
tempo presente? E quali sono queste tensioni? Le profonde trasformazioni che si stanno producendo, per una serie di ragioni,
nel sistema economico - tendenti a caratterizzarlo come esposto
a turbolenze sempre più frequenti e ad una competitività sempre
più accentuata tra gli operatori economici - stanno esercitando
la loro influenza sul diritto del lavoro. Quella competitività, se
esprime effetti benefici – normalmente – per il consumatore,
costituisce invece una minaccia per il sistema di garanzie acquisito nel corso del tempo dal lavoratore.
Il capitalista sembra meno interessato
al controllo disciplinare delle energie
lavorative e più interessato ai risultati
Da essa infatti scaturiscono potenti spinte alla flessibilità dei
moduli organizzativi e quindi regolativi, che sembrano
indurre una crisi di identità nel diritto del lavoro per come
esso è venuto configurandosi soprattutto nell’arco degli anni
’60 e dei primi anni ’70. Essa si esprime in molteplici aspetti.
In particolare, da un lato si può dire che la crisi si manifesti
4
dendo in alternativa il risarcimento alla reintegrazione, nel rispetto
dei seguenti princìpi e criteri direttivi:
a) conferma dei divieti attualmente vigenti in materia di licenziamento
discriminatorio a norma dell’articolo 15 della legge 20 maggio 1970,
n. 300, e successive modificazioni, licenziamento della lavoratrice in
concomitanza con il suo matrimonio a norma degli articoli 1 e 2 della
legge 9 gennaio 1963, n. 7, e licenziamento in caso di malattia o maternità a norma dell’articolo 2110 del codice civile;
b) applicazione in via sperimentale della disciplina per la durata di quattro
anni dalla data di entrata in vigore dei decreti legislativi, fatta salva la possibilità di proroghe in relazione agli effetti registrati sul piano occupazionale;
c) identificazione delle ragioni oggettive connesse a misure di riemersione, stabilizzazione dei rapporti di lavoro sulla base di trasformazioni
da tempo determinato a tempo indeterminato, politiche di incoraggiamento della crescita dimensionale delle imprese minori, non computandosi nel numero dei dipendenti occupati le unità lavorative assunte per il
primo biennio, che giustifichino la deroga all’articolo 18 della legge 20
maggio 1970, n. 300.
Salvo che per le situazioni di licenziamento discriminatorio (anche se
questa intenzione non risulta tecnicamente ben formulata).
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con riferimento all’ampiezza dei territori occupati da quel
diritto (l’area del lavoro subordinato – e quindi quella del
diritto del lavoro come noi lo conosciamo – è destinata a
ridursi? Il diritto del lavoro è destinato a perdere peso?);
dall’altro lato, ma si tratta forse di un’altra faccia della stessa
medaglia, si può dire che la crisi riguardi l’efficienza regolativa del diritto del lavoro, cioè la sua capacità di rispondere
effettivamente alle esigenze di promozione degli interessi dei
lavoratori: di quelli che un lavoro lo hanno, ma anche di
quelli che il lavoro ambirebbero ad averlo.
Cominciamo a considerare il primo aspetto. Prestandosi ad
assecondare il razionale calcolo economico del capitale, il
contratto di lavoro aveva rappresentato alle origini lo strumento attraverso il quale si è espresso quel processo di riduzione del lavoro a merce che ha accompagnato la prima rivoluzione industriale. Attraverso il contratto di lavoro, infatti, il
possessore di capitali soddisfaceva l’esigenza di acquisire
mere energie lavorative da dirigere e controllare, mediante un
sistema gerarchico e disciplinare, al fine di realizzare in proprio la produzione di beni. Alla nascita della manifattura si è
accompagnata la riduzione dell’artigiano – lavoratore autonomo – alla condizione di lavoratore subordinato; con l’imporsi del sistema della manifattura l’artigiano non ha potuto
più vendere i beni da lui prodotti, ha dovuto “vendere” se
stesso. Il diritto del lavoro, per come noi lo conosciamo, si è
sviluppato sull’antico tronco del diritto civile per attenuare e
contrastare le negative conseguenze derivanti dalla disparità
di condizioni economiche (e quindi di potere) che l’ideologia
del “libero contratto di lavoro” nascondeva dietro la maschera
della parità giuridica dei contraenti.
Ora, dopo un lungo ciclo durante il quale il diritto ha operato
sviluppandosi in termini decisi nella direzione della demercificazione del lavoro, sembra essersi innescata una tendenza di
segno contrario: dal lavoro subordinato al lavoro autonomo.
Il capitalista, infatti, sembra meno interessato al controllo
disciplinare delle energie lavorative e più interessato, invece,
ai risultati. In un crescente numero di casi egli riesce ora a
soddisfare le sue esigenze di produzione senza ricorrere al
lavoro altrui secondo la modalità tradizionale (che comportava la puntuale direzione, da parte sua, delle energie messe a
disposizione dal lavoratore). Il calcolo economico lo spinge
ad utilizzare altri strumenti: quelli del ricorso a forme di
lavoro autonomo e quelli del decentramento. Ha meno bisogno di obbedienza (quella da esigere nella sua veste di creditore della prestazione abilitato ad esercitare il potere direttivo); la sua attenzione si concentra sui risultati. La gran parte
della sua attività tipica, quella di organizzazione in vista della
realizzazione della produzione, si concentra direttamente nell’uso del potere negoziale (cioè del potere che esercita nella
sua veste di contraente). Il diritto civile e il diritto commerciale gli interessano più del diritto del lavoro.
Questo avviene perché glielo consentono le caratteristiche
qualitative di un processo produttivo nel quale crescente peso
occupa la conoscenza; glielo consente la tecnologia informatica, che è in grado di dissolvere alcune delle caratteristiche
tipiche del lavoro subordinato (quelle del coordinamento spazio-temporale); glielo suggeriscono le esigenze di costante
miglioramento della qualità. Una potente spinta in questa
direzione gliela fornisce, ovviamente, soprattutto l’esigenza
di contenere i costi per fronteggiare la crescente competizione
su mercati sempre più aperti
Questa spinta verso un minor utilizzo
dello schema del lavoro subordinato
può essere descritto in termini
di “fuga dal diritto del lavoro”
In altri termini, da qualche tempo stanno operando spinte
che mettono seriamente in discussione la centralità della
figura tradizionale di lavoratore intorno alla quale si è
andato sviluppando il diritto del lavoro quale noi oggi conosciamo (il lavoratore assunto a tempo pieno, con rapporto a
durata indeterminata e con diritto alla stabilità). Si tratta di
spinte che si manifestano nelle varie forme di flessibilità che
si vanno diffondendo su molteplici piani. Si diffondono
all’interno dell’area della subordinazione: si pensi alla pluralizzazione delle forme contrattuali (alle quali in genere ci
si riferisce significativamente chiamandole “atipiche”),
oppure alle innovazioni realizzate dalla stessa contrattazione collettiva (nella materia dei compiti lavorativi, della
distribuzione dell’orario di lavoro, dei trattamenti retributivi). Forme di flessibilità si diffondono anche al di fuori
dell’area della subordinazione, operando in senso riduttivo
di quest’ultima: si pensi allo sviluppo delle forme di lavoro
autonomo coordinate all’organizzazione produttiva, che
spesso rappresentano ambigue riproposizioni del rapporto di
dipendenza economica, nonché alle varie forme di decentramento delle attività produttive.
Questo fenomeno della spinta verso un minor utilizzo dello
schema del lavoro subordinato può essere descritto in termini
di “fuga dal diritto del lavoro”. Questa è una definizione certamente appropriata per tutte quelle situazioni – non poche –
mondoperaio 10/2014 / / / / articolodiciotto
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in cui la scelta è assunta non per soddisfare particolari esigenze di carattere organizzativo (si consideri, peraltro, che lo
schema del lavoro subordinato possiede, sotto questo profilo,
una elasticità notevolissima, se è vero che il medesimo
schema contrattuale di base può essere utilizzato per acquisire
la collaborazione sia del manovale, sia dell’amministratore
delegato), bensì essenzialmente in base al calcolo dei notevoli
differenziali di costo che esistono tra i due schemi giuridici;
costo diretto (in particolare per la contribuzione previdenziale) e indiretto (derivante cioè dall’applicazione dei trattamenti normativi).
L’ampiezza dei territori occupati dal diritto del lavoro sembra, quindi, sottoposta a spinte tendenti a ridurla5 e nello
stesso momento la figura prevalente del lavoro dipendente va
acquisendo connotati alquanto diversi da quelli che hanno
contraddistinto la figura di lavoratore che ha costituito il
punto di riferimento principale per lo sviluppo del diritto del
lavoro (il lavoratore della grande impresa, con rapporto di
lavoro a tempo pieno ed indeterminato, dotato di stabilità).
Consideriamo ora il secondo aspetto, in verità più controverso; quello relativo alla efficienza regolativa del diritto del
lavoro, cioè alla sua capacità di promozione degli interessi
che intende tutelare. Qui è sufficiente partire da una constatazione: in un contesto di accresciuta turbolenza del sistema
economico alcune normative – caratterizzate da una notevole
rigidità – hanno cominciato a rivelarsi come un argine troppo
debole a protezione degli interessi dei lavoratori. Lo stesso
legislatore – reso consapevole, sotto la spinta dei fatti, del
carattere controproducente di determinati assetti regolativi –
ha dovuto porsi in termini espliciti il problema di compatibilizzare le esistenti regolazioni con le esigenze di competitività
del sistema e con le sue capacità di creare occupazione. Ha
quindi iniziato un processo di aggiustamento: un processo
lento e faticoso. Lento, perché lo si può far risalire alla
seconda metà degli anni ’70; faticoso, perché realizzato attraverso laboriose mediazioni con forze sociali che hanno
5
A dire il vero, il diritto del lavoro in tempi recenti ha conosciuto una
fase espansiva: infatti, ha annesso il vasto territorio del pubblico
impiego (1993). Ma ciò non è avvenuto all’insegna della sua vocazione genetica, quella della tutela del contraente debole. Questa
recente annessione, infatti, ha visto il diritto del lavoro utilizzato e
valorizzato per conferire maggiori margini di elasticità al potere delle
pubbliche amministrazioni esercitato sul versante delle prestazioni
lavorative, potere che si è giunti a configurare come potere di privato
datore di lavoro (sia sul versante della gestione dei rapporti di lavoro,
sia su quello della gestione degli assetti organizzativi, nei loro rami
bassi). In altri termini, in questo caso il diritto del lavoro non ha dilatato i suoi confini, come avveniva in passato, per corrispondere ad esigenze di protezione dei lavoratori, bensì per corrispondere ad un’esi-
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costantemente teso a difendere l’assetto preesistente (pur se –
consapevoli esse stesse della necessità di innovare – hanno
fornito appoggi molto importanti, attraverso la pratica della
concertazione, per il suo graduale aggiustamento).
Il diritto del lavoro ha cominciato
a conoscere innovazioni che hanno mirato
a realizzare la tutela del lavoratore
in termini che si sono fatti esplicitamente
carico anche delle ragioni dell’impresa
Per comprovare quello che sto dicendo, si possono richiamare
alcune vicende, tra le più emblematiche. Ad esempio quella
che si ebbe nella seconda metà degli anni ’70 nella materia
del contratto a tempo determinato, la cui disciplina, dettata
agli inizi degli anni ’60, drasticamente limitava le possibilità
per l’impresa di ricorrere a forme di lavoro temporaneo6. Non
senza ragione quella disciplina sarà successivamente sottoposta a notevoli innovazioni, a più riprese, mirate ad allentarne
la rigidità.
Un’altra rappresentazione emblematica e più sofisticata è
stata fornita dalle vicende della scala mobile; esse ponevano
il quesito se il reddito dei lavoratori fosse meglio tutelato da
un meccanismo che assicurava un incremento nominale dei
salari – attraverso un recupero automatico dell’inflazione – o
da una politica di moderazione salariale e di contenimento
dell’inflazione, quale poi si è affermata attraverso i patti di
concertazione tripartita che alla fine hanno condotto alla soppressione di quel meccanismo. Possiamo ancora richiamare le
vicende che verso la fine degli anni ’70 indussero a far approvare una legge che, per salvaguardare l’occupazione in
aziende in situazione di crisi grave, cercava di incentivare il
loro acquisto da parte di altro imprenditore, intenzionato a
realizzare un risanamento, consentendo che su base di
accordo sindacale potesse essere realizzata una deroga all’ar-
6
genza di valorizzazione del potere datoriale; è stato utilizzato, quindi,
nella sua logica di strumento organizzativo del potere datoriale (si
tratta, invero, di una logica implicita al diritto del lavoro, rimasta quasi
sempre nascosta, come l’altra faccia della luna).
Mi riferisco alla vicenda di quei lavoratori che, assunti in gran numero
con contratto a termine per lavorazioni stagionali (si trattava della produzione di panettoni, che ha dei picchi produttivi in relazione al grande utilizzo che di quel prodotto viene fatto nei periodi di Pasqua e di Natale),
ottennero dal giudice il riconoscimento dell’illegittimità della apposizione del termine e, quindi, la trasformazione a tempo indeterminato del
loro rapporto di lavoro. Essi ebbero la soddisfazione di vincere la vertenza nella sede giudiziaria, ma l’azienda andò ben presto in liquidazione
(è la ben nota vicenda Unidal).
//9//
ticolo del codice civile che tutela i diritti dei lavoratori nel
caso di trasferimento di azienda.
In altri termini, a partire da un certo momento – all’incirca dalla
seconda metà degli anni settanta – il diritto del lavoro ha cominciato a conoscere innovazioni che hanno mirato a realizzare la
tutela del lavoratore in termini che, a differenza del passato, in
una certa misura si sono fatti esplicitamente carico anche delle
ragioni dell’impresa. Sulla spinta delle esigenze di governo dei
problemi occupazionali, dovuti alla presenza di un consistente
fenomeno di disoccupazione giovanile, nonché indotti da ricor-
renti situazioni di crisi aziendali, ha cominciato
a svilupparsi una regolazione di tipo nuovo, che
nella sostanza possiamo definire promozionale.
Considerando esplicitamente l’impresa come
soggetto che svolge una funzione decisiva sul
versante dell’occupazione, si è iniziato a fare
una politica di incentivazione delle assunzioni
attraverso sconti normativi e riduzioni del costo
del lavoro7, nonché una politica di incentivazione del mantenimento dei livelli occupazionali nelle aziende in crisi8.
Non si può negare che in questo modo si è
oggettivamente dato inizio ad una sorta di
graduazione dei beni protetti. Quello dell’occupazione è stato chiaramente anteposto,
giustificando l’adozione di regimi che, pur se
in varia guisa, realizzano sostanzialmente
una funzione di deroga alla preesistente
disciplina vincolistica di determinate materie. Nello stesso momento – e in verità proprio in connessione con questa graduazione –
hanno cominciato ad evidenziarsi, non solo
sul piano della legge ma anche su quello
dell’esercizio dell’autonomia collettiva,
situazioni di apparente conflitto tra interesse
dei singoli e l’interesse collettivo all’occupazione. L’autonomia collettiva ha dovuto
misurarsi direttamente con i problemi scaturenti dalle difficoltà occupazionali. Alla stagione di una contrattazione permanentemente acquisitiva di vantaggi per i singoli è
così subentrata una stagione che ha cominciato a conoscere anche contrattazioni volte a
ripartire sacrifici. Assumendosi responsabilità di governo di quei problemi, i sindacati si
sono trovati ad assumere decisioni che non
poche volte li hanno fatti apparire – ovviamente agli occhi di
coloro che concepivano il loro ruolo solo nella proiezione
7
8
Si pensi, in particolare, al contratto di formazione e lavoro, che – in
particolare nella sua versione della legge 863/1984 - ha rappresentato
un formidabile concentrato di incentivi: nominatività dell’assunzione,
durata limitata del rapporto e quasi totale sgravio degli oneri contributivi.
In questa linea si colloca il rigoglioso sviluppo dei così detti ammortizzatori sociali (in particolare, la cassa integrazione guadagni straordinaria).
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rivendicativa ed acquisitiva forgiata dalla tradizione – addirittura nella veste di chi dispone dei diritti dei singoli (si tratta
di decisioni che comunque hanno cominciato a rappresentare
un oggettivo elemento di sfida alla loro rappresentatività e
forse di logoramento della stessa).
Si avverte l’esigenza di regolazioni di tipo
nuovo, coerenti con le caratteristiche
emergenti del mercato del lavoro, nel
quale per un crescente numero di
lavoratori i caratteri dell’incertezza e della
mobilità tendono a sostituirsi a quelli
della stabilità
Dunque, problemi di efficienza regolativi della normazione si
sono già posti, ed il giurista del lavoro ha dovuto arricchire
enormemente il suo bagaglio, essendosi alterati molti tratti
fisionomici che il diritto del lavoro aveva nella stagione del
suo massimo sviluppo. Può ritenersi sostanzialmente conclusa l’opera di adeguamento del sistema giuridico? E’ difficile sostenerlo, sia per il modo non organico e talvolta sottilmente ipocrita9 in cui essa si è prodotta, sia perché essa si è
sostanzialmente svolta solo in una logica derogatoria, mentre
si avverte sempre di più l’esigenza di regolazioni anche di
tipo nuovo, coerenti con le caratteristiche emergenti del mercato del lavoro, nel quale per un crescente numero di lavoratori i caratteri dell’incertezza e della mobilità tendono a sostituirsi a quelli della stabilità.
Peraltro vi sono letture (fatte da una parte degli economisti e
riprese da qualche giurista) che tendono a rappresentare le
forme più marcate di tutela dei lavoratori occupati non più
come espressione dell’emancipazione e dell’eguaglianza,
bensì come espressione del privilegio, che si ritorcerebbe a
danno di altri lavoratori, cioè di coloro che non troverebbero
lavoro proprio a causa dell’esistenza di queste protezioni. Mi
riferisco alle letture – che sembrano ispirare l’azione dell’attuale governo - basate sulla contrapposizione tra interessi
degli insiders (i già occupati con rapporto stabile ed a tempo
pieno ed indeterminato) ed interessi degli outsiders (i disoccupati): la legislazione protettiva e l’azione del sindacato,
9
Si può negare, ad esempio, che il contratto di formazione e lavoro ha
costituito a suo tempo l’occasione per sperimentare una flessibilizzazione della disciplina del termine e di quella del collocamento che ci si
ostinava a voler mantenere sostanzialmente immutate?
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garantendo i primi dalla concorrenza da parte dei secondi,
creerebbero condizioni sfavorevoli all’occupazione.
Qualche riflesso di queste posizioni comincia ad aversi nella
dottrina giuridica. Alcune letture esplicitamente prospettano
una valorizzazione in chiave lavoristica proprio del principio
in dialettica con il quale il diritto del lavoro si è storicamente
formato, quello della libertà di iniziativa economica. In quelle
letture c’è la seguente idea: poiché è l’iniziativa economica
privata che può creare quel bene di cui c’è tanto bisogno (i
posti di lavoro), consentire maggiori spazi a quell’iniziativa
attraverso una riduzione del carattere rigido e vincolistico del
/ / 11 / /
sistema va considerato come un modo per corrispondere,
anche sul piano dell’interpretazione, alle esigenze di dare
concretezza al principio costituzionale del diritto al lavoro. A
ben vedere, la finalità di evitare la concorrenza al ribasso da
parte degli outsiders è stata sempre iscritta nel codice genetico del sindacato (non è proprio per questo suo codice che
alle origini – in un contesto caratterizzato dall’ideologia del
libero contratto di lavoro – il fenomeno sindacale è stato
oggetto di repressione penale?). Sia quando posta dal sindacato, sia quando posta dal legislatore, la norma, nello svolgere
l’azione di protezione, ha naturalmente anche un effetto
depressivo e di controllo della concorrenza tra i lavoratori.
Dunque, che ci sarebbe di nuovo?
Probabilmente stanno mutando alcune importanti caratteristiche del contesto nel quale si svolge l’azione regolativa da
parte del legislatore, nonché attraverso l’azione del sindacato.
Per lungo tempo il sistema produttivo è riuscito a metabolizzare crescenti vincoli al proprio operare. La posizione di
regole – realizzata secondo una logica incrementale di diritti
per il lavoratore, e quindi di costi in capo alle singole imprese
– evidentemente non contraddiceva le possibilità di riproduzione del tessuto economico, ed anzi si teorizzava che le
rivendicazioni sindacali costituissero un eccitante fisiologico
delle potenzialità espansive di quel sistema e di miglioramento dei suoi standard produttivi (stimolo all’innovazione
ed alla ricerca di margini maggiori di profitto attraverso lo
sviluppo). L’azione del sindacato, pur rivolta ad incrementare
il dividendo per gli occupati, naturalmente finiva per favorire
l’inclusione dei non occupati ed elevare la condizione di tutti,
così sortendo esiti di carattere progressivo.
Quel sistema produttivo, nel quale il diritto del lavoro ha
conosciuto la fase di più rigoglioso sviluppo, era un sistema
nel quale l’impresa aveva ancora un certo grado di controllo
del mercato dei suoi prodotti (un mercato prevalentemente
nazionale), ed il governo nazionale era comunque in grado di
gestire leve significative di politica economica ai fini del
mantenimento del sistema in condizioni di equilibrio complessivo. In altri termini, c’erano le condizioni perché si realizzasse un circuito in grado di mantenere un suo equilibrio.
Evidentemente il contesto attuale – caratterizzato da una più
10 In verità, importanti accordi di concertazione stanno a testimoniare una
consapevolezza del sindacato circa la necessità di favorire una maggiore
competitività delle imprese. Inoltre, occorrerebbe procedere a distinzioni, poiché se è vero quanto si è rilevato, è altresì vero che probabilmente non su tutti i settori i fenomeni della globalizzazione sono in
grado di esprimere quegli effetti dei quali abbiamo parlato.
accentuata competizione e da crescenti possibilità di delocalizzazione delle attività – non assicura più che quel circuito
virtuoso si riproduca.
Ora il rapporto tra l’impresa e il mercato è rovesciato. E’ il
mercato (sempre più esposto ai condizionamenti della globalizzazione, alimentata da politiche della comunità internazionale volte a liberalizzare lo scambio delle merci ed il movimento dei capitali e favorita dai processi indotti dalla tecnologia, in particolare dell’informazione e delle telecomunicazioni) ad incidere profondamente, con le sue turbolenze, sul
modo di essere e di operare del sistema produttivo, ponendo
ad esso – per via della accresciuta competitività – l’imperativo della costante innovazione e quindi della flessibilità
organizzativa e del contenimento dei costi, che meno agevolmente possono essere scaricati sul prezzo dei beni e dei servizi prodotti. Nel contempo, e questo ha anche la sua importanza, per effetto dei processi di internazionalizzazione e
dello sviluppo dell’Unione europea, si sono significativamente ridotte le leve di politica economica nelle mani del
governo nazionale, in parallelo all’accentuarsi della interdipendenza dei sistemi economici su scala mondiale.
In questo nuovo contesto, che per il sindacato costituisce un
terreno pieno di insidie e provocatore di perfide contraddizioni per la sua azione, può quindi accadere che esso corra il
rischio di apparire non più nella tradizionale veste di agente
del progresso, bensì in quella di agente della conservazione e
di ostacolo alla competitività del sistema nazionale: tutelando
oltre misura gli occupati, corre il rischio di apparire come il
soggetto che condanna gli altri all’emarginazione10.
La finalità protettiva del diritto del lavoro
sembra entrare in attrito con le spinte
dell’economia
Lasciamo agli economisti il compito di fornirci evidenze
riguardo all’interrogativo se sia vero che la protezione degli
occupati vada a scapito dei disoccupati. Sappiamo peraltro
che le voci sono discordi al loro interno. Non v’è dubbio, tuttavia, che una qualche plausibilità quella prospettazione sembra averla; se non con riferimento ai livelli occupazionali, sui
quali certamente influiscono in maniera decisiva fattori ben
più strutturali del diritto del lavoro, quantomeno con riferimento alla “buona” occupazione (si può negare che l’aumento dei contratti a termine e delle collaborazioni coordinate e continuative costituisca espressione anche dell’esistenza di una regolazione sbilanciata?).
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Quello che interessa rilevare è che le trasformazioni in corso
stanno esponendo il diritto del lavoro a sfide con le quali,
negli anni della sua maturità, esso sembrava non abituato a
fare esplicitamente i conti e fanno emergere un profilo di
ambivalenza che, in verità, quel diritto ha avuto sin dalle origini. Nato e sviluppatosi per svolgere una funzione protettiva
del contraente debole, nello stesso momento il diritto del
lavoro rappresenta un costo per le imprese, e quindi uno degli
elementi che incidono sulla concorrenza tra di esse. Ciascuna
impresa, se non può evitare quel costo, vuole quantomeno che
sia sostenuto anche dalle concorrenti (di qui l’interesse delle
loro associazioni rappresentative all’applicazione generalizzata delle norme e al contrasto del lavoro nero). Quindi il
diritto del lavoro, se svolge, come abbiamo visto prima, una
funzione di moderazione della concorrenza tra i lavoratori,
tende a svolgerla anche tra le imprese.
I processi di globalizzazione stanno riproponendo queste
dinamiche anche a livello internazionale (dove aveva già
avuto modo di esprimersi attraverso la costituzione – dopo il
primo conflitto mondiale – dell’Organizzazione internazionale del lavoro). Si pensi al tentativo fatto da alcuni paesi
industrialmente avanzati (evidentemente non rassegnati a tollerare la “sleale” competizione fatta da paesi privi di tutele
per i lavoratori) di far passare l’idea che i rapporti commerciali non debbano essere intrattenuti con quei paesi che non si
impegnino ad applicare uno standard minimo di legislazione
protettiva del lavoro (c.d. clausola sociale). Questo tentativo
di contrastare il c.d. dumping sociale è rimasto finora frustrato proprio dalla opposizione dei governi dei paesi in via di
sviluppo, che vedono in esso una minaccia alla propria crescita, fondata sulle esportazioni. La strategia seguita dall’Oil
su questo versante ha finito per affidarsi essenzialmente a
strumenti promozionali, come la redazione periodica di rapporti di monitoraggio della situazione di determinati diritti
fondamentali nei vari paesi.
Queste dinamiche si manifestano anche nell’attenzione crescente che i rappresentanti delle imprese italiane pongono alla
comparazione con le normative applicate dagli altri paesi dell’Ue. Essi non cessano di lamentare che sono tenuti a rispettare normative più rigide di quelle dei loro diretti competitori,
e quindi richiedono una equiparazione con essi (anche in questa prospettiva la Confindustria ritiene di legittimare la richiesta di una modifica dell’articolo 18). La stessa politica di
armonizzazione condotta dall’Unione europea sul versante
delle politiche sociali è figlia dell’esigenza non solo di affermare principi di protezione, ma anche di realizzare condizioni
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di parificazione della concorrenza nel mercato dell’Unione.
In conclusione, ci troviamo innegabilmente in tempi nei quali
le interrelazioni dinamiche tra diritto ed economia, che sono
sempre esistite, si stanno manifestando con maggiore enfasi
nel turbolento contesto attuale. La finalità protettiva del
diritto del lavoro, che è nel suo dna, sembra entrare in attrito
con le spinte dell’economia.
Il problema non può essere risolto
affermando che il diritto deve farsi
da parte, ma neanche può affermarsi
che il diritto costituisca una variabile
indipendente
Questo pone problemi che non possono essere affrontati
sostenendo che debbano farsi valere le ragioni dell’economia
(rispetto alle quali le regole che si sono venute fin qui
costruendo andrebbero eliminate, costituendo esse un dannoso impedimento ai processi di produzione della ricchezza
dai quali spontaneamente scaturirebbe il bene comune), né
sostenendo, sul versante opposto, che i diritti esistenti debbano costituire una variabile indipendente, di fronte alla quale
occorre costringere il sistema economico a sottomettersi.
Queste posizioni alternative ed inconciliabili sono presenti, in
buona misura, nel conflitto che si è svolto sull’articolo 18,
che non a caso ha assunto valenze altamente simboliche per
le parti che si sono confrontate. L’alternativa, posta in termini
così radicali, sembra avere una radice ideologica.
Sappiamo bene che la funzione del diritto non è stata e non
è estranea al mercato; la stessa creazione del mercato a suo
tempo (agli inizi della rivoluzione industriale) è stata frutto
di interventi normativi finalizzati allo smantellamento di
istituzioni che erano di ostacolo alla mobilità dei fattori
della produzione. Per poter funzionare, il mercato richiede
regole (miranti soprattutto a garantire la parità di concorrenza) ed il loro rispetto. Sappiamo bene, anche, che innovazioni normative finalizzate ad imporre il rispetto di regole
a protezione dei lavoratori sono sempre state ostacolate, in
un lontano passato, adducendo argomenti catastrofistici. Ma
quelle regole si sono fatte e non hanno certo ostacolato il
progresso, costituendo invece per molti aspetti elemento
fondante dello stesso.
Il problema non può quindi essere risolto affermando che le
regole vanno eliminate, che il diritto deve farsi da parte. Ma
neanche può affermarsi che il diritto costituisca una variabile
/ / 13 / /
indipendente. E’ sempre
presente, infatti, il problema della verifica di
quale possibilità vi sia
che determinate regole
vengano effettivamente
rispettate e quale possibilità esse abbiano di conformare effettivamente il
sistema economico. Il
diritto può pure porsi in
contrasto forte con l’assetto esistente (si pensi,
per fare un esempio, alle
politiche per la parità uomo donna, addirittura realizzate con
la tecnica delle quote). Però in questi casi ci si deve chiedere:
abbiamo la forza per farle applicare effettivamente queste
regole? E, quel che più importa, si creano per caso effetti
indesiderati – contrastanti con le finalità perseguite – che riusciamo comunque a governare? Se la risposta ad entrambe
queste domande è positiva, si può pure procedere. Se la risposta non è positiva, procedere può essere velleitario.
Nello stesso momento, peraltro, si deve tenere presente che
molti diritti in tanto possono essere affermati e rispettati, in
quanto siano dotati di una forte base materiale sulla quale
poggiare. Per fare degli esempi di più immediata evidenza: il
diritto alla pensione in tanto può essere goduto in quanto il
sistema delle imprese riesca a sostenere l’onere delle contribuzioni; il diritto alla stabilità del rapporto in tanto può essere
goduto in quanto comunque l’impresa sia in grado di soprav-
vivere. Si può dire, in termini ancora più generali,
che molti diritti sono
oggettivamente dipendenti dalla capacità del
sistema di produrre ricchezza. Essi realizzano
una sorta di redistribuzione di quest’ultima, sia
in via diretta, in termini
di redditi (i salari, le prestazioni previdenziali),
sia in via indiretta, attraverso un aumento dei
costi di produzione che il loro rispetto comporta. Che di una
sorta di redistribuzione si tratti non può essere revocato in
dubbio, anche ove si voglia considerare che quei diritti ben
possono essere riguardati come a loro volta influenti sulla
capacità del sistema di creare ricchezza (non bisogna dimenticare, peraltro, che la tecnica del riconoscimento dei diritti –
concessi dal legislatore, dapprima in forma assai parziale e
poi in forma sempre più estesa, o acquisiti per via di negoziazione – ha sempre avuto una funzione di stabilizzazione del
sistema, altrimenti minacciato nella sua tenuta da quella che,
alle origini, era considerata come la “questione sociale”).
Se questo è vero, se cioè una larga parte dei diritti relativi al
fattore lavoro è inesorabilmente legato alla capacità del
sistema economico di supportarli, se ne deve desumere che
essi – sia nel momento in cui vengono posti, sia nel momento
in cui vengono mantenuti – costituiscono frutto di un meccamondoperaio 10/2014 / / / / articolodiciotto
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nismo di governo i cui attori (il legislatore, le parti sociali,
anche attraverso l’esercizio dell’autonomia collettiva) non
possono non farsi carico, seppure in forme dinamiche e conflittuali, del problema della tenuta del sistema produttivo.
Difficilmente può essere condivisa, quindi, la posizione di chi
non ammette discussioni al riguardo e afferma solo che “i
diritti non si toccano”.
Le ragioni dello scontro finiscono per fare
aggio sulla ricerca di un ragionevole punto
di equilibrio
Abbiamo detto che il modo in cui è stato impostato il confronto sull’articolo 18 sembra escludere posizioni intermedie.
O da una parte o dall’altra. Le ragioni dello scontro finiscono
per fare aggio sulla ricerca di un ragionevole punto di equilibrio. Eppure si potrebbe dire che, in quel modo rappresentate
le posizioni delle parti, entrambe hanno ragione. Ha ragione,
innanzitutto, il sindacato. Mettere in discussione l’articolo 18,
imponendo la regola della monetizzazione in luogo della reintegrazione, significa – in particolare se la monetizzazione
rimane irrisoria – restituire potere all’impresa ed esporsi al
pericolo di un utilizzo del licenziamento in funzione di controllo disciplinare dei dipendenti, lesivo della loro dignità.
Significa cioè tornare ad arcaici modelli di gestione del personale che l’ordinamento ha voluto superare con lo statuto dei
lavoratori11.
Sappiamo che tutto il diritto del lavoro ha cominciato a
mutare significato quando si è cominciato ad affermare che il
datore di lavoro non è più l’arbitro assoluto della vita del rapporto. Basta peraltro dare un’occhiata ai repertori di giurisprudenza per vedere come, dopo il 1970 (cioè dopo l’entrata
in vigore dello statuto dei lavoratori), le vertenze non si sono
più limitate, come avveniva in precedenza, ad aspetti relativi
11 Molto efficace lo slogan del manifesto pubblicato dalla Cgil (“tu si / tu
no / art. 18 / non ci sto”) in occasione dello sciopero generale del 5 aprile
2002 indetto per protestare contro l’iniziativa governativa. Quel “Tu si /
tu no” con grande forza allude a modalità arbitrarie e discriminatorie di
esercizio del potere datoriale.
12 Decisivo, in questa direzione, anche il contributo dell’articolo 28 dello
statuto dei lavoratori, che legittima il sindacato a ricorrere al giudice con
procedura di urgenza per reagire a comportamenti antisindacali di
quest’ultimo.
13 Dal 1992 si è tornati a prevedere il computo di questi contratti.
14 Nelle sue parti subordinate alla presenza di determinate soglie occupazionali, relative non solo alla reintegrazione, bensì anche ai diritti sindacali.
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al trattamento economico (si trattava di vertenze instaurate
dopo l’estinzione del rapporto e relative ad adeguamenti retributivi, ferie non pagate, lavoro straordinario non pagato, etc.),
ma hanno cominciato a riguardare anche altri aspetti della
gestione del rapporto e ad essere attivate anche in costanza di
rapporto12. Peraltro, è interessante rilevare come la stessa
Corte costituzionale abbia dato rilevanza all’innovazione rappresentata dalla reintegrazione, quando ha corretto la posizione assunta in materia di decorrenza della prescrizione dei
diritti del lavoratore. In precedenza aveva affermato che per il
lavoratore la prescrizione del diritto alla retribuzione doveva
decorrere dal momento dell’ estinzione del rapporto di lavoro,
trovandosi il lavoratore, in costanza di rapporto, in una situazione di timore che gli precludeva la possibilità di far valere
liberamente i propri diritti. Dopo l’entrata in vigore dello statuto dei lavoratori la Corte ha escluso che quella sua affermazione dovesse trovare applicazione per i lavoratori tutelati
con la reintegrazione.
Ragioni non mancano anche sull’altro versante. Come
abbiamo avuto modo di dire prima, gli economisti sono tra
loro divisi circa la rilevanza che l’articolo 18 avrebbe nel
deprimere i livelli occupazionali, ed in particolare circa la
responsabilità che esso avrebbe nel contribuire al nanismo
delle imprese. Non entro quindi nel merito. Mi limito solo
ad osservare che lo stesso legislatore è spesso partito dall’assunto che l’articolo 18 producesse effetti in quella direzione, se è vero che in diverse disposizioni – al fine di
incentivare l’occupazione – ha previsto il non computo
nell’organico dei nuovi assunti (in particolare, gli apprendisti, i lavoratori con contratto di formazione e lavoro13 e con
contratto di reinserimento). Inoltre, nel periodo successivo
all’ approvazione dello statuto dei lavoratori, molti giuristi
hanno ragionato secondo lo schema della “fuga” da quella
legge, ritenendo che le imprese avessero cominciato a
seguire strategie di dimensionamento mirate a sottrarsi alla
sua applicazione14 (parecchi sono stati gli studi sul decentramento produttivo).
E’ credibile pertanto che l’articolo 18, se non produce
effetti depressivi dei livelli occupazionali, quantomeno
contribuisca ad alimentare fenomeni di scarsa trasparenza
sul mercato del lavoro. L’elevato ricorso alle forme di
lavoro autonomo – nel nostro paese presenti in misura
molto più elevata che in altri – nonché alle forme di lavoro
a termine, devono pur dire qualcosa. Ma perché il datore di
lavoro è spaventato dall’articolo 18? Non si può negare
che, in determinati casi, può risultare estremamente costoso
/ / 15 / /
per la gestione. E’ quindi comprensibile che egli cerchi di
evitare quel rischio – appena se ne presenti l’opportunità –
attraverso il ricorso a quelle forme di lavoro che non lo
contemplano. Sono le forme di lavoro alle quali finiscono
per essere condannati i “figli”.
Se entrambe le parti hanno ragione, un punto di equilibrio
deve pur esserci. Ma esse non hanno fatto alcuno sforzo per
individuarlo, perché sono rimaste ferme ai simboli. Ed anche
quando, alla fine, un compromesso è stato raggiunto, è stato
un compromesso che non rappresenta una vera mediazione,
bensì soltanto una scelta tattica. Sia pure con una preoccupante frattura – di portata storica – del fronte sindacale, Cisl
e Uil hanno accettato l’intervento sperimentale sull’articolo
18, ma ottenendo in cambio incisive modifiche15 al testo iniziale del governo16. Hanno accettato ritenendo che fosse
comunque doveroso per il sindacato non perdere la possibilità
di sedersi al tavolo della concertazione per cercare di influire
in una qualche misura sulle misure che il governo intendeva
assumere nella materia del lavoro e che quindi non fosse da
condividere la politica della Cgil, che hanno ritenuto una politica di contrapposizione pregiudiziale. L’accettazione ha
nascosto comunque la riserva mentale – esplicitata da qualche
leader sindacale – che alla fine della sperimentazione non se
ne farà nulla17, perché la sperimentazione non potrà non confermare che questo articolo è del tutto ininfluente sull’occupazione. In altri termini le organizzazioni sindacali che hanno
sottoscritto il patto non hanno lasciato trasparire nulla che
potesse essere interpretato come disponibilità a ragionare
seriamente intorno all’articolo 18, in questo rimanendo sulle
posizioni della Cgil, quindi prigioniere di slogan che sono
certamente utili a galvanizzare gli schieramenti, meno alla
discussione.
15 Allegato 2 all’accordo di concertazione raggiunto con il Governo e con i
datori di lavoro, chiamato “Patto per l’Italia”: “ Art. …. (Delega al
Governo in materia di altre misure temporanee e sperimentali a sostegno
della occupazione regolare e della crescita dimensionale delle imprese)
1. Ai fini di sostegno della occupazione regolare e della crescita dimensionale delle imprese il Governo è delegato ad emanare in via sperimentale uno o più decreti legislativi, entro il termine di un anno dalla data di
entrata in vigore della presente legge, nel rispetto dei seguenti princìpi e
criteri direttivi:
a) ai fini della individuazione del campo di applicazione dell’articolo 18
della Legge 20 maggio 1970, n. 300, e successive modificazioni, non
computo nel numero dei dipendenti occupati delle nuove assunzioni
mediante rapporti di lavoro a tempo indeterminato, anche part-time, o
con contratto di formazione e lavoro, instaurati nell’arco di tre anni dalla
data di entrata in vigore dei decreti legislativi;
b) inapplicabilità della misura di cui alla lettera a) ai datori di lavoro,
imprenditori e non imprenditori, già rientranti, al momento dell’entrata in
vigore della presente legge, nel campo di applicazione dell’articolo 18
della Legge 20 maggio 1970, n. 300, e successive modificazioni, in
quanto abbiano occupato mediamente nei dodici mesi precedenti, un
numero di dipendenti corrispondente alle soglie dimensionali indicate
dallo stesso articolo 18;
c) non riconducibilità al concetto di nuova assunzione delle ipotesi di
subentro di un’impresa ad un’altra nella esecuzione di un appalto, là dove
è presente una disposizione di legge o una clausola contrattuale a tutela
del passaggio del personale alle dipendenze dell’impresa subentrante;
d) previsione di misure di monitoraggio coerenti con la natura sperimentale del provvedimento;
e) previsione che decorsi ventiquattro mesi dalla data di entrata in vigore dei
decreti legislativi di cui al presente articolo il Ministero del Lavoro e delle
Politiche Sociali procederà a una verifica, con le organizzazioni dei datori di
lavoro e dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano
nazionale, degli effetti sulle dimensioni delle imprese, sul mercato del lavoro
e sui livelli di occupazione nel frattempo determinatisi, al fine di consentire
al Governo di riferirne al Parlamento e valutare l’efficacia della misura.”
16 In buona sostanza: limitazione della sperimentazione alla sola ipotesi del
superamento della soglia occupazionale; riduzione da 4 a 3 degli anni della
sperimentazione, eliminazione dell’art. 11 del ddl governativo nel quale si
prevedeva l’arbitrato di equità. Il nuovo testo non è esente, al pari del primo
(anche se nella lettera c in una qualche misura tradisce la consapevolezza
del problema), da pericoli di comportamenti fraudolenti da parte dei datori
di lavoro, mirati a dilatare le aree di esenzione. Peraltro il nuovo testo sicuramente escluderebbe una modifica del sistema sanzionatorio della tutela
obbligatoria, per cui l’ammontare delle indennità da corrispondere al lavoratore in caso di licenziamento illegittimo, concepita per imprese di piccola
dimensione, potrebbe risultare veramente esiguo per imprese che, riuscendo
a superare di gran lunga la soglia occupazionale nel periodo della sperimentazione, siano di media o grande dimensione (il precedente testo della
norma di delega sembrava lasciare spazi di intervento sul punto).
17 Deve essere stato frutto di un sottile compromesso la sparizione della frase,
presente nella precedente formulazione, che esplicitamente faceva salvo il
prolungamento della sperimentazione “in relazione agli effetti registrati sul
piano occupazionale”. Nello stesso momento, tuttavia, si è introdotto un elemento destinato a rendere ancora più delicata la infelice situazione che si
verrà a creare verso il termine della sperimentazione; nel nuovo testo la
durata della sperimentazione non è più prevista anche come durata del
periodo di disapplicazione dell’articolo 18. Orbene, se la legge delega non
dovesse chiarire i problemi che potrebbero venire a porsi, la baraonda sarà
totale. Già alcune polemiche ci sono state sui giornali relativamente alla sorte
che subiranno lavoratori al termine della sperimentazione: nei loro confronti
l’articolo 18 comincerà ad applicarsi al termine della sperimentazione?
Oppure continueranno a rimanere nel regime della stabilità obbligatoria, tornando ad applicarsi la disciplina dell’articolo 18 solo in caso di ulteriori
nuove assunzioni?. E’ chiaro che la prima lettura, per la quale si è dichiarato
un ministro, sarebbe quella in teoria più idonea a favorire una maggiore efficacia incentivante della misura e ad assicurare, inoltre, una gestione morbida
della fase transitoria (evitando che i datori di lavoro, nell’incertezza delle
scelte che verranno assunte sulla base della sperimentazione, cerchino di trasformare i rapporti o comunque ridurre il personale). Ma è una lettura che
certamente rafforzerebbe i dubbi sulla legittimità della disposizione avanzati
sin dall’inizio (illegittimità per violazione del principio di eguaglianza, sia
sul versante dei lavoratori, sia, e soprattutto, sul versante delle imprese). Se
il carattere sperimentale della disposizione potrebbe giustificarne la costituzionalità in considerazione della temporaneità della misura, il protrarsi degli
effetti anche nella fase successiva, per un periodo potenzialmente indeterminato, certamente ne farebbe dichiarare l’illegittimità.
mondoperaio 10/2014 / / / / articolodiciotto
/ / 16 / /
Non può considerarsi provocatorio
porre il problema di una rivisitazione
della disciplina dei licenziamenti
Eppure spazi per ragionare ce ne dovrebbero essere. La
ricerca di un ragionevole punto di equilibrio dovrebbe partire
dalla considerazione che i difetti, prima ancora che nell’articolo 18, e quindi nella qualità della sanzione, vanno ricercati
nell’inadeguatezza del quadro più complessivo nel quale
quell’articolo si trova a operare. In altri termini quello che
non va non è tanto il fatto che il datore di lavoro venga espropriato del potere di produrre l’effetto estintivo del rapporto –
il che può anche essere coerente con una concezione più
moderna del potere imprenditoriale – quanto il fatto che questa espropriazione, unitamente agli altri aspetti dell’apparato
sanzionatorio, finisce non poche volte per apparire eccessiva.
Cospira in questa direzione un insieme di fattori. In particolare: l’ incertezza obiettivamente esistente, in alcune aree di
confine, circa le situazioni che legittimano il licenziamento
mondoperaio 10/2014 / / / / articolodiciotto
(le formule, come è noto, sono molto generiche e quindi rendono spesso cruciale l’apprezzamento del giudice); i lunghissimi tempi che il sistema giudiziario impiega nella soluzione
della controversia e quindi i notevoli costi aggiuntivi che possono derivarne per l’impresa; l’uniformità del sistema sanzionatorio, che mette sullo stesso piano qualsivoglia violazione,
indipendentemente dalla sua gravità, perseguendo pregiudizialmente un obiettivo afflittivo oltre che ripristinatorio (mi
riferisco alla previsione del risarcimento che non può mai
essere inferiore alle cinque mensilità, nonché alla previsione
che consente al lavoratore di rifiutare la reintegrazione e di
pretendere, in alternativa, il pagamento di quindici mensilità).
E’ forse opportuno fare qualche esempio per toccare meglio
con mano le ragioni per cui è ragionevole ritenere opportuna
una modifica del sistema. Vediamo il primo profilo. Ci sono
oscillazioni nella stessa giurisprudenza della Corte di Cassazione in ordine alla situazione che si verifica nel caso in cui il
lavoratore viene licenziato e le mansioni della posizione da
lui occupata sono distribuite tra gli altri lavoratori. Alcune
/ / 17 / /
decisioni hanno ritenuto non sussistente in questo caso un
giustificato motivo oggettivo di licenziamento. Altre sono
state di diverso avviso.
Le incertezze possono apparire certamente superiori quando
si debba valutare la sussistenza di un giustificato motivo soggettivo o di una giusta causa. In questi casi tutto dipende
dall’apprezzamento che il giudice farà della gravità dell’inadempimento o della situazione che può giustificare il venir
meno della cosiddetta fiducia. E quand’anche l’apprezzamento della gravità sia stato fatto dai contratti collettivi, il
giudice non ne è vincolato. Incertezze possono considerarsi
sussistenti anche quando il licenziamento venga visto nella
prospettiva dell’esercizio del potere disciplinare e vengano
quindi in rilievo aspetti procedimentali (si pensi al caso del
licenziamento che venga invalidato perché il magistrato
ritenga non tempestiva la contestazione dell’addebito).
Passiamo al secondo profilo: la lunga durata dei processi. Se
è vero che per giungere a una decisione definitiva possono
anche essere necessari quattro o più gradi di giudizio, per la
durata di sette o otto anni, il datore di lavoro che abbia vinto
nei primi gradi e perda poi in Cassazione o nel giudizio di rinvio deve pagare tutte le retribuzioni (e la connessa contribuzione previdenziale, con le relative sanzioni per l’omissione)
dal momento del licenziamento, salvo che riesca a provare
(ma come?) che il lavoratore avrebbe potuto ridurre il danno
attivandosi per impiegarsi altrove. Le somme da sborsare
sono talora veramente notevoli.
Inoltre egli avvertirebbe un sapore di beffa nella richiesta, che
il lavoratore gli rivolga, del pagamento di ulteriori quindici
mensilità in alternativa alla reintegrazione (e che di beffa si
tratti lo si può ben dire nel caso in cui il licenziamento non sia
avvenuto per ragioni di carattere soggettivo, e magari l’azienda sia di notevoli dimensioni, cosicché non si possano
ritenere sussistenti difficoltà psicologiche al rientro e, ancora,
il lavoratore abbia già trovato un nuovo impiego che abbia
convenienza a mantenere).
Si pensi, inoltre, che poiché la disciplina della reintegrazione
trova applicazione anche nel caso di licenziamenti collettivi,
la somma potrebbe essere moltiplicata per il numero dei lavoratori coinvolti nel licenziamento.
Mi viene da pensare alla situazione in cui si trova una grande
azienda pubblica di cui conosco il caso. In un quadro normativo alquanto confuso, che sembrava abilitarla a una procedura semplificata di riduzione del personale, questa azienda
ha operato un considerevole numero di licenziamenti di persone assai prossime alla pensione, concordando questo crite-
rio di scelta con le organizzazioni sindacali. Contrasti sono
sorti in giurisprudenza sulle legittimità di questi licenziamenti
e si attende una decisione della Corte di Cassazione. Quali
potranno essere le conseguenze per l’azienda, dal punto di
vista finanziario, di una decisione sfavorevole? La “beffa”
della quale parlavo prima (quella delle quindici mensilità) in
questo caso è ancora più evidente, perché legittimamente
arrecata da persone che ormai hanno in tasca la pensione.
E con questa considerazione si può ben passare al terzo profilo: l’uniformità del sistema sanzionatorio, che mette sullo
stesso piano qualsivoglia violazione, indipendentemente dalla
sua gravità, così impedendo al giudice un apprezzamento delle
diverse situazioni. E’ ragionevole – faccio volutamente ipotesi
limite – che debba comunque costare almeno cinque mensilità
l’errore compiuto di ritardare di un giorno la comunicazione al
lavoratore dei motivi del suo licenziamento? O che debba
essere sanzionato con la reintegrazione di tutti i lavoratori
licenziati per riduzione di personale il fatto che la comunicazione dei licenziamenti alla Direzione regionale dell’impiego
non sia avvenuta contestualmente al licenziamento? O che
debbano essere sanzionati nella stessa misura il licenziamento
fatto al fine di discriminare e quello sbagliato per un aspetto
meramente procedurale o formale? Il discorso potrebbe continuare. Credo che quanto ora detto sia sufficiente per sostenere
che non può considerarsi provocatorio porre il problema di
una rivisitazione della disciplina dei licenziamenti.
Su nessuno dei due versanti – né quello del
creditore, né quello del debitore – l’attuale
regolazione può considerarsi efficiente
In quale direzione dovrebbe muoversi una possibile rivisitazione della disciplina dei licenziamenti? Un ragionamento
dovrebbe essere condotto operando una scomposizione delle
posizioni di interesse che sono attualmente presidiate dall’articolo 18. Si può sostenere che nella prospettiva di questa
norma la protezione contro il licenziamento ingiustificato sia
funzionale non solo alla tutela dell’interesse del lavoratore
alla continuità occupazionale (questo è l’interesse normalmente protetto da una disciplina che impone la giustificazione), bensì anche e soprattutto ad assicurare al lavoratore la
possibilità di far valere i propri diritti nell’ambito del rapporto
(proiezione, quest’ultima, che come si è detto prima venne
subito colta dalla Corte costituzionale nella decisione con la
quale – correggendo una sua precedente decisione - essa
mondoperaio 10/2014 / / / / articolodiciotto
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ammise la decorrenza della prescrizione in costanza di rapporto per i lavoratori protetti dal regime dell’articolo 18). Se
i due profili dei quali si è detto venissero tenuti distinti, si
potrebbero ipotizzare risposte più articolate.
Prendiamo il primo profilo, quello che attiene all’interesse del
lavoratore alla continuità dell’occupazione. Con riferimento
ad esso si può sostenere che la disciplina dei licenziamenti
individuali costituisce, tutto sommato, un sistema alquanto
primitivo e indiretto di protezione dell’interesse al mantenimento dell’occupazione. A ben vedere, l’interesse del lavoratore alla stabilità riceve protezione non in positivo – come
sarebbe auspicabile in un sistema più evoluto – ma solo come
riflesso dell’affermazione del principio della non arbitrarietà
della decisione imprenditoriale; quindi, in buona sostanza
finisce per ricevere protezione solo, per così dire, in via residuale. Non si tutela veramente l’occupazione, si vogliono
solo evitare abusi.
Peraltro neanche il datore di lavoro potrebbe dirsi soddisfatto.
mondoperaio 10/2014 / / / / articolodiciotto
Abbiamo visto come la protezione risulti tutta incentrata sulla
possibilità di un apprezzamento degli interessi organizzativi
dell’impresa operato attraverso l’utilizzo di norme generali
(giusta causa, giustificato motivo) che oggettivamente
lasciano, come abbiamo visto, grandi margini di indeterminatezza; il loro apprezzamento viene affidato esclusivamente
alla mediazione giudiziaria ed è reso decisamente cruciale dal
fatto di essere accompagnato da un meccanismo sanzionatorio che espropria il datore di lavoro del potere di recedere da
un rapporto che egli non abbia interesse a mantenere in vita
(costituendo quindi obiettivamente una rigidità sul piano
della gestione), e nel contempo può comportare – come si è
detto prima - costi eccessivi e imprevedibili in ragione della
eccessiva lunghezza dei processi. In altri termini l’imprenditore si trova sovente in una situazione di incertezza nella
quale lo “sbaglio” può costargli molto caro. Non v’è dubbio
che questa è una miscela ad alto contenuto di inefficienza.
In buona sostanza, su nessuno dei due versanti – né quello del
/ / 19 / /
creditore, né quello del debitore – l’attuale regolazione può
considerarsi efficiente. Per quel che riguarda il versante del creditore (il lavoratore), bisognerebbe sostenere l’opportunità di
una disciplina che riconosca in maniera più completa e diretta
il suo interesse alla continuità occupazionale, attraverso meccanismi articolati di tipo dinamico. Quindi non solo – come è
oggi – attraverso una semplice imposizione dell’onere di giustificazione all’esercizio del potere datoriale, ma anche attraverso lo sviluppo e la formalizzazione – possibilmente
mediante la contrattazione collettiva, opportunamente incentivata – dei contenuti di un vero e proprio debito di “stabilità” nei
confronti del singolo lavoratore, debito da configurare in coerenza con una concezione moderna della gestione del personale
(si pensi, ad esempio, al principio della formazione continua).
In altri termini, anche se il datore di lavoro ritenesse di non
poter soddisfare quel debito attraverso la sua organizzazione,
dovrebbero comunque esservi modalità alternative di adempimento, incentrate su meccanismi volti a consentire al lavoratore – nel corso di tutto il rapporto di lavoro e non nei soli
momenti di crisi di quest’ultimo – di sfruttare le potenzialità
allocative del mercato del lavoro. La riforma del welfare e
quella dei servizi all’impiego devono costituire tasselli importanti di questo nuovo disegno: seppure riguardano materie
esterne alla disciplina del rapporto di lavoro, esse devono trovare corposi punti di sinergia con i contenuti di quest’ultimo.
Per quel che riguarda il versante del debitore (il datore di
lavoro), occorrerebbe creare le condizioni idonee a fornire
maggiori certezze circa le condizioni d’uso del potere di
licenziamento. Esse andrebbero create da un lato attraverso
meccanismi di predeterminazione più puntuale delle causali
giustificative (a questo fine dovrebbe essere particolarmente
valorizzata la contrattazione collettiva, che invece nell’attuale
situazione è pur sempre destinata a misurarsi con le clausole
generali previste dalla legge, con la conseguenza che il magistrato può sempre far prevalere la propria personale valutazione rispetto a quella eventualmente fornita dal contratto
collettivo); e dall’altro lato attraverso una valorizzazione
della giustizia arbitrale che, per la sua maggiore vicinanza al
contesto nel quale si è originata la controversia dovrebbe
essere in grado ridurre i margini di varianza delle decisioni
oltre che assicurare una tutela più tempestiva. Nelle controversie relative al licenziamento la tempestività della decisione
costituisce sicuramente un bene essenziale per entrambe le
parti. Essa andrebbe garantita anche presso la magistratura
ordinaria, magari attraverso la previsione di corsie preferenziali per la trattazione di queste controversie.
Nello stesso momento – anche sulla base delle esperienze
straniere – si potrebbe ritenere prospettabile l’eliminazione
dell’attuale rigidità del sistema sanzionatorio, che finisce per
essere squilibrato nel momento in cui, come si è visto, a qualsivoglia violazione – indipendentemente dalla sua gravità –
risponde sempre con la medesima reazione, per giunta abbellita di sfumature che in taluni casi possono risultare prive di
giustificazione. Quel sistema potrebbe essere articolato: ad
esempio, riservandosi la sanzione della reintegrazione unicamente ai casi di sicura gravità, in cui la decisione del datore
di lavoro possa considerarsi lesiva della dignità del lavoratore
(alludo, in particolare, alla discriminazione, ma anche alla
giustificazione palesemente pretestuosa) e prevedendo per gli
altri casi un risarcimento consistente, adeguato alla gravità
della violazione e alla situazione del mercato del lavoro
locale. Si potrebbe pensare a quanto prevede il sistema tedesco, in cui è lasciata al magistrato, su richiesta del datore di
lavoro, la facoltà di disporre la sanzione del risarcimento in
luogo della reintegrazione.
Peraltro, se va perseguito, come è giusto che sia, l’obiettivo di
dare adeguato rilievo alla maggiore gravità del licenziamento
discriminatorio, occorre pensare anche alle modalità più
opportune per consentire di porre rimedio alle difficoltà probatorie che su questo versante incontra la parte attrice.
Si tratta di prendere le distanze da quella
cultura di politica del diritto che vede la
funzione protettiva degli interessi del
lavoratore affidata più al ruolo della legge
che a quello dell’autonomia collettiva
Prendiamo in considerazione, ora, il secondo profilo, quello
nel quale l’articolo 18 appare volto ad assicurare al lavoratore la possibilità di far valere i propri diritti nell’ambito del
rapporto. C’è qui l’idea che la garanzia di effettività dei
diritti del lavoratore risieda nella limitazione, con efficacia
reale, del potere dell’imprenditore in ordine alla disponibilità del bene “occupazione”. E’ un’idea tutt’altro che pretestuosa. Ha forti radici nell’esperienza e non solo in quella
storica. Tuttavia bisogna avere il coraggio di ridimensionarla, considerando da un lato che il metus del lavoratore si
alimenta di ragioni che vanno ben oltre la mancanza di un
regime di stabilità reale, e dall’altro che condizioni organizzative favorevoli alla legalità della vita aziendale possono
essere promosse in termini certamente più corposi per altre
mondoperaio 10/2014 / / / / articolodiciotto
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vie, in primo luogo quella di una valorizzazione del potere
collettivo dei lavoratori.
Si tratta, in questo modo, di prendere le opportune distanze da
quella cultura di politica del diritto che vede la funzione protettiva degli interessi del lavoratore affidata più al ruolo della
legge che a quello dell’autonomia collettiva e concepisce l’apparato di tutela del lavoratore essenzialmente articolato nei termini di diritti soggettivi a lui direttamente conferiti dalla legge,
assolutamente indisponibili, e con riferimento ad essi talvolta
finisce per considerare la mediazione sindacale addirittura
come possibile pericoloso veicolo di una loro compromissione.
È un paradigma la cui efficienza è stata fortemente posta in
discussione, come sappiamo, dalla turbolenza del contesto, di
fronte alla quale abbiamo visto il sistema saggiamente reagire,
anche se con affanno, attraverso l’introduzione di massicce
dosi di flessibilità ed una valorizzazione della mediazione collettiva. A ben vedere, si tratterebbe di tornare a riconsiderare
l’impostazione iniziale che aveva il disegno di legge governativo dello Statuto. In quel disegno la reintegrazione era vista
soprattutto come una misura posta a presidio dell’effettività
del principio di libertà sindacale nell’ambito aziendale. Fu il
Parlamento a generalizzarne la portata, senza peraltro modificarne la collocazione sistematica, che è rimasta quella del
titolo secondo, relativo alla libertà sindacale.
Quello che voglio dire, in altre parole, è che sarebbe opportuno
tornare a considerare che la via maestra per assicurare condizioni di legalità nell’esercizio del potere datoriale è soprattutto
quella della promozione di una presenza attiva della rappresentanza dei lavoratori, le cui modalità dovranno adattarsi ai diversi
contesti organizzativi, che come sappiamo sono sempre più
raramente quelli della fabbrica fordista. In questa prospettiva c’è
da chiedersi, ad esempio, se non sia giunto il momento di auspi-
18 Le forme tradizionali sono state caratterizzate dalla finalità di promozione del ruolo del sindacato in una duplice direzione. Da un lato, essenzialmente nella prospettiva del conflitto collettivo (si è mirato nella
sostanza sia ad attivare il potere di controllo del sindacato dei lavoratori
sulla gestione del potere datoriale, a cominciare dallo statuto dei lavoratori, sia, successivamente, a sostenere il suo potere negoziale sul piano
dei rapporti collettivi). Da un altro lato la valorizzazione dell’attività
sindacale la si è avuta mediante il suo coinvolgimento sul piano della
attività amministrativa intesa in senso lato (si pensi alle varie forme di
coinvolgimento delle organizzazioni sindacali nell’ambito di collegi
della pubblica amministrazione, oppure, più di recente, alla varie forme
di sostegno e promozione della bilateralità).
19 Cfr.: l’art. 44, co. 10, del decreto legislativo n. 286 del 1998; l’art. 4, co.
7, della legge n. 125 del 1991, come sostituito dal decreto legislativo n.
196 del 2000 (abilità i consiglieri di parità); l’art. 5 del decreto legislativo n. 216 del 2003.
mondoperaio 10/2014 / / / / riforme e partiti
care una promozione dell’attività sindacale che arricchisca le
forme classiche attraverso cui essa si è espressa finora18. Ad
esempio, si potrebbe pensare di legittimare il sindacato ad utilizzare lo strumento dell’articolo 28 per reagire anche a prassi di
gestione dei rapporti di lavoro che siano lesive dei diritti dei
lavoratori. Per questa via – che in verità si è già cominciato a
tracciare nell’area delle discriminazioni19 - si dischiuderebbe la
possibilità di elevare drasticamente il grado di effettività delle
tutele, altrimenti destinate a rimanere sulla carta.
In conclusione, per evitare che tutto si riduca – come sta
avvenendo – a un sì o a un no all’articolo 18 dello Statuto
dei lavoratori, è forse opportuno alimentare un dibattito
intorno alla possibilità di introdurre modifiche alla disciplina complessiva dei licenziamenti: modifiche che da un
lato riducano il grado di incertezza in cui si trova a operare
l’imprenditore, dall’altro esplicitino la misura in cui
quest’ultimo è tenuto a farsi carico dell’interesse del lavoratore alla continuità della propria situazione occupazionale, dall’altro ancora diano un assetto più equilibrato e
intelligente al sistema sanzionatorio.
/ / 21 / /
>>>> riforme e partiti
Un sistema al capolinea
>>>> Paolo Pombeni
P
er certi versi sembra avverarsi il vecchio sogno di Moisei
Ostrogorski, l’autore del famoso trattato su La Democrazia e i partiti politici (1902), che terminava augurandosi che
in luogo delle “macchine politiche” (il cui modello per lui
erano i partiti americani) arrivassero le “leghe”, formazioni
transeunti basate sull’aggregazione intorno ad obiettivi limitati, e che dunque si sarebbero sciolte una volta questi fossero
stati raggiunti. Magari lo studioso russo si augurava che questi obiettivi transeunti fossero qualcosa di più serio che impallinare un candidato a qualche carica o fare barricate per qualche mantra ideologico, ma tant’è: come si sa, poi la declinazione di principi annunciati come alti ideali non di rado finisce storicamente in farsa.
Quello a cui stiamo assistendo in questi mesi, ma forse in
quest’ultimo anno, è il naufragio, almeno per il momento, del
sistema dei partiti così come è stato ereditato da una lunga
storia. Qualcuno obietterà che si tratta di una vicenda iniziata
con la crisi della cosiddetta prima Repubblica. E’ vero, ma
solo se consideriamo quanto avvenne allora appunto come un
inizio che non necessariamente doveva finire nella dissoluzione attuale.
Se si esamina la composizione dell’attuale Parlamento e le
dinamiche che lo regolano, è arduo ricondurre tutto al vecchio
universo della “forma partito”. In sintesi, essa poggiava su tre
piloni: l’esistenza di raggruppamenti, contemporaneamente
sociali e politici, che avevano una loro stabilità nel tempo in
quanto costruiti su “identità” comuni riconosciute; la dimensione “rappresentativa” di questi raggruppamenti, che era
sostanzialmente continua, per cui essi perseguivano più o
meno gli stessi obiettivi generali dovunque la esercitassero
(governo e assemblee elettive nazionali e locali, società di
rappresentanza, ecc.); il principio per cui senza una “disciplina” nell’azione comune si sarebbero messi a rischio gli
altri due pilastri, mentre un alto tasso di democrazia interna ai
vari raggruppamenti consentiva l’aggregarsi di molte sfumature differenti senza necessità che esse si omologassero più di
tanto, ma sempre mantenendo il riferimento al modello parla-
mentare per cui poi alla fine tutti devono adeguarsi alle scelte
della maggioranza.
E’ facile ricomprendere in questo schema i partiti della prima
Repubblica. Le loro identità erano spesso assolutamente trasparenti (cattolici, comunisti, socialisti, laici, neofascisti,
ecc.); la loro azione nelle varie sfere dove si esercitava il principio della rappresentanza era tale da non mettere in discussione quel collante identitario; la democrazia interna si fermava davanti al pericolo di mettere in crisi la capacità aggregatrice dell’identità collettiva. Dc e Pci erano emblematici da
questo punto di vista: non si metteva in discussione che uno
lottasse per promuovere una società cristianamente ispirata e
che l’altro lo facesse per l’avvento finale di un ordine nuovo
“comunista”; c’era una costante ricerca per mostrare che
ovunque, dal livello nazionale a quello locale, i due partiti
non tradivano quegli obiettivi generali; il confronto interno
che esisteva in ciascuno – nella Dc in forma esasperatamente
dichiarata, nel Pci nel chiuso del gergo di una politica professionale da “mandarini” – non poteva arrivare al punto, non
dirò di fare delle scissioni, ma neppure di minacciarle.
Bisogna riflettere sul destino che stanno
avendo gli unici due partiti
che avrebbero dovuto rappresentare
il baluardo del vecchio schema
di organizzazione della politica
Si può ovviamente rilevare che dietro queste apparentemente
“ferree leggi” c’erano poi prassi ed episodi in cui ci si discostava da esse, talora anche in maniera significativa: ma tutto
avveniva cercando di negare che si stesse facendo ciò che tutti
consideravano “immorale”, cioè qualcosa che contribuiva
alla distruzione della capacità “di lotta” del partito.
Nel Parlamento attuale trovare partiti che rispondano al requisito di poggiarsi su quei tre pilastri è cosa ardua. Magari in
alcuni ne rimane uno, ma esso, privo degli altri due, è un pilamondoperaio 10/2014 / / / / riforme e partiti
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stro che regge il vuoto. Da questo punto di vista è emblematico
il Movimento 5 stelle, l’unico ad avere una mistica dell’unità
di espressione nel voto e nel pensiero, ma che non ha né identità collettiva (a partire dal nome che non significa nulla – il
che peraltro non è una loro esclusiva), né strategia di rappresentanza complessivamente dispiegata nelle diverse istanze in
cui è presente, magari anche con quote significative.
Per il resto gli attuali partiti possono dividersi in due grandi
sottogruppi. Da un lato ci sono i “cespugli” di vario tipo, che
sono in realtà delle istituzioni di mutuo soccorso fra spezzoni
di professionisti della politica (o aspiranti tali) i quali, conoscendo bene il meccanismo dei vantaggi del sistema vigente
nelle varie assemblee legislative (rimborsi, contributi alle
spese, salari per sé e per i collaboratori, ecc.), lucrano dal loro
autodefinirsi come “partiti” (o assimilati) una legittimazione
per questi privilegi. Sono naturalmente i più feroci oppositori
di qualsiasi regolamentazione della presenza nelle assemblee
sulla base della definizione di soglie per l’accesso al diritto di
rappresentanza, in base al presupposto (insostenibile) che in
un’assemblea tutte le “opinioni” abbiano diritto ad essere rappresentate.
Dal lato opposto troviamo quel che resta dei partiti che mantengono il riferimento ad un insediamento social-politico
significativo. Sono sostanzialmente tre: quel che resta dell’aggregazione messa in piedi vent’anni fa da Berlusconi;
quel che resta del riaggregarsi del “progressismo” italiano,
cioè le varie trasformazioni per fusioni ed amalgami più o
meno riuscite di ciò che altrimenti potrebbe definirsi la sinistra che aspira ad essere di governo; quel che resta della protesta a sfondo localista e pseudo regionalista, cioè la Lega.
Quest’ultima componente è per la verità sempre più attratta
nel gorgo originato dal successo del movimento grillino, cioè
nella raccolta di umori e pregiudizi diffusi a cui non interessa
dare uno sbocco politico, ma che servono solo come strumento di raccolta di un consenso elettorale che consenta al
tempo stesso di mantenere vivi, magari estremizzandoli ulteriormente, quegli umori e quei pregiudizi, e di fornire così un
mezzo per professionalizzare a spese della collettività coloro
che si assumono il compito di cui si è appena detto.
A questo punto bisogna riflettere in maniera approfondita sul
destino che stanno avendo gli unici due partiti che, per ragioni
storiche e di sistema, avrebbero dovuto rappresentare il
baluardo del vecchio schema di organizzazione della politica,
cioè essenzialmente lo scontro atavico fra conservazione e
progresso. Consentiteci da lasciare da parte per il momento
l’eterna obiezione per cui in realtà non di rado i conservatori
mondoperaio 10/2014 / / / / riforme e partiti
propongono dei cambiamenti ed i progressisti resistono ai
cambiamenti e vogliono conservare quanto si è precedentemente conquistato. E’ verissimo, ma si tratta, per così dire, di
accidenti di percorso che quando diventano la regola dissolvono l’identità dei due raggruppamenti.
Dunque: da un lato stava Berlusconi col suo nuovo “partito di
plastica”, perché nato apparentemente dal nulla ideologicosociale, frutto dell’iniziativa di un imprenditore che entrava in
politica per salvare l’impero economico che si era costruito.
In realtà le cose erano un bel po’ più complicate. In sintesi
l’imprenditore Berlusconi da un lato, grazie al possesso di
una imponente strumentazione mediatica, convinceva che
quel che lui stava rischiando, cioè la perdita di quanto accumulato negli anni della confusione decadente della prima
Repubblica, toccava anche tutti gli altri che avevano tratto
profitti da quel contesto; dall’altro raccoglieva attorno a sé
una quota di professionismo politico altrettanto interessato al
mantenimento di un ruolo che il venir meno delle circostanze
pregresse metteva in questione. Aggiungiamoci pure che il
grande successo arriso inizialmente e per un lungo tratto a
questa proposta elettorale aveva rafforzato la compagine del
gruppo, che era anche tenuta assieme dal fatto che il suo promotore era in grado di sopportare in prima persona la maggior
parte dei costi dell’impresa.
Nella dissoluzione della prima Repubblica
il partito comunista
nella sua trasformazione berlingueriana
aveva aspirato ad essere
il porto naturale a cui doveva approdare
chiunque fosse per il progresso
Questo era il versante della “conservazione”, che non a caso
aveva assunto a proprio marchio tutte le parole d’ordine che
tradizionalmente erano state avversate dal fronte opposto:
così si erano proclamati “liberali” (senza sapere di che parlavano) perché nell’ideologia stracciona della sinistra il liberalismo era il male assoluto; ovviamente anti-comunisti, perché
l’avvento del comunismo era considerato l’obiettivo del progressismo; e poi, in maniera meno esplicita, clericali, industrialisti, eccetera.
Quel modello è però andato in frantumi nel momento in cui è
diventato evidente che conservare era un termine obsoleto in
un mondo in trasformazione radicale. Certo: una crisi economica impressionante ed imprevista, per di più cocciutamente
/ / 23 / /
negata nella sua fase iniziale, ha dato il colpo di grazia alla
possibilità di raccogliere consenso sulla base del “così com’è
in fondo va bene per tutti”; ma bisogna aggiungere che la percezione di un mondo in continua ebollizione anche su altri
piani (dalle tecnologie alle relazioni internazionali) bruciava
anche le residue capacità di fascinazione del tradizionale slogan. Sommiamoci la crisi personale del vecchio leader, che
non ha saputo subito riadattare la recitazione della sua parte
al nuovo scenario, nonché il fatto che proprio la crisi economica aveva minato la sua capacità di farsi carico in prima persona dei costi del suo partito, ed avrete il quadro completo
della situazione.
Sul versante opposto si poneva il problema del “progressismo” italiano. Nella dissoluzione della prima Repubblica il
partito comunista nella sua trasformazione berlingueriana –
quella che ne aveva fatto “un partito radicale di massa” , prendendo a prestito una geniale definizione di Ermanno Gorrieri
(ma qualcosa di simile aveva detto anche Luciano Cafagna) –
aveva aspirato ad essere il porto naturale a cui doveva approdare chiunque fosse appunto per il progresso. In verità questa
era una pretesa storica del comunismo occidentale: solo che
all’epoca d’oro ciò doveva avvenire perché ci si rendeva
conto che la storia marciava inevitabilmente verso l’instaurazione del socialismo marxista, mentre ora, distrutta dalla storia stessa quell’illusione di terra promessa, si ripiegava più
banalmente sull’idea che il Pci avesse la capacità, “per struttura ed organizzazione”, di dare al moralismo progressista la
forza necessaria per instaurare finalmente in Italia l’egemonia
dei politici per bene.
Il prezzo per rendere credibile questa strategia è stato l’abbandono della dizione “comunista” nella denominazione dei
nuovi raggruppamenti, anche per l’implausibilità del termine
dopo il crollo dell’Urss e la crisi di tutti i sistemi che si appellavano a quell’ideologia (il caso cinese è particolare, ma,
come si dice, fa storia a sé). Tuttavia questo non ha comportato, almeno per lungo tempo (e in parte ancora oggi), una
revisione della cultura politica propria di quella tradizione. In
sostanza ci si è trovati di fronte alla difficoltà di governare il
rapporto tra il partito e il governo che questo esprimeva, tanto
più che esso per necessità era sempre di coalizione. Di qui il
problema di come accettare che un governo dovesse rispondere prima al paese ed alla comunità indifferenziata degli
elettori che gli davano sostegno, e solo dopo alle pulsioni e
agli interessi che il partito pretendeva di trasmettergli. Che
poi questo modo di fare abbia trovato disponibilità anche nei
membri provenienti da altre frange ideologiche che il nuovo
partito aveva aggregato attorno alla vecchia struttura del Pci
non deve stupire: perché in fondo quel modo di fare era estremamente favorevole al ruolo e agli interessi dei gruppi dirigenti di volta in volta succedutisi, nei quali anche una parte
dei nuovi erano stati cooptati.
Questo modello è però andato radicalmente in crisi con la
conquista del vertice del Pd da parte di Matteo Renzi. Egli
infatti ha creato il corto circuito che ha fatto saltare il sistema:
prima è riuscito a divenire segretario del partito a dispetto dei
suoi gruppi dirigenti tradizionali e grazie all’appoggio massiccio non degli iscritti, ma degli elettori (indistinti); poi, in
forza di quella posizione conquistata, non ha preteso di dettare regole al governo attraverso il direttivo del partito, ma si
è direttamente insediato al vertice dell’esecutivo.
Con i due eventi che ho cercato di descrivere – cioè con la
crisi del ruolo di catalizzatore della “conservazione” (che da
noi pudicamente viene chiamata “moderatismo”), e con la
dissoluzione del partito “progressista” come cane da guardia
riconosciuto di quella ortodossia per lasciare il ruolo di guida
verso il futuro ad un leader – si è di fatto dissolto quel sistema
di governo della rappresentanza e di manipolazione benigna,
mondoperaio 10/2014 / / / / riforme e partiti
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nonché di canalizzazione, degli “interessi sociali” che nella
nostra Carta Costituzionale era stato pensato come compito
precipuo di un sistema di partiti.
Per dire di più, si era nella pratica ritenuto che senza di esso
una democrazia che non volesse essere “formale”, ma sostanziale, sarebbe stata impossibile. Di qui la necessità di ripensare oggi il quadro complessivo del nostro sistema politico,
nel momento in cui da un lato i partiti esistenti godono e pretendono di godere di quel ruolo (e di quei privilegi) che la
Costituzione riserva ai modelli che essa aveva non solo in
mente, ma per tanti versi fra le mani; e dall’altro le loro
incongruenze, unite alla trasformazione globale in corso, li
hanno privati della legittimazione presso l’opinione pubblica
a ricoprire quei compiti.
Le leadership dei partiti sembrano
incapaci di gestire la disciplina
dei loro gruppi parlamentari
La percezione di questa situazione non mi sembra molto presente nella nostra classe politica. Basti citare come episodio
illuminante quanto è accaduto nella vicenda della designazione di due membri di nomina parlamentare per la Corte
Costituzionale. Indubitabilmente affidare un compito tanto
delicato di fatto proprio ai partiti e non semplicemente al
“Parlamento” è tipico della nostra Costituzione repubblicana:
infatti quando si fissa un quorum altissimo che presuppone
una larga intesa fra maggioranza ed opposizione evidentemente si pensa ai partiti sia come destinatari della tutela contro colpi di mano di qualunque maggioranza, sia come tessitori di un accordo trasversale che renda possibile quella maggioranza qualificata. In più evidentemente ci si aspetta che i
partiti per raggiungere questa intesa puntino ad indicare personalità di una qualificazione tale da superare ogni riferimento “di parte”.
Ebbene, cosa è successo? I partiti non sono in grado di
costruire queste larghe intese, perché il sistema è divenuto ad
egemonia troppo frammentata, e – come si è detto – la presenza di una formazione atipica, ma di grande peso come il
M5s (che non è interessato alla preservazione del sistema in
quanto non ne è stato parte “costituente” né si sente erede di
quel passaggio) rende estremamente ardua la formazione
della maggioranza qualificata. In secondo luogo queste difficoltà consentono a tutte le tendenze interne ai partiti maggiori
di sabotare le intese non in quanto considerate realmente inadeguate, ma in quanto mezzo per la battaglia interna. In terzo
mondoperaio 10/2014 / / / / riforme e partiti
luogo nella scelta dei candidati non vi è alcuna traccia della
volontà di individuare profili di candidati che siano percepiti
come rappresentativi di un consenso trasversale.
Le leadership dei partiti poi sembrano incapaci di gestire la
disciplina dei loro gruppi parlamentari, dal momento che non
dispongono più degli strumenti impliciti del disciplinamento:
non sono in grado di garantire le carriere elettorali (non si sa
che gruppo dirigente sarà al potere al momento della formazione delle prossime liste; non si sa con le modifiche in corso
– abolizione del Senato, delle provincie, accorpamenti dei
comuni, ecc. – quanti posti saranno disponibili; le chance di
successo dipendono spesso più dal sostegno dei media che da
quello delle segreterie, ecc.); non hanno più la forza di garantire sistemazioni “parallele”, perché, per fortuna, la presa dei
partiti su molte istituzioni sta rallentando, complice la spending review ma non solo; non determinano la quota di spazio
pubblico occupabile dai singoli deputati, che anzi sanno che
mostrarsi “dissenzienti” ne aumenta l’appeal per le varie corride mediatiche.
Tutto questo, come si è detto, è divenuto evidente nella faccenda dell’elezione dei due giudici della Corte Costituzionale, ma si ripete praticamente in continuazione, e l’unica
arma nelle mani del governo per governare questa emergenza
sarebbe il ricorso ad elezioni anticipate. A questo proposito
vanno fatte due osservazioni. La prima riguarda più direttamente la vicenda delle elezioni dei membri della Consulta:
qui è diventato evidente che c’è una parte almeno della classe
politica che è diventata indifferente non solo alla disciplina
del proprio gruppo, ma allo stesso dovere di adesione al
sistema degli equilibri costituzionali (persino le reprimende,
fondatissime, del presidente della Repubblica sono passate
inascoltate). La seconda riguarda più in generale il ricorso
alle elezioni anticipate. In questo clima si tratta di un’arma
“atomica” di ultima istanza che rischia di disintegrare definitivamente il sistema, per cui è disponibile più come minaccia
che come realtà. Peccato che di questo siano al corrente praticamente tutti.
Dunque stiamo affrontando una crisi ben più impattante che
un tradizionale scontro di correnti e personalità nel recinto
tradizionale dei partiti. Stiamo assistendo, piaccia o meno, ad
una crisi del sistema costituzionale vigente, che è basato sui
partiti e sul ruolo che essi assolvono nel garantirne il funzionamento. Ciò non significa che esso sia finito: tutto è sempre
recuperabile, basta volerlo e avere a disposizione l’intelligenza per sapere come fare. Se queste due condizioni sussistano oggi lasciamo sia il lettore a giudicare.
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>>>> riforme e partiti
Se si vola troppo alto
>>>> Celestino Spada
I
l giorno successivo a quello in cui il Senato ha approvato in
prima lettura il ddl 1429 che lo riforma, il quotidiano La
Stampa ha pubblicato una lettera al suo direttore della senatrice
a vita Elena Cattaneo, una gloria italiana nella ricerca biologica
mondiale nominata l’anno scorso dal presidente della Repubblica. La senatrice informava di essersi astenuta (un voto contrario, al Senato) e dei motivi di questa decisione, esposti
nella sua dichiarazione di voto e resi in sintesi nel titolo dell’articolo (“Occasione persa. Si poteva volare più alto”). Può
essere utile considerare i suoi argomenti non solo per il rilievo
della persona, ma anche perché, fra “dichiarazioni” ai media e
battute postate su vari social network, non sono state molte le
considerazioni sul testo finale rese pubbliche da senatori, ministri ed esponenti politici nazionali e regionali.
I motivi del dissenso di Cattaneo sono tre: di contesto, di
metodo e di merito. Quello sul “metodo utilizzato”, trattandosi
di una ricercatrice, va considerato per primo: “Troppo condizionato da pressioni esterne e dalla disciplina di partito, con
cui si sono dettati contenuti, paletti e tempi, decisi fuori dall’aula”. In effetti una modifica della Costituzione proposta e
sostenuta nel confronto parlamentare con le modalità e l’urgenza
anche tattica di mantenere un impegno qualificante del programma di governo ha posto, in questa prima lettura, un
vincolo di maggioranza e un’ipoteca sull’orizzonte mentale e
politico dei legislatori: un vincolo che contrasta alla radice
con la natura delle norme e con l’ambizione dichiarata di conquistare il più ampio consenso di opinione e di popolo attorno
a un cambiamento che riguarda la collettività nazionale. Ne
sono risultate offuscate, nel confronto pubblico, le informazioni
anche più sommarie o di sintesi circa il merito della proposta:
il richiamo ai fatti e alle esperienze maturate negli ultimi
trenta anni di vita istituzionale e politica, e le argomentazioni
esposte in apertura del ddl agli atti del Senato.
La stessa lettera della senatrice Cattaneo, peraltro, finisce per
fornire una riprova di questo offuscamento: visto che, a
leggerla e rileggerla, non c’è in essa la parola “Regioni”,
manca anche il più piccolo riferimento ai livelli costituzionali
regionali e comunali di cui il nuovo Senato diverrebbe espressione, e sono considerati strumenti ad altri fini le ragioni e gli
obiettivi dichiarati dal governo nel presentare alle Camere il
progetto. Che è come dire – per restare a un’analogia suggerita
nella lettera – esporre le proprie critiche ai primi risultati di un
esperimento giunto appena al termine della prima metà della
Fase 1, senza neanche richiamare i dati di partenza e gli
obiettivi indicati dal ricercatore che vi è impegnato.
Per chi mette a confronto il testo iniziale
del governo e quello finale votato dal
Senato i rilievi di merito imputati al governo
o non trovano riscontro o sono il risultato
dell’apporto della truppa composita che il
governo si è trovato di fronte in Senato
Per molti versi “il contesto generale in cui si sono svolti i
lavori” – il primo fra i motivi del dissenso della senatrice – ha
contribuito in modo determinante a distogliere l’attenzione da
questi aspetti non secondari della proposta di riforma. La senatrice imputa al governo “scarso ascolto” e “linguaggio inadatto
a un momento tanto importante”, conseguenza di “una strategia
comunicativa impegnata nella rincorsa al consenso elettorale e
fatta di pensieri mignon di 140 caratteri, strutturalmente estranei
alla competenza, all’esperienza e ai saperi specialistici”. Sicché,
essendo così espliciti e dominanti gli obiettivi immediati del
governo (vedere approvato il ddl in tempi rapidi e scompaginare
il fronte composito dei contrari – fra cui esponenti della maggioranza, risicata al Senato – prima che ne venisse una minaccia
alla sua stessa esistenza), hanno finito per risultare “non convincenti le motivazioni a sostegno di un Senato non elettivo e
le scelte delle funzioni assegnate a questa Camera”, e del tutto
trascurabili i motivi e gli obiettivi istituzionali e politici generali
indicati nel ddl: nient’altro che uno schermo per avere, alla
fine della giostra, “un Senato di cooptati dalle segreterie di
partito e una Camera di nominati”. Giudizio di merito, questo,
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emana; e venendo così ad oscurare anch’esso ragioni e obiettivi che attengono alla vita delle istituzioni, poco o nulla
considerate di solito dai media. Invece, per chi ha ora modo
di mettere a confronto il testo iniziale del governo e quello
finale votato dal Senato, i rilievi di merito imputati al
governo e alcune delle carenze del progetto segnalate dalla
senatrice Cattaneo o non trovano riscontro o sono il risultato
dell’apporto della truppa composita che il governo si è
trovato di fronte in Senato. I due testi sono molto diversi su
punti essenziali, perché la spinta decisionista del premier è
valsa a imporre i tempi di approvazione ma non le linee
guida e le scelte concrete della sua proposta: se c’era un “disegno”, è fallito.
La proposta del governo era questa: “Il Senato delle Autonomie è composto dai Presidenti delle Giunte regionali, dai
Presidenti delle Province autonome di Trento e di Bolzano,
dai sindaci dei Comuni capoluogo di Regione e di Provincia
autonoma, nonché, per ciascuna Regione, da due membri
eletti, con voto limitato, dal Consiglio regionale tra i propri
componenti e da due sindaci eletti, con voto limitato, da un
collegio elettorale costituito dai sindaci della Regione”. In
sintesi: quarantadue membri di diritto, per il loro ruolo istituzionale nelle regioni e nei comuni capoluogo, più quattro
per ciascuna regione eletti dal Consiglio regionale (due) e
dai sindaci della regione (due) costituiti entrambi in collegio
elettorale. Accanto ad essi “ventuno cittadini che hanno illustrato la Patria per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario possono essere nominati senatori
dal Presidente della Repubblica”.
Una procedura di designazione dei nuovi
senatori centrata sui (e gestita dai) partiti
che conclude il terzo ordine di motivi, basato sugli “interventi
ascoltati e i colloqui con i colleghi dell’emiciclo”, e ancora
così sintetizzato: “Un progetto che non è in grado ora di
indicare l’esito, l’equilibrio, la visione del nuovo assetto costituzionale che stiamo costruendo”.
Anche per chi ha seguito la vicenda attraverso i media l’avvitamento partitico, in particolare interno al Pd, del confronto
pubblico su questa riforma costituzionale è stato evidente;
come pure le scelte comunicative del governo, che non
hanno contrastato ma alimentato questa deriva, contribuendo
non poco a incrementare il materiale di un’offerta mediale
da sempre centrata sui partiti e i politici, e su quanto da essi
mondoperaio 10/2014 / / / / riforme e partiti
Invece il Senato uscito dalla prima lettura “rappresenta le istituzioni territoriali”, ma la sua composizione è tutt’altra da
quella proposta nel ddl del governo. Nell’articolo 2 del testo
finale la musica è questa: “Il Senato della Repubblica è composto da novantacinque senatori rappresentativi delle istituzioni
territoriali e da cinque senatori che possono essere nominati
dal Presidente della Repubblica. I Consigli regionali e i
Consigli delle Province autonome di Trento e di Bolzano
eleggono, con metodo proporzionale, i senatori tra i propri
componenti e, nella misura di uno per ciascuno, tra i sindaci
dei Comuni dei rispettivi territori”.
Alla diversa composizione si accompagna un cambiamento
primario nei criteri e nelle procedure di designazione dei rap-
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presentanti delle istituzioni territoriali. Quanto ai criteri, la
proposta del governo escludeva l’elezione diretta a suffragio
universale dei senatori non solo per “riservare in via esclusiva
alla Camera dei deputati le scelte di indirizzo politico”, ma
perché “l’elezione, inevitabilmente, potrebbe trascinare con
sé il rischio che i senatori si facciano portatori di istanze
legate più alle forze politiche che alle istituzioni di appartenenza”. Nondimeno in ogni Regione, nella elezione dei due
eletti “dal Consiglio regionale convocato in collegio elettorale”
e dei due eletti “dai sindaci della regione convocati in collegio
elettorali”, avevano rilievo le persone. La prescrizione dei n.
3 e 4 dell’art. 33 della proposta è la stessa: “Le candidature
sono individuali e ciascun elettore può votare per un unico
candidato. Il voto è personale, libero e segreto”.
Nel testo finale, invece, questa prescrizione semplicemente
non c’è più, e sempre l’art. 2 stabilisce che in ciascuna
Regione “i seggi sono attribuiti in ragione dei voti espressi e
della composizione di ciascun Consiglio”. Sicché (in italiano)
i voti raccolti da ciascun partito sul mercato elettorale regionale
varranno a stabilire non solo la misura della sua rappresentanza
nel relativo Consiglio, ma anche la sua quota dei seggi spettanti
alla Regione nel Senato della Repubblica. Ne consegue una
procedura di designazione dei nuovi senatori centrata sui (e
gestita dai) partiti. Dopo una agitatissima, ma certamente meditata, riflessione, il Senato ha deciso che per ripartire la deputazione senatoria regionale fra i partiti presenti nel Consiglio
“ogni consigliere può votare per una sola lista di candidati,
formata da consiglieri e da sindaci dei rispettivi territori”; che
“i seggi sono assegnati a ciascuna lista di candidati in numero
pari ai quozienti interi ottenuti, secondo l’ordine di presentazione nella lista dei candidati medesimi”; e che “in caso di
cessazione di un senatore dalla carica di consigliere o di
sindaco, è proclamato eletto rispettivamente il consigliere o
sindaco primo tra i non eletti della stessa lista” (art. 38). Eliminati i presidenti delle Regioni e delle Province autonome,
eliminati i sindaci dei comuni capoluogo, eliminato il collegio
elettorale dei sindaci, eliminata la quota paritaria di eletti dai
Consigli delle Regioni e delle Province autonome e di eletti
dai comuni in ogni regione e provincia autonoma, saltano le
candidature individuali e il voto alle persone, e con le liste fra
cui si deve scegliere il tutto è saldamente nelle mani dei partiti
che le presentano in Consiglio, compresi i nomi di coloro che
subentreranno in Senato in caso di cessazione di qualcuno già
eletto.
Nella lettera della senatrice Cattaneo non c’è traccia del travaglio, del confronto e dello scontro politico che deve aver
accompagnato questi cambiamenti non marginali del contenuto del ddl costituzionale presentato dal governo, che
strozzano nella condotta forzata delle liste dei partiti rappresentati in Consiglio regionale “la rappresentanza di tutta
la sfera delle autonomie, intese anzitutto come istituzioni
piuttosto che come territori”, e vanificano la libertà di elettorato attivo e passivo anche in questa sede istituzionale.
Viene da chiedersi come sia stato possibile che di questa
materia del contendere, di questi antagonismi così radicali
su criteri e scelte normative, non ci fosse neppure l’eco
“negli interventi ascoltati e nei colloqui con i colleghi dell’emiciclo”, non pochi dei quali contrari anch’essi alla proposta del governo; e perché fra i motivi della sua astensione
finale non sia fatto cenno a questi aspetti di merito dei
risultati del lavoro lì compiuto.
E’ un bilancio del decentramento che porta
la Conferenza dei Presidenti delle Regioni,
nel 1984, ad avanzare alla Commissione
Bozzi la proposta di trasformare
uno dei due rami del Parlamento
in “Camera delle Regioni”
Come pure viene da chiedersi come mai, archiviata in questo
modo la prima lettura, nessuno tra i fautori di questa riforma
abbia finora ritenuto urgente, oltre che necessario, riproporre
ad ogni buon conto all’opinione pubblica – e segnalare ai loro
pari – le ragioni e gli obiettivi finora disattesi della legge costituzionale in itinere: quasi che non abbiano altro ruolo che
quello di ufficiali di picchetto, e ci sia una qualche difficoltà a
richiamare la dimensione intellettuale, istituzionale e politica
di questa riforma, e cioè “la volontà di configurare l’organo
quale sede deputata a svolgere in primo luogo la funzione istituzionale di raccordo tra lo Stato e il complessivo sistema
delle autonomie, secondo una logica di leale e trasparente cooperazione tra livelli di governo intesa a ricomprendere, superandoli tuttavia, sia gli equilibri politico-partitici, sia quelli di
rappresentazione di interessi di carattere meramente territoriale”,
come ancora si può leggere nella presentazione del testo del
ddl di riforma al Parlamento. E se la senatrice Cattaneo avesse
provato a volare meno alto?
Può capitare che un amico, facendo ordine in casa, disseppellisca un libro che viene da un altro mondo – il nostro, trent’anni
fa – e che ci parla di oggi: non genericamente, ma preciso e
concreto, quasi nella dimensione della cronaca. È capitato a
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Renzo Rossi, per quindici anni sindaco di centrosinistra di un
piccolo comune di collina in Val di Cecina. Vi sono riprodotti
gli interventi svolti nelle più varie occasioni e iniziative da
Gianfranco Bartolini, presidente della Regione Toscana fra il
1983 e il 1990. Un impegno comunicativo dispiegato in analisi
e valutazioni di esperienze e processi con i quali la sua azione
di governo si misurava, e accompagnate spesso dalla verifica
dei risultati e da rilievi critici o apprezzamenti sulle scelte
compiute dal “governo regionale” (questo il titolo).
Si coglie, in questi discorsi, la dimensione e lo spessore di una
politica nutrita e produttiva di conoscenze e perciò capace di
gestire l’esistente e di adottare in via ordinaria strumenti e soluzioni nuove, come di concepire e prospettare innovazioni
tese a migliorare la performance politica e amministrativa di
tutto il “sistema delle autonomie”. La dimensione e lo spessore
di una politica che si voleva all’altezza delle sfide, di un
pensiero forte per capacità tecnica e volontà propositiva,
pronto a cogliere l’insufficienza o l’inadeguatezza dell’azione
e a vederne le cause nelle scelte, nelle prassi e nelle mentalità
dei soggetti attivi sulla scena istituzionale: il governo, il
Tesoro, il Parlamento, la Pubblica Amministrazione, i Consigli,
i partiti. Fino a consegnarci – prezioso per posteri vicini e più
che interessati, quali noi siamo – il bilancio di “quindici anni
di Regioni”, proposto sul campo da un dirigente politico formato nel lavoro e cresciuto nell’orizzonte mentale dell’industria
e di un’esperienza sindacale e di partito di prim’ordine: dalle
“Officine Galileo” alla Camera del lavoro di Firenze, al sindacato nazionale, al Consiglio e alla Presidenza regionale.
E’ infatti un bilancio del “decentramento politico, che tiene
conto delle originali esperienze compiute da ciascuna Regione
e delle esigenze che hanno spinto ad affermare un nuovo
ruolo delle Regioni in campo economico, sociale, culturale e
politico”, che porta la Conferenza dei Presidenti delle Regioni
e delle Province autonome, da Bartolini presieduta nel secondo
semestre del 1984, ad avanzare alla Commissione Bozzi la
proposta di trasformare uno dei due rami del Parlamento in
“Camera delle Regioni” (p. 163-165).
Letti ora, questi interventi colpiscono per quanto le riflessioni
e le proposte seminate in quei sette anni di governo regionale
sono simili a quelle esposte nel disegno di legge costituzionale
di riforma del Senato presentato dal governo, che propone “la
trasformazione del Senato della Repubblica nel Senato delle
Autonomie, rappresentativo delle istituzioni territoriali”. Con
una differenza: che a questo passo il governo attuale è indotto
“dopo un dibattito ormai più che trentennale e dopo numerosi
tentativi di riforma naufragati o riusciti solo in parte, ma con
mondoperaio 10/2014 / / / / riforme e partiti
esiti che quasi tutti giudicano controversi”, e sotto la spinta,
ormai altrimenti ingovernabile, di fattori esogeni rispetto alla
nazione e allo Stato italiani: “Lo spostamento del baricentro
istituzionale per la forte accelerazione del processo di integrazione europea e in particolare la recente evoluzione della governance economica europea […] Le sfide derivanti dall’internazionalizzazione delle economie e dal mutato contesto
della competizione globale”. Laddove per Bartolini il “punto
critico cui oggi (1983) sono giunti i rapporti fra centro e periferia, e che è tale da richiedere l’introduzione di significativi
correttivi” (p. 53) ha cause tutte endogene: nelle scelte dei governi nazionali in materia di bilancio dello Stato e di finanza
pubblica, e nelle condizioni e impedimenti che ne sono venuti
- e nei processi di adattamento che ne sono conseguiti - nelle
scelte di governo e di amministrazione in tutto il sistema delle
Autonomie, con lo scadimento dei caratteri e degli obiettivi
dell’azione di governo regionale.
“Non c’è per le Regioni la possibilità
di discutere leggi che direttamente
le riguardano”
Vale la pena di riproporre qui il quadro che lo stesso presidente
della Toscana traccia alla Convenzione programmatica del
Pci del giugno 1988, muovendo dagli “anni Settanta, che
videro l’avvio di una stagione di riforme, di grandi leggi programmatiche a livello nazionale: la casa, l’agricoltura, i trasporti, la sanità, la riconversione industriale, con la nuova attribuzione di poteri e risorse alle Regioni e agli enti locali, il
‘decreto Stammati’ con il rifinanziamento degli enti locali e la
proposta di sistemazione a regime della finanza degli enti
locali. È stato un periodo molto interessante: per le Regioni si
è trattato di organizzare e coordinare sul territorio questa
somma di politiche settoriali, stabilire delle priorità, dare
forza anche a momenti di riorganizzazione per il sistema delle
autonomie […] Fu l’avvio di una ricerca di programmazione
a tutti i livelli. Ma quella stagione è stata tradita. Se, dopo la
riforma tributaria, gli enti locali non hanno più potuto contare
su uno stabile assetto finanziario, nell’81 la finanza regionale
ha cessato di avere una propria legge ed è affidata, anno per
anno, alla legge finanziaria dello Stato […] Oggi (1988) non
si può affrontare il problema delle Regioni in termini di
semplici aggiustamenti nei rapporti con lo Stato o con gli enti
locali. Occorre invece porsi l’obiettivo della riforma, quella
dei poteri, delle risorse e del loro rapporto con la legislazione
nazionale, con il Parlamento e con il governo […] Ma non c’è
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per le Regioni la possibilità di discutere leggi che direttamente
le riguardano. Ecco perché abbiamo questo tipo di legislazione
che interviene quotidianamente nelle competenze e non consente neppure una autonoma razionale organizzazione del lavoro. Ci troviamo perfino a dover ricostituire gli enti di
sviluppo agricolo, anche se altre potrebbero essere le risposte;
a ricostituire le aziende di turismo anche se altre potrebbero
essere le soluzioni. Siamo cioè in presenza di un complesso di
disposizioni che incidono immediatamente sulle facoltà operative delle Regioni, senza alcuna possibilità di metterle in
discussione. Da qui è nata la proposta di una ‘Camera delle
Regioni’, di una sede cioè in cui le Regioni possano dibattere
le leggi che le riguardano” (p. 377-378).
Vale la pena di leggere queste pagine soprattutto per due
motivi: la centralità che vi assume la programmazione, come
habitat vitale per il governo e per l’istituzione regionale,
criterio di attuazione dell’indirizzo politico e “metodo e
capacità operativa di tutta la struttura”; e lo sguardo fermo di
Bartolini sui guasti e le distorsioni che, in un contesto così
compromesso, si venivano producendo nell’attività degli uffici
e dello stesso Consiglio regionale, e dei partiti in esso.
Per la programmazione, Bartolini richiama l’esperienza della
Toscana: “La nuova articolazione del programma regionale di
sviluppo e le possibilità di controllo che consente […] un monitoraggio che trimestralmente ci dà lo stato di avanzamento
dello sviluppo […] Siamo in presenza comunque di livelli fra
i più alti che esistano nel nostro paese. Un punto di riferimento
anche a livello internazionale” (p. 376): con un’attenzione
particolare alle esperienze degli Stati Uniti e dell’Inghilterra,
ai “tempi lì spesi in funzione di decisioni e obiettivi certi […]
lontani dalla nostra realtà, da questa situazione di stasi, di
attesa continua, di indecisione” (p. 377); ai “processi a scala
europea che mostrano (1989) come davanti alla globalità dei
mercati e agli stessi limiti degli ordinamenti nazionali, cresca
la spinta alla valorizzazione delle economie locali, di identità,
di patrimoni storici, sociali e ambientali, che proiettano il
ruolo delle realtà regionali in un quadro più ampio” (p. 456);
in “un’Europa nella quale si è aperto (1990) un terreno di
competitività anche sul piano dell’amministrazione pubblica”
(p. 554).
In questo orizzonte di razionalità rispetto ai fini politici e di volontà di perseguire e conseguire obiettivi amministrando – “abbiamo bisogno di tanti cervelli e di una reale articolazione nella
vita della regione” (1988) – restano fermi per Bartolini i “tre
punti centrali della riflessione” sui “quindici anni di Regioni”:
“Rafforzare il ruolo legislativo e di governo delle Regioni; assi-
curare rapporti più efficienti e tutelati tra il livello centrale e
quello locale; assumere a livello costituzionale la programmazione come metodo e strumento in grado di promuovere il coordinamento delle risorse pubbliche” (p. 164-165).
“Se il richiamo autonomistico nasce sotto
forma di liste, siano esse leghe lombarde
o di altra natura, forse è perché si è ridotto
anche il nostro impegno in difesa
di una vera autonomia”
È appena il caso di osservare che la scelta della programmazione
sul terreno regionale, e questa istanza del suo rilancio a livello
nazionale, seguono di qualche anno la liquidazione dell’esperienza impostata e avviata negli anni Sessanta dai primi governi
di centrosinistra e fatta cadere, come “libro dei sogni” o “tecnocratica”, anche dai settori che si volevano più modernizzanti
della Dc, e senza particolari opposizioni del Pci nazionale.
Un profilo storiografico, per noi posteri, cui si accompagnano
osservazioni precise, di grande attualità, circa un contesto in
cui “l’amministrazione centrale opera ormai sulle ‘emergenze’,
con una legislazione e strumenti di natura straordinaria, e non
si arresta perciò la tendenza all’accentramento dei poteri e
delle risorse”; nonché esortazioni (“di fronte alle prospettive,
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i nostri obiettivi non possono rischiare uno scadimento”) che
tuttavia non possono impedire degrado o comportamenti adattativi: “Tentativi di innovazione (1985) continuano a convivere
con prassi e processi decisionali che trovano a livello nazionale
sedi e interlocutori svincolati da ogni logica di programmazione” (p. 164); “Vediamo il declino delle amministrazioni locali, una progressiva omogeneizzazione al livello più basso
[…] Se oggi (1988) non c’è più una percepibile distinzione
tra un’amministrazione di sinistra e un’altra, è perché si sono
ridotti gli spazi per esprimere una politica autonoma. Se il richiamo autonomistico nasce sotto forma di liste, siano esse
leghe lombarde o di altra natura, forse è perché si è ridotto
anche il nostro impegno in difesa di una vera autonomia” (p.
379). Considerazioni che non trovano interlocutori nei partiti
nazionali (“La disattenzione e il vuoto perfino che si registrano
su questi temi, anche da parte delle forze politiche, sono indicativi dei limiti dell’attuale dibattito, ma anche di una crisi
che sembra perdere di vista gli obiettivi della governabilità”)
e attiva e valorizza, nelle istituzioni e nei partiti stessi, comportamenti e mentalità che a loro volta acuiscono la crisi della
politica: “Il decentramento, incompiuto, è regredito in una
prassi che nulla ha a che vedere con la Costituzione e molto
invece con la burocratizzazione del sistema […] Siamo di
fronte a una prassi confusa e polverizzata di relazioni, di negoziazioni e di interventi chiusi all’interno di logiche settoriali,
mutevoli negli indirizzi e nelle scelte”. Osservazioni ricorrenti
che materializzano quasi la crisi della politica già in atto
(1989): “Liberare l’assemblea regionale da competenze amministrative e superare quelle forme consociative insite nella
gestione consiliare non significa solo snellimento dell’attività
regionale, ma rafforzare la dialettica fra maggioranza e opposizione, esaltando le funzioni del consiglio sulle grandi scelte
e sull’indirizzo politico-legislativo, oltre che di controllo sull’azione di governo” (p. 456-460).
Il quadro di scelte e di comportamenti che Bartolini aveva osservato e su cui richiamava la pubblica attenzione un quarto
di secolo dopo si presenta come un contesto nazionale di crisi
“dal quale traggono linfa pulsioni antisistema volte a delegittimare sia i partiti politici, sia, di riflesso, le stesse istituzioni
rappresentative, ai cui organi essi forniscono la provvista”,
per usare le parole della relazione che accompagna la proposta
di riforma del Senato. E la “Camera delle Regioni”, che già
allora per lui era necessaria e urgente per assicurare migliori
condizioni all’esercizio della funzione di indirizzo politico di
governo, oggi arriva col pronto soccorso della Misericordia
nella sala rianimazione della Repubblica, “poiché solo le istimondoperaio 10/2014 / / / / riforme e partiti
tuzioni che sanno dimostrare di sapersi riformare possono ritrovare la propria legittimazione e riannodare i fili del dialogo
con i cittadini”.
La proposta di riforma costituzionale del governo indica con
chiarezza che il suo obiettivo è di cambiare e far funzionare le
istituzioni a fini pubblici, collettivi: “La scelta di comprendere
nel nuovo Senato delle Autonomie in misura paritaria i rappresentanti delle regioni e quelli dei comuni, e di prevedere,
attraverso il sistema del voto limitato, anche la rappresentanza
delle minoranze presenti nei Consigli regionali e nel collegio
che elegge i sindaci di ciascuna regione, riflette la volontà di
configurare l’organo quale sede deputata a svolgere in primo
luogo la funzione istituzionale di raccordo tra lo Stato e il
complessivo sistema delle autonomie – di cui rappresenterebbe
un’emanazione – secondo una logica di leale e trasparente cooperazione tra livelli di governo”. Non senza accennare, come
già detto, al rischio che, se eletti a suffragio universale, “i senatori si facciano portatori di istanze legate più alle forze politiche che alle istituzioni di appartenenza, ovvero di esigenze
particolari circoscritte esclusivamente al proprio territorio”.
Opportune e necessarie profilassi devono
essere adottate per evitare che,
riformando le istituzioni, si finisca di fatto
per offrire nuovi spazi di manovra
e di mercato ai partiti
Non si potrebbe essere più chiari: l’allarme rosso è acceso nei
confronti dei partiti come portatori di interessi particolari, tali
per loro natura da compromettere lo svolgimento delle funzioni
attribuite alle istituzioni della Repubblica. Siamo, in Italia, al
punto (eroico, per un governo parlamentare) che la presenza di
rappresentanti del popolo in un organo costituzionale viene indicata – in un testo agli atti del Parlamento, non in un film di
Antonio Albanese o in un comizio di Beppe Grillo – come un
pericolo per il bene della collettività; e che opportune e necessarie
profilassi devono essere adottate per evitare che, riformando le
istituzioni, si finisca di fatto per offrire nuovi ruoli di influenza
e nuovi spazi di manovra e di mercato ai partiti.
La cosa singolare è che questo allarme non è scattato nel momento in cui in Parlamento qualcuno ha proposto di cambiare
su questo punto il testo presentato dal governo e si è trovata
una maggioranza che ha approvato in prima lettura a Palazzo
Madama un testo molto diverso. Così, alleggerito il nuovo
Senato delle valenze rappresentative del “sistema delle auto-
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nomie”, non resta che aspettare le prossime settimane e mesi
per vedere se questo arrivo in forze dei partiti al volante della
riforma, e ai posti così assegnati ai mercati regionali della politica, diventerà un tema di scontro politico e di scelte dirimenti
all’interno della maggioranza e fra quanti, in Parlamento,
sono favorevoli o contrari a questi cambiamenti; oppure se gli
imperativi dello “scadenzario” di leggi da approvare e della
“tabella di marcia” al 2018 del governo finiranno per prevalere,
dal momento che, come notava Machiavelli – citato da
Bartolini in uno dei suoi ultimi discorsi – “il riformatore ha
per nemici tutti coloro che prosperano sotto il vecchio ordine”.
Nella proposta di riforma del Senato formulata dal governo al
Presidente della Repubblica era attribuito il potere di nominare
nel nuovo Senato “ventuno cittadini che hanno illustrato la
Patria per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico,
artistico e letterario”, accanto ai rappresentanti delle istituzioni
territoriali. Nel testo finale, sui cento senatori infine previsti,
quella presenza è ridotta a cinque.
E’ sembrato meglio togliere di mezzo
la prescrizione delle candidature individuali
e del voto alla persona per consegnare il
tutto al “pensiero unico” delle liste di partito
Il confronto dei due testi si presta ad alcune considerazioni. Si
può dare per scontato che la scelta di quei cinque cittadini da
parte del Presidente della Repubblica sarà motivata dando
modo a tutti, e soprattutto al popolo, di verificare in che modo
egli ha usato dei suoi poteri. Per gli altri novantacinque il
testo della riforma approvato dal Senato in prima lettura ha
fatto cadere il principio e il metodo di elezione previsto nella
proposta del governo. Sicché il ruolo di senatore della Repubblica, riservato ai consiglieri regionali (più un sindaco per regione e provincia autonoma), sarà assegnato dai partiti cui è
dato il potere di fare e proporre “liste di candidati” nei
Consigli. Di conseguenza le deputazioni regionali nel nuovo
Senato, che nella proposta del governo potevano contare sui
presidenti delle Regioni e sui sindaci dei comuni capoluogo,
nonché sulla rappresentanza “paritaria” di due eletti dal Consiglio regionale e di due eletti da tutti i sindaci della regione
costituiti in “Collegio elettorale”, vengono letteralmente smontate, per metterle nella disponibilità dei partiti rappresentati
nei rispettivi Consigli.
Per un Senato chiamato a verificare e a intervenire su leggi e
procedimenti di grande e immediato impatto sulle funzioni di
governo del sistema delle autonomie, l’eliminazione dei Presidenti costituisce una perdita secca in termini di ruolo, competenze e responsabilità coinvolte, nonché di tempi di esame
e di intervento. Quanto alla “rappresentanza paritaria”, quella
dei comuni viene liquidata con il relativo collegio e posta
nelle grazie delle consorterie dei partiti regionali, mentre i
Consigli sono alleggeriti del compito di individuare e scegliere,
votando, le persone dei due senatori con cui integrare la deputazione regionale. Un esercizio della mente, una pratica della
politica ma anche del confronto pubblico e di opinione, considerati evidentemente dall’attuale maggioranza del Senato della
nostra Repubblica fuori della portata e della capacità della
classe politica delle Regioni e Province autonome. Sicché è
sembrato meglio togliere di mezzo la prescrizione delle candidature individuali e del voto alla persona per consegnare il
tutto al “pensiero unico” delle liste di partito e al voto di lista:
alle mentalità e alle prassi sperimentate in questi decenni con
il “popolo sovrano” e oggi, evidentemente, nella piena disponibilità dei partiti nei Consigli.
È molto probabile che a queste ragioni di economia mentale, e
non certo alla volontà di fare uno sgarbo al Presidente della Repubblica, si debba anche la riduzione a 5 dei senatori di sua nomina. Anche qui, dev’essere sembrata fuori luogo per il nuovo
Senato l’idea che a rappresentanti del popolo sempre alle prese
con norme ed emendamenti, impegnati in interventi in Aula e in
commissione, in incontri di partito o con gli elettori e in messe a
punto e dichiarazioni diuturne sui media, potesse tornare utile
ascoltare ogni tanto in Aula il parere di qualcuno che vive e
pensa in dimensioni mentali diverse: l’intervento di un senatore
scelto dal Presidente, il quale, lette le carte e ascoltati i discorsi
degli altri, proponga un’altra chiave di lettura del problema. In
ogni caso, 21 di queste presenze sono sembrate troppe.
Un segno di disinteresse, possiamo pensare, se non anche di
un’insofferenza per quelli che possono essere considerati degli
investimenti, come invitava a considerarli a fine mandato lo
scrittore Alberto Arbasino, eletto nel 1983 deputato “indipendente” nelle liste del Partito repubblicano: “Un coerente
mettere a disposizione della società civile, senza tanti birignao,
quel tanto o quel poco di sapere accumulato ‘in prima persona’
nel corso dei decenni, in esperienze culturali specifiche. Senza
puntare a cariche o posti o prebende. Senza nemmeno azzerare
quell’eventuale contributo proprio in un coro di vecchie uniformi canzoni. Semplicemente ‘aprendo una linea di credito
culturale’. E anche un semplice ‘fido’ culturale si può sfruttare
oppure no, senza che alcuno vi perda alcunché” (la Repubblica,
maggio 1987).
mondoperaio 10/2014 / / / / riforme e partiti
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>>>> riforme e partiti
Le province in via di estinzione
>>>> Vincenzo Iacovissi
H
anno avuto luogo le prime elezioni provinciali di
secondo grado, ossia consultazioni in cui non parteciperanno i cittadini nella scelta dei livelli di governo, ma solo gli
amministratori comunali. Come è noto, l’abolizione dell’elezione diretta per gli organi delle province costituisce l’architrave della “riforma Delrio” (legge n. 56/2014 del 7 aprile
scorso, poi parzialmente modificata nei mesi successivi).
Le disposizioni di questa legge, nel dare attuazione alle
città metropolitane e nel prevedere maggiori forme di
aggregazione tra Comuni, configurano un nuovo assetto
degli enti provinciali dal punto di vista funzionale nei rapporti con gli altri attori istituzionali, ma soprattutto ne
mutano profondamente il canale di legittimazione tramite
l’elezione indiretta dei suoi organi di indirizzo politicoamministrativo. Tutto questo, è bene precisarlo sin da ora,
in attesa della riforma costituzionale del Titolo V, e quindi
del definitivo superamento di tali enti con la loro scomparsa dall’ordinamento.
Il nuovo assetto istituzionale delle province è regolato da un
complesso di norme contenute tra il comma 51 e il comma 96
dell’articolo unico di cui si compone la già citata legge.
Vediamone i caratteri principali. Anzitutto scompare la
giunta, e quindi gli assessori provinciali. Gli organi della
nuova provincia divengono: il presidente, eletto dai sindaci e
dai consiglieri comunali nell’ambito dei soli sindaci in carica
(il cui mandato non scada prima di diciotto mesi dalla data
delle elezioni provinciali), che dura in carica 4 anni e non è
removibile da parte del Consiglio, ma decade dalla carica in
caso di cessazione del mandato da sindaco; il Consiglio provinciale, composto da 10, 12 o 16 membri, a seconda della
popolazione, eletto da sindaci e consiglieri comunali nel proprio seno per un mandato di due anni, con decadenza in caso
di cessazione del rispettivo incarico comunale (salvo il caso
di rielezione alla carica di sindaco o consigliere); l’assemblea
dei sindaci, presieduta dal presidente, con compiti propositivi
e consultivi rispetto agli altri organi, e con il potere di approvare ed emendare lo statuto provinciale.
mondoperaio 10/2014 / / / / riforme e partiti
Il meccanismo di elezione per presidente e Consiglio è
distinto, benché entrambi gli organi ricevano una legittimazione di tipo indiretto con il “voto ponderato”, ossia di
diverso peso a seconda della fascia demografica di appartenenza degli aventi diritto al voto. Ogni amministratore comunale esprime due voti in due schede – l’una per il presidente,
l’altra per il Consiglio – potendo, nel secondo caso, optare per
un voto di lista oppure per un voto di lista con una preferenza
tra i candidati consigliere. È eletto presidente il candidato che
ottenga il maggior numero di voti a seguito delle operazioni
di ponderazione, e in caso di parità la carica è assegnata al
candidato più giovane per età.
I seggi del Consiglio vengono invece ripartiti proporzionalmente tra le liste in competizione, sulla base della cifra ponderata di ciascuna lista e la cifra ponderata individuale dei
singoli candidati. Una norma transitoria riconosce infine l’elettorato passivo per le cariche di presidente e consigliere
anche ai consiglieri provinciali uscenti, ma unicamente in
sede di prima applicazione del nuovo sistema di elezione.
Infine la legge stabilisce la gratuità di tutti gli incarichi provinciali.
Alla luce del complesso delle disposizioni richiamate
appare abbastanza nitida la radicale trasformazione che le
province italiane stanno per subire dal punto di vista della
legittimazione e della loro stessa natura di ente rappresentativo. Non volendo esprimere un giudizio affrettato o pregiudiziale rispetto al nuovo assetto, non ci si può esimere
dal formulare alcune considerazioni. Il meccanismo di elezione indiretta, oltre a ridurre la valenza politica dell’ente,
può comportare la stipulazione di intese tra forze politiche
locali spesso al di fuori dalle logiche competitive di una
democrazia matura. Inoltre la mancata previsione di strumenti di controllo del Consiglio nei confronti del presidente, e viceversa, rischia di comportare un assetto di
“governo diviso”, con presidente e Consiglio espressione di
connotazioni politiche differenti; oppure dar luogo a fenomeni di consociativismo più o meno intenso, con tutte le
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potenziali conseguenze sulla funzionalità dell’ente stesso
facilmente intuibili.
Resta da dire che il cumulo di due o tre incarichi in una sola
persona (come ad esempio sindaco-consigliere comunale-presidente della provincia), oltre a stridere con il clima di razionalizzazione e sobrietà imposto dalle conseguenze della crisi
economica e dall’esplosione dell’antipolitica, contiene in nuce
una difficoltà strutturale per lo svolgimento efficiente di tutti
gli incarichi, abbassando il rendimento complessivo delle istituzioni locali. Inoltre la gratuità degli incarichi, se può essere
preferita agli sperperi troppe volte emersi negli ultimi anni,
finisce per svilire lo stesso ruolo di amministratore provinciale, con effetti anch’essi potenzialmente negativi sull’operatività degli organi monocratici e collegiali. Infine la facoltà,
per il Presidente, di affidare deleghe ai singoli consiglieri provinciali ripropone il tema della necessità di una “squadra di
governo” che si pensava superata con l’eliminazione delle
giunte, le quali, peraltro, fino al recente passato, erano almeno
sottoposte all’indirizzo e controllo del Consiglio, circostanza
assolutamente assente nella normativa attuale.
In questa cornice le province divengono enti di coordinamento di aree vaste con connotati prevalentemente amministrativi, ma all’interno dei quali il ceto politico locale riacquista un ruolo cruciale nelle dinamiche di governo della
collettività, realizzando nei fatti una sorta di eterogenesi dei
fini rispetto alla ratio della riforma, volta, come spesso
ricordato dai proponenti, a semplificare la politica e ridurre
la spesa. Su tutto, pesa, infine, la spada di Damocle dell’abolizione costituzionale dell’ente provincia, che rende
ancora più precario uno scenario che ai nastri di partenza
presenta sicuramente molte novità ed altrettante (e forse più
rilevanti) incognite.
mondoperaio 10/2014 / / / / riforme e partiti
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>>>> riforme e partiti
Cronache di rottamati
>>>> Matteo Monaco
“E
d ora?”, si saranno chiesti in molti il 9 dicembre 2013:
cosa bisogna pensare del partito democratico passato di
colpo dal bersanismo alla più completa negazione dello stesso?
Le primarie per l’elezione del nuovo segretario del Pd erano
state fissate per l’8 dicembre 2013. A Milano era ormai terminata la fiera degli Oh bej! Oh bej!: la fiera delle meraviglie, dei
fatti nuovi, delle cose inusitate, che si svolge ogni anno per
Sant’Ambrogio. Finalmente, dopo la fatidica data, bisognava
cercare di capire che cosa fosse avvenuto fra le primarie preelettorali del 2012, le elezioni perdute del febbraio 2013 e la
scelta avvenuta a dicembre 2013: quali situazioni irrisolte
venissero lasciate in sospeso, dopo che le primarie avevano
assegnato a Renzi una maggioranza di oltre il 67%, il che portava anche ad una Assemblea nazionale con una presenza di
circa due terzi di membri renziani e ad una segreteria nazionale
con i renziani in maggioranza e in gran parte nuovi e giovanissimi. Tutto ciò mentre invece alla Camera e al Senato deputati
e senatori erano rimasti quelli scelti da Bersani, espressione di
un partito ormai scomparso, ma con cui paradossalmente la
nuova segreteria avrebbe dovuto fare i conti.
Come è potuto accadere un simile basculement, un tale ribaltamento? Attraverso quali passi gli elettori del Partito democratico hanno di colpo reso obsoleta una segreteria che imperversava da anni, sempre intenta principalmente ad auscultare
intensamente la propria identità? Si tratta di capire come si è
messo in moto tale processo e perché.
La storia dei due anni in cui il Pd si avvia verso la catastrofe
(2012 e 2013), e poi vi si trova immerso come mai era accaduto in precedenza, rimanda certo alla debolezza delle forze
riformiste che pur stando all’origine del partito non sono riuscite ad imprimere quella svolta netta in direzione del riformismo di taglio europeo che tutti si aspettavano; ma rimanda
anche – per il modo in cui il gruppo dirigente bersaniano, che
pure si era impossessato saldamente del Pd, è stato in seguito
risucchiato in un vortice che lo ha infine spazzato via – ad una
storia non immediatamente percepibile, ma tuttavia molto
precisa.
mondoperaio 10/2014 / / / / riforme e partiti
La prima cosa che balza agli occhi è la relativa arretratezza,
rispetto ad altri paesi, degli stili con cui si conducono le battaglie elettorali in Italia: dove elementi relativi a fasi più antiche
si sovrappongono a situazioni nuove. Nel recente passato, è
stato notato da Roberto Grandi e Cristian Vaccari, le campagne
elettorali erano «condotte in modo da mobilitare i propri sostenitori, riattivando legami, relazioni e appartenenze preesistenti: non si mirava, quindi, a modificare gli atteggiamenti dei
cittadini, ma a rinforzarli in modo che si trasformassero in
comportamenti (la conferma del voto allo stesso partito). [...] I
contenuti della comunicazione politica erano in prevalenza
ideologici e affrontavano in prevalenza i problemi che stavano
a cuore alla classe dirigente del partito, più che gli aspetti che
interessavano i cittadini» (Grandi - Vaccari: pp. 14-15).
Nel Pd esistevano spezzoni, frammenti,
ideologicamente strutturati
e formatisi nel passato
A che cosa imputare tale arretratezza di cultura politica?
Innanzitutto non va dimenticato il lungo periodo della dittatura fascista (dai primi anni Venti del Novecento alla fine
della seconda guerra mondiale). In seguito ha pesato l’impossibilità pratica di realizzare un’alternativa di governo durante
il periodo della prima Repubblica (dalla fine della guerra
all’inizio degli anni Novanta del Novecento). Infine l’alto
livello di presenza dello Stato in attività economiche anche di
poca importanza (ma di grande impatto elettorale) e la commistione fra organi di stampa e forze politiche.
Così, mentre negli altri paesi democratici si passava dalle
campagne elettorali dominate inizialmente dai partiti, dai loro
militanti e dalle loro logiche a campagne incentrate sulla televisione, sulla persuasione generica rivolta a tutti i cittadini,
sulla pubblicità, ed infine, più di recente, a campagne multimediali dai contenuti personalizzati e indirizzati a gruppi specifici, tutto ciò non avveniva in Italia, o avveniva non di rado
con la sovrapposizione di spezzoni di un sistema arcaico con
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spezzoni di sistemi più moderni (Grandi - Vaccari: pp. 29-30).
A questo punto è opportuno fare un passo indietro, partendo
proprio dall’inizio del Partito democratico. Come è noto è
stato l’impulso di Veltroni a mettere in moto il meccanismo di
formazione del nuovo partito (2007). Un partito che intendeva inserirsi sulla via che ha portato alla nascita di quella
terza via auspicata da Anthony Giddens: «Tony Blair, Lionel
Jospin, Romano Prodi, Wim Kok [...] interpretavano modi
vincenti, pur se tra loro diversi, di affrontare il superamento
delle posizioni tradizionali del riformismo europeo» (Grandi
- Vaccari: p. 109). Nasceva quindi un partito a vocazione
maggioritaria: «Speravamo che, in un tempo breve – ha
scritto Veltroni nel 2013 – i “nativi” democratici, potessero
diventare la maggioranza “culturale” del Pd rivendicando con
orgoglio la propria identità, quella democratica, che ha profonde radici nella storia della politica occidentale. Ma le vecchie identità si sono blindate, respingendo chi da esse non
proveniva. Negare che esistesse una cultura democratica –
riformismo e radicalità – consentiva di tenere vive le vecchie
appartenenze, come rifugi sempre aperti» (Veltroni: p. 51).
In effetti nel Pd esistevano spezzoni, frammenti, ideologicamente strutturati e formatisi nel passato, ma oggi inglobati
come cemento in nuove strutture; tuttavia era sufficiente un
piccolo smottamento perché riemergesse l’imprinting originario e il “richiamo della foresta” diventasse irresistibile. Ma
non essendoci più né il nuovo né l’antico amalgama, tali spezzoni rimanevano fluttuanti, scoordinati e privi di senso, alla
deriva sul mare della politica.
Tuttavia Veltroni – sia per la eccessiva vaghezza del tratto
valoriale proposto, risultato troppo tenue e inadeguato, che
per la difficoltà ad imporre la propria leadership – non riuscì
a svincolarsi dal contesto negativo in cui si dibatteva la sua
segreteria e si dimise. Sarà sostituito da Franceschini, e nell’ottobre del 2009, a seguito di elezioni primarie, da Bersani.
Bersani accentua i riferimenti cattolico-socialisti a discapito
di quelli laici e liberalsocialisti, rivendica una gestione di
squadra del partito non assumendone con decisione la leadership, appesantisce l’organizzazione (tante sezioni, ma
spesso poco attive) come se si dovesse tornare alla prima
Repubblica. Dal sogno veltroniano al risveglio bersaniano: il
nuovo segretario stabilisce, in una serie di incontri con forze
collaterali, la fine del partito a vocazione maggioritaria; inoltre sposta l’asse della comunicazione «che per Veltroni ricopriva anche un ruolo strategico in sé, in grado di rafforzare la
connotazione di partito nuovo e moderno», in direzione di un
più tradizionale uso di essa come strumento funzionale agli
obiettivi politici del partito (Grandi - Vaccari: pp. 111-121).
Ma vediamo le caratteristiche possedute da Bersani quando
diviene segretario del Pd. In realtà da tempo Bersani riteneva
che fosse venuto il suo turno di approdare alla segreteria del
partito, anche se spesso era stato scartato dai gruppi dirigenti
o si era fatto da parte da sé. Come scrive Ettore Maria
Colombo «esiste, dunque, una storia “ufficiale” e una “controstoria” (“ufficiosa”, diciamo così) delle mancate candidature di Bersani alla segreteria nazionale dei Ds prima (nel
2001 e nel 2004), quando segretario divenne Piero Fassino, e
del Pd poi (nel 2007), quando venne incoronato Veltroni.
Quella ufficiale: Bersani fa un passo indietro per amore della
“Ditta”, espressione peraltro proprio da lui coniata».
“Il nuovo vuole uccidere il vecchio perché
il vecchio non lascia posto al nuovo,
e il vecchio non lascia posto al nuovo
perché il nuovo non vuole riconoscere
il suo debito nei confronti del vecchio”
Delle varie “ufficiose” è utile prendere in considerazione questa: «Bersani è figlio della generazione del compromesso,
quella di post-togliattiana e iper-berlingueriana memoria, è
iscritto a pieno titolo nella lunga trafila ideologica, filosofica,
politica, ma anche burocratica (nel senso dell’apparato) [...] e
dunque non poteva che cedere il passo di fronte a quei “cattivoni” degli ex-piccì [...] facendo un passo di lato o indietro»
(Colombo: pp. 173-174).
Tuttavia nei momenti critici è proprio il Bersani tardi anni
Settanta quello che riemerge alla direzione del Pd, creando
una sensazione paradossale di déjà-vu. E come supporto di
questa sensazione Bersani mette a punto un linguaggio stranissimo: «E’ un chiodo fisso di Bersani, il linguaggio della
sinistra. Troppo spesso irrimediabilmente vecchio, incapace
di parlare con parti importanti della società, di liberarsi dai
soliti schemi, di avere il coraggio di parlare con tutti e di tutto.
Ecco perché nasce il bersanese», un linguaggio simil-popolare, ricco di metafore non si sa se vere e diffuse in certi
ambienti dialettali o inventate di sana pianta (Colombo: p.
294). Un linguaggio che raggiungerà contemporaneamente
trionfo e disfatta nelle elezioni del febbraio 2013.
Qual era l’orizzonte politico culturale reale, al di là delle
dichiarazioni “innovative” fatte da Bersani nel famoso librointervista del 2011? «La vocazione maggioritaria del Pd scriveva Bersani - è per me anzitutto la responsabilità di
mondoperaio 10/2014 / / / / riforme e partiti
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gesto di rottura nelle nuove generazioni contro le precedenti:
«Se è importante saper riconsiderare il senso della tradizione
e della continuità rispetto alla propria provenienza, nello
stesso tempo sono altrettanto importanti la rottura con il familismo, lo strappo, l’elemento discontinuo della differenziazione [...] Con il ‘68 diventa chiaro infatti che il conflitto fra
le generazioni è sano se produce differenza» (Recalcati: p.
84). Ecco come, di fronte all’incredibile batosta elettorale, gli
elettori di centrosinistra abbiano quasi assunto a propria linea
politica quella della rottura completa con la precedente classe
dirigente, una rottura che portasse appunto ad una profonda
differenza in tutto: nuova linea politica, nuovo stile di lavoro,
nuova capacità di dirigere i processi politici invece di subirli,
nuovo atteggiamento pragmatico tendente alla scelta veloce e
alla decisione.
Bersani va avanti con una strategia
autoreferenziale e impermeabile ai fatti
politici circostanti
costruire un progetto vincente di alternativa e di proporlo agli
italiani» (Bersani: p. 183). Ma in qual modo si è invece svolta
la costruzione politica di tale progetto? Il Pd di Bersani, ha
scritto Marco Damilano, «si è dato come missione la ricostruzione della politica tradizionalmente intesa: alleanze, corteggiamento del centro cattolico moderato, [...] chiusura nel
Palazzo, lettura della società tutta interna alle categorie novecentesche del recinto della sinistra, l’antiberlusconismo come
unica parola d’ordine in grado di mobilitare il popolo». Ma è
proprio tale concezione della politica, «i noi e i loro, il
recinto, la frontiera, l’appartenenza, la Ditta. che è messa
definitivamente in crisi dallo sconvolgimento del 2012-13»
(Damilano: pp. 229-237).
In tale contesto si verifica un “imbarbarimento” causato dalla
mancanza di volontà del vecchio gruppo dirigente (vecchio
per le idee sostenute, meno per l’età), che non vuole cedere il
passo alle nuove realtà. Come scrive lo psicoanalista Massimo Recalcati, «il padre impedisce al figlio di avere un suo
posto nel mondo rifiutando di tramontare [...] Il conflitto si
imbarbarisce: il nuovo vuole uccidere il vecchio perché il
vecchio non lascia posto al nuovo, e il vecchio non lascia
posto al nuovo perché il nuovo non vuole riconoscere il suo
debito nei confronti del vecchio. è lo stallo che ha paralizzato
il Pd» (Recalcati: p. 118).
In effetti, sostiene Recalcati, è indispensabile un qualche
mondoperaio 10/2014 / / / / riforme e partiti
Lo studioso di scienze politiche Mauro Calise ha descritto in
modo convincente tutto ciò che occorrerebbe al Pd per divenire “qualcosa”, non si dice altro: «Nella folgorante etichetta
di Ilvo Diamanti, il Pd è rimasto l’unico partito impersonale,
definito ormai per la negazione non soltanto della leadership,
ma della propria stessa identità. Un partito senza qualità. Per
cercare di vincere ai tempi supplementari, non serve ripetere
gli stessi schemi di gioco. Occorrono forze fresche, con l’entusiasmo e le energie di chi scende per la prima volta in
campo. E sa che il risultato finale dipende solo da lui. Per rientrare in partita, occorre rimettersi in gioco» (Calise: p. 142). E
rimettere in gioco anche lo stile dell’azione politica: non pensare più ad un inesistente elettorato rigidamente suddiviso nei
suoi comparti sociali ma al pubblico fluido che interagisce con
gli strumenti di Internet, un pubblico cambiato rispetto al passato, composto da un intersecarsi plurale di gruppi etnici e culturali (e di genere) differenti, dalle mille sfaccettature.
Intanto, attraverso le elezioni primarie e gli appuntamenti
periodici alla Stazione Leopolda di Firenze, si viene progressivamente a delineare la figura di un nuovo leader in ascesa
(molto contrastata dal centro del Pd). In tali appuntamentiassemblee vengono fuori le proposte politiche: rottura con
quanto di arcaico c’è nella tradizione socialista tradizionale e
forte innovazione sulla scia di quanto hanno già compiuto in
Germania, in Francia, in Inghilterra; grosso ricambio generazionale; forte leadership, sulla scia del presidente Obama. Il
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nuovo leader emergente «non intende tesaurizzare i propri
voti per costruire una ennesima corrente all’interno del partito, ma utilizza il risultato delle primarie per dare legittimità
alle proprie proposte politiche e credibilità alla sua possibile
futura premiership» (Grandi - Vaccari: pp. 126-129).
Ma torniamo alla guida di Bersani per le elezioni del 2013.
Bersani va avanti con una strategia autoreferenziale e impermeabile ai fatti politici circostanti. In sostanza la sua non-strategia si muove esclusivamente sulla tattica: «Si trova a
rispondere giorno dopo giorno alle proposte o alle prese di
posizione di quelli che giudica i suoi avversari più importanti,
legittimando così, di fatto, la loro agenda e mostrando di non
riuscire più, dalle primarie in avanti, ad influenzare le priorità
della campagna». Nei confronti di Berlusconi adotta la tattica
di sempre delle forze politiche di sinistra del passato: «Delegittimare il suo ruolo politico [...] ridicolizzare la sua pretesa
di stare montando [...] criticare le sue promesse come demagogiche». In sostanza risponde colpo su colpo al leader di
centrodestra senza avere un progetto organico e credibile.
Rimane così come ingessato nel ruolo di vincitore annunciato, senza essere in grado di mettere in campo risposte dinamiche atte «a rispondere alle modifiche del contesto di partenza» (Grandi-Vaccari: 342-344), mentre una campagna
elettorale corretta avrebbe voluto che una narrazione adeguata individuasse la missione condivisa nella quale il candidato fosse il protagonista: una narrazione che si rivolgesse ai
cittadini, non solo agli elettori affezionati.
La campagna elettorale viene invece impostata all’insegna
della «Italia giusta»: ripropone una serie di temi (democrazia,
sviluppo sostenibile, beni comuni, diritti, lavoro, eguaglianza) congrui con l’identità del partito: ma «programmi e
proposte, sia in relazione al contenuto che alle modalità di
comunicazione, riescono a rivolgersi con efficacia solo a chi
è già convinto, non riuscendo ad includere in maniera emotivamente coinvolgente chi è indeciso o chi è tiepido sostenitore del Pd» (Grandi-Vaccari: pp. 353-354). Se si confronta lo
scenario politico del 2012 con i risultati elettorali del 2013, si
può osservare che «il Pd ha fallito sia nell’obiettivo di mobilitare la sua base, sia in quello di persuadere elettori indecisi
che in passato avevano votato per il centrodestra»: pur perdendo molti consensi il centrodestra (Pdl) ha reso impossibile
che ci fosse una maggioranza al Senato; mentre M5S e
(almeno per un po’) Scelta civica sono riusciti ad intercettare
la maggior parte dei voti allontanatisi dagli altri partiti.
Bersani, subito dopo le elezioni, sembra entrato in una macchina del tempo: improvvisamente si è catapultato indietro nel-
l’ultimo periodo degli anni Settanta del Novecento, a riascoltare le lezioni moralistiche (si potrebbe finanche dire reazionarie) di Berlinguer: perché? Come direbbe Recalcati, «senza il
grande ombrello dell’ideologia, nulla sembra garantire un sentimento di identità» (Recalcati: p. 19). Per capire la “discesa
agli inferi” dei dirigenti bersaniani del Pd è indispensabile non
tanto ripercorrere la cronaca degli avvenimenti, quanto affrontare alcuni punti nodali della vicenda, da cui si possono trarre
insegnamenti non irrilevanti. Intanto dopo le elezioni si presenta il problema della elezione del nuovo presidente della
Repubblica. Saltano i due candidati (prima Marini, poi Prodi)
proposti da Bersani. Bersani si dimette da segretario.
Dopo ci sono state le primarie
dell’8 dicembre 2013 e Renzi è divenuto
segretario del Pd
Ed eccoci al famoso muro dei 101 contro Prodi. Una buona
ricostruzione è quella offerta dalla parlamentare Pd Sandra
Zampa: «So che in realtà sono più di 101, probabilmente 115120 [...] Di certo, dopo gli applausi e l’ovazione generale a
favore di Prodi, ci fu chi organizzò il boicottaggio della sua
elezione [..] Hanno aderito alla proposta di boicottare l’elezione di Prodi coloro che pensavano di dover vendicare
Marini [...] quelli che pensavano [...] che si dovesse dare una
possibilità a D’Alema, [...] quelli che si erano convinti che
l’elezione di Prodi avrebbe portato assai rapidamente alle
urne [...] Ma in quel comportamento c’erano anche altre finalità: colpire Bersani è certamente tra le più evidenti [...] Far
fallire l’elezione di Prodi serviva anche a colpire Renzi [...] È
evidente, non fosse altro per ragioni statistiche, che nessuna
categoria può essere esclusa, neppure i giovani».
Più avanti Zampa afferma: «Mi ha sempre colpito la distanza
che separa la mitica “base” democratica, legata a Prodi da
affetto e simpatia grandi, e i dirigenti del Pd». Ciò che è
avvenuto indica qualcosa di preciso relativo all’intero Pd:
«Nel Pd molti hanno mantenuto la propria vecchia identità,
la propria vecchia cultura, un pensiero conservatore che in
modo carsico torna a galla ogni volta che il cambiamento
richiede slancio innovatore per impedirlo o ostacolarlo»
(Zampa: pp. 16-21). Anche in questa vicenda, dunque, riemerge il problema chiave di Bersani e dei suoi collaboratori:
la questione “identitaria”.
A questo punto si nomina un segretario traghettatore,
Guglielmo Epifani, che assume il compito di guidare il Pd
fino alle primarie di fine anno. In mancanza d’altro, i bersamondoperaio 10/2014 / / / / riforme e partiti
/ / 38 / /
niani si sono affidati, o meglio si sono nascosti, dietro un funzionario di innegabile serietà e correttezza (Gianni Cuperlo),
ma che politicamente era impalpabile, una “povera foglia
frale” – come scriveva il poeta – presentato agli occhi del
pubblico incredulo come una grande e corposa novità: in
realtà è stato lanciato inutilmente in un gioco al massacro.
In uno studio pubblicato nell’ottobre del 2013 dal gruppo di
studiosi che si presenta sotto il nome di Itanes (Italian National Election Studies) si è cercato di rilevare le profonde modificazioni che il voto del 24-25 febbraio 2013 ha messo in evidenza. Innanzitutto tali elezioni hanno visto un numero molto
alto di elettori cambiare voto («il numero più alto di elettori
della storia repubblicana», p. 11). Di conseguenza Itanes ha
ritenuto opportuno mettere «a confronto la distribuzione delle
autocollocazioni degli italiani sull’asse sinistra-destra» (p.
13), con risultati davvero interessanti. Intanto va notato che,
fra coloro che non hanno accettato di essere inseriti lungo
quest’asse, si trova un’alta percentuale di coloro che non sono
andati a votare (che quindi non si riconoscono in nessuno dei
due poli). Hanno accettato invece gli elettori del M5S (nonostante la contrarietà di Grillo). Se si osservano le tabelle di
comparazione effettuate lungo una serie di problemi cruciali
(tasse, tipi di famiglie, immigrazione, ambiente, protezione
sociale, pene carcerarie, differenze di reddito, governi più
solidi con leader forti) si scopre che chi si colloca nell’area di
destra occupa una posizione conservatrice (generalmente non
estremistica); chi si colloca nell’area di sinistra, pur differenziandosi sempre dalla destra lungo l’asse destra-sinistra,
occupa però una collocazione fra il centro ed un moderato
conservatorismo: «Va notato che sebbene vi sia una certa differenza tra elettori di sinistra e di destra, questi non si trovano
mai su fronti opposti» (Itanes: p. 141).
Procedendo lungo questa strada sono stati analizzati i risultati
elettorali delle singole forze politiche. Veniamo al Pd: «Questi risultati segnalano una mancanza di sintonia tra le posizioni percepite del Pd e il suo potenziale elettorato [...] Tuttavia non sembra proprio che la soluzione a questa mancanza di
sintonia possa risiedere nella definizione di un più preciso
profilo progressista del Pd. Almeno dai nostri dati risulta
invece il contrario» (Itanes: p. 90). Inoltre il Pd non offre un
profilo chiaro per la soluzione delle questioni politiche ed
economiche importanti per l’Italia: «In quest’ottica possiamo
quindi riconsiderare la questione della leadership: se un altro
candidato premier avesse solo cambiato la faccia del partito e
non il suo approccio alla proposta di governo, probabilmente
il risultato non sarebbe stato molto diverso» (Itanes: p. 92).
mondoperaio 10/2014 / / / / riforme e partiti
Ma nei risultati elettorali ha contato la mancanza di un leader
forte e riconosciuto a sinistra? Grandi e Vaccari sostengono che
la psicologia politica ha individuato due campi semantici che
permettono di comprendere se il leader proposto risponde alle
caratteristiche richieste. Il primo campo si riferisce alla credibilità, «che riassume le modalità attualizzanti (ciò che serve al
soggetto in vista dell’azione): il saper fare (capacità) e il poter
fare (leadership)». Il politico in possesso di tali qualità viene
ritenuto in grado di potere svolgere il ruolo a cui aspira una
volta eletto. Il secondo campo comprende invece l’affidabilità,
e cioè il «dover fare (integrità) e il voler fare (empatia). Queste
caratteristiche riguardano le motivazioni del candidato e la sua
vicinanza alle esigenze dei cittadini» (Grandi-Vaccari: p. 234).
Sono evidenti i punti in cui Bersani risultava insufficiente.
Itanes osserva che sia stata «proprio la mancata offerta di una
leadership forte da parte del centrosinistra ad avere favorito il
risultato elettorale largamente insoddisfacente per la coalizione guidata da Bersani». Studiando i dati relativi alla
domanda/offerta di leadership fra gli elettori italiani (una
domanda costantemente in aumento) si può osservare che il
saldo negativo maggiore è stato per il centro, e subito dopo
per il centrosinistra: «La mancata congruenza tra domanda e
offerta mostra una sorta di “deficit di leadership” (vale a dire
la quantità di domanda di leadership non soddisfatta dall’offerta politica) fra gli elettori italiani che solo Grillo e Berlusconi sono stati in grado di colmare» (Itanes: pp.155-156).
Questo è quanto scriveva Itanes alla fine dell’estate 2013.
Dopo ci sono state le primarie dell’8 dicembre 2013 e Renzi
è divenuto segretario del Pd.
RifeRimenti bibliogRafici
P.L. Bersani, Per una buona ragione. Intervista a cura di M. Gotor e
C. Sardo, Laterza, 2011.
M. Calise, Fuorigioco. La sinistra contro i suoi leader, Laterza,
2013.
E.M. Colombo, Bersani, Editori Internazionali Riuniti, 2013.
M. Damilano, Chi ha sbagliato più forte. Le vittorie, le cadute, i
duelli dall’Ulivo al Pd, Laterza, 2013.
R. Grandi-C. Vaccari, Come si vincono le elezioni. Elementi di
comunicazione politica, Carocci, 2013.
Itanes [Italian National Election Studies], Voto amaro. Disincanto e
crisi economica nelle elezioni del 2013, Il Mulino, 2013.
M. Recalcati, Patria senza padri. Psicopatologia della politica italiana, Minimum Fax, 2013.
W. Veltroni, E se noi domani. L’Italia e la sinistra che vorrei, Rizzoli, 2013.
S. Zampa, I tre giorni che sconvolsero il Pd, Imprimatur, 2013.
/ / 39 / /
>>>> saggi e dibattiti
La lezione di Bobbio
Il rigore e l’impegno
>>>> Fabrizio Mastromartino
N
el Novecento italiano, Bobbio è il teorico del diritto e
della politica che più di tutti ha saputo coniugare rigore
intellettuale e impegno civile. La costante coesistenza di
questi due aspetti della sua opera è ben rappresentata dal modello (che Bobbio chiama “del mediatore”) cui egli la riconduce.
D’altra parte – e con paradosso solo apparente – Bobbio può
ben definirsi – com’è stato del resto da altri definito – un intellettuale “militante”.
Non è mia intenzione riflettere in astratto sulla compatibilità
della metodologia analitica con la filosofia militante: sulla
compatibilità, per dirla in altri termini, dell’analisi del linguaggio con una filosofia vocata a non arrestarsi alla descrizione
del proprio oggetto di indagine, bensì ad elaborare proposte
per la sua trasformazione, consapevole del carattere necessariamente anche progettuale della ricerca scientifica soprattutto
nell’ambito delle cosiddette scienze sociali. Non mi interessa
cioè riproporre l’ennesima riflessione sulla presunta “neutralità”
della scienza giuridica – che ripudia qualsiasi slittamento
nella politica del diritto – o sulla presunta “avalutatività” che
dovrebbe informare l’opera dello scienziato politico – tanto
per circoscrivere il discorso alle due discipline cui Bobbio ha
dato il contributo più rilevante.
Voglio invece riflettere sulla figura dell’intellettuale Bobbio
avviando il discorso da un punto di partenza più storiografico
che critico. Ossia dall’idea che nell’opera di Bobbio non si
avverte tensione tra i due aspetti – la metodologia analitica e
la filosofia militante – bensì un’equilibrata combinazione,
una loro armonica integrazione, nella quale l’impegno civile
ha bisogno del rigore intellettuale, che con il primo convive
nel felice binomio Politica e cultura: così come il rigore intellettuale non può che soccorrere, contrassegnandolo tipicamente,
1
2
3
N. BOBBIO, Autobiografia, Laterza, 1997, p. 247.
L. FERRAJOLI, Laudatio, Ragione, diritto e democrazia nel pensiero di
Norberto Bobbio, in Diritto e democrazia nella filosofia di Norberto
Bobbio, a cura di L. Ferrajoli e P. Di Lucia, Giappichelli, 1999, p. 6.
Ivi, p. 7. Vedi anche F. SBARBERI, Introduzione a N. BOBBIO, Politica
e cultura, (1955), Einaudi, 2005, p. VIII.
mondoperaio 10/2014 / / / / saggi e dibattiti
l’impegno civile profuso da Bobbio nei trent’anni che vanno
dal 1966 – anno in cui si costituisce in Italia il Partito socialista
unificato, che com’è noto avrà vita brevissima – al 1997, anno
in cui Bobbio ci ha consegnato la sua memoria intellettuale.
E’ infatti nelle pagine di congedo della sua Autobiografia che
Bobbio scrive di aver vissuto quel trentennio “immerso nella
battaglia politica”1.
La peculiarità dello stile di pensiero di
Bobbio risiede nel suo essere dettato da
una concezione laica, antiideologica e
antiretorica e insieme civile e impegnata
della cultura
Luigi Ferrajoli, nella laudatio pronunciata in occasione del
conferimento a Bobbio della laurea honoris causa da parte
dell’Università di Camerino (29 maggio 1997), ha osservato
che la peculiarità dello stile di pensiero di Bobbio risiede nel
suo essere “dettato da una concezione laica, antiideologica e
antiretorica e insieme civile e impegnata della cultura”2. Non
lo si poteva dire meglio. Proverò, a partire da questa magistrale
formulazione sintetica per ricostruirne i dettagli.
E’ certamente all’indomani della guerra, e preso atto dell’esaurimento dell’esperienza politica dell’azionismo, che Bobbio
matura lo stile di pensiero che contraddistingue la sua opera
intellettuale (non a caso è in quegli anni che è stato identificato
l’inizio della maturità di Bobbio). Gli scritti raccolti in quel
saggio – com’è stato detto – di “pedagogia” o “filosofia”
civile che è Politica e cultura ne è il primo fulgido – e forse
insuperato – esempio3.
Qui – in articoli pubblicati tra il 1951 e il 1955 – Bobbio
delinea con precisione i compiti che a suo giudizio spettano
all’uomo di cultura. Scrive Bobbio: compito dell’intellettuale
è di “impegnarsi a illuminare con la ragione le posizioni in
contrasto, a porre in discussione le pretese dell’una e dell’altra,
di resistere alla tentazione di una sintesi definitiva, o della op-
/ / 40 / /
zione irreversibile: di restituire, insomma, agli uomini – l’un
contro l’altro armati da ideologie in contrasto – la fiducia nel
colloquio, di ristabilire insieme col diritto della critica il
rispetto dell’altrui opinione”4. Spetta all’intellettuale – si legge
nelle notissime righe con cui si apre la raccolta – “seminare
dei dubbi, non già […] raccoglier certezze”5 (una formula che
Bobbio ripeterà a distanza di oltre venticinque anni, affermando
che l’intellettuale non ha “nessuna risposta da dare”, ma ha il
compito precipuo di sollecitare i suoi interlocutori a porsi
delle domande6).
Prendendo congedo dalla lezione
crociana, Bobbio dichiarava senza
infingimenti che l’unico modo di fare cultura
è di fare politica
Questo “invito al colloquio” rispondeva a un obiettivo culturale
e insieme politico, l’uno difficilmente disgiungibile dall’altro.
Bobbio – come molti altri intellettuali suoi contemporanei,
che un decennio più tardi avrebbe annoverato nella sua Italia
civile – esprimeva l’esigenza di superare col dialogo la contrapposizione ideologica di civiltà e non civiltà, che l’Occidente
capitalista e l’Oriente comunista rivendicavano l’uno contro
l’altro: il primo presentandosi come l’unica civiltà possibile,
fuori dalla quale poteva esserci solo barbarie (un aggiornamento
del classico adagio della Chiesa di Roma, per la quale extra
ecclesiam nulla salus); il secondo opponendo alla vecchia
civiltà capitalista la civiltà nuova dell’avvenire socialista7.
Bobbio dunque fu innanzitutto promotore del confronto razionale, appunto anti-ideologico, tra liberali – al cui orizzonte
di valori certamente apparteneva – e comunisti, verso i quali
tendeva la sua sensibilità verso l’eguaglianza sociale. Il suo
obiettivo era tenere aperti i canali di comunicazione tra i due
fronti ideologici, nella speranza che lo scontro potesse risolversi
con il dialogo e non con le armi.
Questo obiettivo rispondeva innanzitutto a una necessità democratica. Appariva a Bobbio infatti decisivo per la sopravvivenza della giovanissima Repubblica che fosse favorito non
già l’isolamento del partito comunista – realizzato sul piano
delle istituzioni parlamentari per mezzo della conventio ad
excludendum – ma la sua evoluzione in senso democratico,
che avrebbe potuto realizzarsi solo quando nella cultura comunista si fossero pienamente radicate le libertà, civili e politiche, tradizionalmente proprie del modello liberal-democratico8.
Si trattava insomma, secondo Bobbio, non già di progettare la
“rivoluzione di classe” prospettata dai comunisti, ma di promondoperaio 10/2014 / / / / saggi e dibattiti
seguire nella “rivoluzione democratica”, nata con la Resistenza
contro il fascismo e istituzionalmente realizzata dalla Costituzione del 1948.9 I due problemi che allora gli apparivano
come i più urgenti – scriverà nel 1979 nella prefazione al volume sul Problema della guerra e le vie della pace – erano
quelli della democrazia in Italia e della pace internazionale.
Per quanto su due livelli – nello Stato il primo, tra gli Stati il
secondo – “i due problemi [...] erano alla radice lo stesso problema: il problema della eliminazione, o per lo meno della
maggior limitazione possibile, della violenza come mezzo per
risolvere i conflitti tra individui e fra gruppi, sia all’interno di
uno stesso Stato sia nei rapporti fra gli Stati”10: il problema
cioè – si potrebbe così riassumere – della pace attraverso la
democrazia.
Ebbene, questa “rivoluzione democratica” – dopo il fallimento
del Partito d’Azione – poteva realizzarsi, per Bobbio, solo per
mezzo di una e vera e propria “rivoluzione della cultura”11.
Prendendo congedo dalla lezione crociana, Bobbio dichiarava
senza infingimenti che “[l’]unico modo di fare cultura è di
fare politica”; la cultura doveva cioè dare “il proprio contributo
a trasformare la società, dal momento che – spiegava Bobbio
– o la cultura serve a trasformare la società, è anch’essa uno
strumento rivoluzionario, o è un inutile passatempo”12.
La cultura doveva, insomma, farsi “militante”13; la postura
dell’intellettuale – di fronte allo scontro ideologico tra i due
blocchi contrapposti, tra loro non comunicanti – doveva essere
quella del “mediatore”, il cui “metodo di azione è il dialogo
razionale”14. E’ la democrazia – scriveva Bobbio – ad averne
“sempre più bisogno”15, essendo possibili la sua sopravvivenza
e il suo sviluppo solo scongiurando l’interruzione della comunicazione tra gli avversari politici. E’ un’idea, questa, che pe4
5
6
7
8
9
10
11
12
13
14
15
N. BOBBIO, Invito al colloquio (1951), in Id., Politica e cultura,
Einaudi, 1974, p. 18.
Ivi, p. 15.
Id., Intellettuali e potere (1977), in Id., Il dubbio e la scelta. Intellettuali e
potere nella società contemporanea, La Nuova Italia Scientifica, 1993, p. 113.
P.P. PORTINARO, Introduzione a Bobbio, Laterza, 2008, p. 124.
M.L. SALVADORI, L’impegno e le speranze, in Cinquant’anni e non
bastano. Scritti di Norberto Bobbio sulla rivista “Il Ponte”. 1946-1997,
Il Ponte Editore, 2005, pp. 15-16.
N. BOBBIO, Tra due repubbliche. Alle origini della democrazia italiana,
Donzelli, Roma, p. 22.
Id., Prefazione alla prima edizione (1979), in N. BOBBIO, Il problema
della guerra e le vie della pace, (1979), Il Mulino, 1997, p. 19.
Id., Maestri e compagni, Passigli, 1984, pp. 26-27
Id., Profilo ideologico del novecento italiano, (1968), Einaudi, 1986, p. 172.
P. BORSELLINO, Norberto Bobbio metateorico del diritto, Giuffrè,
1991, p. 4.
N. BOBBIO, Introduzione (1993) a Id., Il dubbio e la scelta, cit., p. 17.
Id., Libertà e potere (1955), in Id., Politica e cultura, cit., p. 282.
/ / 41 / /
raltro riflette il modello democratico dei primi anni di vita del
Parlamento repubblicano, in cui si afferma il primato della
discussione sulla decisione, del confronto costante sulla soluzione: si pensi ai regolamenti parlamentari, prima della loro
riforma, che non ponevano limiti né alla durata degli interventi
in aula né al numero di interventi consentiti a deputati e
senatori nell’ambito della stessa discussione.
Il modello da cui traeva ispirazione era
l’opera di Carlo Cattaneo, nella quale aveva
trovato la rappresentazione di una filosofia
utile, volta alla riforma della società
Certamente, comunque, realizza il tentativo di prospettare una
“terza via” nel rapporto tra politica e cultura16: tra i due estremi
della cultura apolitica – esemplata dall’intellettuale chiuso
nella sua torre d’avorio, sostanzialmente indifferente nei confronti della società in cui opera – e della cultura politicizzata –
rappresentata dall’intellettuale organico, al partito o alle istituzioni, sostanzialmente dipendente dalle strutture di cui si sente
16 BORSELLINO, cit., p. 4.
17 N. BOBBIO, Cultura vecchia e politica nuova (1955), in Id., Politica e
cultura, cit., p. 196.
18 Id., Intellettuali e potere (1977), in Id., Il dubbio e la scelta, cit., p. 124.
19 SALVADORI, cit., p. 11.
20 N. BOBBIO, Intellettuali e vita politica in Italia, (1954), in Id., Politica
e cultura, cit., p. 135.
21 Id., Una filosofia militante. Studi su Carlo Cattaneo, Einaudi, 1971, pp.
98-99.
parte – il modello d’intellettuale proposto da Bobbio, cui egli
stesso si acconcia, è quello del “mediatore”, il quale deve possedere “una capacità di controllo critico che non si ottunda a
contatto coi problemi quotidiani”17: in un’icastica formula,
“indipendenza ma non indifferenza”18. Un atteggiamento egualmente distante dal manicheismo tipico dell’intellettuale organico
che dalla posizione di supremazia in cui si colloca – più o
meno consapevolmente – l’intellettuale apolitico, nella cui
opera il “distacco critico” trascolora in un’incolmabile distanza
dalla società e dai suoi problemi concreti.
Questa postura mediana, incardinata sul dialogo e sul confronto
razionale, costituisce per Bobbio un imperativo morale. Non
ne va però equivocato il significato. Bobbio era senz’altro
“uomo del dialogo e del dubbio”, ma – come correttamente ha
scritto Massimo L. Salvadori – “i suoi punti ben fermi li
aveva e li faceva valere con forza”19. Il compito dell’intellettuale,
che è quello “di rompere i blocchi, d’impedire le chiusure e le
fratture, d’invocare la tolleranza, di perseguire il dialogo”,
deve cioè svolgersi compatibilmente con “l’unico abito che si
addice” a questo tipo d’intellettuale, ossia “l’intransigenza sui
valori”20.
Ebbene, a me pare che il primo “valore” – se così vogliamo
chiamarlo – che Bobbio ha sempre voluto mantenere fermo
nella sua opera è stato quello di aver concepito l’attività intellettuale, il suo stile di pensiero, come una “filosofia militante”.
Il modello da cui traeva ispirazione, com’è noto, era l’opera
di Carlo Cattaneo, nella quale aveva trovato la rappresentazione
di una “filosofia utile, volta [...] alla riforma della società”21.
mondoperaio 10/2014 / / / / saggi e dibattiti
/ / 42 / /
Su di essa, secondo Bobbio, gravavano “compiti di rinnovamento politico ed economico”22. Era non lo sconvolgimento
della rivoluzione socialista, ma il rinnovamento che doveva
realizzarsi nella “rivoluzione democratica” quello auspicato
da Bobbio: che – nelle pagine su Cattaneo – ripeteva con approvazione, citandolo, che “la filosofia è una milizia”, nel
senso che “è un’arma per la guerra che il popolo combatte”23.
“Il mondo – scriveva Bobbio – è uno scandalo”24. Davanti a
questo scandalo – che realisticamente Bobbio addebitava agli
“errori” e alle “miserie” degli uomini – occorreva assumere
un atteggiamento, appunto, “militante”, che, spiegava con
precisione, “non vuol dire né partigiano, né settario, né devoto.
E’ il modo di filosofare di chi non se ne sta a guardar le cose
dall’alto di una saggezza ossificata ma scende a studiare problemi concreti, e solo dopo aver condotto la sua ricerca minuta
e metodica prende posizione. Prendere posizione non vuol
dire parteggiare, ubbidire a degli ordini, opporre furore contro
furore, vuol dire tender l’orecchio a tutte le voci che si levano
dalla società […] ascoltare i richiami dell’esperienza [...] E
solo dopo aver ascoltato e cercato di capire, assumere la
propria parte di responsabilità”25.
Nello stile di pensiero di Bobbio sono
presenti tutte le componenti che
tipicamente sono associate al metodo
dell’analisi del linguaggio
La filosofia militante di Bobbio, intesa in questa accezione,
non poteva essere il marxismo. Assumeva invece le vesti di
un sedicente “nuovo illuminismo”26, che oltre alla “aspirazione
ad impiegare la scienza a fini di utilità sociale”27 – comune al
marxismo – riponeva “fiducia” non già in una deterministica
filosofia della storia, bensì “nella funzione indefinitamente rischiaratrice della ragione”, strumento insostituibile per dipanare
ogni genere di controversia intellettuale attraverso l’elaborazione di idee chiare e distinte: fiducia in una nuova stagione
dei lumi che Bobbio condivideva con un altro grande maestro
del Novecento, Uberto Scarpelli28.
Per Bobbio, che già al volgere degli anni ‘40 aveva compiuto
la sua “conversione al kelsenismo”29, questa ragione non
poteva che identificarsi con la ragione analitica. E’ ancora in
Politica e cultura che Bobbio invitava gli intellettuali a “impiegare l’esattezza del discorso e il rigore del procedimento
logico”, nella convinzione che, fuori dalla logica del discorso
rigoroso “il progresso scientifico non sarebbe mai avvenuto”
mondoperaio 10/2014 / / / / saggi e dibattiti
e non avrebbe potuto altrimenti continuare a realizzarsi.
Ma già qualche anno prima, rivolgendosi alla comunità scientifica a lui più vicina – che almeno fino alla fine degli anni ‘60
è certamente quella dei giuristi – aveva elevato il rigore a
criterio della scientificità del discorso. Mi riferisco a quel
“manifesto programmatico” della filosofia del diritto italiana
di indirizzo analitico30 che, al principio della seconda metà del
Novecento ha rappresentato Scienza del diritto e analisi del
linguaggio, dove Bobbio affermava che “la scientificità di un
discorso non consiste nella verità, cioè nella corrispondenza
della enunciazione ad una realtà obbiettiva, ma nel rigore del
suo linguaggio, cioè nella coerenza di un enunciato con tutti
gli altri enunciati che fanno sistema con quelli”31.
Nello stile di pensiero di Bobbio sono presenti, senza
ombre di sorta, tutte le componenti che tipicamente sono
associate al metodo dell’analisi del linguaggio. Lo stile
che ne risulta, innanzitutto, rifugge dal tentativo di costruire
“grandi sintesi”32, sul presupposto che sia “pur sempre preferibile un’analisi senza sintesi […] che una sintesi senza
analisi”33. Così, prendendo nettamente le distanze dalla filosofia italiana precedente la guerra, tutta intesa a elaborare
generalissime visioni del mondo entro le quali le più diverse
discipline scientifiche venivano a posteriori forzosamente
22 Ivi, p. 131.
23 Ivi, pp. 99-100.
24 Id., Cultura vecchia e politica nuova (1955), in Id., Politica e cultura,
cit., p. 204.
25 Ivi, p. 205.
26 Id., Tra due repubbliche, cit., p. 103.
27 Id., Cultura vecchia e politica nuova (1955), in Id., Politica e cultura,
cit., p. 202.
28 Id., Recensione a B. Dunham, Man against Mith, in “Rivista di Filosofia”,
4, 1949, p. 455. Si legga Diritto e analisi del linguaggio, a cura di U.
Scarpelli, Edizioni di Comunità, 1976, p. 12: “La ricostruzione, o costruzione linguistica, il perseguimento della chiarezza e del rigore con
l’ordinamento del linguaggio, l’ordinamento dell’esperienza per la via
dell’ordinamento del linguaggio, sono stati, per chi uscì dal buio del fascismo e della cultura fascista, una maniera di riaccendere e portare i
‘lumi della ragione’, di professare e praticare un aggiornato illuminismo:
un illuminismo convenzionalistico, che puntava su una ragione da configurare nella determinazione della struttura del discorso mediante scelte
ed intese espresse nelle convenzioni”.
29 T. GRECO, Norberto Bobbio. Un itinerario intellettuale tra filosofia e
politica, Donzelli, 2000.
30 E. PATTARO, Il positivismo giuridico italiano dalla rinascita alla crisi,
in “Politica del diritto”, 1972, p. 455.
31 N. BOBBIO, Scienza del diritto e analisi del linguaggio, in “Rivista trimestrale di diritto e procedura civile”, 2, 1950, pp. 350-351.
32 Id., L’impegno dell’intellettuale ieri e oggi, in “Rivista di Filosofia”, 1,
1997, p. 18.
33 Id., Natura e funzione della filosofia del diritto, in Giusnaturalismo e
positivismo giuridico, Edizioni di Comunità, 1965, p. 44.
/ / 43 / /
ricondotte, Bobbio si fa promotore di una filosofia che
“sminuzz[i] l’universo in tanti pezzettini da esaminare uno
alla volta”34: uno “spezzatino di filosofia” – come è stata
polemicamente definita la filosofia analitica da Richard
Rorty nel suo libro forse più noto, La svolta linguistica35 –
che tuttavia nel caso di Bobbio – se mi è concesso usare
una metafora un po’ triviale – è senza dubbio assai “gustoso”
e soprattutto necessario alla democrazia, al metabolismo
(inteso come processo) democratico.
Inoltre l’opera di Bobbio è consistita in quello che Pier Paolo
Portinaro ha chiamato il “lavoro del critico che si avvale dell’arte delle distinzioni”36. Ora, la distinzione è lo strumento
principe dell’analisi del linguaggio, che come sappiamo “è
essenzialmente un lavoro di definizione”37. E’ difficile trovare
un filosofo analitico italiano che si sia cimentato con i più diversi problemi della teoria del diritto e della politica, e che al
pari di Bobbio abbia articolato i suoi interventi sempre a
partire da un intenso esercizio definitorio. Frequentissimi
sono infatti nella sua opera, non solo scientifica ma anche più
propriamente politica, i contributi in cui il “discorso analitico”,
che si realizza nella “analisi concettuale”, svolge la funzione
esiziale di “riflessione preliminare” alla proposta progettuale38:
una riflessione che è il frutto di uno sforzo ricostruttivo e definitorio sempre attento a non confondere nel medesimo discorso il piano descrittivo da quello prescrittivo, il livello dell’essere dal livello del dover essere.
Ancora al principio dell’ultimo decennio del Novecento,
Bobbio dichiarava che “la funzione più utile della filosofia
politica” è “quella di analizzare i concetti politici fondamentali”.
L’utilità di una filosofia politica condotta secondo la metodologia analitica risiedeva, a suo giudizio, nel fatto che essa
avrebbe potuto soccorrere le altre discipline che si occupano
34 Id., Recensione a A. WOOD, Bertrand Russell, scettico appassionato, in
“Rivista di filosofia”, 1961, pp. 230-233.
35 R. RORTY, La svolta linguistica, Garzanti, 1994 (1967).
36 PORTINARO, Introduzione a Bobbio, cit., p. 6. Riccardo Guastini ha significativamente intitolato uno dei suoi studi su Bobbio, appunto, Bobbio,
o della distinzione: in GUASTINI, Distinguendo. Studi di teoria e metateoria del diritto, Giappichelli, 1996.
37 GUASTINI, cit., p. 42.
38 N. BOBBIO, Riformismo, socialismo, eguaglianza, in “Mondoperaio”,
38, 5, maggio 1985 (ripubblicato in “Mondoperaio”, 3-4, 2014, da cui si
cita, pp. 60-61, 65 e 67).
39 Id., Ragioni della filosofia politica (1990), in Teoria generale della
politica, Einaudi, 1999, p. 38.
40 GUASTINI, cit., p. 43.
41 N. BOBBIO, Introduzione (1993), Il dubbio e la scelta, cit., pp. 10-14.
42 U. ECO, La missione del dotto rivisitata, in AA.VV., Lezioni Bobbio.
Sette interventi su etica e politica, Einaudi, 2006, p. 36.
del suo proprio oggetto di indagine – come la storia politica,
la storia delle dottrine politiche, la sociologia politica, la
scienza politica – sopperendo alla loro mancanza di rigore
analitico nell’uso degli stessi concetti, da esse spesso adottati
“senza andare troppo per il sottile nella identificazione del
loro significato, o dei loro molteplici significati”39.
Questa sintesi, concentrata nel concetto
di “libertà socialista”, costituisce il culmine
logico del pensiero politico di Bobbio
Sono ovviamente innumerevoli gli esempi che si potrebbero
portare a sostegno della tesi secondo cui “l’analisi del linguaggio è una costante dell’opera di Bobbio”40. Tanto per
rimanere al tema del ruolo degli intellettuali, richiamo l’attenzione sul metodo con il quale Bobbio esamina la letteratura
sulla questione. Sottoposta ad esame analitico, essa gli
appare per lo più viziata da errori logici. Ravvisa in particolare l’uso di una falsa generalizzazione, con cui semplicisticamente si fanno apparire gli intellettuali come una “categoria
omogenea” (ciò che stigmatizza come “un’insensatezza”);
rileva poi una generale “mancanza [...] di distacco storico”,
che denota una certa parzialità di giudizio; infine, e soprattutto, indica nella incapacità di distinguere il “momento
dell’analisi da quello della proposta” la “più grave e imperdonabile […] ragione di confusione” della letteratura sul tema41. Notazioni, queste, forse banali, ma certamente necessarie ai fini dell’elaborazione di tesi improntate alla logica
del discorso rigoroso.
La mediazione critica, condotta con l’esercizio della ragione
analitica, può assumere poi (come di fatto ha assunto nell’opera
di Bobbio) tanto più valore quando è rivolta non già contro gli
avversari ma contro il fronte cui Bobbio apparteneva, la
sinistra democratica. Come ha osservato Umberto Eco, “la lezione principale di Bobbio […] è stata che l’intellettuale
svolge la propria funzione critica e non propagandistica solo
(o anzitutto) quando sa parlare contro la propria parte”42.
Basti qui ricordare i tanti dibattiti suscitati da Bobbio in seno
alla sinistra (per esempio quello sul socialismo nel decennio
Settanta e quello sulla distinzione destra/sinistra nel decennio
Novanta): dibattiti che Bobbio ha sempre condotto sotto le insegne del discorso rigoroso, anche quando, per il loro rilievo
pubblico, dalle poco lette riviste specializzate si sono allargati
al grande pubblico dei giornali (si pensi ai tanti editoriali
scritti per La Stampa e l’Avanti!).
Al riguardo, credo meritino una menzione particolare alcuni
mondoperaio 10/2014 / / / / saggi e dibattiti
/ / 44 / /
tra i suoi contributi più rilevanti: l’isolamento di una definizione minima di democrazia come “insieme di regole (le
cosiddette regole del gioco)”43; la riduzione del liberalismo
al “metodo democratico”44; l’identificazione nella socialdemocrazia di una via – e non di una meta – per il socialismo45; la ridefinizione, infine, di “eguaglianza” e “libertà”
allo scopo di tracciare le linee fondamentali di quel “com-
posto chimico instabile”46 – come l’ha chiamato Perry Anderson – che è il socialismo liberale (o liberalsocialismo)47.
Proprio questa sintesi, concentrata nel concetto di “libertà
socialista”, costituisce forse “il culmine logico del pensiero
politico di Bobbio”48, uno dei più importanti insegnamenti
che ci ha lasciato e sul quale occorrerebbe tornare a
riflettere.
43 N. BOBBIO, Quali alternative alla democrazia rappresentativa?, in
“Mondoperaio”, XXVIII, 10, ott. 1975, pp. 40-48 (ristampato in Quale
socialismo? e in N. BOBBIO, Etica e politica. Scritti di impegno civile,
Mondadori, 2013, da cui si cita, p. 1277).
44 Id., Introduzione, (ottobre 1979), in C. ROSSELLI, Socialismo liberale,
Einaudi, 2004, p. XXII.
45 Id., La terza via non esiste, in La Stampa, 1 settembre 1978; La via democratica, in La Stampa, 3 settembre 1978 (entrambi ristampati in AA.VV.,
Il Socialismo oggi, Massimiliano Boni Editore, 1978, pp. 107 e 111.
46 P. ANDERSON, Norberto Bobbio e il socialismo liberale, trad. it. di The
affinities of Norberto Bobbio, in Socialismo liberale. Il dialogo con Norberto Bobbio oggi, a cura di G. Bosetti, L’Unità, 1989, p. 55.
47 In particolare: N. BOBBIO, Eguaglianza e libertà, Einaudi, 1995; Id., Le
ideologie e il potere in crisi. Pluralismo, democrazia, socialismo, comunismo, terza via e terza forza, Le Monnier, 1981.
48 GRECO, cit., p. 223.
mondoperaio 10/2014 / / / / saggi e dibattiti
/ / 45 / /
>>>> saggi e dibattiti
Andrea Caffi
Il socievole eremita
>>>> Nicola Del Corno
D
i Andrea Caffi sono state date molte definizioni: per
Gaetano Salvemini era «l’uomo più straordinario e lo
spirito più eletto» che avesse mai conosciuto, opinione condivisa anche da Nicola Chiaromonte, che lo definì «il più
savio e il più giusto» di quei tempi; dopo la sua morte Angelica Balabanoff lo ricordò come una persona «dalla coscienza adamantina, onestissimo ed altruista»; secondo Alberto Moravia, che fu suo amico, era «un hippy ante litteram,
in lui c’era un’anticipazione di molte cose che poi sono diventate comuni negli anni ’60 e ’70»; Gino Bianco, uno dei
suoi biografi, lo presentò come «un eremita socievole», apparente ossimoro che però bene rivela l’intima natura del
personaggio.
Nato a Pietroburgo il primo maggio del 1887 da genitori
italiani (il padre lavorava come costumista presso il Teatro
imperiale), Caffi frequentò nella città natale la scuola riformata, dove ebbe modo di rapportarsi con coetanei di diverse
nazionalità e di ceti sociali differenti. La sua adesione al socialismo giunse molto presto: dopo una visita alle officine
Putilov, dove prese visione delle pessime condizioni di
lavoro degli operai. Più che sui testi sacri del marxismo il
suo avvicinamento al socialismo avvenne quindi tramite la
conoscenza diretta delle condizioni di vita dei ceti subalterni,
mediata ideologicamente da retaggi del populismo russo
della seconda metà dell’800 (Herzen in primis). Visse in
prima persona la rivoluzione del 1905, su posizioni mensceviche (municipalizzazioni delle terre e garanzie democratiche), conoscendo le galere zariste, da cui uscì per intervento dell’ambasciatore italiano, dato che era cittadino del
nostro paese.
In seguito al fallimento della rivoluzione si trasferì all’estero:
prima a Berlino. dove si iscrisse all’Università rimanendo
affascinato dalle lezioni di Georg Simmel; poi, spinto dal
suo animo inquieto, iniziò a girovagare in maniera randagia
attraverso l’Europa, passando per l’Italia: a Firenze strinse
amicizia con Giuseppe Prezzolini, mentre nel 1911 si recò a
Rapallo per conoscere personalmente l’anarchico Petr Kromondoperaio 10/2014 / / / / saggi e dibattiti
potkin che allora dimorava nella cittadina ligure; fino a raggiungere Parigi, città che reputava congeniale alla poliedricità
dei suoi interessi.
Non si poteva farla finita con il fascismo
solamente tramite vie insurrezionali
e rivoluzionarie, ma con un lavoro di lunga
lena sulle coscienze degli italiani
Nella capitale francese ritrovò un amico di scuola, Lucien Bodin, con il quale formò un circolo di giovani rivoluzionari
francesi, russi, polacchi e tedeschi che chiamarono la Jeune
Europe, il cui primario scopo culturale era quello di preservare
la tradizione classica e umanistica propria dell’Europa contro
l’imbarbarimento irrazionalista e futurista; mentre politicamente
si rifaceva ad un socialismo democratico e non marxista. Ed a
Parigi lo colse lo scoppio della prima guerra mondiale, a cui
decise immediatamente di prendere parte, quando ancora
l’Italia era su posizioni neutraliste, arruolandosi nelle Legioni
internazionali garibaldine: non per una propria vocazione bellicista, ma convinto che il futuro del socialismo e della democrazia europea dipendesse dal definitivo crollo degli imperi
autoritari dell’Europa centrale. Ferito in battaglia nelle Argonne,
rispose successivamente alla chiamata alle armi in Italia, andando a combattere in Trentino, dove venne nuovamente
ferito prima di essere trasferito nelle retrovie con funzioni di
interprete.
Dopo la guerra si legò ad un gruppo di intellettuali – fra cui
spiccavano Salvemini, Umberto Zanotti Bianco, Giuseppe
Antonio Borgese – che aveva formato un movimento, la Giovane Europa, che puntava ad una ripresa della vita politica
continentale aliena da rivalità nazionalistiche ed etniche. Caffi
si interessò principalmente delle vicende della Polonia, avversando lo spirito delle decisioni prese a Versailles, considerate
divisive nella nuova Europa che doveva risorgere dalle ceneri
del conflitto bellico.
/ / 46 / /
Grazie alla sua conoscenza della lingua e del contesto russo
venne inviato nel luglio del 1919 dal Corriere della Sera per
descrivere ai propri lettori ciò che stava accadendo in quel
paese, ancora in pieno fermento rivoluzionario. Arrivato ad
Odessa via Costantinopoli, Caffi decise però di rimettere l’incarico e di trasferirsi a Mosca per vivere in prima persona, e
libero da impegni e condizionamenti di sorta, la creazione di
un nuovo ordine sociale e politico. Qui incontrò i suoi vecchi
amici e compagni di lotta, parteggiò naturalmente per i menscevichi ed i libertari, e incaricato – data la sua ottima conoscenza di più lingue
– di compilare l’Internazionale comunista, un bollettino
contenente una rassegna stampa estera,
inserì spesso ritagli
di stampa tesi a suscitare motivi di
dubbio e perplessità
sulle scelte compiute
dal potere sovietico.
A contatto con la delegazione italiana
socialista guidata da
Serrati per partecipare al II Congresso
della Terza Internazionale, nell’estate
del ’20 fu accusato
di aver fatto pressioni su questa perché
non aderisse e messo
in carcere, da cui fu
liberato per intervento della Balabanoff.
Rientrato nel giugno
del 1923 nell’Italia
fascista, trovò lavoro
presso il ministero
degli Esteri quale redattore di un notiziario destinato alle
rappresentanze all’estero, occupazione
che abbandonò premondoperaio 10/2014 / / / / saggi e dibattiti
sto per non sentirsi in nessun modo complice con il neonato
regime mussoliniano. Nel frattempo aveva iniziato a scrivere
di politica su riviste antifasciste, e più precisamente sul Quarto
Stato di Carlo Rosselli e di Pietro Nenni, e su Volontà di
Roberto Marvasi e Vincenzo Torraca. Su questa rivista pubblicò
le famose Cronache di dieci giornate a proposito dell’assassinio
di Matteotti.
Fatto oggetto delle sempre più circospette attenzioni della
polizia fascista, Caffi emigrò in Francia nel 1926. Agli
inizi degli anni trenta, a Parigi, Caffi partecipò alla vita
politica della vivace colonia dei fuoriusciti politici, avvicinandosi a Giustizia e libertà e
collaborando ai
Quaderni del movimento rosselliano, sia pure da una
posizione autonoma (“metapolitica”): cosa che lo
portò spesso a risultare in contrasto
con l’impegno militante e impaziente
di Rosselli. Secondo Caffi il fascismo
non aveva nulla
d’originale, era un
segno esteriore di
una malattia – principalmente culturale – che affliggeva
la società, ormai
sottomessa definitivamente alle logiche e alle dinamiche dello Stato.
Per questo motivo,
secondo Caffi, non
si poteva farla finita con il fascismo
solamente tramite
vie insurrezionali e
rivoluzionarie, ma
/ / 47 / /
con un lavoro di lunga lena sulle coscienze degli italiani.
A partire da questi anni, e per il resto della sua esistenza,
Caffi rivendicò un pacifismo assoluto, convinto che dalla
violenza, anche da quella rivolta contro i regimi totalitari,
non potesse mai sgorgare nulla di costruttivo: «Ogni violenza è per definizione antisociale», scrisse dopo la seconda
guerra mondiale. Degli anni parigini, e più precisamente
del 1932, è anche il suo famoso attacco contro il bolscevismo e lo stalinismo portato dalle colonne dei Quaderni di
Giustizia e Libertà,: «Che la libertà di pensiero, il rispetto
della persona, un ordinamento della vita fondato su spontanee scelte possano ‘valere’ qualcosa nell’esistenza degli
uomini è un’idea che semplicemente non affiora nelle coscienze della generazione cresciuta sotto il bolscevismo».
A metà degli anni trenta, dopo essersi allontanato dal gruppo
rosselliano anche per divergenze interpretative sul Risorgimento
e sul suo presunto “mito” da riproporre agli italiani in chiave antifascista, Caffi si trasferì nel sud della Francia, dove prese
contatto con gli ambienti a lui più politicamente congeniali del
libertarismo federalista, pur non disdegnando di partecipare in
prima persona al tentativo di ricostruire il partito socialista su
posizioni differenti rispetto a Nenni e al suo avvicinamento all’Unione Sovietica (che aveva appena dichiarato guerra a Hitler).
Nel partito si erano delineate tre posizioni: la prima – che
risultò vincente – quella di Nenni e Saragat, favorevole
ad una stretta adesione alla politica delle potenze antifasciste, e quindi - per quello che riguardava la politica italiana – ad una stretta collaborazione con il partito comunista; la seconda, di Modigliani, che riprendendo il programma zimmerwaldiano del tradizionale pacifismo socialista era al contrario per una totale autonomia; la terza
di Caffi (sottoscritta anche da Giuseppe Faravelli, Emilio
Zannerini ed Enrico Bertoluzzi), che era per un appoggio
condizionato alle potenze occidentali e all’Urss con l’obiettivo primario della sconfitta del nazi-fascismo, per
poter poi rilanciare la propria idea di socialismo democratico e federalista. La tesi caffiana infatti concludeva
che un auspicabile accordo in vista della lotta contro il fascismo «non deve implicare per noi impegni politici di
nessuna specie nei riguardi dei comunisti; dobbiamo al
contrario conservare intera la nostra libertà d’azione e
per l’oggi e per il domani»; e ribadiva alcune priorità politiche del suo essere socialista, quale soprattutto – rifacendosi alla «etimologia stessa» del socialismo – la superiorità della società rispetto allo Stato nel regolare i
rapporti fra gli individui.
Terminata la guerra tornò a vivere a Parigi. L’amicizia con
Albert Camus gli aprì la strada ad una collaborazione con
Gallimard, senza che questo lavoro sicuro gli facesse cambiare il suo stile di vita di volontaria indigenza. Dal punto
di vista dell’analisi politica collaborò, su invito di Chiaromonte, a Politics, autorevole rivista radicale e socialista
(ma non marxista) di New York diretta da Dwight Macdonald. Lontano da qualsiasi concessione ad ogni tipo di comodità materiale Caffi visse anche gli ultimi anni della sua
vita dedicandosi a coltivare studi, interessi e amicizie.
Morì il 22 luglio 1955 e fu sepolto presso il cimitero
parigino di Père-Lachaise.
Il suo socialismo era caratterizzato
etimologicamente, rifacendosi al termine
«società»
Nel cercare di caratterizzare in poche parole il socialismo
libertario di Caffi occorre innanzitutto riconoscere quali
siano stati i suoi maestri, da lui più volte citati: quindi soprattutto Proudhon, Owen, Tolstoj, Herzen, Kropotkin. Va
inoltre ricordato come il suo socialismo si fosse formato
non tanto sulla lettura dei classici, quanto dal contatto
diretto con i problemi delle classi subalterne e dalla fascinazione giovanile esercitata dalle tendenze nichiliste di cui
era permeata una certa intelligencija russa. Risultò inoltre
fondamentale per la formazione del pensiero politico il
sentimento di “filia” verso il genere umano, e come su
questo concetto di naturale empatia che lega le esistenze
umane Caffi puntasse per un definitivo superamento dello
Stato e delle sue logiche gerarchiche e di dominio.
Scriveva infatti Caffi alla fine del secondo conflitto mondiale: «Oggi, il moltiplicarsi di gruppi d’amici partecipi
delle medesime ansie e uniti dal rispetto per i medesimi valori avrebbe più importanza di qualsiasi macchina di propaganda. Tali gruppi non avrebbero bisogno di regole obbligatorie né di ortodossie ideologiche; non fiderebbero
sull’azione collettiva, ma piuttosto sull’azione individuale
e sulla solidarietà che può esistere fra amici che si conoscono
bene e dei quali nessuno persegue fini di potenza». Il suo
socialismo era quindi per un certo verso caratterizzato etimologicamente, rifacendosi al termine «società», ossia
all’«insieme di quei rapporti umani che si possono definire
spontanei e gratuiti, nel senso che hanno almeno l’apparenza
della libertà nella scelta delle relazioni, nella loro durata,
nella loro rottura».
mondoperaio 10/2014 / / / / saggi e dibattiti
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>>>> saggi e dibattiti
Da Voltaire a Norimberga
>>>> Antonio Salvatore
L’
occasione di queste brevi riflessioni nasce dalla recente
pubblicazione, per i tipi della Laterza, di un volume
di Vincenzo Ferrone1 in cui l’autore individua nella lotta
per il riconoscimento e la tutela dei diritti dell’uomo la
chiave risolutiva del grande “enigma” dell’Illuminismo,
con l’intento di riaffermare la vocazione universale dei
diritti umani anche nel tempo presente, sulla scorta dell’esperienza storica.
Come noto, il discorso sui diritti dell’uomo – intesi come patrimonio giuridico di tutti gli uomini, indipendentemente dalle
differenze etniche, fisiologiche e culturali – si afferma, storicamente, in Occidente nella seconda metà del Settecento, peraltro seguendo linee interpretative diverse nei paesi latini e
in quelli dell’Europa del Nord2. A livello politico, invece, i
diritti umani trovano riconoscimento e protezione molto più
tardi, all’indomani della Seconda guerra mondiale: concetti
come “umanità” e “dignità” dell’uomo, assenti nella Dichiarazione del 1789, vengono posti al centro della “Dichiarazione
universale dei diritti dell’uomo” del 1948, ove è solennemente
affermato che “tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali
in dignità e diritti”.
Il tema dei diritti umani assume contorni di scottante attualità e richiede concrete risposte sul piano pragmatico
nel secolo attuale, sol che si pensi alle delicate questioni
giuridiche sorte dopo l’attentato del settembre 2001,
oppure a quelle legate ai ricorrenti episodi di genocidio
1
2
3
V. FERRONE, Storia dei diritti dell’uomo, Laterza, 2014.
Come evidenziato da Ferrone, mentre nel Nord Europa e negli ambienti
della fisiocrazia parigina prevalse un’interpretazione “duty-based” (ovvero
dei diritti come derivanti dai doveri), gli illuministi napoletani e milanesi
proclamarono l’autonomia e la libertà dell’individuo, da attuare nella
partecipazione repubblicana alla vita politica e nella ricerca della felicità
come diritto naturale dell’uomo. É peraltro noto che in Francia vi fu una
“riscoperta” dei doveri da parte dei termidoriani, che aggiunsero la
parola devoirs alla Déclaration des droits de l’homme et du citoyen del
1789, che circa vent’anni dopo diventò Déclaration des droits et des devoirs de l’homme et du citoyen.
FERRONE, cit., Prefazione, p. XVII.
mondoperaio 10/2014 / / / / saggi e dibattiti
interessanti varie parti del pianeta e al ritorno delle guerre
di religione.
Ferrone nota un’analogia: il discorso sui diritti umani si
impone, tra Sei e Settecento, come reazione ai privilegi, alle
gerarchie e disuguaglianze dell’ancien regime, in una visione
dell’Illuminismo che l’autore definisce “nuovo umanesimo”
dei moderni. Una straordinaria rivoluzione culturale, anche
per contrastare il dramma della guerra civile e religiosa che
allora infiammava l’Europa. Fa la sua apparizione il cosiddetto
“deismo” di Voltaire, Filangieri, Rousseau, fautori di una religione culturale comune a tutti i popoli, senza chiese e teologi,
devota a un dio lontano e disinteressato alla vicende umane.
Il problema oggi è conciliare
l’universalismo dei diritti umani
con il pluralismo culturale, evitando
da un lato impostazioni storicistiche
e dall’altro forme
di neo-imperialismo
L’analogia con quanto avvenuto dopo la Seconda guerra mondiale è evidente: presupposto per la concezione universalistica
e cosmopolita dei diritti, la cui riscoperta avviene proprio
dopo la Shoah e “il rischio mortale, corso dal genere umano,
con la riapparizione sulla scena storica dell’homo necans e
della sua terribile volontà di potenza”3.
Il problema oggi, nel terzo millennio, è conciliare l’universalismo dei diritti umani con il pluralismo culturale, evitando da
un lato impostazioni storicistiche, e dall’altro forme di neoimperialismo. La questione, che si legge in filigrana in tutto il
volume ma che non viene direttamente affrontata, è la
seguente: posto che i diritti umani sono innegabilmente un
prodotto culturale della tradizione giuridica occidentale, come
possono ritenersi universali?
Ferrone non tratta direttamente il tema, ma certamente vi
allude con la citazione di Marx (falso profeta, secondo Popper)
/ / 49 / /
posta in esergo al volume4. I diritti umani
universali, nelle applicazioni pratiche5,
si tende a giustificarli
non in termini filosofici (ché sarebbe
inammissibile, costituendo il prodotto
della cultura occidentale), ma storico-politici, in considerazione della loro utilità pragmatica per
gli individui: partendo dal presupposto
che i diritti riguardano “ciò che è giusto”
e non “ciò che è bene”, essi sono universali perché sono
necessari per proteggere gli individui dagli attacchi alla loro
integrità fisica, psichica e sociale.
Ferrone conclude notando un curioso parallelismo tra quanto
osservato da Julio
Cortazar, nel corso della prima delle otto lezioni di letteratura
4
5
6
7
K. MARX, La questione ebraica, 1843: “L’idea dei diritti dell’uomo
venne scoperta per il mondo cristiano appena nel secolo scorso. Essa
non è innata nell’uomo, viene piuttosto conquistata solo nella lotta
contro le tradizioni storiche nelle quali venne finora allevato l’uomo.
Così i diritti umani non sono un dono della natura, non una dote della
storia trascorsa, bensì il premio della lotta contro la casualità della
nascita e contro i privilegi, che la storia di generazione in generazione ha
lasciato in eredità fino ad oggi. Sono il risultato della cultura e li può
possedere solo colui che se li è guadagnati e meritati”.
Il tema riveste anche interesse per la pratica giudiziaria: si pensi al tema dei cosiddetti “delitti culturalmente orientati”, sul quale, attesi i limiti del presente intervento, non è possibile diffondersi.
J. CORTAZAR, Lezioni di letteratura. Berkeley, 1980, Einaudi, 2014,
p. 4 e ss.
Si sarà capito che il riferimento è a J. G. Herder – peraltro citato da
Ferrone - per il quale l’umanità, nella sua dimensione cosmopolita, costituisce il patrimonio e il risultato di tutti gli sforzi umani, l’arte della
nostra specie.
tenute nel 1980 in
California, presso
l’Università di Berkeley6. Il riferimento
non è casuale, visto
che lo scrittore fece
parte, tra il 1973 e il
1975, della giuria del
“Tribunale Bertrand
Russel II” che indagava sui crimini contro l’umanità commessi in America
Latina. Nel descrivere il proprio “cammino di scrittore”
(prevalentemente,
come si sa, uno scrittore “fantastico”: ma
rivoluzionaria
e
“fantascientifica”
doveva certo apparire, tra Sei e Settecento, l’idea di diritti
comuni a tutto il genere umano), l’artista argentino dichiara di aver attraversato tre fasi ben definite: una prima,
che definisce “estetica”, una seconda, “metafisica”, e infine
una terza, “storica”, in cui, pur continuando a trattare temi
fantastici, partecipò attivamente al dibattito politico relativo
alla vicende dei desaparecidos (si ricorderà il noto intervento
intitolato Negacion del olvido), e in genere a quelle del
continente latinoamericano.
Sembra, davvero, di assistere al cammino e allo sviluppo
dei diritti umani universali: da una prima fase, “estetica”,
tesa a privilegiare, come vero obiettivo dell’Aufklarung
l’indagine della persona umana in ogni aspetto anche attraverso la poesia, la letteratura, il teatro, la pittura7, si è
passati a un’indagine metafisica su tali diritti, e in prospettiva
storica- ma, si badi, anti-storicistica - a una fase in cui dare
concreta attuazione ai diritti umani in prospettiva universale
e ispirandosi al nuovo umanesimo che nell’Illuminismo
trova radici autentiche.
mondoperaio 10/2014 / / / / saggi e dibattiti
/ / 50 / /
>>>> saggi e dibattiti
Beni culturali
Le vestali della bellezza
>>>> Valentino Baldacci
D
a parte di alcune vestali del patrimonio culturale si ripropongono periodicamente campagne intese a mantenerlo
puro e incontaminato, legato soltanto all’idea pura di bellezza,
soprattutto lontano da ogni rischio di contiguità con una possibile valenza economica dello stesso. Ma gli anatemi servono
a poco: il patrimonio culturale ha, per la sua stessa natura, una
pluralità di significati e anche di usi. E’ opportuno perciò
cercare di capire quali sono stati, storicamente, questi significati
e questi usi1.
In realtà coesistono, e non da oggi, tre diverse concezioni di
patrimonio culturale. Si prenda il caso dell’Italia, alla quale
ci riferiremo nelle linee che seguono soprattutto allorché
saranno evocati gli aspetti legislativi e istituzionali della questione. La prima concezione si riferisce alle singole tipologie
di beni culturali. Il Codice dei beni culturali e del paesaggio
ne individua alcune: cose di interesse artistico, storico, archeologico, etnoantropologico, archivistico e bibliografico;
ma, come vedremo più avanti, si lascia aperta la strada all’inclusione di altre tipologie.
Va notato che questa tassonomia è andata variando nel tempo;
anzi, l’analisi di queste variazioni dà preziose indicazioni sul
variare della cultura egemone in ciascuna epoca storica. Se
prendiamo il più importante documento normativo sulla tutela
precedente il Codice attualmente in vigore – cioè le due leggi
del 1939 promosse dall’allora Ministro per l’Educazione nazionale Giuseppe Bottai2 - già dai titoli si ricava che venivano
prese in considerazione soltanto le «cose di interesse artistico
e storico» e le «bellezze naturali». È vero che, scorrendo l’art.
1 della L. n. 1089 si trovavano elencate, oltre a quelle già
citate, anche le «cose» che presentavano interesse archeologico
1
2
Questo scritto è la rielaborazione di un testo già pubblicato nel n.
18/2014 dei Cahiers d’études italiennes dell’Université Stendhal – Grenoble 3. Si trattava di un numero speciale dal titolo Da Torino a Parigi:
Laura Malvano storica e critica d’arte. Omaggio alla vita e all’opera.
Legge n. 1089 del 1 giugno 1939 : Tutela delle cose d’interesse artistico
e storico; Legge n. 1497 del 9 giugno 1939 : Protezione delle bellezze
naturali.
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o etnografico, precisando ulteriormente che in queste categorie
erano comprese anche le «cose» che interessavano la paleontologia, la preistoria e le primitive civiltà; quelle d’interesse
numismatico; i manoscritti, gli autografi, i carteggi, i documenti
notevoli, gli incunaboli, nonché i libri, le stampe e le incisioni
aventi carattere di rarità e di pregio. Infine si precisava ulteriormente che vi erano pure comprese le ville, i parchi e i
giardini che avessero interesse artistico o storico.
Nonostante il tempo trascorso dal 1939
e i grandi mutamenti politici, istituzionali
e culturali intervenuti, questo impianto
culturale è ancora largamente presente,
e anzi dominante
Il progressivo ampliamento delle categorie comprese nella
legge di tutela non toglieva che fra le tipologie elencate sussistesse un rapporto gerarchico, di importanza, sottolineato appunto dal titolo stesso della legge: le «cose» tutelate in quanto
patrimonio culturale lo erano soltanto in quanto avevano un
interesse artistico o storico: l’elencazione delle altre tipologie
serviva soltanto a chiarire le intenzioni del legislatore. Così i
beni archeologici erano tali solo se rientravano in queste due
categorie primarie, e a maggior ragione quelli etnografici; le
ulteriori precisazioni rispetto alla paleontologia e alla preistoria
appaiono pleonastiche; a maggior ragione gli archivi e le biblioteche erano prese in considerazione sempre e soltanto in
rapporto al loro valore di raccolte di documenti storici. Surrettiziamente, quasi per inciso, venivano inseriti quelli che
oggi chiamiamo beni architettonici, però solo sotto la specie
di ville, parchi e giardini, sempre che, beninteso, rispettassero
i due canoni fondamentali.
Se poi si prende in considerazione l’altra legge promossa da
Bottai in quel 1939 («Protezione delle bellezze naturali»),
anche in questo caso il titolo è estremamente chiarificatore:
non il paesaggio, come in seguito è stato definito, ma solo le
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bellezze naturali sono tutelate. È cioè il valore estetico, e
quindi l’eccezionalità, la discriminante fondamentale. Questa
discriminante era fortemente presente anche nella legge n.
1089, perché – se è vero che varie categorie di beni erano
tutelati in virtù del loro valore storico – era prevalente quello
estetico, che non solo restava l’unico valido per i beni artistici
così esplicitamente richiamati, ma proiettava la sua influenza
anche su altre categorie, e in particolare sulle architetture.
Si veniva così a creare una sorta di gerarchia fra i beni culturali,
che vedeva al primo posto quelli artistici, portatori dei fondamentali valori estetici; seguivano quelli sui quali in qualche
modo veniva proiettata, sia pure in modo indiretto, la luce proveniente dai primi; quindi le architetture e i reperti archeologici.
Il resto, cioè documenti d’archivio (purché “notevoli”) e i libri
aventi carattere di rarità e di pregio, era tutelato solo in quanto
si riferiva a una documentazione storica di particolare importanza; anzi, in quella espressione “di pregio” riappariva, anche
qui, l’importanza primaria del valore estetico. L’inserimento
fra i beni da tutelare di quelli di interesse etnografico, singolarmente connessi a quelli archeologici, appariva più un relitto
ottocentesco che un’apertura a una nuova sensibilità.
Tutto ciò è ben noto ed è stato più volte sottolineato dalla letteratura sull’argomento. Se ha un senso tornarci sopra e sottolinearlo è perché, nonostante il tempo trascorso dal 1939 e i
grandi mutamenti politici, istituzionali e culturali intervenuti,
questo impianto culturale, e in particolare l’idea di una
gerarchia fra i beni culturali imperniata sul primato dei valori
estetici, è ancora largamente presente, e anzi – si potrebbe
dire – ancora dominante, avendo ricevuto un insospettato
aiuto dalla diffusione della cultura di massa e del turismo culturale, cioè proprio da quei fenomeni che la cultura idealistica,
che stava alla base delle leggi del 1939 non avrebbe certo
visto di buon occhio.
Il fatto è che l’industria culturale – comprendendo in essa non
soltanto l’editoria ma soprattutto la televisione e la fabbrica di
mostre, eventi culturali e simili – ha contribuito in maniera
decisiva a trasformare le opere d’arte e i relativi autori in
feticci, in oggetti e figure mitiche, da adorare in forme cultuali
indipendentemente dalla reale comprensione delle opere e
degli autori stessi. Questo fenomeno ha trasferito a livello di
massa l’idea della gerarchia dei beni culturali e quella del primato dell’opera d’arte, divenuta oggetto di culto privo di ogni
riferimento critico e contestualizzante e ricondotto soltanto a
momenti e situazioni puramente emozionali (da qui, per inciso,
l’enorme successo, che non accenna a calare, della pittura impressionistica).
C’è un altro aspetto che merita di essere sottolineato. Ricondurre
la definizione di patrimonio culturale alla particolare tipologia
di appartenenza della cosa tutelata comporta la perdita di una
definizione complessiva di patrimonio culturale e l’introduzione,
non casuale, dell’espressione plurale «beni culturali». Quella
che viene così messa in evidenza non è una definizione unitaria
di patrimonio culturale, ma quella particolare relativa a ciascuna
tipologia: si avrà così una definizione di bene artistico, una di
bene archeologico ecc. Anche quando il ricordato primato
della dimensione estetica comincerà, con il mutamento dell’egemonia culturale, a declinare, resterà in piedi, e in larga
misura è ancora fortemente vigente, l’idea di una frammentazione del patrimonio culturale nelle singole tipologie nelle
quali lo si vuol classificare. Si afferma così un’impostazione
tassonomica che vede, accanto al prevalere della cultura idealistica espressa nell’idea del primato dell’estetica, la coesistenza
di vecchie categorie risalenti alla cultura positivistica.
L’idea del patrimonio culturale come
testimonianza di civiltà (e quindi come
fattore di identità) ha fatto molta strada
La seconda concezione si esprime nel recupero di una concezione unitaria del patrimonio culturale (si usa appunto l’espressione «patrimonio culturale» e non quella «beni culturali»),
e soprattutto in una diversa concezione che mette al centro il
suo significato identitario. Il patrimonio culturale è così visto,
indipendentemente dalla sua articolazione in varie tipologie e
dal suo valore estetico, come espressione (l’espressione più
alta, se vogliamo) dell’identità di una comunità. Una comunità
che può avere una dimensione più o meno ampia: dalla comunità locale, a quella nazionale, fino a quella comunità che è
costituita dall’intera umanità.
Almeno in Italia questa concezione si è manifestata abbastanza
precocemente, prima ancora della creazione del ministero dei
Beni culturali e ambientali. Il riferimento d’obbligo è al documento prodotto al termine dei suoi lavori, nel 1966, dalla
Commissione parlamentare (istituita con Legge 26 aprile 1964
n. 310) presieduta dall’on. Francesco Franceschini, che definì
bene culturale «tutto ciò che costituisce testimonianza materiale
avente valore di civiltà». Come si vede, venivano del tutto abbandonate la definizione pluralistica sulla base delle tipologie
e il principio del primato del valore estetico, e si metteva al
centro della nuova definizione unitaria quello della «testimonianza di civiltà». Questa definizione non solo affermava un
altro primato, quello del documento storico, ma apriva la
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strada all’affermazione del valore del patrimonio culturale
come aspetto essenziale dell’identità di una comunità. Il concetto di identità resta a tutt’oggi assai discusso, perché da
parte di alcuni esso viene rifiutato sia in base a considerazioni
di carattere politico, che fanno riferimento alle degenerazioni
di carattere nazionalistico che – in passato e nel presente –
esso avrebbe prodotto; sia anche in base a considerazioni più
generali, che hanno alla base la tesi della necessaria “contaminazione” (spesso si adopera addirittura il termine di “meticciato”, con significato positivo rispetto a quello, più negativo,
tradizionale) fra culture e popoli, e quindi comunità diverse.
Considerazioni, come si vede, più generali, ma altrettanto
“politiche”, o addirittura ideologiche, rispetto alle precedenti.
A parte la riflessione sui possibili esiti degenerativi di questo
principio, che affronteremo a parte, resta il fatto che l’idea del
patrimonio culturale come testimonianza di civiltà (e quindi,
conseguentemente,
come fattore di identità di una comunità)
ha fatto molta strada.
È stata accolta, a livello nazionale, nel
Codice dei beni culturali e del paesaggio,
dove all’art. 2 comma
2, in maniera piuttosto
confusa, da un lato si
conserva l’espressione plurale «beni culturali», elencandone
le tipologie in base all’interesse artistico,
storico, archeologico,
etnoantropologico, archivistico e bibliografico; ma poi si introduce una nozione residuale, che in realtà
finisce per essere universalmente definitoria, parlando di «testimonianze aventi
valore di civiltà». Ma
più significativo e
chiaro è l’art. 1 comma 2, dove la funziomondoperaio 10/2014 / / / / saggi e dibattiti
ne del patrimonio culturale è individuata nella preservazione
della «memoria della comunità nazionale e del suo territorio».
Va ricordato che nei lavori preparatori del Codice la Commissione cultura della Camera dei Deputati aveva definito il patrimonio culturale come «elemento costitutivo e rappresentativo
dell’identità nazionale», definizione poi superata nel testo definitivo.
Anche a livello internazionale ci si è mossi nella stessa direzione.
La stessa nozione di «patrimonio universale dell’umanità», elaborata dall’Unesco e che sta conoscendo una grande fortuna, va
nello stesso senso, assumendo l’intera umanità come comunità
universale, nel senso già ricordato sopra: il che ovviamente non
nega l’esistenza di altre comunità particolari. Anche l’Icom (International Council of Museums) accoglie nel suo statuto la definizione di «testimonianze materiali e immateriali dell’umanità».
Proprio l’emergere di istanze universalistiche e lo stesso crescente sviluppo della
globalizzazione in
ogni campo, da quello
economico a quello
della comunicazione,
ha fatto crescere l’esigenza di una sottolineatura degli aspetti
identitari che caratterizzano una comunità,
anche e forse soprattutto a livello locale.
È degno di nota il fatto che questa esigenza, presente in ogni
luogo e in ogni tempo, abbia assunto in
questa fase storica la
forma della valorizzazione del patrimonio culturale. In altri
tempi questa esigenza
si esprimeva in modi
e con simboli assai
diversi: la bandiera e
l’inno nazionale; il
culto del sangue dei
martiri, religiosi o politici poco importa;
l’idea della superio-
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rità razziale e antropologica; quella della «necessità storica»
della vittoria di una classe sociale con l’eliminazione di tutte
le altre, e via elencando.
A proposito dei possibili aspetti degenerativi del principio
del patrimonio culturale come rappresentativo dell’identità
nazionale, c’è da rilevare come sia venuto modificandosi
l’atteggiamento dei belligeranti nei casi di conflitto. In
passato, fino alla seconda guerra mondiale, prevaleva un atteggiamento che tendeva a trascurare il significato simbolico
del patrimonio culturale a favore di considerazioni puramente
militari, appena temperate, in alcuni casi, da valutazioni e da
riflessioni di carattere culturale e talvolta politico. In altre
parole, i bombardamenti e le distruzioni massicce operate
durante la seconda guerra mondiale dai tedeschi sulle città
inglesi e dagli anglo-americani sulle città tedesche muovevano
da intenti puramente militari, fra i quali, oltre alla distruzione
della capacità economica del nemico, anche quello di fiaccare
la volontà di combattere e di resistere della popolazione
civile. Non sembra invece che si mirasse al patrimonio culturale con particolare intenzione, né di distruggerlo né di
preservarlo (a meno che, come si è detto, non intervenissero
particolari considerazioni).
Nessun simbolo come il patrimonio
culturale ha una così forte valenza
universale
Il Duomo di Colonia o il centro storico di Dresda non furono
distrutti perché assumevano un particolare valore simbolico;
semplicemente, rientravano nella tattica di distruzione integrale
delle città tedesche che gli anglo-americani perseguivano,
così come qualche anno prima avevano fatto i tedeschi con le
città inglesi. In certi casi – come per le città d’arte italiane,
Roma in primo luogo – intervenivano a risparmiarle, anche se
parzialmente, considerazioni di carattere politico: le ripercussioni sull’opinione pubblica dei propri paesi, o su quella cattolica in particolare.
In tempi più recenti invece, e con particolare riferimento alle
guerre nella ex-Jugoslavia, il patrimonio culturale è stato letto
e trattato proprio in funzione del suo significato simbolico: il
ponte di Mostar fu distrutto dai croati non per esigenze militari
ma perché rappresentava un simbolo delle tradizioni locali di
derivazione turco-islamica, ed era al tempo stesso un simbolo
di pace e di incontro fra diverse civiltà che in quel momento
veniva rifiutato in nome della lotta all’ultimo sangue fra etnie
nemiche. Ancora più di recente, per la Serbia è “impossibile”
riconoscere l’indipendenza del Kossovo, abitato per il 90% da
una popolazione albanese, perché in questa regione si trovano
i monumenti, in particolare monasteri, che stanno alla base
della storia e dell’identità serba.
Tuttavia sarebbe un errore ricavare da questi casi il rifiuto del
patrimonio culturale come segno di identità. Anzi, il fatto di
assumere il patrimonio culturale come simbolo dell’identità
locale o nazionale, invece di altri simboli necessariamente antagonistici come quelli sopra citati, apre la strada al riconoscimento reciproco del valore del patrimonio culturale altrui e
quindi delle diverse identità. Nessun simbolo come il patrimonio
culturale ha una così forte valenza universale.
La terza concezione si riferisce al valore economico del bene
culturale, insistendo proprio su quell’aspetto sottinteso nel
sostantivo «bene» o «patrimonio», indipendentemente dall’aggettivo. Questa dimensione economica può essere presa
in considerazione secondo varie modalità. La prima, e la più
ovvia, si riferisce proprio al valore monetario, di mercato, del
bene preso in considerazione. Le cronache sono piene di casi
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di opere d’arte (ma talvolta anche di strumenti musicali rari,
oppure di libri altrettanto rari) venduti all’asta per cifre
altissime. Questi episodi inducono nell’opinione pubblica
l’idea che ci sia un legame tra il valore monetario e quello artistico dell’opera, laddove è evidente che il primo è soggetto
alle norme che regolano lo scambio delle merci sul mercato
(rarità, utilità, ma anche gusto, moda ecc.), mentre il secondo
segue regole sue proprie, anch’esse soggette a variazioni, ma
secondo parametri propri.
Quello del valore del singolo bene è solo
un aspetto della dimensione economica
del patrimonio culturale, e nemmeno il più
importante
C’è da rilevare che grandi variazioni sono intervenute nel
mercato dei beni culturali a partire dagli inizi del XX secolo.
In precedenza, in un’epoca dominata dall’ideologia liberista,
le opere d’arte, i reperti archeologici, ecc. venivano comprati
e venduti in quasi totale libertà: erano considerati beni più o
meno come gli altri, e solo in determinati e rari casi (monumenti
nazionali) la loro vendita era soggetta a restrizioni. A partire
dall’inizio del XX secolo si diffuse l’idea che il patrimonio
culturale era fortemente connesso all’idea di identità nazionale,
e che quindi occorreva regolarne la possibilità di scambio
economico: in particolare era necessario restringere la possibilità
della sua esportazione all’estero. Nacquero così in Italia, ma
anche negli altri paesi, normative vincolistiche: la prima, per
il nostro paese, è la L. n. 185 del 12 giugno 1902 (Legge
Nasi), che pose un freno, anche se non assoluto, all’esportazione
delle opere d’arte.
La legislazione vincolistica si è andata progressivamente inasprendo, anche se non è mai stato posto un divieto assoluto
alla commerciabilità dei vari tipi di beni, specialmente verso
l’estero. L’istituto della notifica, introdotto nel 1909, ha comunque posto sotto controllo il commercio delle opere considerate di interesse artistico e storico. Questi vincoli hanno
fatto sì che per determinate tipologie di patrimonio culturale
(in particolare per le architetture) la dichiarazione di interesse
culturale finisca per abbassare notevolmente il suo valore di
mercato.
Ma quello del valore del singolo bene è solo un aspetto della
dimensione economica del patrimonio culturale, e nemmeno
il più importante. Maggiore rilevanza hanno tutte quelle
attività che sono in qualche modo connesse al patrimonio culmondoperaio 10/2014 / / / / saggi e dibattiti
turale e che si è soliti indicare con il termine di indotto. La più
visibile di queste attività è certamente il turismo culturale, che
è venuto assumendo negli ultimi decenni proporzioni gigantesche. All’antica pratica del grand tour, riservata ai giovani
delle famiglie aristocratiche e improntata a motivi di studio e
di educazione, si è sostituito un gigantesco intreccio di spostamenti e di viaggi che coprono tutto il pianeta. Le tipologie
del turismo culturale sono numerose e in continua evoluzione.
La più tradizionale è quella riferita alle città d’arte, i centri
che in Europa, e in particolare in Italia, raccolgono i monumenti
più noti e i musei più famosi. Ma negli ultimi anni si è sviluppato un turismo culturale che si indirizza in due direzioni opposte: da un lato c’è stata la progressiva scoperta del patrimonio
culturale “minore”, rappresentato da borghi, cittadine, castelli,
conventi e monasteri isolati, in precedenza appena sfiorati dal
turismo culturale. In questa tipologia di turismo un ruolo fondamentale è svolto dal paesaggio, che sempre più è oggetto di
particolare attenzione da parte di turisti il cui obiettivo è la ricerca di un ambiente diverso da quello standardizzato delle
città di residenza. Si tratta di un turismo che si dirige prevalentemente, anche se non unicamente, verso aree e luoghi non
lontani dalla località di residenza, che possono essere raggiunti
nel corso di una sola giornata o al massimo di un week end. Al
polo opposto si colloca la crescente scoperta di aree e località
esotiche, poste in paesi anche lontanissimi da quello di residenza.
Questo tipo di turismo mette in moto, naturalmente, spostamenti
di notevoli dimensioni e richiede un impiego di tempo (e di
denaro) piuttosto elevato. Alla base della crescita progressiva
di questo tipo di turismo c’è da un lato, da parte di un certo
tipo di pubblico, l’esaurimento delle mete più tradizionali;
dall’altro la scoperta che il patrimonio culturale non è presente
soltanto nelle zone di più antica e tradizionale civilizzazione,
in particolare in Europa, ma può essere scoperto in aree che
fino a non molto tempo fa erano mete soltanto di tipologie di
turismo molto particolari, ristrette a gruppi di persone limitati,
come i cultori dei safari ecc. Naturalmente ha concorso a
questa diffusione di un turismo culturale verso mete lontane il
progressivo abbassamento dei prezzi, soprattutto quelli dei
viaggi aerei, connesso prima alla pratica dei voli charter e poi
di quelli low cost.
È appena il caso di sottolineare quali e quanti settori economici
sono messi in movimento dalle tipologie di turismo culturale
sopra indicate. Si va dai trasporti (aerei, ferroviari, marittimi,
automobilistici) a tutta la rete dell’accoglienza e dell’ospitalità,
dagli alberghi ai ristoranti, dai bar agli agriturismo. Oltre alle
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attività specializzate, come quelle delle agenzie di viaggio e a
quelle delle guide, è tutta la rete commerciale delle città e
delle zone interessate che viene coinvolta, in quanto il turismo
esprime una domanda aggiuntiva rispetto a quella abituale dei
residenti: anzi è ben noto che esiste una maggiore propensione
al consumo quando si è fuori della propria area abituale di residenza.
A parte va considerata l’attività di quelle strutture che, per
loro natura, sono direttamente connesse al patrimonio culturale:
i musei innanzitutto, e poi l’organizzazione delle mostre.
Musei e mostre vanno considerate da un lato come occasioni
aggiuntive di richiamo rispetto a quello offerte dai monumenti
e dal paesaggio, dall’altro come strutture autonome che sviluppano una loro attività che ha una notevole rilevanza economica.
per occasioni di vario genere, dalle cene aziendali alle sfilate
di moda. Un’altra voce significativa delle entrate è costituita
dalle donazioni e dalle offerte volontarie, che spesso sono organizzate e sollecitate in forma assai elaborata. Infine, soprattutto nei musei europei, è fondamentale l’apporto costituito
dai contributi provenienti dagli enti pubblici, siano essi lo
Stato, le Regioni o gli enti locali. Al di là del dibattito sulla
possibilità che un museo possa essere gestito in pareggio per
mezzo delle sole risorse proprie, resta il fatto che la gestione
di un museo, oltre a una dimensione culturale, ne presenta una
strettamente manageriale.
Per le mostre valgono in larga misura riflessioni simili, con
alcuni aspetti, relativi ai costi e ai ricavi, analoghi, ed altri
specifici. Per i costi, ovviamente, una voce di particolare
La gestione di un museo, oltre a una
dimensione culturale, ne presenta una
strettamente manageriale
Un museo va considerato, oltre che come luogo di conservazione e di esposizione di collezioni e centro di attività culturale,
come soggetto di una serie molteplice di attività economiche
che lo rendono per certi aspetti simile a un’azienda commerciale, con i suoi costi e ricavi, le sue problematiche manageriali
ecc. Se i costi di un museo sono identificabili in quelli che
normalmente figurano in un’attività commerciale (personale,
energia, ecc.), a questi vanno aggiunti quelli che mirano alla
conservazione e al restauro delle opere. I ricavi sono di molteplice natura: prima di tutto la bigliettazione, che può assumere
le forme più raffinate e complesse; poi l’associazione al museo
(membership) che tende alla fidelizzazione del visitatore;
inoltre l’affitto degli strumenti di informazione, laddove non
siano gratuiti (audioguide ecc.). Una voce rilevante è costituita
dallo store (o bookshop, come viene impropriamente chiamato
in Italia), che nei grandi musei raggiunge non solo notevoli
dimensioni ma anche livelli di qualità assai elevati.
Ci sono poi ricavi derivanti dalle vere e proprie attività
culturali: visite guidate, conferenze, lezioni, concerti, cicli di
film, attività teatrali. In alcuni casi i musei si fanno promotori
e organizzatori di viaggi all’estero verso località considerate
di particolare attrattività culturale. Un’altra fonte di introito è
costituita dai ristoranti e caffetterie interni al museo, sia in
forma di gestione diretta che di diritti di concessione. Sempre
più spesso gli spazi dei musei vengono offerti a pagamento
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rilievo è costituita dai trasporti, dalle assicurazioni e dall’allestimento temporaneo, nonché dalle spese per promozione e
pubblicità. Per i ricavi sono meno rilevanti quelli derivanti da
un’attività permanente e continuativa come quella di un museo,
ma a compensare questi minori introiti stanno quelli derivanti
dall’aspetto di eccezionalità che ogni mostra, quale più quale
meno, assume: e quindi maggiore affluenza di visitatori, maggiore numero di biglietti venduti, maggiore vendita di tutta la
produzione accessoria, come i cataloghi, i poster, l’oggettistica
e in generale il merchandising, maggiore occasione di entrate
derivanti da sponsorizzazioni.
Se il turismo culturale e la gestione dei musei e delle
mostre sono gli aspetti più visibili della dimensione economica del patrimonio culturale, non si devono dimenticare
altre attività che, pur meno evidenti, tuttavia hanno anch’esse
ricadute economiche non trascurabili. Una dimensione economica la ha la stessa attività di catalogazione del patrimonio
culturale, svolta in Italia dalle Soprintendenze ma che coinvolge anche soggetti esterni ad esse, come ad esempio
gli esperti in elaborazione di programmi informatici e
anche gli stessi compilatori di schede.
Le tre dimensioni del patrimonio culturale,
ognuna delle quali ha in sé la sua legittimità,
possono degenerare, se intese
unilateralmente senza tener conto
delle altre due
Un’attività che in alcune realtà ha assunto un rilevante significato economico è quella del restauro. Il restauro, sia
pittorico e plastico che architettonico, ha da tempo superato
lo stadio artigianale - nel quale era prevalente l’abilità manuale del restauratore nonché ovviamente la sua preparazione
storico-artistica - per utilizzare tecniche informatiche di
elevato contenuto tecnologico. Ci riferiamo non solo all’esecuzione del restauro, ma anche e soprattutto alle analisi
diagnostiche che precedono il restauro stesso, e che ormai
coinvolgono competenze di altissimo livello.
Ognuna di queste tre dimensioni del patrimonio culturale ha una
sua validità e una sua legittimità. Anche se ciascuna di queste dimensioni ha una sua autonomia, si pone tuttavia il problema del
loro rapporto reciproco, e soprattutto quello di possibili collisioni
e contraddizioni a seconda che si privilegi l’una o l’altra. Viene
voglia di scomodare Platone, che distingueva le tre forme
legittime di governo (monarchia, aristocrazia, democrazia) dalle
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loro degenerazioni (tirannide, oligarchia, demagogia). Anche le
tre dimensioni del patrimonio culturale, ognuna delle quali ha in
sé la sua legittimità, possono degenerare, soprattutto se intese
unilateralmente senza tener conto delle altre due.
Così è evidente che assumere la dimensione economica come
la sola, o comunque quella prevalente, nel guidare le scelte
della politica dei beni culturali e la gestione delle strutture ad
essi inerenti porta a gravi degenerazioni, che hanno come
conseguenza il rischio del depauperamento dello stesso patrimonio. Ciò è particolarmente evidente nel caso del paesaggio,
dove uno sfruttamento senza regole del medesimo porta alla
conseguenza, purtroppo ben visibile in un notevole numero di
casi, della perdita o comunque del degrado proprio di quei
valori paesaggistici che si volevano sfruttare.
Anche la definizione identitaria del patrimonio culturale può
portare a degenerazioni. Ne abbiamo già visto alcuni esempi,
ma più in generale è la dimensione stessa dell’identità che
può condurre a gravi degenerazioni. La storia degli ultimi due
secoli è purtroppo ricca di insegnamenti in questo senso, partendo dalle spoliazioni compiute dai francesi in età napoleonica
a danno dei paesi occupati fino agli esempi sopra citati, ai
quali altri si potrebbero aggiungere.
Il sentimento dell’identità, irrinunciabile in ogni persona, può
condurre all’egoismo e all’insensibilità verso il prossimo. Così
per i popoli o le comunità: il diritto a coltivare e a difendere la
propria identità può trasformarsi in chiusura o addirittura in
ostilità verso le identità altrui. D’altra parte abbiamo già detto
che le identità fondate sul patrimonio culturale sono le più
aperte, le più disponibili ad accogliere i valori identitari di altre
comunità, perché il patrimonio culturale è meno disponibile di
altre forme simboliche ad essere letto attraverso i moduli dell’intolleranza e della chiusura, e rinvia invece a forme universali,
sia pure comprese nei loro contesti storici.
I rischi inerenti alle dimensioni economica e identitaria del patrimonio culturale sono abbastanza evidenti, e quindi è più agevole
prendere le necessarie contromisure. Meno evidente e più sottile
è il rischio legato ad un’altra unilateralità, quella che assume
come esclusiva la dimensione inerente a ciascuna tipologia di patrimonio culturale. È più sottile perché è evidente la legittimità di
assumere come criterio di valutazione di ciascuna tipologia criteri
elaborati all’interno della tipologia stessa. Ogni ramo del sapere
e della conoscenza ha un suo proprio statuto, ed è questo statuto
che consente il dialogo fra competenze e fra saperi.
Il problema nasce quando si pretende di imporre questo statuto
anche a dimensioni del patrimonio culturale che sono esterni
alla logica propria di ciascuna tipologia. Che gli storici dell’arte
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elaborino una loro propria teoria relativa non solo agli aspetti
estetici ma anche alle tecniche della conservazione e del
restauro non solo è legittimo ma è del tutto necessario. Ma
non è più legittimo pretendere che questa dimensione interna
alla cultura storico-artistica sia l’unica possibile, e in nome di
questo esclusivismo rifiutare di prendere in considerazione la
dimensione identitaria del patrimonio culturale o addirittura
rifiutare in partenza ogni considerazione della dimensione
economica dello stesso.
Solo uscendo da una logica basata
sull’esclusivismo delle proprie ragioni si può
andare oltre una logica che appare ancora
fortemente condizionata da pregiudizi
ideologici o all’opposto da mancanza
di principi
Il rifiuto della dimensione identitaria porta alla conseguenza
di considerare il patrimonio culturale come un affare esclusivo degli addetti ai lavori, intendendo con ciò soltanto gli
specialisti di una determinata disciplina, e a trascurare
quindi la dimensione del pubblico, cioè dei cittadini, dell’intera comunità, che anche se privi di conoscenze specialistiche sono fortemente interessati al patrimonio culturale
e alla sua conoscenza. Di fatto questa cultura porta a un atteggiamento di tipo elitario, che nega di fatto ogni validità
alla dimensione educativa: alla diffusione fra i cittadini
della conoscenza del patrimonio culturale, intesa appunto
come patrimonio comune di tutta la comunità. Porta anche,
come ulteriore conseguenza, a considerare validi sul piano
scientifico soltanto quei rami del sapere interni alla tipologia
considerata e a trascurare altri saperi (per esempio, la sociologia, la psicologia, la scienza della comunicazione) che
possono dare un valido aiuto alla diffusione della conoscenza
del patrimonio culturale.
Più drastico ancora, e più carico di significati ideologici, è il
rifiuto di accettare la dimensione economica del patrimonio
culturale, perché si accompagna a una serie di tesi legate al rifiuto della mercificazione del sapere, del condizionamento
capitalistico non solo della produzione economica ma anche
dell’espressione culturale, e altri simili rifiuti, che si basano
su una concezione antagonistica della società contemporanea
che viene rifiutata in toto in quanto condizionata e succube
della forma di produzione capitalistica. Colpisce il fatto che
una simile cultura, ereditata dal periodo dell’egemonia culturale
del marxismo, sia ridotta a dimensioni minoritarie in qualunque
altro campo salvo, forse, in quello del patrimonio culturale,
nel quale la difesa contro ogni forma di inquinamento capitalistico si sposa strettamente con la difesa della sua purezza,
eredità di un’epoca precapitalistica.
Aspetti positivi e aspetti negativi di questi rifiuti si intrecciano
in maniera che appare indissolubile. Per orientarsi in questo
che appare un labirinto inestricabile occorre assumere un atteggiamento fortemente pragmatico, che si appoggi da un lato ad
alcuni principi ma che rifiuti anche ogni pregiudiziale di carattere
ideologico. I principi che appaiono irrinunciabili sono abbastanza
evidenti, e alla fine si riducono ad uno: che ogni uso del patrimonio culturale non comporti il deterioramento e il degrado del
medesimo. Fatto salvo questo principio, ogni altro tipo di
azione dovrà essere esaminato e valutato sulla base di orientamenti pragmatici che tengano conto di tutte e tre le dimensioni
sopra enunciate. Occorre che fra studiosi e operatori che
agiscono nelle tre dimensioni messe in evidenza si crei un
clima basato sullo sforzo di comprendere le ragioni degli altri,
anche se sono lontane dall’impostazione culturale nella quale si
sono formati. È difficile per lo storico dell’arte e per il funzionario
di Soprintendenza accettare che esiste anche una dimensione
economica del patrimonio culturale che va tenuta presente e
non demonizzata a priori, anche se le ragioni della tutela devono
sempre essere considerate prioritarie. È difficile per un operatore
economico che agisce nell’ambito dei beni culturali comprendere
talvolta le ragioni degli addetti alla tutela, che sembrano porre
inutili pastoie all’esercizio di un’attività da essi considerata legittima. È difficile per entrambe queste categorie, addetti alla
tutela e operatori economici, comprendere che esiste un interesse
del pubblico, dei cittadini, alla conoscenza del patrimonio culturale come espressione fondamentale dell’identità di una comunità che tende a prescindere sia dalle ragioni tecniche della
tutela che da quelle dell’interesse economico.
Solo uscendo da una logica basata sull’esclusivismo delle
proprie ragioni, dovuta da un lato all’eredità dell’antica impostazione idealistica basata sul principio della gerarchia dei
valori e sul primato del valore estetico, dall’altra ad una
cultura dell’iniziativa economica che tiene scarso conto della
specificità del campo del patrimonio culturale, si può andare
oltre una logica che appare ancora fortemente condizionata da
pregiudizi ideologici o all’opposto da mancanza di principi,
per approdare a una cultura pragmatica, capace di promuovere
una collaborazione fra tutti coloro che a vario titolo operano
nel campo della tutela e della valorizzazione del patrimonio
culturale.
mondoperaio 10/2014 / / / / saggi e dibattiti
/ / 58 / /
>>>> aporie
Risse non negoziabili
>>>> Andrea Romano
I
l 6 ottobre le “Sentinelle in piedi” che manifestavano a Napoli
hanno incontrato una colorata e colorita protesta a opera dei
manifestanti di segno contrario. L’episodio si è segnalato per il
vivace dialogo fra contro-manifestanti e sentinelle, e per aver
messo in risalto il tipo di partita che in realtà si sta giocando:
quella dei temi “non negoziabili”, vulnus cromosomico della
democrazia. Possiamo mediare su tutto, ma su vita e morte no.
I due punti di vista sono ugualmente comprensibili, ma allo
stesso tempo entrambi poggiano su un arrière-pensée farlocco e
analfabeta. Le sentinelle ritengono che la famiglia debba essere
composta da uomo e donna che procreano, i contro-manifestanti
ritengono che le coppie di omosessuali debbano godere dei
medesimi diritti dei cittadini eterosessuali (quindi anche sposarsi civilmente e adottare).
Ma, per quanto riguarda le sentinelle, l’asserto che famiglia e
genitorialità abbiano diritto di esistere solo all’interno dell’eterosessualità è palesemente mutuato dalla sfera religiosa, che in
uno Stato di diritto è tutelata, ma per fortuna limitata. La Bibbia
dice tante cose e un fedele dovrebbe rispettarle tutte, ma poi c’è
sempre una selezione e ci ritroviamo fra i piedi i soliti adepti
della “religione fai-da-te” oggi in voga grazie alla sistematica
ignoranza dei precetti: si difende la vita, ma poi siamo uno dei
paesi più corrotti del mondo (il “non rubare” non è mai stato
molto popolare). Insomma sono interlocutori incoerenti che la
girano un po’ come vogliono e che non sono molto versati nell’argomentazione teoretica (“Dio ha creato Adamo ed Eva, non
Adamo e Adamo” o “La Natura ci ha fatti maschi e femmine”,
e altre chicche da sussidiario dell’anteguerra).
Mentre, per quanto riguarda i contro-manifestanti, la loro mentalità emerge chiaramente dalla frase che uno del gruppo indirizza
alle sentinelle: “Scopate di più”, come se tutto si riducesse a una
scarsa attività sessuale, che sarebbe come dire che il 41/bis è
stato introdotto perché il legislatore usciva poco di casa. Lo “scopate di più” è il parente povero (per non dire il parente stupido)
di quella forma mentis che derubrica a “rosicamento” ogni critica al proprio operato e alle proprie convinzioni. “Brutta cosa
l’invidia!” è il ritornello dei coatti sotto assedio: Berlusconi lo
diceva ai comunisti invisibili; Matteo Renzi risponde di non
gufare, come se le critiche gli fossero mosse unicamente per antimondoperaio 10/2014 / / / / aporie
patia e non per un ragionamento ponderato. Tutti modi per non
dover dare conto delle proprie insufficienze a chi le mette in luce.
Le sentinelle che stanno lì a difendere la famiglia (come se qualcuno volesse proibire il matrimonio fra etero) forse ignorano
che dove da tempo i gay adottano si è notato che i loro figli non
solo non manifestano maggiori problemi dei bambini appartenenti a coppie eterosessuali, ma che addirittura mostrano una
più marcata sensibilità nei confronti delle istanze del prossimo.
Del resto ci sarebbe da chiedersi quali problemi dovrebbero
venire a crearsi nel bambino stando a contatto con dei genitori
omosessuali: c’è forse il rischio che diventi omosessuale a sua
volta? Se fosse questo il problema dovremmo concludere che
sono le famiglie etero a portare all’omosessualità, visto che tutti
i gay fino a poco tempo fa hanno avuto un padre e una madre.
Viceversa, se i problemi dovessero essere di altra natura,
dovremmo comunque fare il paragone col modello eterosessuale, che non è certamente tutto rose e fiori.
Ai contro-manifestanti dovremmo rispondere che il loro approccio
alla faccenda è elementare e destrutturato, senza nessuna profondità, semplicistico rispetto alle questioni che tira in causa, asservito
alla censura democratica del dissenso (la gente contestata, fino a
prova contraria, gode della libertà d’espressione e d’opinione,
almeno finché non tracima nell’offesa gratuita). Rispondere “scopate di più” significa non aver capito il problema di diritto che si
pone in essere e che riguarda i diritti del nascituro: se prima gli toccava nascere in una famiglia eterosessuale, oggi c’è un bivio che
lo riguarda molto da vicino e lo coinvolge esistenzialmente, ma su
cui non può pronunciarsi: un po’ come se i genitori potessero deciderne il sesso prima della nascita. Non è un problema etico (gli attivisti ci sono cascati per rimbeccare la Chiesa, ma prima o poi bisognerà dirglielo), bensì di diritto, e i sostenitori dell’adozione-gay
(espressione giornalistica che non significa nulla, come “divanogay” o “becco di Bunsen-gay”) si mostrano spesso totalmente
impreparati a sviscerare questo punto, che non si risolve stendendo
al balcone una bandiera arcobaleno.
Ma siccome sono temi non negoziabili non ci sarà mediazione
e confronto. Ci sarà solo uno scontro dove vincerà la superiorità
numerica, la potenza d’impatto e il peso economico-elettorale di
uno dei contendenti: e non i valori, come credono i semplici.
/ / 59 / /
>>>> eugenio colorni
Soprattutto socialista
>>>> Andrea Becherucci
F
ederalista, antifascista, filosofo, esponente di spicco dell’intellettualità ebraica tra le due guerre, ma soprattutto
socialista: tante sono le manifestazioni dell’uomo e della sua
attività nella pur breve esistenza che la sorte gli ha riservato.
Eugenio Colorni nacque a Milano il 22 aprile 1909 da una famiglia della borghesia ebraica. La cerchia delle relazioni, parentali e amicali lo mise ben presto in contatto con alcune
delle più importanti famiglie dell’ebraismo italiano (tra i
cugini vi erano i Pontecorvo, i Sereni, gli Ascarelli e i Tagliacozzo). Dopo la fine della prima guerra mondiale Eugenio e
la sorella Silvia persero il padre a causa dell’epidemia di
“spagnola”.
Eugenio frequentò il liceo classico “Manzoni” a Milano e
s’iscrisse, poi, alla facoltà di filosofia, laureandosi nel
1930 con una tesi, discussa con Piero Martinetti su
Sviluppo e significato dell’individualismo leibniziano.
Negli anni dell’università rimase legato in particolare a
Piero Martinetti e Giuseppe Antonio Borgese1. Sia Martinetti che Borgese saranno, nel dicembre 1931, tra i dodici
docenti universitari che rifiutarono il giuramento di fedeltà
1
S. GERBI, Ebreo suo malgrado, in Eugenio Colorni e la cultura italiana
fra le due guerre, a cura di G. Cerchiai e G. Rota, Lacaita, 2011, pp. 5761, Id., Tempi di malafede. Guido Piovene ed Eugenio Colorni. Una
storia italiana tra fascismo e dopoguerra, Hoepli, 2012, pp. 23-46,
nuova ed., (I ed. 1999). Si veda anche il ritratto pionieristico di Elvira
Gencarelli, Profilo politico di Eugenio Colorni, in Mondoperaio, n. 7,
luglio 1974, pp. 49-54, le voci biografiche redatte dalla stessa Gencarelli
per il Dizionario biografico del movimento operaio italiano, a cura di F.
Andreucci e T. Detti, Editori Riuniti, 1976, vol. II e da E. Garin per il Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, vol.
XVII, 1982 ora anche in rete all’indirizzo http://www.treccani.it/enciclopedia/eugenio-colorni_(Dizionario-Biografico)/ e il contributo di N.
Bobbio su Colorni presente nella raccolta Maestri e compagni, Passigli,
1984, pp. 203-237 (riprende l’introduzione bobbiana al volume degli
Scritti di Colorni curato dal filosofo torinese per La Nuova Italia nel
1975). Fondamentale anche lo scritto autobiografico di Colorni La
malattia della metafisica, disponibile ora nel volume La malattia della
metafisica. Scritti filosofici e autobiografici, a cura di G. Cerchiai,
Einaudi, 2009, pp. 10-44.
La vita spezzata
di Eugenio Colorni
E
ugenio Colorni, nato in famiglia ebraica a Milano il
22 aprile 1909, è stato fin da giovane un appassionato e pionieristico studioso di filosofia e soprattutto di
filosofia della scienza. Dopo un viaggio a Berlino nel
1931 in cui conobbe Benedetto Croce e la giovane ebrea
berlinese Ursula Hirschmann (sorella del Premio Nobel
Albert Hirschmann), che sposò. Insegnò filosofia in
varie città, tra cui Trieste, legandosi tra gli altri a
Umberto Saba. Ma anche cominciò la frequentazione
dei Gruppi goliardici per la libertà che facevano capo a
Lelio Basso e a Rodolfo Morandi.
A partire dal 1935 cresce il suo impegno politico nella
lotta antifascista. Quando il fascismo annienta il gruppo
torinese di Giustizia e Libertà, Colorni stabilisce un rapporto con il Centro interno socialista di Milano
(Morandi, Basso, Luzzatto, Maffi e altri), diventandone
uno dei principali dirigenti. A Parigi nel 1937 per il congresso internazionale di filosofia, incontra Carlo Rosselli, Angelo Tasca e Pietro Nenni e comincia a scrivere
su Politica socialista e Nuovo Avanti!. Arrestato a Trieste nel 1938 come ebreo e antifascista, va in carcere a
Varese e viene condannato a cinque anni di confino. Dal
1939 al 1941 è così al confine di Ventotene, con Ernesto
Rossi, Manlio Rossi Doria e Altiero Spinelli. Su questa
stagione della sua vita scrive con Spinelli (pubblicati
postumi) i sette Dialoghi di Commodo. Aderisce alle
idee federaliste e sarà lui a scrivere la prefazione e a
curare poi la diffusione del Manifesto di Ventotene che
Rossi e Spinelli elaboreranno nel 1941.
Grazie a Giovanni Gentile (nella cui collana della Sansoni escono sue traduzioni e interpretazioni di Leibnitz)
ottiene il trasferimento al confino di Melfi, dove arriva
nel 1941 e da cui fugge il 6 maggio del 1943 (riuscendo
tuttavia nel 1942 ad elaborare a distanza, con Ludovico
mondoperaio 10/2014 / / / / eugenio colorni
/ / 60 / /
imposto dal regime2. In questi anni Colorni pubblicherà
un articolo dedicato a Roberto Ardigò sulla rivista Pietre,
pochi mesi prima della chiusura da parte delle autorità
(aprile 1928).
Durante le vacanze estive, frequentemente trascorse insieme, il
giovane Eugenio si confrontò spesso in brillanti disquisizioni politiche e filosofiche con i tre cugini Sereni, Enrico (1899-1930),
Enzo (1905-1944) ed Emilio (1907-1977). Tutti e tre orientati
politicamente a sinistra (Emilio, studioso di storia dell’agricoltura,
sarà attivo nella Resistenza e dirigente del Pci nel dopoguerra),
ebbero grande influenza sulla formazione del cugino di poco più
giovane. In particolare Enzo Sereni fece in modo di coinvolgerlo
nelle prime esperienze del sionismo italiano; tuttavia dopo pochi
anni Eugenio si rese conto che il suo interesse per la ricerca delle
proprie radici ebraiche si stava affievolendo mentre si faceva
sempre più vivo in lui il richiamo della politica italiana3.
Il vero sforzo di elaborazione doveva
prodursi dall’interno
Si avvicinò alla militanza politica intorno al 1930. Inizialmente,
in un percorso non dissimile da quello di altri giovani, si
schierò sulle posizioni di “Giustizia e Libertà”, in un itinerario
molto fluido tra le varie componenti dell’antifascismo democratico non comunista che vedeva spesso fenomeni di osmosi
tra un gruppo e l’altro. Lo stesso Rodolfo Morandi era passato
attraverso varie vicissitudini che lo avevano visto prima nelle
file repubblicane e poi in quelle di GL4. Vi sono prove e testimonianze dell’impegno di Colorni nella diffusione della
stampa giellista e di contatti con il gruppo torinese che faceva
capo a Leone Ginzburg e Vittorio Foa.
Quando nel 1934 a Milano fu presa l’iniziativa di fondare un
Centro interno socialista da parte un gruppo ristretto di militanti
2
3
4
5
6
H. GOETZ, Il giuramento rifiutato. I docenti universitari e il regime fascista, La Nuova Italia, 2000, G. BOATTI, Preferirei di no. Le storie dei
dodici professori che si opposero a Mussolini, Einaudi, 2001.
Numerosi sono i riferimenti a Colorni nel carteggio tra i fratelli Sereni.
Cfr. Enzo Sereni, Emilio Sereni, Politica e utopia. Lettere 1926-1943, a
cura di D. Bidussa e M.G. Meriggi. La Nuova italia, 2000.
A. AGOSTI, Rodolfo Morandi. Il pensiero e l’azione politica, Laterza,
1971, pp. 137-170, Id., Colorni e il Centro interno socialista, in Eugenio
Colorni dall’antifascismo all’europeismo socialista e federalista, a cura
di M. Degl’Innocenti, Lacaita, 2010, p. 150.
L. RAPONE, L’età dei fronti popolari e la guerra (1934-1943), in Storia
del socialismo Italiano diretta da G. Sabbatucci, vol. IV, Il Poligono,
1981, pp. 179-411.
A. AGOSTI, Colorni e il Centro interno socialista, in Eugenio Colorni
dall’antifascismo all’europeismo socialista e federalista, cit., p. 153.
mondoperaio 10/2014 / / / / eugenio colorni
Geymonat, il progetto di una rivista di metodologia
scientifica). Latitante a Roma, organizza il Psiup
(fusione del Psi con il Movimento di unità proletaria),
partecipa nell’agosto del ’43 alla riunione di fondazione
del Movimento federalista europeo a Milano in casa di
Mario Alberto Rollier, e si trasferisce a Roma per lo sviluppo della attività nella Resistenza. Ricostruisce la
Federazione giovanile socialista, riorganizza e diffonde
l’Avanti!, partecipa alla creazione della prima Brigata
Matteotti. Muore all’Ospedale San Giovanni il 30 maggio del 1944, due giorni dopo essere stato oggetto di tre
colpi di pistola da parte dei militi della banda Koch.
Medaglia d’oro al valor militare nel 1946.
Sulla sua vita politico-intellettuale, Leo Solari, Eugenio
Colorni. Ieri e sempre, Marsilio 1980. Sul suo pensiero
filosofico, La malattia della metafisica. Scritti filosofici
e autobiografici, a cura di Geri Cerchiai, Einaudi, 2009.
Su entrambi i profili, Norberto Bobbio, Maestri e compagni, Passigli, 1984.
comprendente Rodolfo Morandi, Lucio Luzzatto, Lelio Basso
e Bruno Maffi, sembrò ovvio che fosse necessario far ripartire
l’azione appoggiandosi ad una struttura clandestina capace di
affrontare su basi nuove la costituzione di una forza che si richiamasse al socialismo. Sarebbe stato possibile, in questo
modo, ripartire da zero, facendo tabula rasa degli errori del
passato.
Il Partito socialista aveva creato a Parigi nel 1927, in collaborazione con altre forze, la Concentrazione antifascista, mentre
nel 1930 Psi e Psu, su sollecitazione di Nenni e Saragat, si
erano unificati. Un accordo con Giustizia e libertà, siglato nel
1931, aveva delegato tuttavia a Gl l’iniziativa socialista in
Italia; ma nel 1934 il Partito socialista aveva riaperto il dialogo
coi comunisti e in agosto aveva siglato quel patto d’unità d’azione che anticipò la svolta dei fronti popolari5. La nuova connotazione classista assunta dal Psi favoriva, insieme ad altri
fattori contingenti, «un carattere “aperto”, spregiudicato, all’interno del quale assai più facilmente che nel Pcd’I si sarebbe
potuta affermare una nuova concezione di un partito in fieri,
in una posizione di critica nei confronti del passato e del presente»6.
In un documento interno del dicembre 1935 indirizzato
dal centro socialista interno alla Direzione del Psi era
fatto il punto della situazione quale si presentava in Italia.
Nel rapporto venivano illustrati i punti principali della
strategia da adottare per recuperare il consenso delle masse
/ / 61 / /
popolari. Era messo in rilievo lo stato di sbandamento
delle masse, facile preda della propaganda fascista. La
presenza di una tale situazione rendeva indispensabile – al
di là di espedienti agitatori (di marca comunista) o attivistici
(di segno giellista) – riprendere il lavoro di educazione
politica delle masse in senso socialista. Per farlo occorreva
però la formazione di quadri in grado di influire sull’orientamento delle masse. Il lavoro che si richiedeva non
poteva essere svolto da un altro paese o mediante inviati
dall’estero. Il vero sforzo di elaborazione doveva prodursi
dall’interno. Questo faticoso lavoro di ricucitura avrebbe
richiesto tempo e la disponibilità ad impegnarsi in uno
sforzo di preparazione politica con la messa a punto di un
“orientamento politico comune” in un confronto serrato
con i compagni dell’emigrazione7.
Nel documento si faceva poi riferimento al rifiuto di un fronte
popolare “alla francese”, ma s’invocava la possibilità d’integrare
sulla base d’un programma condiviso anche alcune formazioni
politiche di segno “borghese” che avessero dimostrato “di
aver rinunciato alle posizioni privatistiche del vecchio liberalismo”, e perfino taluni esponenti del liberalismo prefascista:
con ciò provocando la reazione polemica di Morandi, che vedeva in questa “contaminazione” un potenziale pericolo d’inaridimento della politica classista.
Ogni forma di collaborazione
non poteva andare oltre
alla comune battaglia per la riconquista
delle libertà democratiche
Nel 1935 Colorni - che aveva sposato Ursula Hirschmann,
un’ebrea berlinese allevata come protestante che militava in
un’organizzazione studentesca rivoluzionaria, e da cui avrà
tre figlie, Silvia, Renata ed Eva - abbandonò Gl e iniziò, a
Trieste, dove insegnava all’Istituto magistrale Carducci, ad
avvicinarsi al Centro interno socialista, in cui cominciò ben
presto ad operare clandestinamente. In questo stesso torno di
tempo collaborò a Padova con Eugenio Curiel8. La sua linea
era ben espressa nella nota che indirizzò alla Direzione del Psi
nel febbraio-marzo 1936. In questo documento erano illustrate
dal giovane dirigente politico alcune osservazioni riguardo a
due problemi: i termini e i limiti entro cui era legittimo instaurare rapporti di collaborazione con i partiti borghesi e le
forme di cooperazione da stringere con gli altri partiti della sinistra operaia.
Quanto al primo dei due problemi, Colorni precisò che la collaborazione con le forze politiche antifasciste d’ogni altra tendenza che non fosse quella della sinistra classista doveva
basarsi su poche ma precise regole: ogni forma di collaborazione
non poteva andare oltre alla comune battaglia per la riconquista
delle libertà democratiche. Diversa avrebbe potuto essere la
situazione nella costituzione di un vero e proprio fronte
popolare che avesse visto la partecipazione delle classi medie;
dal momento, però, che l’attualità non consentiva di prevedere
gli sviluppi di un’eventuale collaborazione con le classi medie
(al momento irrealizzabile per la mancanza dei suoi presupposti), del problema ci si sarebbe fatti carico solo se e quando
le condizioni per quest’alleanza si fossero verificate.
Ben più complessa risultò essere la “collaborazione competitiva” con il Partito comunista. In questo caso Colorni raccomandò al partito socialista di dedicarsi con efficacia alla preparazione rivoluzionaria. Quest’ultima doveva possedere un
carattere spiccatamente di classe e avrebbe dovuto coinvolgere
«tutti coloro che dal fascismo, dal capitalismo e dalla guerra
hanno da soffrire non solo in quanto uomini pensanti, ma
nelle loro persona, nei loro interessi concreti e quotidiani»9.
La conquistata consapevolezza che il fascismo era la ragione,
diretta o indiretta, delle loro sofferenze avrebbe inevitabilmente
portato le masse alla ribellione contro il regime. In questa battaglia era ragionevole, per Colorni, servirsi di ogni mezzo,
lecito o illecito, dal più insignificante al più organizzato; né
dovevano essere trascurate le manifestazioni di dissenso suscitate da rivendicazioni di tipo economico.
Restava da risolvere il problema del rapporto tra socialisti e comunisti, tra “formazione di quadri” e “lavoro di massa”. Il Fronte
unico continuamente invocato dai comunisti non poteva, per Colorni, «limitarsi a ricercare l’adesione di questo o quel gruppo di
lavoratori del Partito alleato, per una particolare azione»10. Era richiesta, piuttosto, una linea d’azione condivisa, sedimentata in
strutture durevoli con la «formazione comune di organi dirigenti»11.
7
Il Centro socialista interno alla Direzione del PSI, dicembre 1935, in
Documenti inediti dell’archivio Angelo Tasca. La rinascita del socialismo
italiano e la lotta contro il fascismo 1934-1939, a cura di S. Merli, Feltrinelli, 1963, (Pubblicazioni dell’Istituto Giangiacomo Feltrinelli), pp.
153-154.
8 G. FRESU, Eugenio Curiel. Il lungo viaggio contro il fascismo, Odradek,
2013, in particolare le pp. 52-64.
9 Agostini (E. Colorni) alla Direzione del PSI, febbraio-marzo 1936, in
Documenti inediti dell’archivio Angelo Tasca. La rinascita del socialismo
italiano e la lotta contro il fascismo 1934-1939, cit., p. 190.
10 Ivi, p. 191.
11 Ibidem.
mondoperaio 10/2014 / / / / eugenio colorni
/ / 62 / /
L’amicizia fra i tre uomini, Colorni, Spinelli
e Rossi, non sboccerà immediatamente,
ma avrà bisogno di tempo per maturare
Quando nell’agosto 1936 il Partito comunista lanciò dalle pagine de Lo Stato operaio la politica della mano tesa ai “fratelli
in camicia nera”, Colorni reagì alla provocazione con un
articolo che apparve sul Nuovo Avanti! nell’ottobre dello
stesso anno. In questo scritto analizzò la proposta di collaborazione con i fascisti in termini critici: non era possibile
prendere contatti con militanti del regime, seppur insoddisfatti,
proponendo un’alleanza tattica dichiarandosi per quello che si
era in realtà (ossia oppositori irriducibili del fascismo). Un
tale approccio avrebbe potuto condurre, per Colorni, soltanto
alla carcerazione. Si sarebbe potuto invece provare a sollecitare
i fascisti di “sinistra” delusi a unirsi alla protesta per la
mondoperaio 10/2014 / / / / eugenio colorni
mancata realizzazione delle promesse contenute nel programma
fascista di Piazza San Sepolcro del 1919: ma sarebbe occorso
troppo tempo perché le conseguenze di tale presa di coscienza
potessero maturare nella società italiana. Sarebbe stata, però,
possibile «la propaganda non presso i fascisti, ma nell’ambito
del fascismo12; in questo modo si sarebbe potuto far passare
messaggi e parole d’ordine di classe e sarebbe stato più
semplice evidenziare le contraddizioni del regime. Colorni
concluse che per fare «questo non è però necessario né opportuno accordarsi col fascismo. Basta porsi sul suo terreno e riconoscerlo come il normale stato di cose esistente, propugnando
il cambiamento all’interno di esso, senza peraltro dimenticare
la nostra essenza e i nostri ultimi fini»13.
Del resto il rapporto di Colorni con i comunisti è ben sintetizzato
da Gaetano Arfè, secondo cui anche dopo il varo della politica
dei fronti popolari da parte del VII congresso dell’Internazionale
comunista Colorni tiene ferme le sue riserve nei confronti
dello stalinismo, riafferma le ragioni dell’autonomia socialista,
porta nell’azione la generosa fiducia nel fatto che l’unità d’azione, in quanto vale a spegnere la rissa tra i due partiti operai
e a sbarazzare il terreno dal settarismo comunista, darà la
spinta necessaria, inarrestabile perché rispondente a una necessità politica, alla formazione di un possente movimento
unitario che potrà consentire alle masse di sviluppare per
intero il loro potenziale rivoluzionario14.
Nell’aprile 1937 la rete clandestina del Centro interno socialista
fu sconvolta da una serie di arresti che videro poi deferiti al
Tribunale speciale, tra gli altri, Rodolfo Morandi e Lucio
Luzzatto. Nell’estate dello stesso anno Colorni si recò a Parigi
con la copertura della partecipazione a un congresso internazionale di filosofia, in realtà con l’intenzione di prendere contatto con i compagni presenti nella capitale francese per ricostituire nuovamente il Centro interno, di cui diventerà il nuovo
responsabile. La polizia era però già sulle sue tracce. Rientrato
in Italia, perse il lavoro d’insegnante a Trieste per l’emanazione
delle leggi razziali e l’8 settembre del 1938 fu arrestato. Condannato a cinque anni di confino, fu inviato a scontarli a Ventotene.
12 Agostini (E. Colorni), Intorno al manifesto del PCdI. La lotta all’interno
del fascismo, in Il Nuovo Avanti!, Parigi, 31 ottobre 1936, ora in S.
MERLI, Fronte antifascista e politica di classe. Socialisti e comunisti in
Italia, 1923-1939, De Donato, 1975, p. 115.
13 Ibidem.
14 G. ARFE’, Eugenio Colorni l’antifascista, l’europeista, in Matteotti,
Buozzi, Colorni perché vissero, perché vivono, a cura di A. Forbice,
Franco Angeli, 1996, p. 68.
/ / 63 / /
Sull’isola pontina si aprì una nuova fase dell’esistenza e
della riflessione di Colorni. Il giovane intellettuale vi sbarcò
nei primi giorni del gennaio 1939 dopo aver già fatto alcuni
mesi di carcere tra Trieste e Varese. Pochi mesi dopo, a
luglio, si concentrò a Ventotene – a causa del trasferimento
da Ponza – un gran numero di detenuti politici di spicco, tra
cui molti comunisti (mentre il giellista Ernesto Rossi arriverà
in ottobre). Tra i comunisti c’è anche un uomo che cerca
uno sbocco nuovo alla sua riflessione teorica e politica: si
tratta di Altiero Spinelli. L’amicizia fra i tre uomini, Colorni,
Spinelli e Rossi, non sboccerà immediatamente, ma avrà bisogno di tempo per maturare. Spinelli è forse quello più segnato dalle esperienze del carcere e del confino, anche
perché il suo progressivo distacco dal marxismo aveva
portato alla sua espulsione dal Pci. Come ben rilevato dal
biografo di Spinelli, questa circostanza ne aveva fatto una
sorta di “non-persona” agli occhi dei compagni di prigionia
rimasti fedeli alle direttive del partito15.
Circondato dal sospetto tra i dirigenti,
il messaggio federalista fu invece accolto
con interesse tra i più giovani
Quando l’amicizia fra i tre si fece più stretta, cementata, oltre
che dalla simpatia umana, anche dalla condivisione degli interessi di studio, si trasformò in un vero e proprio cenacolo.
Sull’isola si respirava un clima da reclusione (non bisogna
mai dimenticarlo): eppure talvolta questo era rallegrato da
scherzi e battute che accompagnavano il trascorrere dei giorni.
Poi lentamente l’atmosfera mutò lasciando uno spazio sempre
maggiore al lavoro politico. Siamo nel 1941, quando da una
serie di serrati confronti tra i tre amici avrà origine il documento
Per un’Europa libera e unita. Progetto d’un manifesto (più
conosciuto in seguito come Manifesto di Ventotene) che
Colorni curerà e di cui scriverà l’introduzione nella prima
edizione uscita clandestinamente a Roma nel 1944 edita dal
Movimento italiano per la federazione europea. Purtroppo per
troppi anni, grazie anche a una lettura sommaria e tendenziosa
della memorialistica fin lì disponibile, le ricostruzioni di cui
disponevamo lo davano come frutto dell’elaborazione intellettuale dei soli Spinelli e Rossi. Al contrario, come ricorda
Graglia, “di trinità si tratta, e lo spirito santo della situazione è
Eugenio Colorni, che partecipò alle discussioni preparatorie
alla stesura del Manifesto assieme a poche altre persone, ed
ebbe una parte di rilievo, soprattutto nella funzione di stimolo
e di critica, dal suo punto di vista di socialista autonomista,
verso i due autori del documento, fino al suo trasferimento a
Melfi, nell’ottobre del ’41 – benché comunque i contatti non
cessassero del tutto”16.
Infatti dopo la nascita della terzogenita Eva e per intercessione
di Giovanni Gentile, a Colorni fu concesso il trasferimento
sul continente, a Melfi: da dove, nel maggio 1943, riuscì a
evadere per raggiungere Roma. Dopo la fondazione del Movimento federalista europeo a Milano a fine agosto 1943, Colorni a Roma era ormai impegnato nella resistenza armata
contro i nazifascisti e agiva in clandestinità. Aveva aderito al
Psiup, originato dalla fusione (25 agosto 1943) tra il Psi e il
Movimento di Unità proletaria fondato da Lelio Basso a
Milano il 10 gennaio 1943. Per la nuova formazione politica
il federalismo europeo non costituiva però una priorità, e pur
accettandone l’inserimento nella dichiarazione programmatica
nei fatti continuò a contrastarlo, temendo che la lotta di classe
potesse finire subordinata alla nuova parola d’ordine. Circondato dal sospetto tra i dirigenti, il messaggio federalista fu
invece accolto con interesse tra i più giovani. Tra costoro
erano c’erano Leo Solari, Giuliano Vassalli, Tullio e Alberto
Vecchietti, Mario Zagari e Achille Corona. Saranno gli stessi
che rifonderanno la Federazione giovanile socialista riuniti
sotto le bandiere del foglio Rivoluzione socialista, seguiti dall’occhio vigile ma benevolo di Eugenio Colorni17.
Colorni morì nel pieno della battaglia per la liberazione, ucciso il 28 maggio 1944 da militi della banda Koch a Roma.
Nenni lo commemorerà nel suo diario con queste parole:
«Non era marxista e di ciò avevamo sovente disputato. Ma
amava il partito e l’aveva servito con entusiasmo già dai
tempi del Centro interno di Milano. […] La sua perdita è
per noi irreparabile ed è dolorosa per la cultura italiana ed
europea»18.
15 P.S. GRAGLIA, Altiero Spinelli, Il Mulino, 2008, pp. 115-124, Id.,
Colorni, Spinelli e il federalismo europeo, in Eugenio Colorni dall’antifascismo all’europeismo socialista e federalista, cit., pp. 209-249.
16 P.S. GRAGLIA, Colorni, Spinelli e il federalismo europeo, in Eugenio
Colorni dall’antifascismo all’europeismo socialista e federalista, cit.,
pp. 215.
17 S. GERBI, Tempi di malafede. Guido Piovene ed Eugenio Colorni. Una
storia italiana tra fascismo e dopoguerra, cit., pp. 174-175, L. SOLARI,
I giovani di “Rivoluzione socialista”, IEPI, 1964, Id., I giovani socialisti
nel crocevia degli anni ’40, a cura e con introduzione di D. Conti,
Odradek, 2009. Cfr. anche P. S. GRAGLIA, Il socialismo federalista di
Eugenio Colorni, in Storia e percorsi del federalismo, a cura di D. Preda
e C. Rognoni Vercelli, Il Mulino, 2005, t. II, pp. 861-891.
18 P. Nenni, Tempo di Guerra fredda. Diari 1943-1956, a cura di G. Nenni
e D.Zùcaro, prefazione di G. Tamburrano, Milano, SugarCo, 1981, p.
78, annotazione del 31 maggio 1944.
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>>>> eugenio colorni
L’esilio di Melfi
>>>> Livio Valvano
Il 24 aprile si è tenuto presso il Centro culturale “Francesco Saverio Nitti” di Melfi – per
iniziativa dell’Amministrazione della Città, della Fondazione e della Associazione intitolate a
Nitti - un convegno di rievocazione della figura di Eugenio Colorni, dove - dal 1941 al 1943,
dopo Ventotene – egli fu confinato.
La rievocazione ha preso spunto dal libro del melfitano Franco Avenoso “Silvia e Renata. Melfi
1963” (prefazione di Gianni Pittella, pubblicato dall’autore, stampato da Cromografica Roma
nel 2013).
A
volte una celebrazione istituzionale può caricarsi di
significati ed essere vissuta collettivamente come un
momento di riflessione denso di significati. E’ raro, tutt’altro
che scontato: ma può accadere che - nei tempi della tweet
politic esasperata, istintiva, comunicativa e spesso superficiale - una moltitudine di cittadini e di associazioni trovino
una qualche ragione per ritrovarsi per introiettare nella gelida
attualità il calore delle pulsioni che hanno animato le idee e
l’azione politica di uomini e donne che hanno dato la vita per
consegnarci ciò di cui oggi noi godiamo. E’ ciò che è accaduto a Melfi il 25 aprile 2014.
Nonostante la prorompente spinta alla liquefazione delle idee
e dei valori a vantaggio di una sempre più diffusa pratica di
gestione afinalistica e pragmatica del potere e delle istituzioni in generale, a Melfi, dove Eugenio Colorni ha dimorato
come confinato politico tra il ’41 e il ’43, c’è ancora una
“sacca di resistenza” che avverte il bisogno di anteporre le
idee nel processo decisionale e nelle scelte. Quella sacca di
resistenza, in occasione del 25 aprile, è venuta spontaneamente allo scoperto nelle strade della città, negli istituti scolastici e nei luoghi dove si è svolta un’articolata manifestazione che ha avuto un alto valore culturale.
La creatività di Franco Avenoso, autore di un romanzo
geniale che ha attirato la curiosità e l’interesse degli studenti,
è stato l’ingrediente che ha stimolato interesse alla ricerca,
anche per distinguere tra cronaca e fantasia. Quanto c’è di
vero, ad esempio, sull’episodio del processo subito a Melfi
mondoperaio 10/2014 / / / / eugenio colorni
da Eugenio Colorni e sui personaggi descritti dall’autore?
L’episodio, che sappiamo essere realmente accaduto, viene
descritto attraverso i personaggi coinvolti i cui particolari
suscitano suggestioni che faremmo bene a recuperare di
tanto in tanto. La tracotante prepotenza del podestà cittadino
che il 18 giugno 1942 (con l’ordinanza n. 8461) prescriveva
l’esposizione della bandiera nazionale anche al confinato
politico Colorni in occasione della visita a Melfi di un membro del direttorio nazionale del Partito, materializzava plasticamente nella realtà della comunità locale le caratteristiche
del regime fascista: la forza di una presunta investitura popolare, rappresentativa di una larga maggioranza del paese,
convinta di avere un ruolo nella storia, che si materializzava
nella persona del suo leader indiscusso per il suo diretto rapporto con il popolo, supportato dall’unico partito in circolazione fatto su misura.
Colorni, che con dignità e ostinazione opponeva resistenza
passiva, astenendosi dal compiere un atto di prostrazione al
regime tanto umiliante quanto irragionevole, nonostante la
distanza del tempo ancora oggi ci sollecita ad approfondire
la qualità e la consistenza, la forza ovvero la debolezza, di
ogni manifestazione del potere costituito, anche quando
viene esercitato da persone cui viene attribuita un indiscutibile consenso proveniente da una larga legittimazione popolare-elettorale. Il potere, si sa, per sua natura tendenzialmente si traduce in una costrizione, nell’utilizzo della forza
delle istituzioni e nell’applicazione delle leggi, ed a volte
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appare prepotente anche in un sistema democratico.
Colorni, rappresentativo in quel momento, di una minoranza,
di una sacca di resistenza intellettuale e popolare aggrappata
ai valori, agli ideali, ma schiacciata dalla forza del leader, del
partito, delle istituzioni, delle forze dell’ordine, dello Stato in
generale, e comunque una minoranza alla fine dimostratasi
invincibile, perché alimentata da quegli ideali vissuti come
irrinunciabili, addirittura anteposti rispetto al bene supremo,
la propria vita.
E infine il Pretore, il magistrato cui viene affidato il compito
di decidere sulla denuncia del Podestà. Il personaggio trasforma il caso in un capolavoro, nella realtà come nel
romanzo. Un uomo apparentemente insignificante, i cui
ricordi, trasferiti nel libro dalla fantasia dell’autore, disegnano un personaggio “debole”, insicuro: tanto insicuro da
tenere reclusa sotto chiave la moglie nella sua casa di residenza per prevenire relazioni “indesiderate”. Gli atti ufficiali
confermano l’assoluzione di Colorni e la sconfitta del goffo
Podestà. Il piccolo magistrato diventa un gigante, trova nella
sua apparente debolezza la forza eversiva di proteggere l’irrinunciabile valore della dignità umana dell’imputato, sotto-
posto a giudizio dal regime per non aver voluto subire una
inaccettabile umiliazione. La sconfitta della forza irragionevole dinanzi all’apparente debolezza fisica, alla delicatezza
degli ideali.
Un piccolo episodio, una finestra nel tempo, un viaggio nella
coscienza collettiva, nell’intimo dell’oggi sempre più
costretto dalle prevaricazioni e dagli egoismi di questo
tempo. Un’occasione per discutere oggi di difesa della
libertà, di estensione della libertà oltre la nostra persona, le
nostre famiglie, le nostre città, la nostra frontiera, di integrazione tra nazioni, di Europa; argomenti che suscitano sentimenti di paura nelle piccole città dove il fenomeno dell’integrazione con gli stranieri, e in particolare con i nuovi popoli
europei, induce egoistica diffidenza.
E’ compito delle istituzioni e della politica recuperare il
senso e le ragioni dello stare assieme, soprattutto in questo
tempo della comunicazione short, pericolosamente accompagnato dalla ritirata dei partiti politici e dalla riconfermata
tendenza populista di una nazione che oggi più che mai ha
bisogno di quella sacca di resistenza militante che ha il compito di salvaguardare valori e ideali irrinunciabili.
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>>>> eugenio colorni
L’antifascista moderno
>>>> Giampaolo D’Andrea
L
a rievocazione di Eugenio Colorni a Melfi ha un significato
molto rilevante sia dal punto di vista del recupero alla memoria
collettiva di una delle figure più importanti tra i martiri della lotta di
liberazione perché rievoca anche una vicenda meno nota, cioè i due
anni di confino di Colorni a Melfi.
Sotto questo profilo dobbiamo ringraziare anche chi, letterariamente,
ci ha offerto l’occasione, cioè Franco Avenoso, l’autore di questo
romanzo (Silvia e Renata. Melfi, estate 1963) che racconta di un
viaggio immaginario. Si immagina che le figlie di Colorni - Silvia
e Renata - tentino di recuperare, attraverso il racconto di testimoni
dell’epoca, la fase che precede il sacrificio del padre. Cioè la fase
della vita di un confinato, qui a Melfi, caratterizzata da alcuni
episodi, anche imprevedibili, come la vicenda giudiziaria locale che
fu, tutto sommato un incidente del Podestà di allora che non riuscì a
comprendere che bisognava valutare quel che accadeva con il
portato di una storia che uno come lui non poteva nemmeno
percepire. A Colorni a un certo punto si offre l’occasione di scappare,
di andare fuori da Melfi, di tornare a Milano, di diventare protagonista
al tempo stesso del rilancio del Partito socialista e della diffusione
del manifesto dei federalisti di Spinelli con cui era ancora in stretto
contatto (dopo il comune confino di Ventotene). Poi di andare a
Roma ad organizzare la presenza dell’Avanti! con l’importante
ruolo di redattore capo. Purtroppo per effetto di questo suo ulteriore
e più diretto impegno, anche legato alla necessità di coprire i
colleghi che con lui animavano la lotta politica clandestina, Colorni
si espone quotidianamente nelle settimane che precedono la liberazione di Roma. Pensare che solo qualche giorno dopo Bonomi
sarebbe diventato presidente del Consiglio, mentre da poco era
stato avviato il governo di unità nazionale a Salerno.
Nel governo retto da Badoglio sedeva una personalità del valore di
Benedetto Croce, che ritroviamo anche come interlocutore di
Eugenio Colorni nei suoi studi critici sulla estetica crociana.
Benedetto Croce è colui che dà formalmente il benvenuto agli
alleati a Roma, inglesi ed americani; e che diventa il ponte simbolico
principale di questo passaggio storico.
Colorni, socialista, è ebreo (lo dico per sottolineare un dato che può
aver influenzato la persecuzione iniziale su di lui). All’inizio era
sionista. Poi invece abbraccia più direttamente il socialismo, con
una parentesi di impegno con il movimento di Giustizia e Libertà,
mondoperaio 10/2014 / / / / eugenio colorni
che tuttavia diventa in gran parte nucleo fondatore del secondo socialismo italiano, al punto che è difficile dire dove ci sia continuità
e dove discontinuità in questo tipo di esperienza. Colorni è uno
degli organizzatori della nuova fase del Partito socialista italiano, e
sicuramente è da indicarsi come una delle personalità che più si
stava impegnando per creare le condizioni della ripresa democratica
nel nostro paese, confermando una interpretazione, in realtà poco
ripresa dagli storici, secondo cui questa ripresa democratica è cominciata un po’ prima delle date che noi registriamo attraverso la
cronologia degli episodi della Resistenza. Infatti in vari segmenti
della vita politica e sociale italiana e presso alcuni ambienti culturali
riprende una nuova trama di rapporti, con la fiducia nel crollo del
fascismo - che anima quella trama - senza saperne la data certa.
La classe dirigente post-fascista emergente non aveva avuto a che
fare con la fase pre-fascista, e Colorni è l’espressione di questa fase
nuova. Una delle espressioni interessanti e moderne che infatti si
esprime con il Manifesto di Ventotene e che sicuramente prende
spunto, nella sua percezione della politica e dei problemi dell’Italia,
dai danni della prima guerra mondiale.
Lo era anche culturalmente, perché Colorni era un filosofo importante,
che parte da un approccio quasi neo-idealistico e poi se ne distacca criticandolo, rivisitandolo e abbracciando la strada della filosofia della
scienza. Colorni, insieme a Geymonat, ridà fondamento alla costruzione
teorica del sapere scientifico. Nella sua vita gli è capitato di essere
ospitato in una collana diretta da Giovanni Gentile, nella Sansoni, in
un momento della sua vita in cui l’attenzione di alcune figure di
controllo del Regime forse lo aiuta. Ma è evidente che quell’attenzione
non ne modifica il carattere antagonistico nei confronti del Regime.
Insomma Colorni è uno di quegli intellettuali tutti di un pezzo che
non ha fatto concessioni e sconti e si è buttato a capofitto prima
nella lotta clandestina e poi nell’avvio in embrione della lotta
politica: e poi ha lasciato la politica con il sacrificio.
Nel libro di Roberto Battaglia è scritto: “Si uccide sul luogo, ripetendo
i fasti del primo squadrismo fascista. Così cadde il 27 maggio, nei
pressi di piazza Bologna, in via Livorno, assassinato dagli sgherri di
Koch, mentre si recava ad un appuntamento clandestino, Eugenio
Colorni, redattore dell’Avanti!, uomo di scienza di primo piano e nel
suo nome si chiude la lista degli intellettuali caduti a Roma sotto il
piombo nazista”.
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>>>> eugenio colorni
Profilo di un visionario
>>>> Stefano Rolando
Q
uesta rievocazione si svolge nel Centro culturale Nitti
di Melfi, ristrutturato da alcuni anni - dopo una lunga
incuria - e capace di contenere una ormai sperimentata
chiamata della migliore cittadinanza locale e territoriale
attorno a temi storici, politici, culturali, economici e civili
che fanno capire che la partecipazione non è argomento
retorico, in generale in Italia e in questo Mezzogiorno in particolare. Parto da qui, per parlare di figure come quella di Eugenio Colorni, per una ragione precisa. Quando Filomena
Nitti concepì negli anni ‘60 l’idea - poi finanziata dalla Cassa
per il Mezzogiorno - di un grande centro attrezzato (2500
metri quadrati di sale per convegni, formazione e attività culturali) qui accanto alla casa natale di suo padre, lo scopo di
questa struttura era legato all’idea di combattere l’analfabetismo.
Quello vero - del deficit specifico di lettura e scrittura - allora
ancora affliggente l’Italia e in particolare l’Italia meridionale.
Mancò la volontà politica e sociale per realizzare poi in
pratica quella missione e questo Centro fu per anni un monumento al deficit civile del paese.
Nel portarne a termine, negli anni recenti, la ristrutturazione
- grazie alla collaborazione con i sindaci della città - il nostro
obiettivo si è aggiornato. Compito fondamentale del Centro
sarebbe stato quello di combattere appunto quel deficit civile,
ossia il nuovo vero analfabetismo di ritorno, che non è solo
quello meritoriamente sempre denunciato da Tullio De Mauro,
il quale ci dice che due terzi degli italiani non sono in grado di
interpretare la prima pagina di un quotidiano. Ma è anche
quello di una larga maggioranza di italiani che ha reso possibile
il taglio della memoria e l’assopimento del lavoro critico sulla
storia: ciò che ha caratterizzato in modo drammatico gli anni
che vanno sotto il nome di “seconda Repubblica”.
Il sonno della memoria intitolò ai primi degli anni ‘90 un suo
bel libro Barbara Spinelli, la sorella della nostra gradita ospite
di oggi, Renata Colorni (figlie entrambe della stessa madre,
Ursula Hirschmann, e di due padri - che sono stati anche i
“padri” del Manifesto di Ventotene insieme a Ernesto Rossi come Eugenio Colorni e Altiero Spinelli). Così che questo
Centro - arricchendosi di biblioteche, di documentazione audiovisiva, di un intenso lavoro con le scuole - è diventato un
luogo di attenzione a valori fondanti nel raccordo tra tradizione
e futuro.
La memoria come motore del ripensamento sulle condizioni
culturali e di sviluppo della nostra società e delle nostre
istituzioni. Dunque come lavoro sull’identità e sullo spazio
possibile per la riscossa. Aperto al pluralismo delle migliori
tradizioni della cultura politica, nel solco di un grande pensiero
sulla storia del nostro paese che si deve all’ingegno e alla profondità culturale di Francesco Saverio Nitti. Ma anche la
tensione al cambiamento, che è parte ineliminabile di quel
pensiero e dei caratteri fondamentali di una generazione di
italiani e di europei. Lo sguardo ai momenti cruciali della
nostra storia è diventato così qui appuntamento popolare. Evidente che lo è stato per l’anniversario - ogni anno - della Liberazione, nelle forme meno retoriche e più in “presa diretta”,
cioè con i testimoni importanti che le nostre condizioni organizzative ci hanno permesso di attuare. E anche con l’aiuto
appassionato di figure competenti, come lo è stato in questi
anni Giampaolo D’Andrea, che ha introdotto sapientemente i
nostri lavori e che su Colorni ha già delineato una cornice interpretativa importante.
Voglio limitarmi solo a una riflessione che si connette con la
premessa che ho fatto. Attorno al 25 aprile qui abbiamo
parlato di figure fondanti la nostra cultura della libertà e
della democrazia. Lo stesso Nitti - che visse il fascismo in un
esilio di lotta e di incessante iniziativa internazionale - e poi
Pertini, di cui, accogliendo qui con gioia la biblioteca personale,
abbiamo ricordato il contributo alla rete dell’antifascismo
italiano in Francia dedicando a questa complessa pagina di
storia una sala permanente del nostro Centro. E poi le donne
nella Resistenza, con Marisa Ombra. E ancora la figura di De
Gasperi, tratteggiata in modo straordinario da Piero Craveri membro del nostro comitato scientifico - nella sua recente
biografia. E oggi Eugenio Colorni, con un nesso molto forte,
quello del confino a Melfi - dopo quello di Ventotene - di
mondoperaio 10/2014 / / / / eugenio colorni
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Colorni, di Ursula Hirschmann e delle loro piccole figlie
Silvia, Renata e Eva: un confino terminato con la fuga nel ‘43
per riconnettersi alla lotta di resistenza che lo porterà all’agguato
mortale attorno a piazza Bologna a Roma il 28 maggio del
‘44, ad opera della famigerata banda Koch.
Il pensiero fisso all’Italia futura, a quella
che sarebbe potuta diventare solo
se italiani coraggiosi si fossero assunti
la responsabilità di una drammatica
discontinuità
Questi racconti, che qui abbiamo potuto fare sempre grazie a
testimoni speciali, non hanno riguardato tanto “uomini di
potere” - per cui spesso si fanno celebrazioni - ma soprattutto
“uomini visionari”. In che senso? Nel senso di mettere la loro
vita e le loro famiglie a repentaglio, con il pensiero fisso
all’Italia futura, a quella – non immaginabile dai più - che
sarebbe potuta diventare solo se italiani coraggiosi si fossero
assunti la responsabilità di una drammatica discontinuità.
Ecco allora che le pagine di Nitti sulla democrazia e sull’Europa
ci raccontano l’uomo di visione e non solo l’uomo di potere
mondoperaio 10/2014 / / / / eugenio colorni
che era stato. Così come gli spunti che ha introdotto Giampaolo
D’ Andrea ci riconsegnano in Colorni un giovanissimo pioniere
del cambiamento della filosofia italiana, dall’idealismo alla
filosofia della scienza (e ci dicono, in modo per noi consolatorio,
che si poteva essere redattore-capo dell’Avanti! ed essere al
tempo stesso un uomo di scienza e di cultura, oltre che di coraggio, cosa che lenisce la deriva del nome dell’Avanti!
associato a persone come Lavitola): ci riportano ai nessi di
chi, con diverse appartenenze, era capace di sognare un paese
inesistente nella realtà senza aspettarselo come dono dal caso.
Per Colorni la lotta fu bisogno etico. Per De Gasperi fu la
forza della tessitura di una immaginazione maturata nella penombra della biblioteca Vaticana. Storie diverse, Italie diverse,
destini diversi. Quanto a Melfi il confino fu comunque lungo
e il racconto che ci ha fatto - mescolando testimonianze e
fantasie - Franco Avenoso nel suo libro contiene alcune
pagine esemplari, come quella della figura del pretore
sospettato di conformismo e capace invece di una sentenza in
punta di diritto.
Di Colorni ora parleranno con competenza chi ne ha studiato
il pensiero filosofico, chi il pensiero politico, chi il suo
contributo all’idea di Europa. Io vorrei solo ricordare un libro
che conservo con la dedica di un grande amico che fu Leo
Solari: una biografia politico-culturale di Eugenio Colorni
edita da Marsilio dal quale ho annotato per la giornata di oggi
queste parole: “Tutto in lui si legava in modo unitario: il
profondo sentimento libertario, la volontà di comprendere e
accettare l’altro e il diverso, il ruolo da attribuire ai movimenti
spontanei delle masse, l’intensa vocazione internazionalista,
una concezione dell’azione intesa come testimonianza e,
insieme, come uno dei modi della ricerca del vero”. Diversi,
per esempio, furono certamente Colorni, Spinelli e Rossi nel
loro accettarsi e concepire un disegno rivoluzionario. Pier
Virgilio Dastoli lo dirà con l’evidente autorità di chi ha
dedicato molta riflessione a quel “Manifesto”.
A noi resta oggi il conforto di una scelta che cade a ridosso
delle ormai imminenti elezioni europee: che da qui non
possono che essere viste come speranza che non prevalgano
istanze che accentuino le derive nazionaliste, quelle xenofobe,
quelle populiste, quelle che - a tenaglia da sinistra e da destra
- hanno imbrigliato e marginalizzato la cultura federalista.
Come ha scritto appunto Leo Solari: “Mentre non vi è stata
una resistenza europea vi è stato tuttavia un europeismo della
Resistenza, di cui Colorni si è reso interprete e che ha rappresentato l’espressione più originale e insieme più autentica
della lotta di liberazione”.
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>>>> eugenio colorni
Il laboratorio di Ventotene
>>>> Pier Virgilio Dastoli
M
i è capitato spesso, nelle conversazioni universitarie e
negli incontri con le scuole, di evocare le idee concepite
fra il 1935 ed il 1945 da Eugenio Colorni, Ernesto Rossi e
Altiero Spinelli sulle cause della guerra e sul metodo per raggiungere la pace e la democrazia, idee tradotte nel 1941 nel
Manifesto di Ventotene “per un’Europa libera e unita”. Mi
ha colpito la convinzione di molti giovani sull’attualità del
pensiero del socialista ebreo Colorni, del radical-liberale Rossi
e del “meteco della democrazia” Spinelli, e specialmente
l’idea che la proposta di creare un potere democratico europeo,
immaginata per offrire una soluzione permanente a problemi
comuni degli europei alla fine della seconda guerra mondiale,
sia ancora più valida oggi per affrontare altri e nuovi problemi
comuni.
Ho scoperto in molti giovani, ben più che nei dirigenti politici
che si trovano al cospetto della crisi europea e si dibattono
inutilmente alla ricerca di una via d’uscita, un pensiero che
potrebbe essere formulato negli stessi termini in cui esso fu
formulato da Spinelli nel 1957: “Il progetto di una federazione
europea non era un bell’ideale cui rendere omaggio per
occuparsi poi d’altro, ma un obiettivo per la cui realizzazione
bisognava agire ora, nella nostra attuale generazione. Non si
tratta di un invito a sognare, ma di un invito a operare”.
Ho scoperto anche, nelle reazioni dei giovani, la condivisione
di un’altra idea essenziale sulla natura della “sua” federazione:
essa “non si presenta come un’ideologia, non si propone di colorare in questo o quel modo un potere esistente […] è la
sobria proposta di creare un potere democratico europeo, nel
cui seno avrebbero ben potuto svilupparsi ideologie, se gli
uomini ne avessero avuto bisogno, ma assai differente rispetto
a esse […] il riconoscimento della diversità e della fratellanza
delle esperienze nazionali dei popoli europei, in mezzo alle cui
lingue, ai cui scrittori e pensatori vivevamo da anni senza mai
sentirci più vicino a loro se italiani, più lontani se stranieri”.
La presentazione ragionata dell’alternativa federale proposta
dal Manifesto si distingue così sia dal federalismo ideologico
di tipo proudhoniano o mazziniano, sia dalla concezione di chi
ha ritenuto e ritiene che la battaglia federalista sarà vinta solo
se si porterà a compimento la teoria federalista come un’ideologia,
con un proprio aspetto di valori costituzionali ma anche
universali (la pace kantiana) e storico-sociali (il superamento
della divisione del genere umano in nazioni e classi).
II Manifesto fu il punto d’incontro fra l’interesse di Spinelli
per la libertà dell’individuo e quella della società, ma anche
per l’idea che questa lotta non poteva fermarsi ai confini dove
si stava costruendo il socialismo (per Spinelli “l’Urss si era
scrollata progressivamente da sé le sovrastrutture internazionaliste
diventando essa stessa nazionalista”), le critiche di Rossi al
capitalismo, al sindacalismo, al comunismo, col suo progetto
di “abolire la miseria” innestando un pezzo di costituzione
economica comunista in un’economia di mercato, e le analisi
svolte fin dal 1935 da Eugenio Colorni nel suo I problemi
della guerra.
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Proprio in questo testo, che precorreva le analisi di Rossi e
Spinelli, Colorni scriveva che la guerra avrebbe portato alla
catastrofe del fascismo come sistema europeo e avvertiva
come fondamentale il ruolo della politica estera per raggiungere
la pace e la democrazia, che legava all’affermazione della rivoluzione in Italia e nei paesi vicini.
Spinelli scrisse poi di Colorni nella sua autobiografia Come
ho tentato di diventare saggio: “Egli è una delle persone
scomparse da molti anni, dinanzi alla memoria delle quali mi
inchino, con affetto nostalgico perché lui e Rossi sono stati i
due più grandi amici della mia vita, con riconoscenza perché
mi furono accanto senza esitare nel momento difficile della
nascita dell’impegno politico nuovo, con reverenza perché in
quegli anni cruciali trovai e accettai in Colorni un maestro
dell’anima, in Rossi un maestro della mente”.
La difesa della democrazia li aveva portati alla comprensione
che l’azione politica deve avere come obiettivo l’impiego del
potere al servizio della libertà e che lo Stato nazionale era il
nemico della libertà. E’ così che il Manifesto inizia: “La
civiltà moderna ha posto come proprio fondamento il principio
della libertà secondo il quale l’uomo non deve essere mero
strumento altrui, ma un autonomo centro di vita. Con questo
codice alla mano si è venuto imbastendo un grandioso
processo storico a tutti gli aspetti della vita sociale che non lo
rispettassero”.
Nel caso di Rossi le critiche al capitalismo e al comunismo insieme a una sommaria lettura di testi federalisti inglesi - lo
avevano portato alla convinzione che solo una federazione
europea – “inizialmente limitata a un nucleo di paesi latini” –
avrebbe garantito maggiori risorse per lo sviluppo sottraendole
alla preparazione delle guerre volute dal crescente potere
delle élites militari e dall’accentramento amministrativo. Dalle
discussioni che avevano preceduto l’elaborazione del Manifesto
- cui partecipavano Spinelli, Rossi, Eugenio Colorni e la
moglie Ursula, gli azionisti Dino Roberto ed Enrico Giussani,
i repubblicani Giorgio Braccialarghe e Arturo Buleghin e lo
sloveno Milos Lokar - era emersa la convinzione che la Federazione europea sarebbe stata l’unica soluzione ragionevole al
problema, che tormentava l’Europa dal 1870, della pacifica
convivenza della Germania con gli altri popoli del vecchio
continente.
La Federazione sarebbe stata, soprattutto, la possibilità per le
democrazie di controllare “quei Leviatani impazziti” che erano
ormai gli Stati nazionali europei, poiché lo Stato federale
avrebbe impedito loro di diventare mezzi di oppressione e
sarebbe stato da essi impedito di diventarlo lui. Contrariamente
mondoperaio 10/2014 / / / / eugenio colorni
a una parte della teoria federalista che individua nella nazione
il male in sé, gli autori del Manifesto ritenevano che l’ideologia
dell’indipendenza nazionale fosse stata “un potente livello di
progresso” ma che essa portava in sé “i germi dell’imperialismo
capitalista”.
Il Manifesto fu materialmente scritto nel giugno 1941, quando
quasi tutta l’Europa continentale era soggiogata da Hitler, le
armate tedesche entravano nelle terre russe e solo resisteva al
nazismo il Regno Unito. Portato in continente da Ursula
Hirschmann e Ada Rossi, il Manifesto fu inizialmente ciclostilato
e poi stampato nel 1943 come primo dei Quaderni del
Movimento Federalista Europeo fondato a Milano alla fine di
agosto di quell’anno.
Colorni aveva inutilmente tentato
di introdurre questa cultura federalista
nel mondo politico socialista
Spinelli si rendeva perfettamente conto del fatto che la cultura
federalista era estranea alle culture politiche esistenti nei paesi
europei, che sarebbero usciti dalla guerra tentando di restaurare
le democrazie nazionali, nonostante l’origine universalista
dei movimenti cattolici, internazionalista dei partiti socialisti
e comunisti e cosmopolita delle forze d’ispirazione liberale.
Egli sapeva che questi stessi partiti erano ormai avvezzi,
per consuetudine e per tradizione, a porsi tutti i problemi
partendo dal tacito presupposto dell’esistenza dello Stato
nazionale, e a considerare i problemi dell’ordinamento internazionale come questioni di politica estera da risolversi
mediante azioni diplomatiche e accordi fra i vari governi.
Colorni da parte sua aveva inutilmente tentato di introdurre
questa cultura federalista nel mondo politico socialista.
Spinelli era convinto, molto più di Rossi e Colorni, che
l’ideale della federazione europea – “preludio della federazione
mondiale” – si sarebbe presentato alla fine della guerra
come una meta raggiungibile “quasi a portata di mano” e
che “forze provenienti da tutte le classi sociali” sarebbero
stare interessate a esso. Alla via diplomatica Spinelli contrapponeva quella che è stata chiamata nel Manifesto la via
rivoluzionaria dell’agitazione popolare, provocando stati di
fatto avvenuti i quali non fosse più possibile tornare indietro.
“E’ la prima volta – scrisse Spinelli presentando nel 1944 il
Manifesto - che il problema si pone sul tappeto della lotta
politica non come un lontano ideale ma come un’impellente
tragica necessità”.
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Pur confinati nell’isola di Ventotene, Colorni, Rossi e Spinelli
erano stati capaci di analizzare con estrema lucidità lo stato
della guerra nel 1941, e prevedere la sconfitta dell’imperialismo
tedesco e delle potenze totalitarie, le cui forze “hanno
raggiunto il loro culmine e non possono ormai che consumarsi
progressivamente” sapendo che “la sconfitta della Germania
non porterebbe però autonomamente al riordinamento dell’Europa secondo il nostro ideale di civiltà”.
Essi non avevano invece previsto che gli europei non
sarebbero rimasti padroni di sé nella ricerca del loro avvenire,
ma – avendo l’Europa cessato di essere al centro del mondo
– sarebbero stati pesantemente condizionati da poteri extraeuropei: l’imperialismo sovietico a Est e l’egemonia degli
Stati Uniti a Ovest. Cosicché la via intrapresa dalle nuove
democrazie nate nel secondo dopoguerra non fu l’abbattimento
delle sovranità nazionali ma la ricostituzione degli Stati nazionali, seppure nei limiti e nel quadro del processo di integrazione comunitaria – avviato nella “piccola Europa” dei
Sei – secondo il modello funzionalista concepito da Jean
Monnet, che all’obiettivo della creazione di uno Stato federale
aveva sostituito quello tutto nuovo della sopranazionalità.
La critica di Spinelli al modello funzionalista non si è mai
interrotta, anche quando egli prese atto delle opportunità
offerte dalla costruzione comunitaria alla lotta federalista.
All’approccio funzionalista – che Delors ha successivamente
definito “il metodo dell’ingranaggio”, giungendo infine ad
ammetterne il suo carattere “perverso” – Spinelli ha continuamente contestato la convinzione secondo cui si potessero
unificare efficacemente e durevolmente, in modo graduale
e separatamente gli uni dagli altri, i vari settori della vita
degli Stati (l’economia, la moneta, la politica estera, la
difesa) rinviando solo alla fine la creazione di un potere democratico e federale.
A questa impostazione Spinelli contrapponeva l’approccio
costituzionale, e cioè la rivendicazione di una costituzione
europea secondo un modello federale e di un’assemblea di
carattere parlamentare come spazio politico per la sua elaborazione. La posizione di Spinelli è apparsa di grandissima
attualità in questi ultimi trent’anni della storia europea: coerentemente con quest’approccio, il progetto del Parlamento
europeo approvato il 14 febbraio 1984 antepone la realizzazione dell’unità politica dell’Europa all’unificazione economica e monetaria: al contrario del Trattato di Maastricht
che – ben lungi dal costituire l’embrione di un potere
federale europeo – antepone invece la realizzazione dell’unione
monetaria al completamento dell’unione economica, lasciando
sullo sfondo - con un’agenda indeterminata nei contenuti e
nei tempi - la creazione dell’unione politica. Secondo la
stessa logica perversa, i governi hanno immaginato che la
risposta alla crisi finanziaria del 2007-2008 potesse essere
data da un processo che partisse dall’unione bancaria,
passando poi all’unione di bilancio, quindi all’unione economica, e lasciando ancora una volta indeterminata nei
tempi e nei modi la legittimità democratica.
Vi è infine un elemento essenziale del Manifesto che è stato
sottolineato da Norberto Bobbio nel suo saggio Il Federalismo
nel dibattito politico e culturale della resistenza. Il Manifesto
– ricorda Bobbio - inizia parlando del principio nazionale e
della sua degenerazione e aggredisce poi il problema della
sovranità assoluta: “Il superamento della sovranità assoluta
conduce allo Stato federale e il superamento del principio
nazionale conduce all’idea d’Europa. E il movimento che
sorge a Ventotene è insieme federale ed europeo”. Ciò vuol
dire – chiosa Bobbio – che il meccanismo dello Stato
federale può applicarsi a una realtà diversa dall’Europa
come la federazione mondiale o le federazioni che si vanno
tentando fra Stati del mondo arabo.
Varrebbe la pena, in un’agenda per un’altra Europa, riprendere
quest’analisi e queste suggestioni collocandole nell’ambito
delle riflessioni della sinistra euro-mediterranea e sapendo
che, nelle sue varie versioni linguistiche il Manifesto è
stato tradotto anche in arabo.
mondoperaio 10/2014 / / / / eugenio colorni
/ / 72 / /
>>>> eugenio colorni
Il filosofo militante
>>>> Geri Cerchiai
L
a Milano che esce dalla seconda guerra mondiale è
una città che, forse più di altri centri politici e
culturali, risente di quello che alcuni autori hanno definito
lo “spirito del ’45”, uno spirito che dopo la disfatta del
regime fascista cercava di rispondere alla duplice esigenza
di dare conclusione ad un tragico periodo storico e di
inaugurare un nuovo ciclo di ricostruzione politica e istituzionale. Un brano di Ludovico Geymonat, che ad Eugenio
Colorni fu vicino durante gli anni di confino e che sarebbe
stato uno dei punti di riferimento della “rinascita epistemologica” della seconda metà del secolo, giova sotto
questo punto di vista ad inquadrare il senso più profondo
del clima culturale che si respirava nell’immediato dopoguerra.
Nell’Avvertenza ai suoi Studi per un nuovo razionalismo,
che risultano significativamente finiti di stampare il 25
aprile 1945, Geymonat scriveva le seguenti parole: «L’indirizzo filosofico, che qui viene esposto difeso e sviluppato,
è e vuole essere un vero e proprio razionalismo […] Gli è
che il razionalismo, cui aspira la cultura moderna […]
deve contemporaneamente essere: critico, ossia capace di
tenere nel dovuto conto le obiezioni mosse contro la pura
ragione dalle filosofie mistiche e decadenti, fiorite negli
ultimi anni; costruttivo, cioè in grado di soddisfare le esigenze di ricostruzione e di logicità caratteristiche della
nuova epoca; aperto, cioè capace di affrontare i problemi
sempre nuovi che la scienza e la prassi pongono innanzi
allo spirito umano» (Ludovico Geymonat, Studi per un
nuovo razionalismo, Chiantore, Milano 1945, p. VIII,
corsivi miei).
Ricostruzione e logicità venivano così posti su di un medesimo piano, quasi a voler significare – come ha sostenuto
Mario Dal Pra nel 1985 – che «l’avversione alla metafisica
del neoempirismo e l’avversione alla dittatura fascista da
parte del movimento di liberazione” avessero “una comune
radice» (Mario Dal Pra, Il razionalismo critico, in AA.VV.
La filosofia italiana dal dopoguerra ad oggi, Laterza,
mondoperaio 10/2014 / / / / eugenio colorni
Roma-Bari 1985, p. 42). In un simile fermento intellettuale,
fra il 1947 e il 1948 uscirono, su riviste di punta del
nuovo pensiero metodologico quali Analisi e Sigma, i
primi frammenti epistemologici di Eugenio Colorni, la
cui riflessione matura venne in tal modo a saldarsi con la
più avanzata cultura della Liberazione.
Se tuttavia questi sono gli esiti dell’itinerario colorniano,
le radici di esso debbono essere ricercate in un complesso
percorso che ha preso le mosse da una critica interna al
neoidealismo crociano, ed è in tal senso che l’opera di
Colorni può essere letta come uno specchio del cammino
percorso da una parte importante della cultura italiana
della prima metà del secolo scorso.
Pur apprezzando il pluralismo del neoidealismo crociano,
Colorni ne rifiutò fin da subito la rigidità sistematica, e
cercò in Leibniz una risposta al problema della deduzione
dell’ordine concettuale dall’esame delle singole determinazioni spirituali. Il convincimento che quella armonia
che Leibniz riteneva di scorgere come l’essenza più
profonda del reale fosse un’esigenza del pensatore piuttosto
che una legge della natura portò tuttavia Colorni allo
studio delle forme stesse dell’umano pensare e alla conseguente scoperta dei problemi metodologici, psicologici
ed epistemologici.
Fortemente diviso fra impegno politico ed attività intellettuale, l’itinerario del giovane filosofo e partigiano milanese è però in grado di porre in questione anche il nesso
fra pensiero ed azione al quale si riferiva il razionalismo
di Geymonat: «Proprio la scienza […] obbligava [Colorni]
a combattere contro il nemico non soltanto a parole», ha
scritto Guido Piovene del suo antico amico nel romanzo
Le furie (Guido Piovene, Le furie, Aragno, Torino 2009,
pp. 255-256), evidenziando così quella spinta morale che
ne ispirava tanto la riflessione filosofica quanto l’impegno
politico. E Colorni fu difatti uno studioso che tale impegno,
il quale pure lo allontanava dalla passione filosofica,
spinse fino al sacrificio della vita.
/ / 73 / /
>>>> eugenio colorni
Riscoprire un padre
>>>> Renata Colorni
S
ono molto emozionata, quindi le mie saranno solo parole
di ringraziamento. Sono emozionata perché – in relazione
al libro di Franco Avenoso - devo premettere che non solo io
e mia sorella Silvia non siamo state insieme a Melfi nell’estate
1963, ma soprattutto non siamo mai più tornate qui da quegli
anni assai più remoti del confino di nostro padre, di nostra
madre, e di noi tre bambine Colorni.
Le cose che il libro racconta in parte mi hanno interessato e
commosso, ma in parte – lo dico con amicizia – mi hanno un
poco irritato e turbato proprio perché, per alcuni elementi, le
ho sentite estranee e non attendibili, o comunque indiscrete e
non corrispondenti alle mie fantasie relative al grande trauma
della mia infanzia: l’uccisione di mio padre. Naturalmente
questo è quello che succede quando in un libro storia e
fantasia si mescolano, con la complicazione in più, in questo
caso, che la fantasia e l’invenzione si esercitano su qualcuno
che è ancora vivo, essendo io in effetti, fin dal titolo, uno dei
personaggi a cui, nel racconto, si dà volto e voce.
Ho avuto dunque una reazione ambivalente leggendo
questo libro. Poi però l’ho riletto, ci ho ripensato, e ho apprezzato il sentimento, che tutto lo pervade, di profondissima stima e affetto nei confronti dei miei genitori e della
loro, ma anche della nostra, storia. Soprattutto ho conosciuto Franco, che dopo avermi fatto leggere il libro, è venuto a trovarmi a Milano e si è messo in relazione con me
con estrema gentilezza, quasi trepidazione, un garbo e un
rispetto che mi hanno toccato nell’intimo. Ho persino provato una certa invidia nei confronti di mia sorella Silvia,
che tra il 1941 e il 1943 aveva tra i quattro e i sei anni (è
nata nell’aprile del 1937) e dunque certamente conserva di
quel periodo alcuni ricordi preziosi, mentre io, che sono
nata nel novembre del 1939, non ho purtroppo memoria di
quegli anni.
Sono sicura che comprenderete quanto grande sia il mio rammarico per l’inevitabile oblio che ricopre la mia vita a Melfi,
e quanto intensa la commozione suscitata da questo mio
tardivo ritorno. Si può dire infatti che io abbia visto mio padre
mondoperaio 10/2014 / / / / eugenio colorni
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proprio qui per l’ultima volta: perché poi noi – mi riferisco a
mia madre Ursula Hirschmann e a noi tre bambine, Silvia,
Renata e Eva - siamo andate nel nord Italia per rifugiarci, a
causa delle leggi razziali, in Svizzera, dove siamo rimaste
fino alla fine della guerra. Mio padre, fuggito da Melfi, è
invece andato a Roma, dove si è febbrilmente impegnato
nella lotta fino all’estremo sacrificio.
L’unico ricordo vero che io conservo, non intriso e mescolato
con ricordi o racconti altrui, è l’immagine di mia madre che
vicino a Bellinzona, ai primissimi di giugno del 1944, venne a
dirci che nostro padre era stato assassinato. Questo me lo
ricordo benissimo. Mia madre era incinta di Diana, la prima
figlia di Altiero Spinelli, il grande europeista che diventò in
seguito nostro padre. Noi tre sorelle Colorni abbiamo vissuto
infatti la tragedia delle perdita di nostro padre Eugenio, ma
abbiamo avuto l’immenso privilegio di avere poi un altro
padre nella persona di Altiero Spinelli. E altre tre sorelle:
Diana, Barbara e Sara Spinelli.
Con particolare gioia ho dunque ascoltato le parole che
poco fa ha pronunciato Pier Virgilio Dastoli e lo ringrazio di
cuore per essere venuto a Melfi, dove oggi viene onorata la
memoria di Eugenio Colorni e dove io sono l’unica rappresentante, purtroppo, delle sue tre figlie (perché mia sorella
Silvia in questo momento è malata e non può essere con noi
benché lo desiderasse moltissimo, mentre mia sorella Eva, a
cui sono stata profondamente legata, non è qui perché una
crudele malattia l’ha strappata alla vita nel 1985). Quindi è
anche in memoria di Eva e di mia madre che io oggi sono a
Melfi mentre rivolgo un pensiero molto affettuoso a Silvia
che a sua volta, per mio tramite, manda a voi tutti dal
Canada i suoi saluti più cari.
Ma quello che stavo dicendo è che la presenza di Pier Virgilio
Dastoli è per me, in questo momento, quanto mai significativa.
Egli rappresenta infatti, simbolicamente in questo luogo, una
linea di continuità assolutamente reale che da molti decenni
io avverto nella mia vita sentimentale, emotiva e intellettuale,
tra la persona, il pensiero e gli ideali di Eugenio Colorni, che
ho ricostruito attraverso gli scritti, l’esegesi degli studiosi,
nonché le testimonianze di coloro che lo hanno amato e conosciuto meglio (da mia madre a Leo Solari, a Enzo Tagliacozzo,
a Guido Morpurgo Tagliabue, a Paolo Milano), e la straordinaria personalità umana e intellettuale di Altiero Spinelli, di
cui ho la fortuna di ricordare vividamente e con nostalgia l’originalità di pensiero, il coraggio, la lungimiranza, l’immensa
dedizione all’ideale europeo da lui difeso e diffuso con straordinaria forza persuasiva.
mondoperaio 10/2014 / / / / eugenio colorni
Pier Virgilio è stato profondamente legato, dal punto di vista
politico, ad Altiero Spinelli, di cui ha condiviso con passione
la lunga, ostinata battaglia per la federazione europea; ma è
stato anche intimamente legato a tutta la nostra famiglia dal
punto di vista affettivo. Quindi qui, in qualche modo, egli ha
contribuito a rievocare due figure che hanno significato
davvero qualcosa per la storia del nostro paese e per l’idea di
un’ Europa libera e unita.
Ma al di là di questo legame specialissimo con Dastoli, desidero esprimere la mia riconoscenza a Stefano Rolando perché
- tra le molte parole che si possono riferire a una figura
come quella di mio padre - egli ha voluto sottolineare
l’aspetto propulsivo, creativo, del pensiero di Colorni: il suo
è “un pensiero fervido”, così ha detto Stefano Rolando, che
si caratterizza per l’audacia, in un momento così cupo della
storia del mondo, di disegnare l’avvenire, di desiderare fortemente la realizzazione di un’utopia. Vivere per il futuro:
ancora una volta un ideale che accomuna profondamente
Colorni e Spinelli e che rende più acuto e insopportabile il
dolore per la morte scandalosa, a soli trentacinque anni, di
mio padre.
Questo aspetto - l’audacia, la creatività, il fervore - mi è particolarmente caro. Anzi vorrei dire che ciò che più mi commuove leggendo i suoi scritti - quelli filosofici ma anche
quelli autobiografici - è proprio il suo “fervore”, qualcosa
che dà voce, con una espressività letteraria che raramente
/ / 75 / /
troviamo nei filosofi di professione, a un’ansia quasi sfrontata
di oltrepassare steccati e certezze riposanti per avventurarsi
in territori sconosciuti, impervi e rischiosi (così è stato per
lui l’abbandono del neoidealismo per la psicoanalisi e la filosofia della scienza).
Era un uomo che non vedeva l’ora
che la guerra finisse per potersi di nuovo
dedicare ai suoi prediletti studi filosofici
e scientifici
Quanto a Geri Cerchiai, permettetemi di dirvi che ho desiderato
fortemente la sua presenza a questo convegno sulla figura di
Colorni perché, curando il volume einaudiano dei suoi scritti
filosofici e autobiografici intitolato Malattia della metafisica
(uscito nel 2009, a cento anni dalla nascita di mio padre) e
corredandolo con una ricca introduzione e un commento capillare a ogni singolo scritto, egli ha offerto un contributo fondamentale e innovativo alla comprensione e diffusione dell’opera di Colorni. Se Geri Cerchiai ha un posto di assoluto
rilievo nella costellazione di coloro a cui devo riconoscenza e
ammirazione è perché egli si è assunto il non facile compito
di ripercorrere, con acribia scientifica mai disgiunta dalla empatica passione del biografo, un percorso intellettuale assai
accidentato e, com’è inevitabile, privo di sistematicità.
Quando io ero ragazza, Ernesto Rossi - che ha firmato con Altiero Spinelli il Manifesto di Ventotene per il quale Colorni
ha scritto la prefazione, mi ha detto tante volte che mio padre
era per così dire “morto per sbaglio”. Era un uomo, diceva
Ernesto, che non vedeva l’ora che la guerra finisse per potersi
di nuovo dedicare ai suoi prediletti studi filosofici e scientifici;
Eugenio, aggiungeva, si è gettato con furia e ardore nella lotta
politica, perché spinto, in quegli anni terribili, da un’esigenza
morale improrogabile e impossibile da eludere, dati i suoi
principi. Ma era, prima di ogni altra cosa, un uomo di pensiero
e di studi.
Fu la lotta politica a condurlo alla morte, ma non era questa la
sua vocazione, non la sua vita. Io immagino che, se fosse sopravvissuto, mio padre sarebbe diventato un filosofo importante,
un professore, o magari uno scienziato (si occupava anche di
teoria della relatività). E’ nato nello stesso giorno mese e anno
di Rita Levi Montalcini, che è morta solo tre anni fa. Ogni
mondoperaio 10/2014 / / / / eugenio colorni
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tanto mi viene in mente cosa avrebbe potuto essere la sua vita,
e la mia, la nostra.
Mentre Spinelli non poteva che fare il politico, perché questa
era la sua vocazione essenziale e irrecusabile fin da ragazzo
(non aveva ancora vent’anni quando, nel 1926, il Tribunale
Speciale lo condannò a sedici anni di carcere per attività cospirativa antifascista), quella che Colorni sognava era la vita
dello studioso, dell’uomo che dedica tutto se stesso alla storia
delle idee e alle avventure del pensiero.
Era un giovane molto colto e versatile, amante della musica e
della matematica, raffinato ed esigente, soprattutto con se
stesso, animato da un severo senso della giustizia, del dovere
e della moralità pubblica, profondamente interessato agli
ideali del socialismo e dell’unità europea. Il suo coraggio, ricordano quelli che lo hanno frequentato negli ultimi mesi
della sua vita, aveva un che di candido e fanciullesco. Era
anche molto simpatico, più di uno ha ricordato la sua risata
contagiosa. Ed era ebreo. I sicari della Banda Koch lo hanno
abbattuto tre giorni prima della liberazione di Roma da parte
dell’esercito americano.
Uno degli aspetti che più hanno influito sulla mia vita è stato
il suo appassionato interesse per la psicoanalisi, che ha segnato
peraltro un momento fondamentale di svolta nella evoluzione
del suo pensiero e della sua ricerca, quello che lo ha “guarito”
dalla “malattia della metafisica”. Come Colorni racconta in
uno splendido racconto (Un poeta) contenuto nei suoi scritti
mondoperaio 10/2014 / / / / eugenio colorni
autobiografici, ad avvicinarlo a questa disciplina e al suo linguaggio, nuovissimi allora in Italia, fu uno tra i massimi poeti
del nostro Novecento, il poeta – libraio triestino Umberto
Saba che i miei genitori hanno frequentato spesso, proprio a
Trieste, tra il 1935 e il 1938 (mia madre ricordava Saba con
affetto, stravaccato su un divano e con uno sguardo arcigno e
un po’ smarrito, ad ascoltare Debussy).
Uno dei momenti di maggior contatto intellettuale ed emotivo
con mio padre io l’ho vissuto quando, molti anni fa, nel tradurre in italiano gli scritti teorici di Freud, mi sono imbattuta
in un libro tedesco da lui posseduto (Theoretische Schriften,
del 1931), e in margine al testo originale de L’introduzione al
narcisismo del 1914, ho potuto scorgere e poi leggere distintamente alcune sue osservazioni a matita che prima mi hanno
lasciato senza fiato e poi mi sono perfino servite per assicurare
a quel saggio, così limpido e perentorio ma anche complesso,
una buona resa italiana. La matita è molto commovente, più
commovente della penna, perché sembra un segno così tenue,
labile, destinato a sparire rapidamente, e invece a distanza di
decenni è ancora lì, forte , eloquente, e vivo. Regalerò quel
libro a mia figlia Sara, che è qui con me e si avvia a diventare
psicoanalista. Le osservazioni a matita di Eugenio Colorni su
un testo fondamentale di Freud sono in parte in italiano, in
parte in tedesco. Spero che trasmettano anche a lei qualcosa
della nobiltà d’animo e della passione per gli studi del suo
grande nonno.
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>>>> biblioteca / recensioni
Ranieri
Diario di un migliorista
>>>> Alberto Benzoni
R
icordate “Gramsci/ Togliatti/ Longo/ Berlinguer”? Quella
sequenza non aveva nulla a che fare con l’ideologia, la
“linea” e nemmeno con il comunismo in sé (per quello bastava,
e avanzava, il “viva Lenin/ viva Stalin/ viva Mao-tse-tung”
della breve stagione delle impazienze e dei deliri). Rappresentava piuttosto la convinzione profonda del popolo comunista: si veniva da lontano e si sarebbe arrivati lontano, guidati
da capi autorevoli perché sempre padroni della rotta. Avanti,
sempre più avanti, nonostante gli errori e le sconfitte: perché
gli errori e gli immancabili ritardi stavano lì per essere superati
e le stesse sconfitte (e malo bonum) rappresentavano la premessa di successive vittorie
Attenzione: non stiamo parlando della vulgata propagandistica
destinata al “popolo bue”. Stiamo parlando di un immaginario
collettivo trasmesso da molteplici analisi politiche e storiografiche che accomuna il gruppo dirigente politico e intellettuale: di un immaginario in cui il partito diventa il luogo deputato dell’impegno individuale e collettivo per cambiare il
mondo. Il mondo di ieri. Un mondo che sarà ricordato, anche
dai critici più aspri dell’eredità berlingueriana (come Macaluso
e, appunto, il nostro Ranieri) con una nostalgia sempre più
lancinante: quella che porterà lo stesso Macaluso, assieme a
pochissimi intimi, davanti alla tomba di Togliatti nell’anniversario della sua morte; e Ranieri a ricordare con rispetto e
ammirazione la figura di quel Berlinguer pur oggetto, già da
allora, del suo radicale dissenso politico.
Dopo il 1984, però, la magia si interrompe. Niente più papi,
profeti o sommi sacerdoti (sostituiti, come vedremo, da “papi
esterni”collettivi e individuali). Si dirà che i vari personaggi
comparsi sul proscenio erano tutti inadeguati alla bisogna
(“Natta/Occhetto/D’Alema/Veltroni/Fassino”, una litania impronunciabile). Il fatto è che sono scomparsi, tutti insieme,
fede e religione, Chiesa, popolo di Dio e fine dei tempi.
E’ vero: il partito è stato al governo o nella maggioranza di
1
governo per dodici dei vent’anni della seconda Repubblica;
un suo autorevole esponente riveste, dal 2006, la massima
carica dello Stato; è e rimane il crocevia della politica e del
potere; non ha più rivali degni di questo nome a sinistra (e, se
è per questo, da nessun’altra parte). Ma, anche prima dell’avvento di Renzi , il senso di frustrazione, la percezione del fallimento, rimane palpabile. O almeno questo è ciò che si
evince sulla base sulla base delle molteplici narrazioni prodotte
dai protagonisti e da autorevoli testimoni della vicenda.
Quando e in che cosa ci si è sbagliati? E chi ha sbagliato e
perché? Perché hanno vinto gli altri? Queste le grandi coordinate
della letteratura “sconfittista”. Una letteratura spesso e volentieri
condizionata da pulsioni strumentali: dal puro e semplice regolamento di conti fino al desiderio di riscrivere il passato
alla luce delle necessità di riposizionamento nel presente.
Nulla di tutto questo nel testo di Ranieri.1 La sua forma è
Umberto Ranieri, Napolitano, Berlinguer e la luna. La sinistra riformista
tra il comunismo e Renzi, Marsilio, 2014.
mondoperaio 10/2014 / / / / biblioteca / recensioni
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quella della elaborazione di un materiale diaristico. Nessun
utilizzo dell’oggi per rimodellare opportunamente le vicende
di ieri. Nessun ricorso al senno del poi. Piuttosto il ripercorrere,
nel corso del tempo, e con il massimo rispetto per la verità, le
vicende di una sensibilità interna al mondo comunista, quella
“migliorista”, delle sue ragioni e delle sue battaglie (effettivamente combattute e no): e soprattutto delle sue ripetute sconfitte.
Umberto Ranieri ci appare qui, come probabilmente è, un
mite idealista: ma ciò non fa che accrescere, anche a distanza
di tempo, la sua indignazione, anzi la sua vera e propria sofferenza. Quest’ultima si tradurrà, nel tempo, in una dolorosa
estraniazione rispetto al mondo in cui aveva vissuto (non altre
le ragioni del suo appoggio alla candidatura De Magistris,
dopo la sciagurata vicenda delle primarie napoletane). La
prima lo porterà irresistibilmente a corroborare i suoi giudizi
e le sue reazioni, caso pressoché unico nella saggistica politica,
con opportuni punti esclamativi.
E’ proprio sull’opzione socialdemocratica
che si giocherà e si perderà, nel corso
degli anni ottanta e novanta, la battaglia
politica all’interno del Pci. E che si perderà
senza averla nemmeno giocata
Una narrazione diaristica, si diceva. Articolata sui vari appuntamenti, quasi tutti interni al partito, in cui i “miglioristi”avranno occasione di misurarsi con i loro oppositori. In un arco di
quasi cinquant’anni, che va dalla seconda metà degli anni sessanta sino all’avvento di Renzi. Parliamo di un evento che
Ranieri, del tutto correttamente, saluta con favore. Non del
successivo e totale trionfo sulla, diciamo così, sinistra tradizionale, cui il nostro amico, nello scrivere il suo libro, non
aveva ancora potuto assistere.
Se l’avesse fatto, forse, la prospettiva, il filo rosso della sua
narrazione, sarebbero stati in qualche misura diversi. Per metterla
nel modo più brutale: lo stesso Renzi aveva dimostrato che il
“vecchio”era, in tutte le sue componenti, non una tigre ma un
castello di carta. E che bastava semplicemente prenderlo a calci
per farlo crollare. E allora come mai questo stesso castello di
carta era apparso ai miglioristi un muro ostile e invalicabile?
Ora, il grande valore del testo sia nell’avere offerto, con
spirito di verità, un materiale di prima mano per rispondere a
questa domanda. Il suo limite è che la sua risposta è una
risposta parziale. Per chiarire, in estrema sintesi, i termini
della questione, possiamo prendere le mosse dalla metafora
mondoperaio 10/2014 / / / / biblioteca / recensioni
del muro. Di un muro che misura la sua consistenza solo se
oggetto di attacco. E qui Ranieri, in un rimarchevole omaggio
allo spirito di verità, ci dice che questo muro i miglioristi non
l’avevano mai veramente attaccato. E non c’è altro da aggiungere ad una narrazione assolutamente esauriente.
Quello che non riesce a spiegarci (la passione politica avrà
potuto fare velo alla sua lucidità di giudizio) è quale fosse la
natura di questo muro, insomma il collante su cui si era
formato. Attenzione: l’argomento è al centro di un racconto
tutto costruito in uno schema rigidamente bipolare, nel confronto tra il riformismo e i suoi avversari. E’ però la descrizione
degli avversari che non appare complessivamente persuasiva;
suscitando numerosi interrogativi.
Cominciamo allora con la definizione della posta in gioco:
insomma, della natura dello scontro che si apre agli inizi
degli anni ottanta. Ranieri lo presenta, proprio all’inizio, nel
contrasto tra i sostenitori dell’opzione socialdemocratica e
coloro che la rifiutano pregiudizialmente. Salvo poi precisare,
nel corso della sua esposizione, che “socialdemocrazia” è
una formula che racchiude in sé non tanto il richiamo alla
/ / 79 / /
“socialdemocrazia reale” e ai suoi protagonisti europei,
quanto piuttosto l’affermazione dei valori del riformismo,
del realismo, della capacità di rinnovamento, contrapposti ai
disvalori del massimalismo, della demagogia, dell’estremismo
e del conservatorismo.
In realtà, come ci racconta con lucida passione lo stesso
autore, è proprio sulla opzione socialdemocratica, e nel senso
tradizionale del termine, che si giocherà e si perderà, nel
corso degli anni ottanta e novanta, la battaglia politica
all’interno del Pci. O - per dirla tutta, e per stare al racconto di
Ranieri - che si perderà senza averla nemmeno giocata.
In linea di principio l’obiettivo della riconversione socialista
– qualunque cosa ciò significasse – poteva essere perseguito
su tre distinti terreni. Quello internazionale, dove però il movimento socialista è ridotto ad un “fantasma con le mezze maniche”, sino ad assistere, nella generale indifferenza, alla
brutale defenestrazione, in Grecia, del suo presidente Giorgio
Papandreu. Quello europeo, dove il fantasma stenta ancora ad
assumere sembianze concrete. E, soprattutto, quello italiano,
dove queste sembianze c’erano, eccome, e dove quindi il progetto avrebbe avuto da subito un significato importante.
Ranieri non entra nei primi due terreni. Non si occupa, insomma, che di riflesso di questioni internazionali, pur essendone
un esperto e appassionato praticante. Un vero peccato. Perché,
in linea generale, avrebbe potuto misurarsi con il male oscuro
del socialismo europeo: l’incapacità di affrontare concretamente
il fenomeno della globalizzazione (con l’eccezione della Germania di Schroeder: gli altri o l’hanno esaltato acriticamente
– vedi Gran Bretagna – o l’hanno esorcizzato a parole- vedi
Francia – o l’hanno semplicemente ignorato – vedi Spagna e
Italia). E perché, nello specifico, avrebbe potuto denunciare il
caso, propriamente pirandelliano, di un partito ex comunista
partecipe a pieno titolo del socialismo a livello internazionale,
socio occulto (almeno sino all’arrivo di Renzi) in Europa,
mentre dalle Alpi al Lilibeo continuava a dichiararsi del tutto
estraneo alla cosa e financo alla parola.
La partita decisiva si giocherà, come detto, nell’arco di tempo
che separa la formazione del governo Craxi dalla frettolosa e
burocratica archiviazione della “Cosa due”. Ranieri vivrà,
con la stesso nostro dolore di oggi, la storia delle varie
occasioni perdute. Si poteva valutare il primo governo a guida
socialista come occasione per ricostruire, su basi nuove,
rapporti a sinistra: e viceversa questo governo e il suo presidente
vengono considerati avversari da abbattere, per essere magari
sostituiti dal governo dei tecnici e degli onesti. Si poteva
vedere la proposta di unità socialista come un’ipotesi di partito
unico e perciò aperto anche ai Cossutta e ai Bertinotti: e viceversa questa proposta viene considerata come una richiesta di
capitolazione. Si poteva valutare l’ondata giustizialista dei
primi anni novanta negli stessi termini in cui il tanto vituperato
partito comunista francese vide la manifestazione del 6 febbraio
1934; e cioè come qualcosa di “altro da sé” cui si doveva dare
una risposta da sinistra, con la costituzione del Fronte popolare:
e viceversa i comunisti assistono compiaciuti alla caccia al
“cinghialone” con lo stesso spirito con cui le tricoteuses
parigine guardavano alla passeggio delle carrette, o con cui i
commercianti “ariani” assistevano, nel 1938, alla chiusura
del negozio del concorrente ebreo. Si poteva, infine, costruire
la “Cosa due” come postuma ma doverosa “raccolta del testimone”: e viceversa l’operazione degenera quasi da subito,
anche per la perdita d’interesse da parte dei suoi promotori, in
una raccolta d’adesioni di stampo frontista.
L’allora Pds si trova proiettato al centro del
nuovo assetto di potere proprio nel punto
più basso della sua parabola politica,
culturale ed elettorale, destinatario di
un’offerta faustiana che non può rifiutare
ma che non è nemmeno in grado
di gestire in prima persona
Si poteva, o piuttosto si doveva. Perché (salvo, forse, nel caso
della “Cosa due”, ma Ranieri non affronta questo tema) era,
diciamo così, altamente improbabile che il Pci/Pds fosse all’altezza delle opportunità che gli venivano di volta in volta
offerte. Pure, delle battaglie andavano fatte. Un confronto politico aperto andava condotto. Da parte dell’ala migliorista nel
suo insieme, e da parte del suo esponente più prestigioso in
particolare. Ma, almeno nei passaggi decisivi, di tutto questo
non c’è traccia. E basterà ricordare, al riguardo ciò che
accadrà, o meglio non accadrà, durante la vergognosa mattanza
di Tangentopoli.
Ranieri trova al riguardo (e ripropone nel suo libro) parole
che suoneranno per sempre a suo onore: ma queste parole
non verranno ripetute là dove avrebbero pesato. E cioè a
livello politico e istituzionale. Un silenzio che all’autore
pesa. E che, all’occorrenza, viene fortemente deplorato. Ma
anche un silenzio che, come ci viene ricordato nel corso del
libro, si riprodurrà nel corso degli anni, anzi dei decenni successivi. E di cui lo stesso Ranieri ci illustra, all’inizio, sommariamente le ragioni. Basate sulla convinzione che, volente
mondoperaio 10/2014 / / / / biblioteca / recensioni
/ / 80 / /
o nolente, il partito potesse uscire dal limbo (post togliattiano
o post berlingueriano che fosse) solo adottando una prospettiva
di tipo riformista, l’altra via essendo quella che avrebbe relegato il partito stesso in un “ruolo di testimonianza e di opposizione”. Di qui la scelta di affiancare la leadership di turno,
mantenendo il diritto alla differenza, ma senza mai tradurre
questa differenza in vera e propria opposizione, o almeno in
uno scontro politico.
In ultima analisi, questa l’opinione di Ranieri, questa strategia
non ha pagato. Perché il partito non è diventato quel “partito
riformista di massa” sognato dai miglioristi; e perché questi
rimangono oggetto di ostracismo: per le loro opinioni e,
qualche volta, nelle stesse loro persone.
Avrebbero, allora vinto gli altri? Le posizioni antiriformiste
perché variamente massimaliste ed estremiste? Oppure, in
una prospettiva diversa, le posizioni antiriformiste perché variamente conservatrici? A giudicare dal suo testo, Ranieri
sembra fare di tutt’erba un fascio, considerando queste due
posizioni frutto di un’unica matrice. E però non traduce queste
sue sensazioni in un ragionamento complessivo. Il che permette
al suo modesto recensore di formulare, al riguardo, una diversa
ipotesi di lavoro: diversa, ma non necessariamente contrastante
con le idee dello stesso Ranieri.
Nel formularla partiamo da un dato indiscutibile. Dal fatto che
l’allora Pds si trovi proiettato al centro del nuovo assetto di
potere - grazie ad altri e a discapito di altri ancora- proprio nel
punto più basso della sua parabola politica, culturale ed elettorale.
Destinatario di un’offerta faustiana che non può rifiutare ma
che non è nemmeno in grado di gestire in prima persona.
In questo quadro (dopo la parentesi movimentista e
ideologico/folcloristica di Occhetto) si aprono al gruppo dirimondoperaio 10/2014 / / / / biblioteca / recensioni
gente ex berlingueriano due strade. Da una parte, l’apertura di
un grande confronto interno, nella prospettiva di creare un
punto di riferimento convincente all’interno del nuovo sistema
bipolare. Ma è un percorso che viene scartato sin dall’inizio.
Sia perché il partito non dispone delle coordinate necessarie.
Sia, e soprattutto, perché qualsiasi apertura al confronto rimetterebbe in di-scussione lo stesso gruppo dirigente e il
sistema che lo sostiene. E allora rimane aperta solo la seconda
strada. Quella del soccorso esterno: o, detto in altro modo, del
“papa esterno”. Saranno, nel primo caso, le ideologie neoliberiste – modello capitani coraggiosi – adottate senza beneficio
d’inventario, ma anche senza la visione complessiva di un
Blair e la concretezza operativa di uno Schroeder. Ma saranno
anche il ricorso alla magistratura e all’Europa (in un contesto
in cui l’una e l’altra esigeranno insostenibili parcelle per il
loro aiuto). E sarà anche l’antiberlusconismo della “borghesia
riflessiva”, tutto calato sulla ripulsa nei confronti del personaggio, a scanso del confronto sulla sua politica e sulla sua visione della società.
Nonché, ovviamente, i vari personaggi in qualche modo
garanti di una funzione di governo che non si riesce ad
esercitare in prima persona: i Dini e i Prodi, i Rutelli, ma
anche i Monti e i Letta. Non ci sono, qui, prezzi pagati all’estremismo o al massimalismo: ma un pedaggio permanente
pagato alla conservazione di se stessi. Poi arriverà Renzi. Che
griderà sopra i tetti che il re è nudo e che il muro della conservazione è fatto di cartongesso. A questo punto l’augurio, sotto
forma di punto interrogativo, è che dalle rovine possa nascere
una formazione riformista nell’impostazione, ma anche, perché
no, radicale nelle proposte. Perché questo avvenga, però, dovremo tutti fare la nostra parte.
/ / 81 / /
>>>> biblioteca / recensioni
Cassese
La continuità
di uno Stato improvvisato
>>>> Luigi Capogrossi
È
apparso poche settimane or sono un denso libro di Sabino
Cassese dedicato alla storia della costruzione statale italiana1. Nessuno forse più di questo autore era in grado di
offrire un quadro così articolato e documentato. Formatosi
alla scuola di uno dei più insigni studiosi di diritto amministrativo del secolo scorso, Massimo Severo Giannini, nel
corso di una lunga e indefessa attività scientifica s’è infatti
imposto tra le figure preminenti della scienza giuridica del
nostro paese a cavallo del secolo come uno dei massimi conoscitori dell’intera macchina amministrativa italiana. E’
anche da segnalare come egli sia tra coloro che maggiormente
hanno esteso il loro sguardo al di là delle frontiere nazionali,
impegnandosi in una riflessione scientifica ormai senza
confini, tesa a confrontarsi con la straordinaria complessità
dei fenomeni giuridici legati ai processi d’internazionalizzazione e di globalizzazione.
All’ampiezza di questi interessi s’è poi associata, in modo abbastanza peculiare, una costante attenzione a collocare i fenomeni da lui indagati in una prospettiva storica. Ne fa fede la
quantità di saggi dedicati a molteplici aspetti di storia della
pubblica amministrazione in Italia che ha arricchito il suo
percorso scientifico. Seguendo tale prospettiva, soprattutto in
questi ultimi anni, egli si è venuto da tempo ponendo, in
termini sempre molto innovativi, alcuni problemi fondamentali
per la storia delle nostre istituzioni e per una migliore comprensione di alcune caratteristiche di fondo della nostra vicenda
politica, e quindi del nostro presente2.
Con questo nuovo libro egli compie un importante passo avanti
1
2
S. CASSESE, Governare gli italiani. Storia dello Stato, Il Mulino, 2014.
Si vedano in particolare i suoi studi sugli elementi di continuità e di
novità apportati all’ordinamento politico italiano dall’avvento del regime
fascista nella peculiare relazione tra ordinamento statale e società che
caratterizza il nostro paese: S. CASSESE, Lo Stato fascista, Il Mulino,
2010; Id., L’Italia: una società senza stato?, Il Mulino, 2011.
su questa strada misurandosi con alcuni problemi di fondo
della nostra storia nazionale e segnando un forte progresso nei
moderni studi sulla storia dell’organizzazione statale italiana,
dagli ormai lontani lavori di Romanelli sino alle più recenti e
fruttuose ricerche di Guido Melis. Già il titolo – o meglio la
specificazione tematica del sottotitolo – evidenzia l’ambizioso
progetto dell’autore: né più né meno che una Storia dello
Stato. L’alto livello di questa sua storia dell’organizzazione
statale nell’Italia moderna è infatti assicurato dalla felice saldatura di una conoscenza profonda della macchina amministrativa e delle logiche inerenti al suo funzionamento (che è
altra cosa, si badi, dal mero “diritto amministrativo”, da lasciarsi
ai nostri consiglieri di Stato) con un ormai collaudato e temprato
mestiere di storico.
Questa continuità è affermata anche
simbolicamente col rifiuto di Vittorio
Emanuele II di Savoia d’affermarsi
come il primo re della nuova Italia
D’ora in avanti il lavoro di riflessione sulla nostra moderna
storia nazionale avrà in quest’opera una sicura base di partenza:
ma soprattutto il brusio continuo e il disordinato rumoreggiare
intorno alle “riforme” della pubblica amministrazione, delle
leggi elettorali, della Costituzione e via dicendo, dai quali
siamo quotidianamente oppressi, dovrà misurarsi con lo spessore
di questa analisi impietosa: i cui risultati, va detto subito, appaiono molto spesso sconcertanti. Per questo essi non devono
restare nel chiuso delle nostre Università o dei ristretti seminari
tra specialisti.
Su questa rivista ho già esposto alcune considerazioni sulla
crisi di fondo della struttura statale del nostro paese. Il libro
qui discusso in qualche modo sposta notevolmente questa
mondoperaio 10/2014 / / / / biblioteca / recensioni
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problematica, riportandola ad una constatazione che segna la
prima parte del lavoro: e cioè che di una “organizzazione
statale moderna” il nostro paese non s’è mai dotato. La debolezza del presente, dunque, ha radici strutturali di fondo,
dando una dimensione veramente drammatica ai nostri dibattiti
correnti. Su questo punto le mie precedenti analisi si mostrano
troppo unilaterali: troppo influenzate, in ultima analisi, da un
assunto di partenza (peraltro non privo di valore, come in
fondo risulta anche da certi risultati del libro qui discusso)
mutuato dal pensiero di una generazione di maestri: da A.C.
Jemolo ad Ernesto Rossi, e a tutto il filone liberale del Mondo.
Dove appunto l’interpretazione di fondo delle trasformazioni
del ventennio fascista e della successiva evoluzione della Repubblica postbellica era permeata da una latente ma pervasiva
idea di “decadenza” rispetto alla stagione postrisorgimentale
dei padri fondatori e dei loro immediati successori, sino a
Giolitti.
Con Cassese è proprio questo punto di vista che viene rimesso
in discussione: e il pensiero va immediatamente a chi, come
Luciano Cafagna, con più immediatezza di quanto non avesse
fatto Rosario Romeo nella sua meritoria biografia di Cavour
(così snobbata dalla cultura storiografica di quegli anni carichi
d’ideologie e di preconcetti) aveva incisivamente insistito sul
carattere di scommessa e d’improvvisazione della costruzione
dell’unità nazionale, tutto giocato sul genio di Cavour3. Perché
a me sembra che proprio la struttura profonda di questa tesi
storiografica sia ora sviluppata nella sua pienezza dalla vasta
analisi svolta da Cassese. Dove si sottolinea la proclamazione
dello Stato unitario come una nascita mancata: senza cesure
di continuità con gli ordinamenti preunitari. E questa continuità
è affermata anche simbolicamente col rifiuto di Vittorio Emanuele II di Savoia d’affermarsi come il primo re della nuova
Italia, restando appunto il secondo Vittorio Emanuele della
vecchia dinastia sabauda. In parallelo la complessiva fisionomia
delle strutture portanti del nuovo Stato unitario è pazientemente
analizzata dall’autore come un mosaico di strutture amministrative mutuate dal regno di Sardegna. Col risultato d’apparirci
un processo svoltosi secondo una continuità slabbrata che finì
col connotare l’intero ordinamento statale come un qualcosa
di provvisorio ed episodico, mai rispondente ad un disegno
generale – ad un’idea di Stato, insomma.
Prioritaria appare, nelle preoccupazioni della dirigenza
politica del nuovo Stato, più che la costruzione organizzativa
e amministrativa – insomma il compiuto disegno sotteso ad
3
L. CAFAGNA, Cavour, Il Mulino, 1999.
mondoperaio 10/2014 / / / / biblioteca / recensioni
uno state building – l’unificazione economica e la creazione
di un mercato nazionale (p. 48, 63). Fu una scelta forse indispensabile, date le catastrofiche, e permanenti, condizioni
del bilancio nazionale: ma non per questo meno fatale per
l’ordine di priorità così definito. Gli squilibri così ingenerati
non vennero mai meno: anzitutto per quella costruzione istituzionale che era stata trascurata. Ma il paradosso lo si trova
anche nella permanente debolezza della nostra stessa economia: o meglio, della sua fisionomia “capitalistica”. Perché la
modernizzazione economica, e il connesso processo d’industrializzazione, continuarono a poggiare sull’intervento statale
e su un capitalismo di Stato le cui radici nell’Italia giolittiana
sono adeguatamente illustrate da Cassese (Cap. XI-XII). Di
qui la permanente debolezza del capitalismo privato, che
non è un fattore secondario nella lunga crisi di ristagno e
nell’oggettivo arretramento del nostro paese nei settori strategici dello sviluppo economico.
L’arretratezza dell’impianto istituzionale
di partenza avrebbe ostacolato a lungo
la piena collocazione delle forme politiche
della democrazia all’interno
dell’ordinamento statale dell’Italia unita
Tutto resta provvisorio in questo Stato “moderno” – l’ultimo
venuto nel consesso europeo e infinitamente meno forte di
quello che sarà il nuovo Reich tedesco – e anzitutto, appunto, la
sua “modernità”. Priva essa stessa di un certificato atto di
nascita: quella carta costituzionale divenuta quasi d’obbligo
dopo la Rivoluzione francese. Una lacuna, si noti, che non durò
qualche anno, magari prolungandosi per qualche decennio, ma
segnò gran parte della sua stessa storia. Al posto di quest’atto
fondativo il vecchio statuto albertino del regno di Sardegna,
chiamato a nuova vita e però inadeguato a dare l’avvio ad un
moderno Stato liberale. L’autore sottolinea con forza come in
esso non fosse neppure garantita la libertà d’associazione, il
fondamento stesso della politica moderna (p. 82).
La faticosa vicenda di questa mancata costruzione di un moderno ordinamento statale ci porta ad un primo nodo problematico. Perché l’arretratezza dell’impianto istituzionale di
partenza e la sua farraginosità avrebbero ostacolato a lungo la
piena collocazione delle forme politiche della democrazia all’interno dell’ordinamento statale dell’Italia unita. Il vizio di
fondo costituito dalla nascita monca del nuovo ordinamento
statale, io credo, non è estraneo ad una peculiarità giustamente
/ / 83 / /
sottolineata da Cassese: il fatto che “in un secolo e mezzo
l’Italia abbia sperimentato dodici diverse leggi elettorali” (p.
80). Questa continua ridefinizione delle regole del gioco
esprime chiaramente l’incerto rapporto tra la società italiana e
le sue classi dirigenti, ma è indubbiamente favorita da una più
profonda incertezza che attiene alla natura stessa dello Stato
inventato nel Risorgimento, ma mai sostanziatosi in un ben
definito ordine legale.
D’altra parte non si deve dimenticare che l’intera storia della
genesi e dello sviluppo delle moderne forme della democrazia
politica e sociale si colloca tutta all’interno della moderna costruzione dello Stato di diritto. Dimentichiamoci i progetti e i
proclami internazionalistici, da sempre così cari alle forze socialiste, ma del cui maggior fallimento celebriamo quest’anno
il sinistro centenario. Perché le lotte politiche, le conquiste di
nuovi spazi e la stessa costruzione novecentesca dello Stato
sociale si collocano tutte all’interno della storia della moderna
statualità: quell’impianto istituzionale, appunto, che appare
così debole e carente nel corso di tutta la nostra storia moderna.
Il che contribuisce a spiegare le difficoltà e le lacune intervenute
nel processo d’integrazione delle grandi masse popolari all’interno della comunità politica nazionale, rendendo ancor
più evidente che in altre esperienze europee il valore d’integrale
supplenza esercitato in tal senso dai moderni partiti: non solo
i partiti socialisti e cattolici, ma – come lo stesso Cassese ci
ha spiegato nei suoi precedenti lavori – dallo stesso partito fascista.
La mancata costruzione di un nuovo e coerente ordinamento
amministrativo, ricostruita nei primi capitoli del libro, trova
il suo logico sviluppo nell’incertezza di fondo che carattemondoperaio 10/2014 / / / / biblioteca / recensioni
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rizzerà in modo permanente il funzionamento del sistema di
governo e la fisionomia stessa dell’apparato burocratico: dove l’impasto di lavoro
pubblico e privato ha
continuato a riproporsi in modo perverso
– salvo forse il tentativo di razionalizzazione portato avanti
da De Stefani - sino
alle più recenti riforme dell’organizzazione burocratica, i cui
aspetti negativi sembrano almeno equilibrare, nella valutazione dell’autore, quelli
positivi. L’esito è a
tutti noto: una burocrazia poco capace di
operare per fini, priva
di motivazione e incapace di rinnovamento: e soprattutto
debole, e quindi permeabile da logiche ad
essa estranee, anche
perché la sua dirigenza è priva di quell’ethos proprio delle
grandi élites burocratiche al servizio dei grandi Stati moderni.
Dove emergono altresì le tragiche illusioni dei riformatori
di sinistra, quando pensarono che bastasse ridefinire in termini privatistici la collocazione e le forme di selezione dei
dipendenti pubblici perché se ne modificassero le caratteristiche di fondo.
Al contrario questa scelta, conclude sempre Cassese, non
ha fatto che accentuare arbitri e privilegi anche finanziari
(p. 131 ss., 144 s.). Come antichi sono la complessiva debolezza delle forme d’organizzazione del potere, solo in apparenza evitata negli anni della dittatura fascista, e i difetti di
fondo dell’impianto normativo; e così egualmente risalente
appare la tendenza a quella che Cassese chiama “entizzazione” dello Stato: la moltiplicazione, in sostanza, dei
mondoperaio 10/2014 / / / / biblioteca / recensioni
soggetti portatori
d’autorità in funzione di obiettivi più o
meno specifici di
volta in volta individuati come realizzabili con una peculiare strumentazione
organizzativa. Di qui
l’ininterrotto proliferare di enti pubblici,
para-pubblici, pubblico-privati, e infine, ultima e non meno costosa invenzione, delle “autorità indipendenti”. Certo si
è che “un sistema
politico nel pieno
della sua forza non
avrebbe acconsentito
a vedersi sottrarre
tante aree d’influenza” (p. 158). Solo
che, appunto, almeno in quest’ultima
stagione questo sistema di deleghe è
stato consapevolmente perseguito
proprio per spogliarsi di poteri sentiti ormai dagli stessi governanti come impraticabili secondo quelle che avrebbero dovuto essere le
regole ordinarie di funzionamento dell’apparato pubblico.
Poco importa poi, anche se certo non è privo di significato
per cogliere le dinamiche profonde del nostro Stato, che
questi stessi strumenti speciali abbiano perso rapidamente
quell’efficacia d’azione per cui erano stati istituiti.
Una caratteristica risalente alle stesse origini ottocentesche
dell’ordinamento statale è poi la porosità dell’organizzazione
di governo e amministrativa rispetto agli interessi e ai gruppi
di pressione privati e di settore. E’ un aspetto importante di
un altro tipo d’ambiguità che l’autore sottolinea a proposito
della costruzione statale italiana: sempre ondeggiante tra
due spinte politiche opposte. Ad un sovente più apparente
che reale “strapotere del centro” si contrappone infatti la
/ / 85 / /
“fluidità”, come Cassese la chiama, dell’esercizio dei ruoli
di governo del potere politico. Sono pagine di straordinario
interesse (e di grande capacità d’ammaestramento, per chi
voglia riflettere) quelle in cui è tracciata la parabola conse-
guente alla rigida centralizzazione dell’intero corpo statale,
con la rigida subordinazione ad uno schema unitario di provincie e comuni e con l’esclusione di ogni ente intermedio
in grado di assorbire all’interno del disegno unitario dello
Stato le profonde diversità di condizioni,
tradizioni e sviluppo che caratterizzavano le varie parti di un paese appena
unificato: ma proprio per questo timoroso di qualsiasi flessibilità che avrebbe
potuto aprire spinte disgregatrici (Cap.
IV).
Quello che però illumina Cassese è anche
il processo opposto derivato da tale rigidità, e che appare particolarmente rilevante in rapporto alla più importante forzatura precedentemente effettuata con la
totalizzante e uniformatrice incorporazione dell’intero Mezzogiorno d’Italia.
Perché proprio tale scelta avrebbe reso
totalmente dipendenti queste regioni dal
centro, ma contemporaneamente avrebbe
reso questo “prigioniero” di quelle: o
meglio di quella loro espressione costituita dalla “piccola borghesia meridionale,
che affollava i ministeri”. Essa finì infatti
col connotare l’intera fisionomia dell’apparato burocratico “secondo la propria
cultura, intessuta di idealismo e di cinismo, di sfiducia nella politica e di ricerca
di garanzie d’imparzialità” (p. 106): una
ricerca facilmente sconfinabile peraltro
in una semplice richiesta di protezione,
aggiungo io.
Non staremo a seguire il ricco percorso
analitico volto a cogliere le diverse vicende e il sovrapporsi di orientamenti
talora anche contraddittori nel disegno
organizzativo dell’amministrazione di
governo che l’Autore viene tracciando.
Due sono i punti su cui vorrei richiamare l’attenzione del lettore: il primo
concerne la pervasiva e insistita funzione delle ragionerie nei ministeri, e
soprattutto il loro processo di centralizzazione nel ministero del Tesoro, divenuto di fatto controllore delle politimondoperaio 10/2014 / / / / biblioteca / recensioni
/ / 86 / /
che di spesa (e non solo delle compatibilità con il bilancio
generale dello Stato) dei singoli ministeri. Il secondo è
ancora più importante, perché ha ingenerato una voragine
tuttora aperta e che non trova soluzioni, stando almeno alla
genericità del dibattito in corso. Si tratta delle nuove regole
per le assunzioni e promozioni della dirigenza statale,
ispirate, com’è noto a modelli stranieri e fondate essenzialmente sulle logiche dello spoils system, “che hanno portato
al vertice persone di varia provenienza, per lo più fedeli a
questo o a quel politico o a quel partito”(p. 141 s.). Con la
conseguenza, aggiunge ancora Cassese, di una dilatata presenza dei consiglieri di Stato con “una funzione di supplenza
nell’inesistente élite amministrativa”.
Un processo penale le cui scelte di politica
del diritto sono celate dietro il vero
e proprio imbroglio dell’obbligatorietà
dell’azione penale
E questo punto ci porta ad una delle contraddizioni di fondo
della storia presente: le “funzioni di supplenza” più in generale
della magistratura (il cui prezzo è però costituito dalla fuga
anche di questo corpo dello Stato dalle sue funzioni primarie).
V’è un capitolo, drammatico per il suo contenuto, intitolato significativamente “I magistrati dall’amministrazione alla politica”, dove, con il consueto stile attento ai fatti e alla documentazione disponibile, l’Autore evidenzia la frattura intervenuta
nel secondo dopoguerra nella funzione e nei ruoli di quest’organo
dello Stato. Sotto l’usbergo di quell’indipendenza del sistema
giudiziario costituzionalmente garantita (e ovviamente funzionale alla concezione stessa dello Stato moderno) s’è verificata
infatti una vera e propria “corsa dei magistrati verso la politica”
che li ha portati a divenire “parte della élite politica, a differenza
di quella francese e a somiglianza di quella americana”. Un’eterogenesi, in verità, tanto più pericolosa in quanto garantita
da un uso a tutto campo di un processo penale le cui scelte di
politica del diritto, quando non di politica tout court, sono
celate dietro il vero e proprio imbroglio dell’obbligatorietà
dell’azione penale: principio cui non a caso la corporazione
dei magistrati è particolarmente affezionata (ed ovviamente
uno dei fondamentali idola di certa cultura di sinistra).
La cosa singolare rilevata da Cassese è che a quest’espansione
del potere giudiziario, sotto gli occhi di tutti, fa riscontro “il
fallimento della funzione principale della magistratura”, giacché
“la giustizia in senso proprio langue”, data la inaccettabile
mondoperaio 10/2014 / / / / biblioteca / recensioni
durata dei processi. Con la conseguenza che “se la magistratura
fa parte della élite del paese, trascura la sua funzione principale,
quella di dare giustizia”(p. 189). Mentre poi io credo sia difficilmente accettabile che un sistema pubblico efficiente possa
permettere che l’indipendenza della magistratura come corpo
giudicante e a tutela delle sue funzioni di terzietà si traduca in
una totale indipendenza dei singoli magistrati. In una fase in
cui anche nei riguardi di ricercatori impegnati nei settori più
astrusi si pretendono controlli di produttività, sovente in modo
molto rozzo, non è possibile che in nessun modo la produttività
o la improduttività di un magistrato sia priva di qualsiasi conseguenza pratica.
Ma soprattutto è evidente che la “corsa dei magistrati verso
la politica”, con la triplicazione dei magistrati arruolati nella
politica successivamente “alle iniziative della magistratura
milanese denominata ‘mani pulite’”(p. 189), ha contribuito
al nodo di fondo denunciato da Cassese e costituito dalla
massimizzazione “dei livelli d’indipendenza, e [da] livelli
d’efficienza inferiori agli standard internazionali”. Sostanzialmente un cattivo uso di questa indipendenza che porta al
paradosso di un’accresciuta domanda di giustizia, e contestualmente di una sempre più generalizzata tendenza alla
“fuga dalla giustizia”, con la ricerca di soluzioni alternative
al processo ordinario (p. 192). Ancora una volta – Costituzione
o no – la forza dei singoli gruppi sociali e delle corporazioni
si trasforma in arbitrio.
Il tono pacato, la ricerca di dati oggettivi, l’attenzione ai
rapporti di causalità ed ai nessi di contestualità, ma anche
alle contraddizioni interne, alla compresenza di più fattori
convergenti o tra loro contrastanti, sono tutti aspetti del
lavoro di Cassese che contribuiranno a farne un duraturo
punto di riferimento non solo per qualsiasi studioso del
diritto e dei sistemi amministrativi e di governo, ma anche
per chi a qualsiasi titolo s’occupi di politica italiana. Perché la grande crisi del nostro paese, che mina l’intero
quadro politico, passa attraverso i nodi individuati in
questo libro. Che io ho letto, debbo confessare, con il crescente sentimento di una catastrofe immanente e pure antichissima nelle sue latenze. E concludendo questa lettura
con una vera e propria sensazione d’ira verso tutti i difensori dell’esistente: a partire da coloro, che soddisfatti
della “Costituzione più bella del mondo”, non vedono che
sotto il suo impero – ma talora anche grazie ad essa ed
alle interpretazioni datane – è stata possibile una paurosa
accelerazione dei processi di disgregazione dello Stato
moderno.
/ / 87 / /
>>>> biblioteca / recensioni
Benvenuto
La concertazione
non è un pranzo di gala
>>>> Maurizio Ballistreri
V
iviamo il tempo della crisi della democrazia a livello globale e delle sue declinazioni nazionali, che ha alla base
una serie di fattori: la progressiva perdita di sovranità degli
Stati, la “privatizzazione della politica”, il prevalere del capitalismo finanziario sulla produzione, la concentrazione di ricchezza in poche mani come mai era avvenuto nella storia dell’umanità, la riduzione del Welfare State con l’esplosione di
una gravissima “questione sociale” segnata dalla diffusione di
povertà e disoccupazione. In Italia tutti questi fattori sono aggravati dall’incapacità di fronteggiare i problemi creati dalla
crisi finanziaria planetaria e dallo stolido rigorismo monetarista
dell’Europa germanocentrica, assieme alla rottura del patto fiscale paragonabile a quella che provocò la Rivoluzione americana al grido di No taxation without representation.
La rappresentanza sociale da parte dei
tradizionali soggetti collettivi, in primo luogo
i sindacati dei lavoratori, appare in difficoltà
Anche la rappresentanza sociale da parte dei tradizionali soggetti
collettivi, in primo luogo i sindacati dei lavoratori, appare in
difficoltà. Un sindacato che ha perduto la grande capacità di
mobilitazione sociale e il potere di interlocuzione istituzionale,
sviluppatesi con la straordinaria stagione di conquiste dell’autunno caldo (aumenti retributivi, occupazione, diritti sindacali e
del lavoro), e arrivate sino alle esperienze stabili di concertazione
degli anni Novanta del secolo trascorso.
Quella lunga stagione è descritta in un nuovo libro di Giorgio
Benvenuto1, uno dei leader storici del sindacalismo italiano,
protagonista di quegli anni al vertice del metalmeccanici prima
e della Uil dopo, con l’originale modello del “sindacato dei
cittadini”; poi Gran commis de l’état al vertice del ministero
1
Scritto in collaborazione con il giornalista Antonio Maglie.
delle Finanze, segretario del Psi nel 1993 e parlamentare del
centrosinistra alla Camera e al Senato, dal titolo “Il divorzio di
San Valentino. Così la scala mobile divise l’Italia”2, che prende
le mosse dal famoso decreto del 14 febbraio di 30 anni or sono
che tagliò la scala mobile, entrando nell’immaginario collettivo
come modello di politica decisionista.
Il filo conduttore del libro di Benvenuto, oggi storico del movimento operaio ed esperto di fisco ed economia, è la scala
mobile, il meccanismo di adeguamento automatico dei salari,
che proprio grazie alle lotte del 1969 e dei seguenti anni ’70
divenne uno strumento formidabile di adeguamento delle retribuzioni al costo della vita, ma anche elemento inflazionistico
in una fase economica segnata dalla fine degli accordi monetari
di Bretton Woods e dalla crescita del costo delle materie
prime importate, petrolio in primo luogo, a causa delle crisi
geopolitiche mediorientali, soprattutto dopo l’accordo del 25
gennaio 1975, “imposto” alla Confindustria di Gianni Agnelli
da Cgil, Cisl e Uil, allora guidate da Lama, Storti e Vanni, ma
i cui leader “marcianti” erano i segretari della Federazione
unitaria dei metalmeccanici, Bruno Trentin, Pierre Carniti e,
appunto, Giorgio Benvenuto.
Attorno alla scala mobile – divenuta nel 1975 a punto unico
su base trimestrale, e quindi egualitaria per i lavoratori, con
una riduzione notevole del peso della contrattazione collettiva
e connessa fortemente alle tendenze inflazionistiche di prezzi
e tariffe – si svilupperà un lungo confronto tra partiti, sindacati
e imprese, segnato dalla strategia rivendicativa sindacale fondata sulla “conflittualità permanente” e dalla barbarie degli
anni di piombo il cui zenith fu l’uccisione del presidente della
Dc Aldo Moro: strategia sindacale basata sul conflitto sociale
che trovò una pesante battuta d’arresto con la vertenza per la
ristrutturazione della Fiat a Torino nell’autunno 1980 e la
“marcia dei 40mila”.
E così di volta in volta, sarà la Cgil di Lama a sostenere l’esimondoperaio 10/2014 / / / / biblioteca / recensioni
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genza di legare i salari alle compatibilità economiche e alla
lotta all’inflazione, nell’ambito del “compromesso storico”;
la Cisl di Carniti per fare affermare il modello dello “scambio
politico” neocorporativo; o la Uil di Benvenuto, funzionale ad
una strategia legata ai modelli sindacali socialdemocratici europei che in Italia, in ambito sindacale, hanno avuto come
“padre nobile” Bruno Buozzi (al quale è intitolata la prestigiosa
Fondazione di studi che l’ex segretario della Uil presiede).
Benvenuto ricostruisce con rigore
storiografico quelle vicende, arricchendole
di aneddoti frutto del suo ruolo
di protagonista
Benvenuto descrive quelle vicende, dall’accordo del 1975 al
protocollo Scotti (dal nome del ministro democristiano del
Lavoro dell’epoca, che utilizzò come base di confronto il
lavoro svolto l’anno precedente dal governo presieduto dal
repubblicano Giovanni Spadolini, il primo “laico” dopo quello
di Ferruccio Parri nell’immediato dopoguerra) del 1983,
segnato da due diverse versioni che il ministro democristiano
sottopose alle parti sociali; e poi, il decreto di San Valentino
del governo presieduto dal leader socialista Bettino Craxi, il
14 febbraio 1984, con il quale vennero tagliati quattro punti di
scala mobile con l’accordo di Cisl, Uil e socialisti della Cgil e
l’opposizione del Pci e della maggioranza del sindacato guidato
da Lama3.
Nel 1985, dopo episodi dolorosi come l’uccisione da parte
delle Brigate rosse dell’economista Ezio Tarantelli (vicino
alla Cisl e ritenuto un “nemico” riformista come nel 1980 il
giornalista del Corriere della Sera Walter Tobagi), che aveva
ideato il meccanismo di attenuazione della scala mobile attraverso la predeterminazione dei punti di contingenza, si arriva
al voto, il 9-10 giugno, sul decreto nel frattempo convertito in
legge dal parlamento, a seguito del referendum promosso dal
Pci di Berlinguer, scomparso in circostanze drammatiche durante un comizio per le elezioni europee del 1984. Vince
Craxi con il suo governo, e l’economia e l’occupazione volano,
l’Italia supera la Gran Bretagna tra le nazioni più sviluppate
2
3
4
Edizioni della Fondazione Bruno Buozzi, 2014, pagg. 527.
Che però non perse mai il “filo rosso” dell’unità d’azione con le altre organizzazioni, sia pure nel quadro di una dura divisione a sinistra tra socialisti e comunisti e tra le tre centrali sindacali, segnata anche da contestazioni ai dirigenti sindacali durante i comizi.
Come quando cita l’“avvocato” che per giustificare la firma dell’accordo
del ’75 dice: “Ma che volete, loro sono i metalmeccanici, sono i più bravi”.
mondoperaio 10/2014 / / / / biblioteca / recensioni
del mondo e il suo prestigio internazionale diventa altissimo,
anche a seguito dell’episodio di Sigonella, che vide il leader
del Psi e premier contrapporsi al presidente americano Regan
nella notte tra il 9 e 10 ottobre 1985.
Benvenuto ricostruisce con rigore storiografico quelle vicende,
arricchendole di aneddoti frutto del suo ruolo di protagonista4,
evidenziando la ripresa dell’unità d’azione tra le confederazioni
dopo il referendum e l’affermazione nelle relazioni industriali
italiane del metodo concertativo tra governo, associazioni datoriali e sindacati per la realizzazione di quelle politiche dei
redditi poi affermatisi nei successivi anni ’90 con i governi di
centrosinistra.
Nel 1993 l’accordo triangolare del 23 luglio con il governo
“tecnico” di Carlo Azeglio Ciampi abolisce la scala mobile in
favore di un meccanismo di programmazione dell’inflazione
“in discesa”, dopo che l’anno prima, con il governo di Giuliano
Amato, si era provveduto ad una radicale modifica del meccanismo introdotto nel 1975 per una drastica attenuazione del
suo impatto sulla struttura salariale.
Il libro, scritto – come dicono gli autori – “con un linguaggio
originale, quindi né in ‘politichese’ né in ‘sindacalese’”, ma
che coglie anche gli aspetti umani degli avvenimenti descritti,
traccia in appendice un profilo biografico dei protagonisti sindacali, politici, imprenditoriali, del mondo accademico e dell’informazione. Dalla sua lettura si ricostruisce una fase storica
della vita pubblica nazionale caratterizzata dal primato della
politica e da un ruolo straordinario dei sindacati e dei lavoratori,
argine al modello capitalistico che purtroppo si è affermato ai
giorni nostri, generando la “società liquida” descritta dal sociologo Zygmunt Baumann: a testimonianza di come senza
forti organizzazioni collettive di rappresentanza – in primo
luogo i partiti e i sindacati – la democrazia diventi sterile.
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Byung-Chul Han
La società della sfiducia
>>>> Giovanni Damele
I
n un paese in cui il tema delle intercettazioni ha occupato
e occupa stabilmente le prime pagine dei giornali, un
libro sul mito della trasparenza e sui suoi vizi dovrebbe
giungere a proposito. Il libro in questione, scritto dal
filosofo tedesco-coreano Byung-Chul Han e intitolato La
società della trasparenza, è stato tradotto da Federica
Buongiorno per le edizioni Nottetempo. Se ne è parlato e
giustamente se ne parla ancora: era inevitabile, visto che
nel frattempo siamo passati dalla retorica delle intercettazioni
alla retorica dello streaming, senza però affrontare i due
temi con la dovuta profondità.
Di questa retorica il libro del filosofo tedesco di origini coreane coglie soltanto alcuni aspetti, dedicandosi ad ampliare
lo sguardo, nello spazio di un saggio breve, in molte direzioni. In direzione ad esempio del tema della trasparenza
come eccesso di informazioni – e qui nota, giustamente,
come a un aumento di informazioni non corrispondano necessariamente scelte migliori – o del tema del “segreto” in
politica. Abbondano le citazioni da Carl Schmitt, che in diversi testi (Han cita soprattutto La condizione storico-spirituale del parlamentarismo odierno e Cattolicesimo romano
e forma politica) ha sottolineato l’intima connessione tra
una certa dose di segretezza e la politica in quanto azione
strategica.
Per Schmitt il postulato della pubblicità «ha il suo oppositore
specifico nella rappresentazione secondo cui a ogni politica
appartengono degli arcana, dei segreti politico-tecnici, che
in effetti sono altrettanto necessari all’assolutismo quanto i
segreti negli affari e nell’impresa per una vita economica
fondata sulla proprietà privata e la concorrenza». Egli contrappone quindi una società che non ha più il coraggio di
«far valere un concetto aristocratico di “segreto”» - come
quella verso cui (apparentemente) ci stiamo dirigendo alla società del XVIII secolo, che al contrario era «ancora
ben sicura di sé». Nella società della trasparenza «non ci
saranno più arcana, né gerarchia, né diplomazia segreta:
soprattutto, non ci sarà più politica, poiché ogni grande po-
litica implica l’arcanum». Tutto, dice ancora Schmitt, «si
svolgerà davanti alle quinte» e «davanti a una platea di Papageni».
Quest’ultima citazione, tratta da Cattolicesimo romano e
forma politica, avrebbe meritato forse più attenzione da
parte dell’autore, soprattutto per il riferimento a Papageno,
l’uccellatore del Flauto magico di Mozart. Schmitt infatti
notava come nel Flauto magico, opera considerata illuminista per eccellenza con la sua simbolica lotta della luce
contro le tenebre, sembrino contrapporsi due diverse immagini. Da un lato, una rappresentazione della “tremenda
e intrepida” autocoscienza e del sicuro autoritarismo dei
sacerdoti-massoni, dall’altro la “diabolica ironia” contro
Papageno, e cioè contro l’uomo comune: il «buon padre
di famiglia, intento all’appagamento dei propri bisogni
economici e liquidato una volta soddisfatti i suoi desideri
e le sue necessità». Questa è quindi la “platea di Papageni”
davanti alla quale la società della trasparenza svelerà i
suoi arcani: è la platea dell’uomo comune.
La politica senza più coraggio, senza più il “coraggio del
segreto”, non è più politica, si autoannulla, segna la sua
fine. L’esempio evidente, per Han, è il partito dei Piraten
(data la sua rilevanza nel panorama politico tedesco, ma
noi potremmo dire le stesse cose del Movimento 5 stelle):
un anti-partito che, «come partito della trasparenza, continua l’evoluzione verso la post-politica», ossia continua
l’evoluzione in direzione di una de-politicizzazione. L’anti-partito non ha colore (è trasparente) nel senso che non
ha ideologia; ha invece opinioni, che rivendica come
libere da condizionamenti ideologici. E come partito di
opinioni (partito che si lascia guidare dalle opinioni dei
propri elettori, opportunamente rilevate in un sondaggio
permanente), l’anti-partito «non è nella posizione di articolare una volontà politica e di produrre nuove coordinate
sociali».
Nella sua analisi - talvolta rapsodica, talaltra appesantita
dalle citazioni, dalle allusioni e da certi trucchetti della fimondoperaio 10/2014 / / / / biblioteca / recensioni
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losofia à la page che iniziano a mostrare la corda (etimologie
spregiudicate, abuso del trait d’union ecc.) - Han tocca
molti temi, ma tralascia alcune ovvietà che, anche se tali,
meriterebbero di essere citate in questo contesto.
Mettere una telecamera dove prima
non c’era favorisce il protagonismo
La prima, sulla quale non vale comunque la pena di dilungarsi, è che a meno di trasmettere in diretta la vita pubblica
e privata dei deputati e dei membri del governo minuto per
minuto (in una sorta di “grande fratello” parlamentare che
forse non dispiacerebbe ai frequentatori del blog di Grillo),
le dirette (ancorché in streaming) di una discussione parlamentare, di un incontro tra delegazioni di governo o partito,
delle riunioni dei gruppi parlamentari non impediscono
che i protagonisti poi si incontrino regolarmente al bar o in
casa di un comune amico per parlarsi a telecamere spente.
Il mito dell’assoluta trasparenza è, insomma, niente più
che un mito, almeno per il momento.
La seconda, più interessante, è l’ingenua convinzione che
basti piazzare una telecamera in una sala del Parlamento (o
in un aula di tribunale) perché tutto sia finalmente “trasparente”, anzitutto a se stesso. Come se la presenza della telecamera non influenzasse (tanto per dirne una) le parole e gli
atti dei politici teletrasmessi, trasformando così il tutto in
una “scena” che difficilmente si sarebbe svolta allo stesso
modo a telecamere spente. Dopotutto, chi argomenta, chi
discute, chi parla allo stesso modo in privato e in pubblico?
mondoperaio 10/2014 / / / / biblioteca / recensioni
Infine, la terza ovvietà è che mettere una telecamera dove
prima non c’era favorisce il protagonismo. E non sempre è
bene. Prendiamo un esempio che può fare al caso nostro. In
Brasile, le sessioni del Supremo Tribunal Federal (una corte
analoga alla Corte Suprema degli Stati Uniti) sono trasmesse
in diretta video. La diretta è integrale. Dal 2002 esiste una
televisione apposita, chiamata TV Justiça (con il suo dovuto
canale su Youtube), che trasmette in diretta i processi, comprese quelle parti che qui da noi sarebbero coperte dal
segreto della cosiddetta “camera di consiglio”, cioè i dibattiti
tra i giudici, con relativi dissensi (talvolta anche aspri) e
scambi di opinioni. Il tutto avviene, ovviamente, in nome
della trasparenza, e non è detto che questa scelta non abbia
effettivamente aiutato a migliorare le pratiche discorsive
dei giudici della suprema corte.
Va anche detto che le prime ricerche sistematiche (in
verità ancora a una fase abbastanza preliminare) sembrano
indicare una tendenza dei giudici a pronunciare voti e
pareri sempre più lunghi, magari con l’intento di accrescere
il proprio prestigio dinanzi all’opinione pubblica. Certo,
non è sempre così: il protagonismo può variare da giudice
a giudice e anche da caso a caso. Alcuni casi, si sa, sono
più sensibili di altri. Recentemente, anche il Brasile ha conosciuto la sua tangentopoli. Una vasta inchiesta (detta
del mensalão) ha condotto a processo esponenti di rilievo
del partito dei lavoratori di Lula. Molti di loro, in quanto
ministri e senatori, hanno dovuto essere giudicati dinanzi
al Supremo Tribunal Federal in quanto “foro privilegiato”.
Tutti si sono trovati a fare i conti con il carismatico
Joaquim Barbosa: di fatto il primo giudice di colore del
/ / 91 / /
Supremo, nominato dallo stesso presidente Lula da Silva,
e simbolo - lui nero e di famiglia povera - delle trasformazioni sociali in atto (pur con molte lentezze e contraddizioni)
nel Brasile contemporaneo. Non sorprenderà i lettori sapere
che dopo un processo costellato da polemiche, autentici
scontri verbali e protagonismi (al termine del quale egli ha
anche rivestito, per ragioni di turnazione, la carica di presidente del Tribunale), Barbosa si è infine spogliato della
toga e ha lasciato la suprema corte, inseguito dalle voci di
una sua imminente carriera politica.
Che sia vera oppure no la sua intenzione di entrare in politica, Barbosa ha rappresentato per molti versi un elemento
di disturbo tra le élite tecnocratiche della suprema corte
brasiliana. Anche per questo la retorica del difensore degli
interessi dell’uomo comune contro le caste politico-giudiziarie ha accompagnato i suoi non infrequenti battibecchi
con i suoi colleghi (trasmessi in diretta, ovviamente). Nel
corso di un processo altamente polemico, nel quale si giudicavano in sede penale esponenti delle alte sfere politiche
di Brasilia, il mito della “trasparenza” ha mostrato i suoi
lati oscuri, lasciando intravedere i rischi di una sorveglianza
morbosa che confonde la “società della trasparenza” con la
“società del controllo” e rischiando tra l’altro, come nota
Han, di annientare la libertà di azione e di decisione.
L’aula di un tribunale e l’aula di un Parlamento non sono
differenti, in fondo, di fronte al mito della trasparenza.
Sorvegliare e vigilare può anche voler dire far sentire il
peso dell’opinione pubblica e togliere, attraverso questo
condizionamento, libertà d’azione al giudice o al deputato.
Il passo successivo è la trasformazione del delegato in por-
tavoce, privo il più possibile di margini di discrezionalità.
In questa sorveglianza continua - e nel desiderio di ridurre
al minimo la libertà di azione e di decisione, ossia la
delega lasciata al politico di turno - sta in fondo la chiave
della retorica della trasparenza. Qui il discorso di Han si fa
veramente interessante, e dice davvero molto anche alla
società italiana. Il mito della trasparenza si trasforma in
volontà di controllo, ma il controllo non può rimpiazzare la
fiducia “che produce liberi spazi di azione”.
Han è (dichiaratamente) debitore di Richard Sennett: «Il
popolo deve avere fiducia nei suoi governanti; se ha fiducia,
accorda loro una libertà di azione senza sentire bisogno di
consultazioni, monitoraggi e supervisioni costanti. Se non
godesse di questa autonomia, il governante non potrebbe
mai fare una mossa». La fiducia, dice Han, “è possibile
solo in una condizione intermedia tra sapere e non-sapere”,
perché “se si sapesse tutto in anticipo, la fiducia sarebbe
superflua”. La trasparenza elimina questa dimensione di
“non-sapere” e con essa elimina ogni spazio per la fiducia.
La trasparenza, insomma, non “realizza la fiducia”, ma la
esclude. Per questo “la domanda di trasparenza diventa
forte proprio quando non c’è più fiducia”.
Gli eletti del M5s giunti in Parlamento con l’apriscatole
per aprire quelle istituzioni popolate da delegati dei quali
non si fidano, sono poi fatti oggetto della stessa sfiducia da
parte del loro elettorato e dei militanti, che chiedono le dirette streaming delle riunioni dei gruppi parlamentari e intervengono per sfiduciare ora un rappresentante, ora l’altro.
Se oggi vogliamo la società della trasparenza, è perché
siamo già diventati la società della sfiducia.
mondoperaio 10/2014 / / / / biblioteca / recensioni
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Le religioni
dell’uomo-Dio
>>> Corrado Ocone
N
on è una tesi nuova quella che
fa da sfondo al ponderoso tomo
di Paolo Bellinazzi, ma ė un’idea che
tendiamo a dimenticare con troppa facilità: che cioè fra comunisti e nazifascisti ci sia stata una unità di pensiero e di intenti, sia dal punto di
vista della teoria sia della tragica pratica novecentesca. Sarebbe interessante capire perché questa dimenticanza abbia ripreso nuovamente vigore
nella sinistra italiana negli ultimi anni,
nonostante il lavoro teoretico e storiografico svolto, in primo luogo su
questa rivista, negli anni Settanta e
Ottanta del secolo scorso. Il fatto è
che ad un certo punto è ritornato ad
operare forte nelle menti quel pregiudizio, perfettamente esemplificato in
Destra e sinistra (1993) di Bobbio,
per cui queste due categorie sono considerate da una parte le principali in
senso assoluto del discorso politico e
dall’altro connotate di un valore ontologico e sovrastorico che si estende
anche all’ambito antropologico e morale: ove la sinistra diventa naturaliter
portatrice di valori positivi e la destra
il contrario.
È l’impianto, d’altronde, su cui si fonda
la nostra Costituzione, che è sì antifascista ma non è proprio ugualmente e
simmetricamente anticomunista. Per
cui, pur essendo non comunista, è passibile di essere letta dai comunisti come
“incompiuta” o ancora e sempre “da
realizzare”. E invece Bellinazzi ci mostra, con dovizia di particolari, proprio
il contrario. Lo fa , come non è usuale,
alternando il registro scientifico a quel-
lo dei ricordi personali, cioè le “rimembranze” di leopardiana memoria
di cui parla nel sottotitolo. Cominciamo
dalle affinità politiche, di cui la storia
ci ha dato ampia prova. Comune è, in
primo luogo, l’odio per la borghesia,
cioè per la classe più dinamica del
mondo moderno. Un’avversione pro-
mondoperaio 10/2014 / / / / biblioteca / schede di lettura
fonda per le forme del suo operare
economico, e quindi per il capitalismo,
e di quello politico. In questo secondo
senso la “democrazia borghese”, e cioè
rappresentativa, viene considerata solo
“formale”: una finzione sovrastrutturale
volta a mascherare il predominio di
una classe sociale sulle masse.
/ / 93 / /
Conseguenza di ciò è anche l’antisemitismo, l’identificazione del capitalismo con lo spirito ebraico. Al bieco
materialismo dei tempi moderni viene
perciò opposto un rinnovato spiritualismo da riconquistare in futuro, all’individualismo lo spirito di comunità. L’idea è quella di un “uomo nuovo”
da plasmare in modo quasi ingegneristico, un uomo riconciliato con se
stesso e con gli altri. È sicuramente
una visione pregna di teologismo, tanto che è perfettamente congruo il richiamo che Bellinazzi fa sin dal titolo
all’idea dell’uomo-Dio, che è anche
l’ idea di una “purezza” o non contaminazione da perseguire quasi con
parossismo e che è la negazione di
ciò che è umano.
Più controversa o discutibile è l’individuazione da parte di Bellinazzi di
questa affinità di fatto nelle filosofie
sette-ottocentesche. Non perché non
ci siano, beninteso: ma perché il quadro è molto più chiaroscurale di come
qui viene presentato. Soprattutto non
convince la posizione di Kant come
“bestia nera”, e quindi origine ideale
dei totalitarismi, per la sua idea di un
Soggetto forte e teso a realizzare “operativamente” le idee prospettategli
dalla sua “immaginazione”. La stessa
idea di una linea di pensiero che, fondata sul primato della “pratica” sulla
“teoria”, da Aristotele porterebbe dritto al pensatore di Koenigsberg è forse
corretta ma non pertinente.
Il problema dei totalitarismi si pone
al livello di teoria più che di pratica,
a livello di quella fallacia razionalistica che scettici e liberali hanno da
sempre messo in evidenza. Forse sono
più i tratti russoviani di Kant che
quelli soggettivistici ad essere passibili
di imputazione dal nostro punto di vista. Né tantomeno Hegel è facilmente
liquidabile come teorico del totalitarismo, anche se qui Bellinazzi è in
buona e vasta compagnia (si pensi
solo a Popper). Hegel è un Giano bifronte che a un certo punto chiude lui
stesso quel processo di apertura e libertà che aveva individuato col termine di dialettica.
Se dovessi giustificare teoricamente
la tesi - che mi trova consenziente della unità di intenti fra i due totalitarismi, farei riferimento agli studi di
due autori pur molto diversi fra loro
quali Zeev Sternhell e Ernst Nolt (che
Bellinazzi non cita proprio). Da una
parte l’unità di intenti fra i due totalitarismi nasceva sostanzialmente da
una comune origine forse tardo-ottocentesca; ma dall’altra i totalitarismi
di destra vanno visti come una reazione al bolscevismo.
Proprio per questo secondo aspetto,
come ogni reazione, anche quella nazi-fascista si gioca sullo stesso terreno,
col segno cambiato. Ma cambiato, in
definitiva, mica tanto: il nazismo, ad
esempio, era nazionalista e non internazionalista: ma pur sempre un socialismo era, come è evidente anche dall’uso del colore rosso e da altre non
secondarie simbologie. Le mie sono
comunque suggestioni: l’importante è
tornare ai documenti senza paraocchi,
e anche con la capacità di mettere in
discussione gli schemi di pensiero più
solidi e accreditati. Virtù che al libro
di Bellinazzi certo non mancano.
Paolo bellinazzi, In nome dell’uomodio. 1789-1989. Rimembranze di un postsocialista, Rubbettino, 2013, pagine 674,
euro 29.
mondoperaio 10/2014 / / / / biblioteca / schede di lettura
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La Riforma
e la democrazia
>>> Danilo Di Matteo
M
assimo Aquilante, nella prefazione al volume a cura di Paolo
Naso promosso dalla Federazione delle
chiese evangeliche in Italia con la collaborazione dell’Unione italiana chiese
cristiane avventiste e della Federazione
chiese pentecostali, ricorda che l’obiettivo è di suscitare interrogativi, di suggerire piste di riflessione. E in effetti
già i contributi dei vari autori si rincorrono e si intersecano in maniera suggestiva, donando al lettore una rappresentazione nel contempo composita e
significativa dell’argomento di fondo.
Proprio Paolo Naso prende le mosse dal
“paradosso protestante”: dalla teologia
di Calvino e “a fortiori di Lutero”, ispirata a una visione “teocratica”, è scaturito un contributo di rilievo all’edificio
della modernità: “La critica teologica e
politica al sistema delle ‘chiese stabilite’, il principio e l’etica della tolleranza nei confronti delle altre confessioni religiose, il superamento del pregiudizio antiebraico furono patrimonio
di rami secondari e minoritari della
Riforma che però ebbero la forza e la
capacità di strutturarsi in chiese che nei
secoli acquisirono consapevolezza e
peso politico all’interno dell’ecumene
protestante”. E Sergio Rostagno individua nel binomio libertà-mutualità la
“posizione protestante”: sulla dialettica
tra libertà e relazione (mirabilmente
espressa dall’esortazione attribuita a
Hannah Arendt: “Pensa con la tua testa
e agisci insieme con altri”) “è costruito
l’intero Nuovo Testamento”.
Ma cos’è, in definitiva, la democrazia?
Noi moderni, scrive Luigi Alfieri, “non
la percepiamo come governo dei
poveri”, bensì “come governo del
popolo inteso come ‘tutti’”. Essa non è
“il governo dei migliori”, però pretende
“di essere non semplicemente una
forma di governo tra altre, e neppure
semplicemente una buona forma di
governo, migliore di altre, ma di essere
la migliore possibile, l’unica legittima,
la sola ammissibile nel nostro orizzonte
storico”. Dentro il fatto della democrazia c’è la sua pretesa di valore, che è
essa stessa un fatto ineludibile.
Biagio de Giovanni, da parte sua,
coglie la tensione fra libertà e uguaglianza: “L’uguaglianza spinge verso
l’omogeneità, la libertà verso la disomogeneità”. E che dire del conflitto “tra
esistenza-vita e storia, dove l’espressione ‘esistenza-vita’ corrisponde al
livello della libertà del singolo, e la storia corrisponde alla sovranità del collettivo, alla creazione di spirito oggettivo”? Lo Stato-nazione è divenuto “il
contenitore della democrazia, la sua
forma politica”, il luogo di mediazione
fra spinte contrastanti: eppure già il
Manifesto del Partito comunista di
Marx ed Engels contiene la “previsione
di una economia mondializzata che
avrebbe travolto – o almeno messo in
radicale discussione – la forma” dello
Stato-nazione. E’ dunque possibile una
democrazia oltre il suo classico contenitore? “Può esistere un demos europeo?”. Probabilmente “in Europa tante
sono e tante saranno le forme di democrazia”, in corrispondenza dei vari
demoi. Ma se, in seguito alla globalizzazione, il luogo tradizionale della
democrazia è scompaginato, “come e in
che forme si potrà ricostituire?”.
Elena Bein Ricco, dal canto suo,
sostiene che “se il mondo è privo di
armonia e di ordine, i credenti non possono sottrarsi alla possibilità di porvi
mondoperaio 10/2014 / / / / biblioteca / schede di lettura
rimedio, impegnandosi attivamente per
renderlo più vivibile e più giusto, in
linea con quella idea guida del protestantesimo riformato secondo cui la
storia è il luogo della vocazione dei credenti e il banco di prova della loro
fede”. In virtù del concetto di patto,
l’assetto della comunità civile non
viene più identificato “con un ordine
naturale e immutabile che discende dall’alto, ma con una costruzione che si
crea dal basso”, grazie a un libero
accordo tra gli esseri umani. E presupposto fondante della democrazia è la
nozione di individuo-cittadino, titolare
di diritti civili, politici e sociali.
Douglas F. Ottati delinea alcuni tratti
del cristianesimo sociale americano, a
partire dalla figura di Walter Rauschenbusch, il principale sostenitore del
Social Gospel: “Gli insegnamenti
morali di Gesù acquistano il loro vero
significato” solo alla luce della speranza nel Regno di Dio, “un’immagine
e una concezione intrinsecamente
socio-politica che coinvolge tutti gli
aspetti della vita umana”, in vista di una
grande trasformazione. E la prospettiva
di una democrazia economica può condurre al socialismo. Reinhold Niebuhr,
invece, non condivideva lo stesso ottimismo e si chiedeva piuttosto: “Cosa
dobbiamo fare dal momento che non
siamo abbastanza buoni da amarci l’un
l’altro? […] è la capacità dell’essere
umano per la giustizia a rendere possibile la democrazia; ma è l’inclinazione
dell’essere umano all’ingiustizia a rendere la democrazia una necessità”. E
Martin Luther King rilevava come l’ansia e il conflitto esercitassero un peso
notevole sull’esistenza degli esseri
umani in un mondo frammentato, e
definiva la redenzione come il superamento di ciò.
Wolfgang Huber, poi, nota che per Die-
/ / 95 / /
trich Bonhoeffer “la fede è qualcosa da
prendere sul serio, e non tanto come
una regione separata nell’esistenza
umana, come una riserva della pietà la
domenica mattina o come un sentimento del proprio intimo, bensì come
atto di vita”, come cura a favore della
vita altrui. E se Hanz Gutierrez mostra
alcuni dei “cortocircuiti” e delle anomalie della democrazia rappresentativa,
che tende ad esempio a divenire “una
democrazia burocratica”, Nadia Urbinati si interroga sul fenomeno populista: “La protesta contro gli intellettuali
e l’alta cultura, gli attacchi alla ‘spazzatura’ cosmopolita dei ‘pezzi grossi’ in
nome del ‘senso comune della gente
comune’ che vive del proprio lavoro e
abita lo spazio ristretto di un villaggio o
di un quartiere” sono ingredienti dell’ideologia populista. Tale polarizzazione
– da un lato i molti, il popolo, la maggioranza; dall’altro le elite, i pochi –
tende però a escludere, non a includere.
Se alla base della democrazia vi sono il
cittadino e la libertà uguale, l’essenza
suprema del populismo è “il popolo”:
“Il conflitto fra i diversi interessi in
gioco e fra le classi sociali” non si
svolge “attraverso il linguaggio delle
istituzioni e delle procedure, bensì
come espressione diretta della forza
sociale che fa dello Stato il suo strumento”, al fine di superare il pluralismo
delle opinioni mediante la “produzione
di una narrazione dominante”, fondendo “in uno solo la pluralità di pubblici che costituisce ciò che in una
società democratica definiamo opinione pubblica”.
Stefano Fassina, dal canto suo, mostra
con chiarezza due diversi approcci alla
crisi economica. Alcuni pongono l’accento sulla capacità di offrire in
maniera competitiva beni e servizi
(“siamo in crisi perché non cresciamo”). Altri insistono sull’esigenza
di incrementare la domanda (“dalla
crisi si esce con la crescita”). In realtà
“ciò che conta è l’equilibrio di
domanda e offerta ed entrambi i lati del
mercato contano nel determinarlo”. E
Mauro Ughetto ricorda che “non c’è
società democratica con un pensiero
unico o senza pensiero”, e che l’unico
“universale” concepibile è la non
oppressione.
Letizia Tomassone, a proposito della
differenza di genere, ricorda fra l’altro
la “Dichiarazione dei sentimenti” delle
donne convenute nel 1848 a Seneca
Falls: “Il richiamo alla funzione positiva della parola femminile era già
chiaro ed evidente al tempo della
Riforma protestante, quando donne
come Caterina Zell, la ‘dottora’ di Strasburgo, rivendicavano la loro partecipazione anche di pensiero al farsi della
chiesa riformata”. E Monica Fabbri, a
proposito delle sfide della bioetica,
prende le mosse dall’articolo 8 della
Convenzione dei diritti dell’uomo firmata a Roma nel 1950. Esso definisce il
“diritto al rispetto della propria vita privata e familiare”, al riparo dall’ingerenza di un’autorità pubblica. Herbert
Anders insiste invece sull’infrangersi
del sogno di una crescita illimitata e
ricorda che “il protestantesimo individua il centro della vita extra nos, al di
fuori dell’umana impresa”: da qui il
carattere provvisorio e imperfetto delle
nostre azioni e il bisogno di lasciare
spazio a una varietà di risposte e di prospettive.
Valdo Spini, poi, rievoca in maniera
suggestiva la propria partecipazione,
nel settembre 1994, al congresso del
Labour Party di Blackpool: la segreteria dell’evento “era ospitata nella locale
chiesa metodista”. E che dire del
pastore e teologo svizzero Leonhard
Ragaz, “che partiva dal Sermone sulla
montagna e dalle Beatitudini proclamate da Gesù nei confronti dei poveri,
degli ultimi e dei deboli per indicare la
scelta a favore dei lavoratori nel Partito
socialista svizzero, e che costituì la
Lega internazionale dei socialisti religiosi”? E Katrin Göring-Eckard
sostiene che “in democrazia le chiese e
le religioni, in un campo di tensione
compreso tra prossimità e distanza critica nei confronti dello Stato, hanno tra
l’altro il compito, da una parte, di contribuire a modellarlo, dall’altra di metterlo di fronte a uno specchio. Esse
sono partner importanti che possono
immettere nella pubblica discussione
aspetti particolari” e sono anche “un
correttivo importante nelle società in
cui il fondamento del senso” rischia di
ridursi all’economia.
È Debora Spini a tirare le fila del di-
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scorso e a esprimere “preoccupazioni
protestanti”. Ella nota che la governance globale è sì fluida, “ma anche
opaca e lattiginosa”, e i cittadini si
sentono sempre più confusi e impotenti. La rabbia “può essere passione
distruttiva, ma può diventare” passione “mobilitante e creativa se orientata” a rimuovere le ingiustizie. Oggi,
però, i canali che permettevano una
traduzione dell’insoddisfazione e
dell’indignazione in azione politica
sono più che mai stretti e aridi.
“Uomini e donne non hanno più a disposizione un vocabolario, una grammatica che li aiuti a riformulare le loro
sofferenze in termini di ingiustizie
sociali”. La nostra attenzione deve
volgersi “allo snodo fra società civile e
‘politica’”. È in esso, infatti, che “si
inserisce una dimensione cruciale:
quella del potere”. E il protestantesimo, in quanto “agente come parte
della società civile italiana”, deve
preoccuparsi “di richiedere e promuovere una riassunzione di responsabi-
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lità” da parte sia dei rappresentati, sia
dei rappresentanti: “Come eredi di un
processo storico iniziato con le parole
‘qui io sto’, abbiamo forse un po’ di
esperienza nel vivere con passione, e
qualche carta in regola per chiedere a
noi stessi e a chi ci sta intorno di tornare a dire, ancora una volta,
‘Eppure!’”.
Protestantesimo e democrazia, a cura di
Paolo naso, claudiana, 2014, pp. 272,
€ 18.50.