l`infermiere straniero in Italia: prove di integrazione

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L’infermiere straniero in Italia:
prove di integrazione
di Palma Bernardi
Infermiera, Azienda Ospedaliera Universitaria Careggi, Firenze
Corrispondenza: [email protected]
Nell’Unione Europea (UE) l’immigrazione è un fenomeno che ha assunto proporzioni importanti. Nella UE a 27
Paesi, un’area con circa mezzo miliardo di persone, gli
immigrati con cittadinanza straniera sono circa 28 milioni
(inizio 2006), ma si arriva a circa 50 milioni se si includono quanti nel frattempo hanno acquisito la cittadinanza
della nazione di residenza (Caritas Migrantes, 2007).
Tra gli elementi chiave dell’unificazione europea e della
migrazione è inclusa la libera circolazione dei lavoratori,
che assume caratteristiche diverse secondo la legislazione dei vari Paesi. In Italia gli infermieri, per una serie di
cause derivate da scelte politiche e formative, sono diventati insufficienti al fabbisogno sanitario nazionale, con un
conseguente reperimento d’infermieri all’estero: la maggior parte proviene da Paesi dove le condizioni di vita
sono difficili, la sanità non funziona, le condizioni sociali
ed economiche spingono a emigrare alla ricerca di una
vita migliore.
L’OMS sottolinea la negatività di questo fenomeno e invita a contenere i flussi migratori dei professionisti sanitari, mirando a sostenere politiche volte alla formazione in
loco, alla valorizzazione del ruolo professionale e sociale
degli infermieri e delle altre figure sanitarie. Questo perché depauperare le zone povere di risorse sanitarie non
è una strategia né efficace, né vincente. Sguarnendo le
realtà più deboli di risorse umane e professionali si crea
un effetto domino: vale a dire che l’infermiere di un Paese povero emigra verso uno ricco e il suo posto viene
occupato da un infermiere che arriva da un Paese ancora più povero, provocando un ulteriore peggioramento
delle condizioni sanitarie. L’OMS individua, come garanzia per il funzionamento dei sistemi sanitari nazionali, il
rapporto minimo di 100 infermieri ogni 100.000 abitanti. In Uganda, Liberia e Repubblica Centrafricana, ad
esempio, si contano meno di 10 infermieri ogni 100.000
abitanti; all’estremo opposto, Finlandia e Norvegia possono contare su 2.000 infermieri ogni 100.000 abitanti. Il
Rapporto sullo stato del mondo 2006 dell’ONU denuncia
l’esodo di circa 20.000 emigrati tra medici e infermieri,
dall’Africa verso il Nord del mondo (Giorgi, 2008).
In Italia, dove a oggi la media dei medici per abitanti è più
alta rispetto a quella europea, si è alla ricerca di infermieri. La normativa vigente in Italia sull’immigrazione degli
extracomunitari (legge Bossi-Fini) aggiunge gli infermieri
alle categorie speciali, sottratte alle norme sui flussi migratori, aprendo così una corsia preferenziale per questi
professionisti. Definita quindi da una parte la richiesta
del mercato e dall’altra la legge che permette l’ingresso
in Italia per lavorare, resta da riflettere sull’ultimo passaggio, ovvero il reclutamento degli infermieri stranieri.
Pochi arrivano da soli, la maggioranza tramite agenzie
specializzate: è a questo proposito che si apre una pagina
poco chiara di questi flussi, in cui gli arrivi di extracomunitari vengono connotati da interessi contrapposti. La
prestazione di lavoro infermieristico spetta alle agenzie,
le quali, secondo la normativa che regola il mondo del
lavoro (legge Biagi), devono gestire l’intero ciclo dalla selezione ai contratti. Alcune gare pubbliche, però, aprono
ancora spiragli a cooperative sociali e studi professionali associati, in generale meno costosi e più flessibili. Le
agenzie di somministrazione costruiscono legami con
i Paesi dove gli infermieri vengono reclutati; una volta
ingaggiati, a seconda dello Stato e degli accordi internazionali, le agenzie si occupano di facilitare le procedure
per il riconoscimento del titolo di studio. Gli infermieri
che arrivano così in Italia hanno già un posto di lavoro,
un alloggio e uno stipendio. Da questa situazione è nato
un mercato del lavoro ambiguo, contraddistinto da ampia discrezionalità da parte delle agenzie interessate: ad
esempio, ci sono molti infermieri iscritti al Collegio Ipasvi
di una città, che pure lavorano in tutta Italia mantenendo la residenza tramite agenzia. Sui contratti di lavoro e
su chi e come incassa lo stipendio ogni agenzia ha la sua
prassi. Ne deriva che gli infermieri in questione si trovano
in condizione di fragilità, dipendono dall’agenzia all’arrivo e spesso questo rapporto si protrae.
Questa situazione influisce sulla retribuzione sia degli
infermieri stranieri che di quelli italiani: le aziende che
usufruiscono degli infermieri stranieri risparmiano sugli
stipendi perché hanno la possibilità di assumerli con diversi tipi di contratti, mantenendo un compenso che è dal
20% al 40% più basso rispetto a un infermiere di ruolo
(Ciccarello, 2006).
Ma non si tratta solo di problemi sociali: avere infermieri
assunti con contratti diversi che hanno lo stesso ruolo,
le stesse responsabilità e guadagnano di meno o di più
secondo chi li paga, crea un clima di lavoro conflittuale
e svalorizza la professione. L’obiettivo di “far più soldi
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Gli infermieri stranieri a Firenze
Figura 1 - Fronte del cartoncino informativo del
Punto d’Ascolto del Collegio Ipasvi di Firenze
Per l’indagine che qui presentiamo è stato predisposto
un questionario ad hoc, sulla base dei dati derivanti dal
Punto d’Ascolto del Collegio Ipasvi di Firenze (Figure 1
e 2). La distribuzione è avvenuta nelle strutture più significative della sanità pubblica e privata fiorentina, a tutti
gli infermieri stranieri rintracciati. Sono stati consegnati circa 200 questionari, di cui 130 restituiti compilati,
provenienti per il 72% dai servizi sanitari privati e per il
28% da quelli pubblici.
Nella realtà fiorentina, il 93% degli infermieri stranieri
è donna e di giovane età (Figura 3). Il 63% dei rispondenti è comunitario, con un picco di presenze di cittadini
dell’Europa dell’Est, sia comunitari che non. Il 65% è
arrivato in Italia tra il 2001-2009 e il 43% è arrivato con
un’organizzazione. In linea con questi dati, il 55% lavora
in Italia da pochi anni (Figura 4).
Coloro che sono arrivati mediante organizzazioni che
svolgono le procedure dovute, hanno trovato subito lavoro come infermieri (61% dei rispondenti). Rispetto
all’ipotesi di una frequente mobilità sul territorio italiano, i dati emersi riportano invece un 56% di “stanziali”
tra i rispondenti; il restante 44% mantiene invece una
considerevole mobilità, iniziando a lavorare nel settore
80
51%
70
Figura 2 - RETRO DEL CARTONCINO INFORMATIVO DEL
PUNTO D’ASCOLTO DEL COLLEGIO IPASVI DI FIRENZE
Fasce di età
60
50
35%
40
30
20
possibile” prima di tornare in patria incentiva l’autosfruttamento; quest’ultimo, di cui fa parte ad esempio
la disponibilità a fare più turni, assieme alla scarsa conoscenza dell’italiano, alla bassa o diversa professionalità
degli stranieri, scatena nei colleghi italiani insofferenza e
rifiuto.
La normativa prevede che per essere assunti con contratto a tempo indeterminato occorra essere cittadini italiani
o, dopo l’ingresso nella UE, cittadini comunitari. Questo
requisito ha creato una situazione molto diversa tra sanità
pubblica e privata: da quando è cominciata la carenza infermieristica i pochi infermieri italiani disponibili si sono
indirizzati, attraverso i concorsi, nel settore pubblico,
lasciando totalmente scoperto quello privato. La sanità
privata, per la propria sussistenza, ha dovuto ricercare risorse umane tra gli infermieri stranieri, dando così inizio
a quel mercato del reclutamento di cui abbiamo parlato.
In Toscana la maggioranza degli stranieri lavora nel settore privato.
50
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10
6%
2%
5%
1%
0
26-35
20-25
36-45
46-50
+50
nr
Figura 3 - FASCE DI ETÀ
80
70
60
50
40
30
20
10
0
55%
28%
6%
1-5
6-10
11-15
Anni di lavoro in Italia
Figura 4 - ANNI DI LAVORO IN ITALIA
11%
16-20
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45
32%
40
35
30
20%
25
20
15
10
3%
5
0
Comunicative/
relazionali
operative/
tecniche
Altro
Figura 5 - GENERE DI DIFFICOLTÀ SEGNALATE
29%
24%
9%
7%
Pregiudizi
razziali
Differenze
religione
Diversi principi
morali/etici
Differenze
culturali
Figura 6 - DIFFICOLTÀ RILEVATE NELL’ASSISTENZA
60
43%
37%
50
27%
20
9%
10
Altro
Nuove
tecnologie
3%
Tecniche
infermieristiche
sconosciute
0
Farmaci
sconosciuti
30
25%
Terapie
complesse
40
Organizzazione
del lavoro
assistenziale-domestico. Questi ultimi si inseriscono tra quelli che sono arrivati autonomamente.
L’84% dei rispondenti ha ottenuto il titolo di
studio nel proprio Paese; chi è venuto autonomamente o tramite amici e parenti ha trovato difficoltà per il riconoscimento del titolo
di studio, tanto che a volte ha svolto ex novo
l’intero percorso di studi.
Il 63% ha imparato l’italiano qui, lavorando;
il 56% pensa di conoscerlo a un buon livello.
Chi riconosce di avere dei problemi di lingua
lo deriva dalle difficoltà che riscontra nel redigere le annotazioni di percorso dei propri assistiti (18%). Si evidenziano problemi di ortografia, grammatica, ma soprattutto la difficoltà/carenza di un linguaggio tecnico-specifico.
Per quello che riguarda la comprensione delle
prescrizioni mediche, si riscontrano difficoltà
per alcuni termini tecnici-clinici, ma buona
parte dei colleghi stranieri imputa alla pessima
scrittura dei medici una buona parte dei propri problemi.
Per quello che riguarda l’integrazione, il 56%
lavora con italiani, il 20% con stranieri e il
24% con entrambi. Le difficoltà segnalate si
concentrano sulle figure di supporto (OSS/
OSA/OTA) e sono in prevalenza comunicativerelazionali (Figura 5). Il 21% indica di sentirsi
trattato differentemente rispetto all’infermiere
italiano, a causa di pregiudizi, sottovalutazione
o sfiducia nei confronti del diverso. Alla domanda sulle difficoltà riscontrate nell’assistere
pazienti italiani, solo il 9% ne indica, per lo
più di lingua e solo all’inizio. In realtà nelle domande successive il 29% riscontra pregiudizi
razziali e il 24% differenze culturali (Figura 6).
Tra le difficoltà professionali segnalate troviamo ai primi posti i farmaci sconosciuti (43%)
e le nuove tecnologie (37%): nella maggioranza
dei casi, infatti, i colleghi stranieri provengono
da Paesi dove la sanità non possiede tecnologia
avanzata. Si riscontra in parte disorientamento
anche per prestazioni infermieristiche sconosciute e diversi modelli organizzativi del lavoro
(Figura 7).
Solo il 12% dei rispondenti ritiene di non
avere una formazione professionale adeguata;
chi ha fatto tutti e due i percorsi riconosce che
Figura 7 - DIFFICOLTÀ RILEVATE NELLA PROFESSIONE
1. In Perù, come in quasi tutto il Sud America, la formazione infermieristica è universitaria dall’inizio degli anni ottanta. Gli infermieri godono in questo Paese di una consolidata autonomia, probabilmente perché il loro riferimento è quello anglosassone, e
di un forte riconoscimento sociale.
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quello italiano è migliore. Quasi tutti i rispondenti ritengono importante l’ECM e riescono ad aggiornarsi.
Circa l’attesa di rimanere in Italia, il 71% afferma che vi
rimarrà perché è qui che si è creato una famiglia o per le
migliori condizioni di vita e di lavoro. Per chi desidera andare via, la motivazione principale è la famiglia lontana.
Conclusioni
Questo l’identikit dell’infermiere straniero medio in Firenze: donna, giovane (26-35 anni), arrivata in Italia con
un’organizzazione che ha svolto tutte le pratiche e le ha
dato la possibilità di lavorare subito, a dispetto della conoscenza della lingua non sempre accettabile. Si è laureata o diplomata nel suo Paese, con risultati decorosi. Si
è integrata bene, ha fatto amicizie con colleghi stranieri
e italiani e non ha trovato grosse difficoltà a lavorare in
Italia.
In complesso, gli infermieri stranieri sono soddisfatti di vivere qui: molte, vista la prevalenza femminile, si
sono costruite una famiglia. In buona misura dichiarano di sentirsi apprezzati (“Siete una popolazione molto
calorosa, riuscite a far parlare anche le persone chiuse”)
e sono contenti di abitare e lavorare qui. La situazione
fiorentina appare un’isola felice: niente caporalato, niente sfruttamento, niente turni massacranti o agenzie poco
trasparenti.
Nella maggioranza dei casi le difficoltà nascono nel settore privato: sono principalmente di ordine relazionale
tra infermieri e figure di supporto, che non accettano
volentieri di essere dirette da stranieri; questi problemi
sono emersi in particolare con gli infermieri peruviani1,
i quali affermano che in Italia l’infermiere non è riconosciuto, non ha la stessa autonomia di cui invece gode
l’infermiere peruviano nel suo Paese (“Quello che fate qui
non è un lavoro da infermiere... in Perù non si fa assistenza
di base”). Anche gli infermieri spagnoli, meno numerosi oggi rispetto a pochi anni fa, la pensano come i sudamericani: “In Italia non c’è considerazione della figura
infermieristica”1.
Sono pochi quelli che si sentono trattati diversamente da
un infermiere italiano e comunque il problema principale è il pregiudizio: “Quando sentono l’accento straniero ti
guardano strano”. La sfiducia nel diverso tende in genere
a risolversi lavorando insieme e conoscendosi. Si avverte
invece la diversità culturale nelle questioni quotidiane,
dalle cose più semplici che a volte sembrano incomprensibili, a quelle più complesse come i molti problemi etici
della professione.
L’infermiere straniero è generalmente preparato o comunque attento al suo aggiornamento. Ha difficoltà
d’inserimento per una differenza di standard formativi
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tra un Paese e l’altro, difficoltà che peraltro andrebbero
valutate con l’aiuto di chi lo accoglie all’inizio del suo
percorso; è sicuramente più disponibile al lavoro, visto
che viene qui per questo, ma ha anche voglia di crescere
professionalmente, trovando difficoltà in questo a causa
dei costi di master o altri corsi (“Costi e tempo... sempre
al lavoro”).
Risente molto del clima politico attuale e delle campagne denigratorie dei giornali verso gli stranieri: oggi il
pregiudizio razziale è un aspetto imponente rispetto ad
anni fa, ma lavorando nel settore dell’assistenza l’infermiere straniero ha più capacità sia nell’affrontare questi
problemi, sia di arricchire l’assistenza con il confronto.
Come infermieri, italiani o stranieri, ci confrontiamo con
la sofferenza, la malattia, la morte: un elemento di aggregazione che ci vede coesi di fronte ai nostri assistiti.
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