Con la Brexit nell`immediato cambierebbe poco. Gli effetti si
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Con la Brexit nell`immediato cambierebbe poco. Gli effetti si
16 Venerdì 10 Giugno 2016 COMMENTI & ANALISI CONTRARIAN RINNOVABILI IN CERCA DI RETI PIÙ INTEGRATE Regolazione dei flussi energetici e sviluppo di un sistema integrato di reti al centro dello Smart Renewable Energy Forum che si tiene in occasione di Intersolar Europe, maggiore fiera internazionale per l’industria del solare. Si tratta di temi di estrema attualità perchè la crescita impetuosa delle rinnovabili sta cominciando a mettere a dura prova il sistema elettrico, come si è visto nel periodo di Pentecoste in Germania, dove sulla costa soffiava un forte vento mentre a sud del Paese splendeva il sole. Per via delle ferie la richiesta a scopi industriali era ridotta, per cui, per la prima volta e pur per breve tempo, la quasi totalità del fabbisogno energetico tedesco è stata soddisfatta dalle fonti rinnovabili. Nella mattina di domenica 8 maggio, fra le 11 e le 12, gli impianti solari ed eolici hanno prodotto da soli una potenza di oltre 48 mila megawatt, circa il 75% del consumo totale. Tutte le fonti energetiche rinnovabili sommate hanno coperto l’87% del fabbisogno, segnando un record. Ma la rapida espansione degli impianti fotovoltaici ed eolici pone anche problemi, perché numerose centrali elettriche meno recenti non possono essere adattate in modo sufficientemente rapido. Così alla borsa elettrica di Lipsia i prezzi energetici sono scesi anche sottozero. E chi ha immesso energia autoprodotta nella rete ha finito per pagare i suoi clienti per consumare energia. DIASORIN HA ANCORA CASSA DA INVESTIRE L’acquisizione di Focus vale a DiaSorin l’aumento del prezzo obiettivo da 54 a 60 euro, secondo le valutazioni di Berenberg, che ha elevato le stime di utile per il periodo 2016-2019 del 6-10%. Per quest’anno gli esperti si aspettano un utile netto di 118 milioni di euro dai 101 del 2015, con un dividendo in aumento da 0,65 a 0,75 euro per azione, ebitda da 185 a 212 milioni a fronte di ricavi pari a 576 milioni (da 499 milioni). Berenberg ritiene che il gruppo stia godendo di una sana crescita globale, trainata in particolare da Asia e Stati Uniti e dalle collaborazioni con Roche e Beckman Coulter. La banca prevede una crescita dei ricavi entro il 2019 dell’8-9% anche grazie al lancio della vitamina D in Giappone e alla piattaforma Liaison XS. Parole positive anche per il ceo Carlo Rosa, definito disciplinato e dotato di metodo, DIASORIN ma Berenberg esorta il cda a quotazioni in euro 58 usare il capitale in maniera 54 efficiente. 50 L’acquisizione IERI di Focus per 300 46 milioni di dollari 55,6 € è definita una +1,09% 42 mossa strategica 9 mar ’16 9 giu ’16 a un prezzo interessante che permette all’azienda di avere un punto d’appoggio concreto per entrare nel segmento del mercato della diagnostica in vitro. Anche considerando l’acquisizione il flusso di cassa della società resterà positivo anche se modesto. Secondo gli analisti DiaSorin ha ancora 750 milioni di euro a disposizione per rafforzare la sua posizione sia nella diagnostica molecolare sia nel dosaggio immunologico. Con la società in anticipo rispetto al suo piano triennale, gli analisti si aspettano nuovi obiettivi aziendali all’inizio del prossimo anno. Le azioni, attualmente scambiate in borsa a 22 volte il multiplo prezzo/utile 2017 o a 20 volte il multiplo p/e 2018, non si possono dire economiche ma neppure care vista l’importante generazione di cassa, il potenziale sviluppo del capitale e la crescita diversificata dell’azienda. Con la Brexit nell’immediato cambierebbe poco. Gli effetti si vedranno tra due anni L a storia ha la strana tendenza a ripetersi: nel 1974 Harold Wilson, leader laburista inglese, basò la campagna elettorale sulla promessa che, arrivato al 10 di Downing Street, avrebbe indetto un referendum affinché il popolo decidesse se il Regno Unito avrebbe dovuto restare nella Cee. I labour vinsero le General Elections del ’74 e, come promesso, il 5 giugno 1975 si tenne il referendum. Prima dell’appuntamento elettorale Wilson, che aveva strappato alla Cee una serie di concessioni per cui lo status del Regno di Elisabetta II era del tutto peculiare, si mise così alla testa del movimento per il Sì alla permanenza, sostenendo che i vantaggi acquisiti nelle trattative con la Cee sopperivano agli svantaggi. Il Si vinse con più del 67% dei voti. A distanza di 41 anni, dopo aver fatto del referendum sulla permanenza il punto chiave della campagna elettorale, aver negoziato nuovi vantaggi per il Regno Unito e cercato di convincere i sudditi di Sua Maestà che sarebbe meglio rimanere, si saprà se anche Cameron sarà ricordato come ottimo stratega, al pari del predecessore laburista. Ma nell’immediato, se dovesse vincere il No di fatto non accadrà niente. Se dovesse vincere la Brexit il governo dovrebbe infatti avviare una trattativa con le istituzioni Ue per decidere come l’uscita si debba concretizzare. Le opzioni sono molte, ma quella più in voga in questi giorni è il modello Canada: Paese con cui la Ue ha un accordo di libero scambio disciplinato dal Comprehensive Economic And Trade Agreement. Quale l’impatto per il settore finanziario? Nel breve - almeno per i due anni di negoziazioni in cui il Regno Unito continuerebbe a essere membro dell’Ue - questo sarebbe assai limitato, ma sarebbe comunque necessario un intervento del legislatore. Negli ultimi anni la Commissione Ue e il Consiglio hanno gradualmente confinato le Direttive - per le quali serve un atto di recepimento - alla dichiarazione dei principi generali e delle linee strategiche, mentre le di Roberto Sparano* norme sostanziali sono adottate con Regolamento - la cui applicabilità è diretta - o istruzioni tecniche delle autorità europee di vigilanza, Eba ed Esma. Il Regno Unito non ha ritenuto di adottare disposizioni di legge ad hoc per recepire i regolamenti, con l’effetto che, ove venisse meno la partecipazione alla Ue, i regolamenti non sarebbero applicabili e pertanto si aprirebbero delle voragini nella legislazione inglese. Sicuramente verrebbe meno il regime di Passaporto, ovvero la possibilità con l’autorizzazione nazionale di uno degli Stati membri di operare in altri paesi della Ue. Gli intermediari finanziari, i fondi e gli altri soggetti di diritto inglese che operano sul mercato finanziario sarebbero considerati alla stregua di fondi o operatori russi o americani, il che di per sé potrebbe non essere un male in quanto in molte discipline (come la nuova Mifid) operatori Ue e non Ue non sono disciplinati in modo diverso, ma si configurerebbe una normativa a macchia di leopardo con oneri molto pesanti per gli operatori inglesi che vogliono operare in Europa. Di contro, gli operatori Ue avrebbero come unico fastidio, almeno all’inizio, quello di dover ottenere un’autorizzazione ad hoc per operare nel Regno Unito; al momento e con la normativa attuale non sarebbe impossibile, ma nel momento in cui norme Ue e britanniche si dovessero differenziare sempre più, ciò potrebbe essere un impedimento di non poco conto. Tra gli effetti della Brexit più sottovalutati c’è quello sulla contrattualistica, in particolare quella sui finanziamenti alle imprese. Tra le conseguenze della desertificazione del credito bancario nel Vecchio Continente c’è stato lo sviluppo di forme alternative di finanziamento. La City di Londra è la vera capitale di questo nuovo mercato, come del resto lo è anche per il credito tradizionale. La scelta della legislazione inglese è divenuta uno standard condiviso; nei derivati gli Isda Master Agreement prevedono l’applicazione del diritto inglese. Alla scelta della legge inglese si accompagna anche la giurisdizione dei tribunali di Sua Maestà. Fin qui nulla di clamoroso, la normativa, in particolare i Regolamenti Roma I e II e Bruxelles, stabilisce i principi in base ai quali va riconosciuta la giurisdizione e la scelta della legge, oltre a regolare il problema della litis internazionale. Con la Brexit, il Regno Unito non sarebbe più parte delle convenzioni alla base dei Regolamenti e, soprattutto, non sarebbe più tenuto al rispetto degli stessi, come del resto le corti degli Stati membri non dovrebbero acriticamente accettare il foro e la legge inglese. In estrema sintesi, nulla vieterebbe al giudice nazionale di uno Stato membro di non riconoscere una sentenza inglese, la giurisdizione del giudice anglosassone o la scelta della legge fatta dalle parti. Esempi pratici sono le garanzie immobiliari, laddove l’immobile fosse in un Paese Ue e il contratto di garanzia fosse regolato dal diritto inglese; il diritto privato italiano - che si applica in quanto non si applicano le norme Ue - stabilisce che agli immobili si applichino le norme del Paese in cui l’asset è situato. Per evitare quanto sopra il Regno Unito dovrebbe aderire alla Convenzione di Lugano del 2007 tra Ue e Svizzera, Norvegia e Islanda, ma ciò richiederebbe tempo e sforzi notevoli. Comunque si potrebbe creare una pericolosa asimmetria, che avvantaggerebbe i debitori più scellerati che potrebbero approfittare del vacuum e della necessità di una nuova prassi. Infine, per gli aspetti fiscali, negli ultimi anni si è cercato di parificare i borrower non residenti a quelli nazionali, eliminando l’odiosa pratica del gross up; fatto salvo un accordo tra Ue e Regno Unito per lo scambio d’informazioni, il sistema attuale è di derivazione Ue e come tale dovrebbe venir meno, per cui difficilmente i benefici per i borrower inglesi in tema di ritenuta d’acconto sarebbero riconosciuti, con un aumento sensibile dei costi. (riproduzione riservata) E se fosse un’opportunità e non un problema? L a Brexit non è da escludere, sebbene sia improbabile. Quindi ha senso immaginare una strategia che riorganizzi le relazioni tra Ue e Regno Unito affinché i danni per ambedue, e per il contorno sistemico, possano essere minimizzati. C’è una soluzione semplice: durante il processo di distacco formale dall’Ue, Londra e Bruxelles si accordano per un trattato di libero scambio che replichi le condizioni correnti di fluidità doganale, irrobustito dall’adesione a standard comuni. È possibile fare un accordo che non modifichi le relazioni economiche attuali. Un modello da usare anche per accordi con i 10 Paesi che non fanno parte dell’Eurozona e che volessero lasciare l’Ue, e in futuro anche con la Russia e le nazioni centroasiatiche. Bisogna considerare che Londra è già uscita dal Trattato di Maastricht, mesi fa, rifiutando il progetto di Unione politica e mone- di Carlo Pelanda taria, che almeno sette dei 10 Paesi che non adottano l’euro non hanno intenzione di aderirvi e che nella configurazione unionista l’Ue non ha più spazio di espansione esterna. La Brexit darebbe lo spunto per ridisegnare un sistema meno ambiguo: un’Eurozona con 18 Stati, associata agli altri 10 Paesi (eventualmente ex Ue) e ai nuovi Stati euroasiatici con trattati di libero scambio, a livelli diversi di strutturazione di cui il più completo sarebbe l’accordo di mercato unico e l’adesione a Schengen. In tale configurazione più flessibile il mercato europeo potrebbe tornare a espandersi perché meno vincolato da requisiti politici. Tornando al bilaterale Londra – Bruxelles, se alla notizia dell’exit fosse associata quella di un negoziato per un nuovo trattato economico, anche conciliandolo con il Ttip, non vedo motivi di danno prospettico per il Regno Unito, fatto che limiterebbe le oscillazioni di mercato nel breve. Separare l’Eurozona dal resto dell’Ue, riaggregandolo con trattati meno politici, appare un’opzione più positiva che negativa in quanto faciliterebbe la convergenza sul piano fiscale, senza la quale l’area monetaria imploderebbe, e lascerebbe agli altri più flessibilità per crescere senza precludere future adesioni. Molti temono che la Brexit inneschi il frazionamento dell’Europa. Ma la realtà mostra che il progetto unionista è fallito e che l’area può essere riorganizzata come Comunità economica, con un nucleo di comando politico Nato che includa l’America e i nuovi Stati euroasiatici. In tale scenario vedo la Brexit più come un’opportunità, vantaggiosa per l’Italia, di integrazione atlantica ed espansione europea che come problema. (riproduzione riservata)