La carta è rock. e resiste all`assalto del web
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La carta è rock. e resiste all`assalto del web
LO SPECCHIO www.associazionelospecchio.it • [email protected] MAGAZINE N. 3 - APRILE 2012 - ANNO II Trimestrale di cultura, tempo libero, sport e varia attualità Testi di: Lino Palanca, Giancarlo Liuti, Alberto Niccoli, Silvano Petrosino, Aurora Foglia, Massimo Morroni, Eugenio Paoloni, Marco Moroni, Paolo Onofri, Janula Malizia, Emilio Pierini, Mauro Mazziero, Sergio Beccacece, Luciana Interlenghi, Carlo Trevisani, Novella Torregiani, Umberto Vicaretti, Mario Mancinelli, Eleonora Tiseni, Vanni Semplici, Lucia Flaùto, Andrea Santarelli, Pierluigi Ferramondo, Paolo Ambrosi, Alberto Giattini La carta è rock. e resiste all’assalto del web INCHIESTA D I S T R I B U Z I O N E G R AT U I TA La Direzione e la Redazione si uniscono al dolore della nostra collaboratrice Cristina Castellani per la perdita della mamma Signora Fedora. PREMIO PORTO RECANATI Concorso Internazionale di poesia. XXIII edizione 5 IMMAGINARIO Un nome spaventosamente immortale 7 Bentornato Maestà Imperiale 9 ECONOMIA Quale riforma per le pensioni? 11 Non consumate i nostri ragazzi 14 STORIA Il terremoto di San Marco 16 Via dalla turpe Francia 18 Un Parco storico per Castelfidardo 22 STORIE ADRIATICHE Ruggero Boscovich, scienziato pontificio 29 PERSONAGGI Bruno Mugellini, la poesia del pianoforte 33 Odissea dall’inferno 35 INCHIESTA Il nuovo giornalismo dei cittadini 37 ARTE La rotta della bellezza 39 L’ombra di Caravaggio 41 LETTERATURA Tranströmer poeta del silenzio 43 Monaldo “vile”? ma va la’! 45 Ut pictura poesis 47 La voce che spezza il muro del silenzio 49 LAVORO Dal fiume Potenza le verdi colline di Montarice 51 ATTIVITA’ LO SPECCHIO La ricchezza celata al Babel Hotel 53 Concorso fotografico nazionale “Le Marche allo Specchio” 57 SPECCHIO MAGAZINE FESTIVAL WINTER #1 Dialoghi in corso 61 RECENSIONI La Marca geniale 63 Osimo è bello raccontato così 64 Riviste della Marca 65 TERRITORIO E TURISMO I nuovi denominatori comuni di sviluppo 67 SPORT Vai come vuoi: fa bene all’anima 71 Trimestrale di cultura, tempo libero, sport e varia attualità. Proprietà: Associazione Lo Specchio, C.so Matteotti, 34 - 62017- Porto Recanati (MC) Direttore responsabile: Lino Palanca - cell. 333.4304172; e-mail: [email protected] Direttore editoriale: Vanni Semplici - cell. 331.5786518; e-mail: [email protected] Capi servizio: Giorgio Corvatta - cell. 338.7648664; e-mail: [email protected] Aurora Foglia - e-mail: [email protected] Emilio Pierini - cell. 338.7370016; e-mail: [email protected] In redazione: Cristina Castellani - [email protected] Eleonora Tiseni - [email protected] Responsabile commerciale pubblicità: Andrea Santarelli - [email protected] Distribuzione gratuita Registrazione Tribunale di Macerata Registro 599 del 5 aprile 2011 Hanno collaborato a questo numero: Lino Palanca, Giancarlo Liuti, Alberto Niccoli, Silvano Petrosino, Aurora Foglia, Massimo Morroni, Eugenio Paoloni, Marco Moroni, Paolo Onofri, Janula Malizia, Emilio Pierini, Mauro Mazziero, Sergio Beccacece, Luciana Interlenghi, Carlo Trevisani, Novella Torregiani, Umberto Vicaretti, Mario Mancinelli, Eleonora Tiseni, Vanni Semplici, Lucia Flaùto, Andrea Santarelli, Pierluigi Ferramondo, Paolo Ambrosi, Alberto Giattini Chiuso in redazione il 10 aprile 2012 PREMIO PORTO RECANATI CONCORSO INTERNAZIONALE di POESIA «CITTA’ di PORTO RECANATI» XXIII Edizione 2012 col Patrocinio del Comune di Porto Recanati e della Regione Marche e la collaborazione dell’Associazione Lo Specchio-Porto Recanati Art. 1 – Il poeta invierà una sola poesia a tema libero. L’organizzazione suggerisce di considerare tematiche sulla disabilità, sulla solitudine, su “i nuovi poveri”, sugli extracomunitari, sugli anziani, sugli eventi catastrofici ecc., affinché si rifletta sulla condizione dell’uomo e del suo esistere, ideazione che portò all’istituzione del Premio Città di Porto Recanati 25 anni fa. Comunque sia, i temi indicati sono solo indicativi. La poesia inviata, che non deve superare i 35 vv. (per non eccedere nelle spese di stampa nell’eventuale raccolta dei testi dei Vincitori e dei selezionati in un’Antologia), può essere stata anche edita, ma non deve aver mai vinto il primo premio in altri concorsi. L’originale deve riportare: nome e cognome dell’autore, indirizzo di casa, indicazione della sua e-mail e la dichiarazione: “Dichiaro d’essere autore dell’ opera inviata al concorso”. Art. 2 – La Giuria, composta di quattro membri, sarà resa nota nel giorno della premiazione; essa stilerà una graduatoria dei tre vincitori dei premi in denaro e degli altri meritevoli sino al 10° classificato. La Giuria, a suo insindacabile giudizio, premierà quei poeti che, con l’impegno culturale e la propria testimonianza, abbiano contribuito a superare una condizione di vita difficile, o addirittura rendendola fonte di ispirazione. Art. 3 – I premi in denaro sono: 1° classificato 500 euro, targa o trofeo. 2° classificato 300 euro, targa o trofeo. 3° classificato 200 euro, targa o trofeo. Art. 4 - Le poesie dovranno essere spedite entro il 31 luglio 2012 (farà fede il timbro postale di partenza) in quattro copie, per posta ordinaria al seguente indirizzo: Prof. Renato Pigliacampo c/o Concorso Internazionale di Poesia “Città di Porto Recanati”, XXIII Edizione 2012, Casella Postale n. 61, 62017 PORTO RECANATI, MC. La poesia potrà anche essere inviata per e-mail a: [email protected]. Il concorrente verserà la tassa d’iscrizione di 15 (quindici) euro sul conto corrente postale n. 29 68 76 21 intestato a Renato Pigliacampo c/o Casisma., o con altra modalità di scelta. La somma sarà messa disposizione del monte-premi. Informazioni. La premiazione avverrà a Porto Recanati, probabilmente nella seconda/terza decade di settembre. I vincitori dei premi in denaro avranno comunicazione scritta del giorno, del luogo e dell’ora della cerimonia. E’ prevista una raccolta delle migliori opere in una silloge. Si chiede la cortesia di diffondere il Premio nei media e tra gli amici interessati. Grazie. Cari lettori: grazie I l nostro magazine festeggia un anno da record: quattro numeri, lettori di un territorio diffuso che va da Castelfidardo a Civitanova Marche, passando per Macerata, oltre 20 firme, una diffusione ampia sul territorio e un continuo contatto con voi, dimostrato dai tanti attestati di stima e dalle tante mail alla redazione. Più che raddoppiati i clic sul nostro sito, il che ci ha convinto a portare il magazine on line con nuove rubriche e collaborazioni. Un successo straordinario che dobbiamo a voi. Quindi un grazie sentito con la volontà di migliorare ancora. Abbiamo bisogno di voi, di nuovi collaboratori, di nuovi soci. Ecco quindi il mio invito ad associarvi. tere culturale della associazione, con uno sforzo in prima persona nella selezione degli interventi e nella realizzazione degli stessi. È da queste stesse valutazioni che nasce la proposta di aderire all’Associazione lo Specchio. Anche se il tuo apporto potrà essere soltanto saltuario e di sostegno morale noi ne abbiamo comunque bisogno e perciò ti chiediamo di confermare la tua adesione. Iscriversi non obbliga nessuno a compiere ciò che non può o non si sente di fare, ma più soci siamo e maggiore sarà la ricchezza dell’Associazione. Non proponiamo richieste di sostegni unicamente economici, ma chiediamo di contribuire al percorso di formazione sociale e culturale che la nostra Associazione intraprenderà. Perché associarsi? La risposta è molto semplice ed è racchiusa nella definizione stessa di “Associazione”: ci si iscrive per portare avanti tutti insieme la passione che ci ha spinto nel costituirla, per poter continuare a crescere. Il bisogno di cultura è un’esigenza fondamentale, imprescindibile in ogni cittadino che intenda non “omologarsi” alla mediocrità delle proposte in campo. Con questa semplice premessa è nata l’ Associazione culturale lo Specchio, costituita nel 2008 con l’intento di organizzare eventi culturali. Si deve infatti tener presente il mutato interesse a livello locale e nazionale per quanto riguarda le proposte culturali, e i dati della partecipazione alle nostre iniziative rafforzano la nostra convinzione che la qualità delle proposte ha un immediato riscontro nel gradimento dei lettori. Di conseguenza, riteniamo che nuovi criteri debbano sovrintendere al ruolo e alle attività di carat- Come associarsi Le iscrizioni all’Associazione hanno validità annuale. Le nuove iscrizioni avranno validità fino al 31 dicembre 2012. L’iscrizione all’associazione lo Specchio va effettuata esclusivamente in formato elettronico compilando la richiesta di registrazione in base alla tipologia scelta. Il direttivo comunicherà in modalità elettronica l’accoglimento della domanda . La quota associativa del socio ordinario per l’anno 2012 è stata fissata in € 10,00 (dieci ) pro capite. Le quota associativa per i soci Sostenitori è libera. Quanti intendono aderire all’Associazione lo possono fare liberamente, contribuendo alla diffusione della cultura Per il versamento della quota è possibile effettuare un bonifico presso la BANCA DI CREDITO COOPERATIVO DI RECANATI E COLMURANO FILIALE DI PORTO RECANATI - IBAN : IT-06/H/08765/69110/000040115617. Ancora un grazie di cuore. Vanni Semplici Il Presidente dell’Associazione Lo Specchio – Porto Recanati 6 IMMAGINARIO UN NOME spaventosamente immortale di Lino Palanca .. IGNARO DEL MIO FATO, E QUANTE VOLTE / QUESTA MIA VITA DOLOROSA E NUDA / VOLENTIER CON LA MORTE AVREI CANGIATO … (Le ricordanze). L’immagine di copertina dei RACCONTI DI IERI, edizione Garzanti del 1951 D ieci anni fa ho rinvenuto una copia dei “Racconti di ieri” di Guelfo Civinini in una bancarella di Largo Porto Giulio, a Porto Recanati. Il volumetto, formato 10.5 cm. x 14.5, proviene dalla biblioteca comunale di Rieti come svela un timbro nell’ultima pagina.1 Il titolo di uno dei testi, “Giacomo Leopardi fu Pasquale”, non può non richiamare l’attenzione di quanti seguono con interesse quel che riguarda Leopardi. La storia è collocata al tramonto dell’Ottocento e messa in penna a un giovane giornalista di un quotidiano romano, che ci introduce nel tema ricordando come, sovente, gli sia capitato di vedere a spasso per la Capitale persone abbigliate e qua e là ritoccate a imitazione di personalità della politica o della cultura fin de siècle. Sicché, si era imbattuto in un Ruggero Bonghi e un Vittorio Emanuele, un Mazzini, un Pascarella; di D’Annunzio poi, allora divino aedo delle cronache rosa del Messaggero, ne aveva visti un battaglione. Ma uno che cercasse 7 IMMAGINARIO di nascondere la sua somiglianza con un grand’uomo non gli era mai avvenuto di incontrarlo. Almeno fino al giorno dell’arrivo in redazione di Giacomo Leopardi. Il cuore gonfio di dispiaceri, come il poeta. E una gran voglia di sfogarsi, come il poeta. Non si tratta di un uomo afflitto solo dalla somiglianza fisica col Recanatese. Troppo facile. Il poveretto, calabrese, ragioniere e reduce da un maldestro tentativo di suicidio, è assai più di un sosia. Intanto si chiama proprio Giacomo Leopardi; di Pasquale, è vero, non di Monaldo; calabrese e non marchigiano, vero anche questo. Però, a guardarlo “… mal vestito, striminzito e sbilenco, anzi quasi addirittura gobbo …”, sembra il poeta sputato tel quel, come se l’avessero messo dentro uno stampo appena nato modellandogli le forme del viso, del cranio e delle spalle, del petto e del dorso, per far schizzare fuori dall’involucro la copia di un genio mal servito dalla natura nei tratti esteriori. Il figlio del fu Pasquale ha lasciato crescere la barba per occultarsi, ma quando in redazione si mette di profilo e la tira perché il giornalista si renda conto di quel ch’egli “è”, subito si disegnano i lineamenti della maschera mortuaria del poeta, nota anche ai ragazzini “… Gli stessi erano i lineamenti, il profilo del naso, lo zigomo rilevato sulla gota smunta, la fronte solcata, l’orbita affossata, la bocca sottile e dolorosa”. Una leopardite dalle forme ormai indissociabili dalla vita del soggetto, una sorta di malattia non più operabile, ché se il chirurgo intervenisse, con essa morrebbe pure il paziente. Come l’amore di Swann per la leggera Odette, descritto da Proust 2. Suo padre Pasquale, patito di Leopardi, ha ereditato a sua volta da Monaldo, per simmetria: una vita trascorsa da “… signorotto rovinato e spensierato …” che “… non faceva nulla, scriveva versi e viveva fra i libri”. Maledetto, una gran parte di colpa è stata sua: “Quando mia madre fu in cinta di me mio padre le portò in 8 regalo quella maschera di gesso, gliel’appese sul letto e le disse – Ecco, guardalo bene, e fammi un figliolo che gli somigli”. Al ragazzo Giacomo-bis non erano stati risparmiati il dileggio dei coetanei, la ripulsa delle ragazze, che lo chiamavano gobbino e vecchietto “… le bambine specialmente erano le più crudeli”, vittima, come il poeta, di un popolo che Ottonieri ricorda “… deditissimo a motteggiare”. Persino lo zio prete, nell’ammettere sconfortato l’assenza di fede nel giovane, sospirava: “Proprio come quell’altro!” 3 La maledizione del nome gli è stata compagna anche nell’unica avventura d’amore tentata con una ragazza traviata e bruttina, che rifiutò, inviperita, l’offerta di matrimonio appena conosciute le sue generalità: da studentessa le era toccata una bocciatura a causa del maledetto gobbo, che le aveva troncato la carriera scolastica. E poi, lei si chiamava Nerina, e allora, chiese, conciati così dove vogliamo andare? “… sarebbe da far ridere i morti”! Vero, commenta il ragioniere, e aggiunge: “… anche quell’altro che pure, dicono, non rideva mai”. Nell’animo della copia del poeta si agita sovente uno spirito alieno. Parlando col giornalista usa le stesse parole di Filippo Ottonieri mentre il demone che gli modella i pensieri persegue tenace a manipolare la metà oscura della sua psiche, sempre meno governata dalla volontà. Il giovane denuncia, come Ottonieri, “… che tanto la gioia come il dolore rendono egualmente estranei gli uomini alle infelicità dei loro simili …… alle volte mi vengono su parole che, lo sento anch’io, non sono mie, pensieri che non sono miei … Di dove, di dove mi vengono”? E alla fine se ne esce col leopardiano grido di rimpianto che non si cancellerà mai: Ahi, Nerina, in cuor mi regna l’antico amor! Giacomo calabro termina il racconto con voce colma di rassegnazione; lascia il giornalista con la preghiera di non citare in cronaca il suo nome di suicida mancato. Per questo è salito in reda- zione. Desidera restare nel più profondo dell’anonimato, nel grigio indistinto della moltitudine cittadina, vittima di una battaglia perduta prima ancora di cominciare a combatterla. È rassegnato. Il suo cervello di computista, dove tutto se ne sta squadrato e ordinato, continuerà di sicuro a subire i graffi dell’io straniero che lì dentro ha preso stanza. La società gli ha imposto, in virtù di un nome certo non scelto da lui, una specie di maschera pirandelliana che non riuscirà più a staccarsi dal volto. Sente che non sfuggirà alla presa di quell’altro, agnello sacrificale destinato a restare tale fino alla morte, preda di una maledizione che lo fa protagonista di una storia alla Stephen King. Guelfo Civinini, Racconti di ieri, Milano, Garzanti, 1951. Tutte le citazioni, salvo indicazione contraria, sono da qui tratte. Civinini (Livorno 1873-Roma 1954), fu giornalista e scrittore. A Fiume con D’Annunzio, nazionalista, aderì anche al fascismo, allontanandosene però dopo le leggi razziali del ’38 e il patto d’acciaio con la Germania. Vincitore del premio Viareggio nel 1937, fu Accademico d’Italia nel ’39. Scrisse per molti giornali, tra cui Il Corriere della sera; suo il libretto de La fanciulla del West di Puccini (1908). Su di lui vedi Potentia-Archivi di Porto Recanati e dintorni, n.14, Recanati, Bieffe, 2004, pp. 78-80. 2 Marcel Proust, Un amore di Swann, Milano, Garzanti, 1970, p. 141. 3 Giacomo Leopardi, Operette morali, Detti memorabili di Filippo Ottonieri, cap IV, 1824. 1 IMMAGINARIO Bentornato MAESTÀ IMPERIALE di Giancarlo Liuti FU SEME LA BOLLA D’ORO … E IL BRODETTO IL FRUTTO. UN IMPOSSIBILE (?) FEDERICO II, TORNATO A DARE UN’OCCHIATA ALLA SUA CREATURA IN RIVA ALL’ADRIATICO. S i sa che corrono tempi di stravaganze nel vestire, ma non è certo cosa di tutti i giorni incontrare, alle otto di sera, a Porto Recanati, sul lungomare Scarfiotti, un tale con una tunica blu a mezza gamba, una mantellina di velluto scarlatto, una calzamaglia rossa fino ai piedi e, in testa, una grossa corona dorata. Mi accorgo che è disorientato e decido di aiutarlo. “Guardi che il Lola è chiuso, gli dico, semmai provi al Babalù, ma tenga presente che le feste di Carnevale son finite da un pezzo”. Lui assume un’aria severa e, come offeso, alza la voce: “Lola? Babalù? Carnevale? Che roba è questa? Non mi manchi di rispetto, signore. E badi che nel corpetto tengo una lama bene affilata”. “Mi scusi, volevo consigliarla per il meglio. Ma lei, mi dica, chi è?” La domanda lo delude: “Che brutta epoca è questa se la gente non riconosce più neanche Federico Secondo, re di Germania, re di Sicilia e imperatore del Sacro Romano Impero! Uno che fu chiamato ‘stupore del mondo’ per la sua straordinaria eccellenza, uno che non ce n’è mai stato un altro migliore di lui. S’inginocchi, signore, e mi baci la mano”. Stento a credergli, sono trasecolato. Ma il suo portamento regale ha per me l’effetto di un liquido ipnotico. Così, quasi mi vergogno di dirlo, faccio un inchino e gli bacio l’anello che lui porta sulla destra e peserà mezzo chilo. Poi, con la deferenza che è d’uopo per i sudditi ma in preda a una incontenibile curiosità, gli rivolgo altre domande. “Lei, maestà, nacque a Jesi, no?” “Sotto una tenda, il 26 dicembre del 1194, mia madre Costanza d’Altavilla fu presa all’improvviso dalle doglie durante il viaggio verso sud”. “Anch’io sono di Jesi, maestà. Vede gli scherzi del destino? Siamo concittadini”. Benevolmente sorride: “Diciamo pure di sì”. “Mi faccia capire una cosa, maestà. Lei, dunque, è ancora vivo?” “Il mio corpo si spense a cinquantasei anni, in un paesino di Puglia. Ma lo spirito di un autentico imperatore non muore mai, è immortale”. “E perché da queste parti dopo più di otto secoli?” “Amai questa terra e ci sono tornato per vedere se è rimasta dolce, tenera e bella come allora”. “Però non risulta che lei sia mai passato qui e ci abbia trascorso, che so, una vacanza”. “Visitai tantissimi luoghi, e di questo, da Recanati a Porto Recanati, m’innamorai. Il fatto che non risulti nei libri dipende dalla sciatteria degli storici”. “Allora può fare il confronto. Che ne pensa della Porto Recanati di oggi? Questo lungomare, per esempio, non lo trova stupendo?” “Adesso sì, ma l’altro ieri non c’era”. “Come non c’era?” “L’aveva spazzato via una mareggiata, una di quelle che più volte all’anno si mangiano la spiaggia, il marciapiede, la strada e arrivano fino ai villaggi turistici. I bagnini sono infuriati, m’hanno detto che di una scogliera frangiflutti se ne parla, se ne parla e se ne parla, ma rimane nel libro dei sogni”. “Ai suoi tempi le opere pubbliche si facevano meglio?” “Questo è sicuro. Nel 1229 emisi, da imperatore, una Bolla d’Oro che concedeva a Recanati il diritto di erigere un castello, costruire 9 IMMAGINARIO un porto e non pagare le tasse. Quello fu il primo passo per la nascita, molto più tardi, del Comune di Porto Recanati. Un atto di grande modernità laica e di grande amore per questa gente. Più o meno il castello c’è ancora, con tanto di torre. Ed è la cosa più importante di questo paese. E il porto? Niente, come le scogliere”. “Adesso, insomma, non le piace quasi nulla”. “La mia Bolla d’Oro è diventata una bolla speculativa. Cemento dappertutto, a montagne. Quando ho visto quello che Recanati ha lasciato fare al confine con Porto Recanati, supermercati e compagnia bella, e quello che Porto Recanati ha lasciato fare in riva all’Adriatico col falso nome di Borgo Marinaro, mi son venuti i brividi”. “Non le do torto, maestà, ma perché ha detto modernità laica?” “Perché volevo unificare l’Italia nell’impero, contrastare le pretese dei baroni feudali e arginare lo strapotere della Chiesa. Litigai con ben cinque papi, Innocenzo III, Onorio III, Gregorio IX, Celestino IV e Innocenzo IV. Fu dura, sa? Spesso la spuntai, fui pure scomunicato, ma purtroppo mi uccise quella maledetta indigestione di orecchiette con cime di rapa che presi in Puglia. E alla fine vinse la Chiesa”. “Oggi, maestà, è molto diverso”. “Dice? Con, a due passi, la Santa Casa di Loreto? Via, lasciamo perdere. E sulla poltrona di sindaco di Porto Recanati non siede forse una signora iscritta al partito che fra tutti è il più vicino alla Chiesa?” “Ma quel partito, maestà, governa la Provincia insieme con la sinistra”. “Destra, centro, sinistra. Problemi vostri, della vostra perdita di veri ideali, di vere stelle polari che non indichino solo il presente. Io, guardi, feci riforme destinate a durare nei secoli, il nuovo ordine giuridico che furono le Costituzioni di Melfi, e l’impulso alla scienza medica della scuola salernitana, e l’istituzione dell’università di Napoli. Quella sì che era politica ad altissimo livello! Altro che Mario Monti!”. “Mi perdoni, maestà, ma lei mi sembra un esponente dell’antipolitica, un brutto fenomeno, un fenomeno che rischia di far morire la democrazia”. “Democrazia? Ecco una parola che nell’epoca mia non andava di moda. Però combattei, e vinsi, contro la Lega Lombarda, quella del Carroccio, che si opponeva al disegno di unificare l’Italia. Sono passati ottocent’anni, signore, la Lega è tornata e vuole la secessione. Sarebbe questo il vostro progresso?” “Ha dato un’occhiata all’Hotel House? Cosa ne pensa degli immigrati? Cosa ne pensa dell’Islam?” “Da piccolo, a Palermo, fra i miei maestri c’era anche un dottissimo Imàm. E m’insegnò tante cose, in astronomia, in matematica, nelle scienze naturali. Fu anche per merito suo che poi aprii la corte alla cultura araba perché io, ecco la modernità, capii l’importanza di superare ogni barriera e di conoscere il mondo. L’Hotel House? E’ un ghetto, me ne sono accorto. Fosse per me, invece, lo farei diventare una facoltà universitaria”. “Non esageri, maestà. Lì ci abita tanta gente perbe10 ne, ma non mancano spacciatori di droga, contraffattori di marchi, gruppetti di malfattori. Non negherà che per la sicurezza dei cittadini portorecanatesi questo è un problema reale”. “Bisogna integrarsi, accordarsi, smussare le asprezze, accettare le diversità. Non a caso ero contrario alle Crociate. Partecipai alla sesta, nel 1228, ma vuol sapere come? Stipulai un trattato col sultano e senza colpo ferire ottenni la liberazione di Gerusalemme”. “Tutto bene ai suoi tempi, maestà, e tutto male oggi? Perdoni la sfrontatezza, ma a me pare che lei tiri un po’ troppo l’acqua al proprio mulino”. “E sia, ammetto che neanche allora si viveva in un paradiso terrestre. Però, siamo onesti, chi fu che, prima dei fiorentini, diede dignità alla lingua volgare e mise le basi dell’italiano? Vogliamo dimenticare poeti come Cielo d’Alcamo, Giacomo da Lentini e Pier della Vigna, tutta gente della mia corte? E non solo. Sappia che la forza spirituale della mia Bolla d’Oro gettò il seme, sulla terra vostra, anche della grande poesia. Per questo, forse, avete avuto un Leopardi”. “Mi dica ancora, maestà, mi parli del brodetto alla portorecanatese. Lo mangiò? Le piacque? E’ tornato anche per questo?”. Ma al suono della parola “brodetto” la figura di Federico Secondo si trasforma in una nuvola di rilucente vapore che si alza di un paio di metri, piega a sud e ad altissima velocità si dirige verso i ristoranti del centro. ECONOMIA Quale RIFORMA per le PENSIONI? di Alberto Niccoli* foto da sito tesoro.usb.it AVREMO UN SISTEMA PENSIONISTICO PIÙ EQUO E SOSTENIBILE? PROBABILMENTE SÌ, MA CON QUALCHE RIGIDEZZA DI TROPPO. 11 ECONOMIA P artiamo da due punti: il primo è quello che la spesa per le pensioni pubbliche in Italia è nettamente più elevata rispetto ad altri paesi, europei e non; vari elementi concorrono in questa direzione: l’elevata speranza di vita degli italiani; la bassa natalità; e, infine, l’elevato rapporto fra pensione e reddito da lavoro per chiunque abbia avuto un’occupazione regolare nel tempo. Negli altri paesi europei, anche escludendo la Gran Bretagna, dove la pensione pubblica è superiore al 40% dell’ultima retribuzione soltanto per quanti godono di redditi molto, molto bassi, il livello medio delle pensioni è dell’ordine del 60% delle retribuzioni. Nel nostro paese, per le brutte abitudini acquisite in passato, la pensione considerata normale è pari ad almeno l’80% dello stipendio, e una percentuale di copertura dell’ordine del 60%, quale quella prevista per il futuro del sistema pensionistico del nostro paese, è ritenuta assolutamente insufficiente. Eppure, altrove non è così. Il secondo punto è costituito dall’enorme farraginosità ed eterogeneità della normativa, per cui il settore pensionistico, nonostante le importanti riforme “Amato” e “Dini” risalenti agli anni ’90 del secolo scorso, continua ad essere caratterizzato da un estremo livello di iniquità: vi sono persone che ottengono ancora pensioni molto elevate rispetto ai contributi che hanno versato, nonostante le loro famiglie non siano in condizioni di povertà, e altre per le quali è vero l’opposto. Nonostante le lamentele espresse dagli interessati e a confronto dei contributi versati dalle diverse categorie di lavoratori, in linea di massima sono avvantaggiati quanti operano nel settore agricolo, grazie alla presenza di contributi molto bassi e dell’integrazione della 12 pensione al minimo, e i lavoratori autonomi. Inoltre, sono avvantaggiati quanti sono riusciti ad andare in pensione ad età relativamente basse, i dipendenti pubblici e quanti hanno periodi relativamente brevi di contribuzione; sono invece danneggiati coloro per i quali questi ultimi sono talmente brevi da non dar luogo ad alcuna pensione, fino al raggiungimento dell’età che permette di godere di quella sociale, o che continuano a lavorare oltre i quarant’anni di contribuzione. La riforma Fornero ha voluto in primo luogo risolvere, sia pur gradualmente, questi problemi attraverso l’applicazione, dapprima parziale e poi esclusiva, del principio “contributivo” al posto di quello “retributivo”; ovvero, la pensione è legata ai contributi versati e non alla retribuzione percepita. Se si escludono le pensioni di natura non previdenziale, come quella sociale, quella integrata al minimo, ecc., la prosecuzione dell’attività lavorativa e ulteriori annualità di contribuzione garantiscono comunque un aumento dell’assegno pensionistico, anche per chi ha già versato i contributi per più di 40 anni. In secondo luogo, viene aumentata progressivamente l’età minima prevista per il pensionamento, e ciò soprattutto avviene in maniera molto più rapida rispetto alla normativa precedente: per le donne, tale età è già salita da 60 a 62 anni dall’inizio del 2012 e raggiungerà i 66 nel 2018; in precedenza quest’ultima soglia sarebbe stata raggiunta solo nel 2026. Per gli uomini essa, attraverso il sistema delle finestre e delle quote, era già pari a 66. L’obiettivo di questa normativa è quello di rendere coerente l’età del pensionamento con la durata della vita delle persone, la quale sta aumentando di poco più di due anni ogni decennio per i maschi, e poco meno per le donne. In terzo luogo, è stato introdotta una flessibilità che permette alle donne un’età di pensionamento compresa fra quella minima e i 70 anni e agli uomini un intervallo di scelta compresa fra i 66 e i 70. A seconda dell’età di pensionamento effettivo, chiamato “anticipato” se lo stesso avviene prima della pensione di “vecchiaia”, l’importo della stessa viene ridotto rispetto a quello normale. Le norme contenute nella riforma sono molto più numerose rispetto a quelle che abbiamo potuto ricordare in questo breve articolo, dove abbiamo esaminato l’evenienza più frequente, e cioè quella dei lavoratori dipendenti. In ogni caso, desidero esprimere un giudizio positivo sulla riforma che, nonostante stia creando problemi ECONOMIA a tanti, ha certamente reso più equo e sostenibile il sistema pensionistico italiano e, proprio per questo, rimarrà in vigore per moltissimo tempo. Per un punto tuttavia, a mio parere si sarebbe potuto fare di più, e cioè quello relativo alla flessibilità del sistema, che va ulteriormente aumentata. Mi riferisco al fatto che, se l’importo della pensione è correttamente e opportunamente collegato a quello dei contributi versati, il cui montante viene in qualche modo “spalmato” sugli anni di vita residua, calcolata al momento del pensionamento, tenendo anche conto dell’eventuale pensione di reversibilità del coniuge, si potrebbe ridurre di molto l’età minima di pensionamento. Se una persona desidera andare in pensione a 50 anni, con 30 anni di contributi, perché non permetterglielo e costringerla ad andare a 62 con una contribuzione di 42? Secondo le tavole dell’ISTAT relative al 2007 una donna di 50 anni ha una speranza di vita di altri 35,2, mentre una di 62 ne ha una di 24,3; è facile calcolare che, per riavere indietro i contributi versati, la prima dovrebbe godere di una pensione di poco inferiore alla metà di quella della seconda; che male c’è se una persona preferisce andare in pensione all’età più bassa, anziché a quella più elevata? Infine, occorre cominciare a pensare alla possibilità che il passaggio dalla vita attiva, con occupazione, al pensionamento non debba necessariamente avvenire soltanto una volta in quella di una persona: periodi di lavoro e periodi di pensione possono alternarsi più volte, ovviamente con il calcolo di valori della pensione coerenti con i contributi versati; così, all’interno delle famiglie e a seconda delle loro esigenze, periodi di lavoro e periodi di pensione potrebbero essere scelti di comune accordo fra nonni, genitori e nipoti in modo da garantire a questi ultimi un’assistenza adeguata e, nel contempo, l’equilibrio dei conti dell’INPS. I calcoli sono un po’ più complicati, le pensioni nei primi periodi di pensionamento più basse, perché nessuno ha la certezza di trovare un nuovo lavoro ad età avanzate, ma comunque possibili. Perché non farlo? * Alberto Niccoli è il Presidente della Banca di Credito Cooperativo di Recanati e Colmurano 13 ECONOMIA Non consumate i nostri RAGAZZI Silvano Petrosino per g.c. del Sole 24 ore foto dal sito dirittodicritica.com L’UNICA COSA CHE INTERESSA DEI GIOVANI È FARLI SPENDERE. INVECE BISOGNA DARE LORO LAVORO: È IL PATTO GENERAZIONALE FONDAMENTALE PER LA COESIONE 14 ECONOMIA T utti ne parlano come il problema centrale dell’attuale momento: si tratta del lavoro e soprattutto di quello che non c’è, del lavoro per i giovani. Nel sottolineare, a volte con passione e con toni allarmati, tale centralità si sviluppa il più delle volte un ragionamento di questo tipo: per sviluppare il lavoro è necessario rilanciare l’economia, ma per rilanciare l’economia è necessario incrementare i consumi. All’interno di un simile sillogismo, che peraltro non lo è affatto, la tanto celebrata centralità del lavoro si trova inevitabilmente lateralizzata, spostata ai margini, mentre il centro viene occupato dai consumi. Forse per iniziare a parlare seriamente del lavoro è necessario prendere le distanze proprio da una simile impostazione della questione, un’impostazione che dimostra di essere del tutto cieca di fronte a quelli che sono i due fattori essenziali all’origine dell’attuale crisi: la sovraproduzione di merci dovuta alla innovazione tecnologica, l’esaurirsi della capacità di consumo da parti di soggetti che, almeno nel nostro primo mondo, non riescono più ad ingurgitare nuovi prodotti. A meno che non si voglia trasformare il consumo, oltre che in un dovere morale, addirittura in un obbligo sociale (e anche questo in parte sta già avvenendo: per uscire dalla crisi, così si arriva a pensare, tutti devono consumare), per tentare di affrontare in modo serio il tema del lavoro è necessario decostruire proprio la falsa evidenza che lo lega, secondo un nesso che tende sempre a presentarsi come del tutto ovvio, all’incremento dei consumi, allargando di conseguenza lo sguardo verso ciò che costituisce quell’umanità dell’uomo che resiste ad ogni interpretazione in termini di prodotti e di consumo (affetti, desideri, memorie, tradizioni, legami, ragioni, fedi, ecc.). Nel suo seminario su L’etica della psicoanalisi Lacan afferma: «Rispetto a ciò di cui si tratta, ossia a ciò che si riferisce al desiderio, al suo concerto e sconcerto, la posizione del potere, quale che sia, in ogni circostanza, in ogni incidenza, storica e non, è stata sempre la stessa. Qual è il proclama di Alessandro all’arrivo a Persepoli come pure di Ritler all’arrivo a Parigi? Il preambolo importa poco - Sono venuto a liberarvi da questo o da quello. L’essenziale è questo - Continuate a lavorare. Il lavoro non sifermi. Che vuoI dire - Beninteso questa non è in alcun modo un’occasione per manifestare il minimo desiderio. La morale del potere, del servizio dei beni, è P er i desideri, ripassate. Che aspettino». «Continuate a lavorare» ha significato fino a qualche tempo fa, soprattutto sotto la spinta dell’industrializzazione e dell’innovazione tecnologica, «continuate a produrre, che la produzione non si fermi, non si perda tempo a pensare a questioni filosofico-religiose come il desiderio, la felicità, la verità, la giustizia, i le gami affettivi, ecc., ma si produca; del desiderio se ne parlerà in un secondo momento, che aspetti». Un tale proclama è sempre attuale, anche se forse il suo appello deve essere oggi riformulato: non più «Forza, lavorate, producete, continuate a produrre», ma «Forza, consumate. Continuate a consumare. Il consumo non si fermi, per il desiderio, e per tutto ciò che riguarda l’umanità stessa dell’uomo, ripassate». All’interno di una simile scena che i giovani non trovino lavoro (e non solo loro) non è affatto un pro blema, dato che l’essenziale è che essi non smettano di consumare. E in effetti i giovani, anche se senza lavoro, conti nuano a consumare, consumando i risparmi che i loro genitori, soprattutto in Italia, hanno accumulato. Ecco, questa potrebbe essere un’idea per rilanciare i consumi e aiutare l’economia nello stanco primo mondo (si chiama alienazione: non è l’economia che deve essere al servizio dei singoli, ma i singoli devono mettersi al servizio dell’economia): se i consumi devono «sempre e comunque» aumentare, perché non considerare il risparmio stesso delle famiglie come un nuovo mercato da sfruttare? I giovani non lavorano ma grazie al risparmio delle loro famiglie consumano. Per il resto (lavoro, dignità personale, costruzione di un futuro, di famiglie, ecc.) si ripassi. In democrazia ognuno può dire quello che vuole, ma anche in democrazia bisognerebbe non solo dire quel che si pensa ma soprattutto pensare a quel che si dice. Chi ha il coraggio di definire «ragionamento» la cinica argomentazione che, facendo finta di pre occuparsi dei giovani, in verità non riesce neanche per un istante a non inchinarsi di fronte a quell’idolo del consumo la cui parola d’ordine, come per ogni autentico idolo, è «ancora, sempre di più»? 15 STORIA IL TERREMOTO DI SAN MARCO di Aurora Foglia Le foto ritraggono palazzo Venieri e il complesso di San Vito e sono di Aurora Foglia I LEGATI DAL “FIL ROUGE” DI UN TERREMOTO FINITO TRA LE PAGINE DELLA STORIA LOCALE, PRESTIGIOSI NOMI DELL’ARCHITETTURA SETTECENTESCA RIDISEGNANO TASSELLI DI CITTÀ. cultori della storia locale conoscono gli Annali di Monaldo Leopardi1 come testimonianza fedele e minuziosa di un tempo che spazia dalle origini della città di Recanati fino all’Ottocento, e tra i tanti episodi uno in particolare non può non meritare attenzione: “Ai 24 di aprile del 1741, la mattina per tempo, fu una scossa violentissima di terremoto, e ne soffrirono molti fabbricati della città e del territorio, ma non ci fu morte di uomini. Ho convissuto con alcuni trovatisi al tempo di quel flagello, e dicevano che nell’atto dello scuotimento alcune muraglie apertesi e subitamente ristrettesi avevano permesso la vista dell’aperta campagna. Ne sono poco persuaso, e dubito che questo sia quasi un modo proverbiale per indicare la violenza delle scosse. Questo terremoto si chiama oggidì il terremoto di San Marco, ma veramente seguì il giorno innanzi alla festa del Santo. Il comune (di Recanati) ascrisse fra i protettori della città Sant’Emidio2, risolvendo di farne ogni anno la festa, e inoltre decretò che per cinque anni sarebbero proibiti i festini, le maschere e le commedie in musica con le cantarine3. Ai 29 di luglio dell’istesso anno cadde una volta doppia nel Palazzo Carradori (prima Venieri) e colpì molte persone. Nel 1743 precipitò sino dai fondamenti la facciata della chiesa di San Vito, la quale poi fu rifatta col disegno del Vanvitelli. Probabilmente queste due ruine furono una conseguenza del terremoto.”4. L’autore sottolinea come l’evento sismico abbia fortemente impressionato la popolazione, ricorrendo ad un tono romanzato com’e16 ra l’uso letterario del tempo; ciò che resta drammaticamente certo, grazie alla cronaca del Leopardi e alle pubblicazioni di studiosi delle vicende del recanatese, è come il sisma abbia gravemente lesionato numerosi edifici civili e religiosi entro e fuori le mura cittadine. La Recanati colpita dal terremoto è un luogo che da secoli non muta significativamente aspetto5. La crisi scaturita dalla battuta di arresto dei legami commerciali con Venezia, la perdita di Loreto6 e una grave carestia del 15917 comportano un progressivo declino, durante il quale lo sviluppo urbano si arresta. Il secolo successivo si rivela ben più interessante sotto il profilo architettonico; pur non espandendosi al di fuori delle mura cittadine, il centro urbano vede avviarsi numerosi cantieri per il restauro e il recupero di importanti fabbriche. Significativo il contributo di Carlo Orazio Leopardi8, canonico e architetto dilettante, che interviene sui più pregevoli edifici civili e di culto, con il suo gusto tra tardobarocco e neoclassicismo. In una fase di progressivo affrancamento dalle forme tardomedievali, è innegabile come l’evento sismico del 1741 sia alla base del rinnovamento stilistico di numerose strutture, che spesso per ragioni economiche non avevano modo di adeguare le loro linee alle più recenti tendenze del gusto, e che trovavano nella fatalità tragica del terremoto una preziosa occasione di rinnovamento del proprio aspetto stilistico. In presenza di una committenza facoltosa, per l’edilizia nobiliare, o di prestigio, per l’architettura religiosa, vengono incaricati della ricostruzione i principali architetti del tempo. Celebrati come capolavori, o criticati perché dissimili alle originarie fattezze, tanti tasselli di città restaurati ridefiniscono il mosaico di un luogo in lenta evoluzione. I danni subìti da Palazzo Venieri, edificio antichissimo che troneggia a ridosso delle mura cittadine, spingono il conte Carradori a incaricare il comasco Pietro Augustoni9, architetto molto attivo nelle Marche, di restaurare radicalmente l’edificio. Il committente, che da poco era entrato in possesso del Palazzo acquistandolo da un discendente del cardinale che ne aveva iniziati i lavori, sovvenziona con non pochi sforzi i grands travaux, che investono aspetti strutturali e stilistici della fabbrica. La facciata quattrocentesca viene ridefinita in una forma vicina al gusto del tempo, lasciando intuire le tracce di un porticato che ospitava le antiche botteghe utilizzate dal Comune durante le fiere; il lato STORIA del porticato rivolto al mare è parzialmente chiuso dalla realizzazione di due corpi di fabbrica adibiti a stalla e scuderia. Al fine di ripristinare la staticità della struttura, le colonne in marmo del cortile vengono semi inglobate da due pilastri in muratura. L’intervento, in linea con il sapere del tempo10, cela la finezza espressiva di Giuliano da Majano11, che alla fine del Quattrocento aveva disegnato le linee del Palazzo. La chiesa di san Vito è tra i più antichi edifici di culto del recanatese, e per la centralità della sua posizione nell’insediamento cittadino ha sempre avuto un ruolo di primo piano nella vita della popolazione, tanto da essere denominata pieve12già dagli inizi del Duecento. L’impianto originale, basilicale tripartito e comune a tutte le chiese tardoromaniche dell’area, viene rifoderato nel Seicento su disegno di Pier Paolo Jacometti, seguendo le linee del gusto barocco. Il terremoto produce i suoi effetti sulla facciata, che crolla rovinosamente nel 1743; ne viene subito realizzata una provvisoria su disegno del Nicoletti, demolita nel 1746 assieme a due arcate, lesionate anch’esse dal sisma. Nel 1747 inizia la costruzione della nuova facciata, su disegno del celebre architetto Luigi Vanvitelli, molto attivo nelle Marche, che all’epoca si trovava presso il cantiere della basilica lauretana dove realizza il campanile13. I lavori sono diretti dal capomastro Pietro Bernasconi, di aiuto anche presso la fabbrica di Loreto, che rielabora in fase di cantiere il disegno. Il progettista è vincolato dallo schema preesistente e dai rapporti dimensionali tra le navate, dovendo adattare la facciata a una struttura volumetricamente già definita, ma ciò non impedisce al genio del Vanvitelli di creare una composizione considerata un capolavoro, nella quale trionfa la stessa bicromia che caratterizza il campanile loretano. Fuori le mura cittadine, il terremoto danneggia numerose parti del castello di Montefiore, sorto agli inizi del Duecento sul confine occidentale del territorio recanatese con la funzione di difendere la città dalle frequenti incursioni osimane14. Il maniero, costituito da vari corpi di fabbrica distaccati dalle possenti mura a scarpa, viene completato nel Quattrocento con la realizzazione della torre, elemento più rappresentativo del fabbricato, che sorge al centro di un terrapieno circondato da una cortina continua terminante con merli a coda di rondine. Nella seconda metà dell’Ottocento vengono portati a compimento i lavori di restauro15 resi necessari dal sisma e dalla vetustà del fabbricato, addirittura un secolo dopo il danneggiamento, a differenza di quanto avviene per gli edifici intra moenia. Pare che gli interventi eseguiti non abbiano rispettato la foggia originale della struttura, tanto che lo Spezioli16 li descrive come condotti senza badar punto al genere di quella costruzione, ed il nuovo muro, verso la strada di Montefano, non ha somiglianza alcuna coll’antico; di certo, la sostituzione del ponte levatoio con uno di tipo fisso in muratura, pur dettata da ovvie ragioni pratiche, penalizza l’aura fiabesca del castello. Altri cantieri di rilievo, non citati dal Leopardi ma avviati probabilmente in seguito ai danni prodotti dal sisma, sono quello di Palazzo Roberti, oggi Carancini, e quello della chiesa di sant’Agostino. Gli interni della chiesa, di un’austera sobrietà propria degli spazi di matrice mendicante, vengono adattati al gusto del tempo con accorgimenti che conferiscono profondità all’aula unica. Le stesse accortezze sono impiegate del ridisegno della facciata e dello scalone del Palazzo; nell’atrio, un colonnato con serliana17 immette nel giardino retrostante incorniciando il mare e il monte Conero, creando una quinta scenica che indirizza lo sguardo del visitatore divenuto spettatore. L’analisi stilistica, più che l’attenta lettura di fonti documentarie, permette agli storici locali di attribuire entrambi a Ferdinando Galli da Bibiena, architetto e scenografo bolognese attivo nelle maggiori città italiane ed europee18. * Una travatura di legno ben connessa in una casa non si scompagina in un terremoto, così un cuore deciso dopo matura riflessione non verrà meno al momento del pericolo. Siracide. A Fabio e Gloria. 1 Leopardi M., Annali recanatesi dalle origini della città all’anno 1800, inediti alla sua morte avvenuta nel 1847. 2 Sant’Emidio di Ascoli, 273-303. Martire cristiano, è patrono delle città di Ascoli Piceno e Leporano, protettore contro il terremoto. 3 Le cantarine, nella settecentesca commedia dell’arte, eseguivano gli intermezzi e le canzoncine che chiudevano la rappresentazione. 4 Foschi F. (a cura di), Leopardi M., Annali di Recanati, Loreto e Porto Recanati, Recanati, 1993, p.333. 5 Scarrocchia S., La città della rifeudalizzazione, in Sbaffi A., Scarrocchia S., Recanati tra mito e museo, Bologna, 1998, pp. 47-64. 6 Nel 1586 la diocesi di Recanati fu soppressa e nel contempo fu eretta la diocesi di Loreto, che ne incorporò il territorio. 7 Figlio di Giacomo e Fiordalisa Carradori, prozio del Poeta. 8 Si veda Moroni M., Recanati nella carestia del 1591, in Proposte e ricerche, 1986. 9 Como, 1741- Fermo, 1815. Si veda F. Maranesi, Fermo -Guida Turistica, Fermo, 1957. 10 Risoluzione finalizzata all’aumento della capacità sismica della struttura, che presenta, alla luce dello stato dell’arte, gli svantaggi di non reversibilità, invasività e aumento delle masse sismiche. Analogo a quello dell’Augustoni è l’intervento del Borromini nella riedificazione della Basilica di san Giovanni in Laterano. 11 Maiano, 1432 – Napoli, 1490. Scultore, architetto e intarsiatore. 12 Il termine pieve, di origine latina, indica il luogo di riunione delle popolazioni provenienti dai villaggi circostanti, centro per il culto e il ritrovo entro le mura. 13 Si veda F. Mariano, Loreto: il cantiere infinito, in F. Mariano, Architettura nelle Marche, Firenze, 1996, pp. 201-205. 14 F. Mariano, L’architettura e gli architetti militari, in F. Mariano, op. cit., pp. 206-208. 15 L. R. Varinelli, Recanati storia ed arte, Recanati, 1979, pp. 186-189. 16 Spezioli V., Guida di Recanati, Chieti, 1968, pp. 92-93. 17 La serliana, elemento architettonico composto da un arco a tutto sesto affiancato simmetricamente da due aperture sormontate da un architrave, è propria dell’architettura bizantina. Trova largo impiego nel Rinascimento. 18 Si veda J. Bentini, D. Lenzi, I Bibiena: una famiglia europea, Venezia, 2000. 17 STORIA Via dalla turpe Francia di Massimo Morroni - foto fornite dall’autore RIBELLE ALLO STATO NATO DALLA RIVOLUZIONE DEL 1789, FEDELE ALLA CHIESA. L’ESILIO MARCHIGIANO DI UN PRETE FRANCESE, CHE LASCIÒ DI SÉ UN OTTIMO RICORDO E TROVÒ NELLA NOSTRA TERRA AMICI BUONI E VERI. T ra il 1792 ed il 1801 si fermò ad Osimo Henri-Anne Sollier, uno dei tanti preti francesi detti réfractaires in quanto, sotto la Révolution, non giurarono la Costituzione civile del clero del 1790, per cui dovettero nascondersi o emigrare o essere giustiziati. Riguardo all’estensore della biografia del Sollier, intitolata Vie de l’abbé Sollier vicaire-général du diocèse d’Avignon, ancien supérieur du séminaire, uscita ad Avignone nel 1843, egli si riscontra solo come “abbé Barret” e non se ne conosce il nome. La patria del Sollier è Céreste, villaggio all’estremità sudoccidentale del dipartimento Alpes-deHaute-Provence, con capoluogo Digne, al centro della regione Provence-Alpes-Côte-d’Azur, nel Parco naturale regionale del Luberon. Ora, come allora, Céreste conta un migliaio di abitanti. Il Sollier nacque dunque sotto il regno di Luigi XV. Riguardo alla sua famiglia, le attestazioni sono discordanti. Secondo l’abbé Barret, era «d’une condition fort commune et presque sans ressource du côté de la fortune». Invece, ricerche più recenti riferiscono che entrambe le famiglie di provenienza dei suoi genitori erano molto agiate e, in particolare, i Sollier erano grandi proprietari terrieri; inoltre, il suo atto di battesimo confermerebbe che la sua famiglia apparteneva ad un ambiente di notabili. La famiglia si occupò poco del Nostro, che fu invece notato dal parroco, l’abbé Vial, per «les heureuses dispositions de son esprit et de son coeur”. Questi gli insegnò i primi elementi della lingua latina, fornendogli così le basi per quella che sarebbe stata la carriera della sua vita. Verso l’età di quindici anni (1776), il Sollier fu messo nel collegio della vicina Apt, a compiere gli studi di umanità (“umane 18 lettere”). Sentitosi portato per la vita sacerdotale, fu inviato dal vescovo di Apt, De Cély, al grande seminario Saint-Charles-de-la-Croix di Avignone, che dista una cinquantina di chilometri da Apt. Qui, applicandosi instancabilmente, dimostrò tra l’altro una grande propensione per la teologia; inoltre, durante le vacanze, si dedicava alle scienze naturali ed a quelle esatte. Dopo breve tempo fu nominato confe- STORIA renziere di teologia e di filosofia. Appena diplomato, gli fu affidato per i suoi meriti culturali l’insegnamento della filosofia all’interno del seminario stesso. Si iscrisse quindi all’università di Avignone, dalla quale uscì brillantemente laureato, e la sua fu una delle ultime tesi, in quanto ben presto l’ateneo sarebbe stato soppresso dalla tempesta rivoluzionaria. Dopo due anni che insegnava al seminario (tra il 1783 e il 1784), il vescovo di Apt, De Cély lo richiamò nella sua diocesi e lo incaricò di insegnare filosofia, matematica e fisica nel locale collegio. Durante l’estate si recava con i suoi allievi ad esplorare le catene del Ventoux e del Luberon, raccogliendo numerose osservazioni geologiche. Al collegio insegnò per sei anni, probabilmente dal 1785 al 1790. Con l’abolizione del regime feudale (agosto 1789), la Chiesa francese aveva perduto le decime. Alla fine dello stesso mese, fu emanata la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, basata sul modello del “Virginia Bill of Rights”. Il 2 novembre, visto il prolungarsi della crisi finanziaria, si decise di mettere a disposizione della nazione le ricchezze fondiarie della Chiesa. Alla votazione finale 510 rappresentanti contro 346 furono favorevoli alla nazionalizzazione dei beni ecclesiastici con l’onere per lo Stato di pagare ai parroci un traitement. La vendita dei beni iniziò il mese seguente. Il 13 febbraio 1790 con un decreto l’Assemblea votò la proibizione per l’avvenire dei voti religiosi e soppresse tutti gli ordini e le congregazioni (esclusi quelli che esercitavano attività ospedaliera e scolastica). Il comitato ecclesiastico dell’Assemblea ebbe poi il compito di elaborare una Costituzione civile del Clero. La legge fu votata il 12 luglio 1790 e doveva sostituire il Concordato del 1516. Essa tendeva a riorga- nizzare in profondità la Chiesa francese, trasformando i parroci in funzionari pubblici ecclesiastici. La Costituzione comportò in sintesi le seguenti misure: - soppressione dei capitoli delle cattedrali e dei benefici “senza carico di anime”; - soppressione di 47 diocesi; ne resta una per ogni dipartimento e sono raggruppate in dieci metropoli; - elezione dei vescovi e dei preti da parte del corpo elettorale; - i vescovi hanno i vicari vescovili; - vescovi e preti sono retribuiti dallo Stato; - tutti i religiosi hanno dei diritti civici che li autorizzano a lasciare i loro posti; - un ecclesiastico non può essere sindaco, ufficiale comunale o consigliere generale. E’ elettore ed è eleggibile all’Assemblea Nazionale. Il decreto d’applicazione fu votato il 27 novembre. Esso prevedeva il giuramento: “tous les ecclésiastiques prêteront le serment exigé un jour de dimanche après la messe, en présence du conseil général de la commune et des fidèles. Ceux qui ne le prêteront pas seront réputés avoir renoncé à leur office et il sera pourvu à leur remplacement». Il testo del giuramento era il seguente: “Je jure de veiller avec soin sur les fidèles de la paroisse qui m’est confiée, d’être fidèle à la nation, à la loi, au roi et de maintenir de tout mon pouvoir la Constitution décrétée par l’Assemblée nationale et acceptée par le Roi». Dopo otto giorni, il 4 gennaio 1791, i deputati del clero dovettero giurare: 80 vescovi si rifiutarono. Il giorno 7 iniziarono i giuramenti nelle province, che durarono circa due mesi. La quasi totalità dei vescovi non giurò, come anche la metà dei parroci. I membri del clero, che non facevano riferimento ad una parrocchia, considerati come non utili (circa tre quinti del clero), furono costretti a ritirarsi oppure ad entrare nelle fila del clero delle parrocchie, prestando giuramento. La risposta ufficiale del papa arrivò con due brevi nella primavera con Quod aliquantum del 10 marzo e Caritas del 13 aprile. Pio VI considerava la Costituzione eretica, sacrilega e scismatica. Chiedeva ai preti di non giurare o di ritrattare. Ciò provocò una rottura nel clero francese. Si ebbero così i preti costituzionali e i réfractaires. I primi, detti anche assermentés, jureurs e intrus, prestarono giuramento di fedeltà alla Costituzione. I preti réfractaires furono 19 STORIA appunto quelli che si rifiutarono di giurare, cioè quasi tutti i vescovi (meno cinque) e più della metà dei parroci. La proporzione fu molto superiore nell’alto clero che nel basso; i vicari furono più réfractaires dei preti. Le regioni periferiche ebbero più réfractaires della regione parigina e del centro, forse per motivo della maggior presenza di clero gallicano e giansenista in queste zone. La maggior parte dei preti réfractaires scelsero il partito della controrivoluzione, per cui i patrioti sospettarono gli ecclesiastici, generando odi ardenti. Numerosi cattolici, contadini, artigiani o borghesi, che avevano sostenuto il Terzo Stato, si congiunsero così con l’opposizione. I dibattiti scossero profondamente la società francese, iniziando a dividere la nazione in due parti. Dal 1791 la maggior parte dei preti cattolici francesi, obbligati a cedere la direzione delle loro chiese agli “intrusi”, fuggirono. Verso la fine dell’anno, l’Assemblea Legislativa emise il Decreto contro i preti réfractaires. Esso stabiliva che ogni cittadino deve prestare la sua fedeltà alla legge. I deputati dell’Assemblea Legislativa ritenevano che i preti réfractaires fossero solo dei faziosi; decisero quin20 di che questi non potevano invocare i diritti della Costituzione, e che dovevano essere considerati sospetti e da sottomettere ad una sorveglianza particolare; inoltre perdevano il loro trattamento. La vita per i preti réfractaires diveniva sempre più ardua: «Il était extrêmement difficile de se soustraire aux recherches de cette police infernale dont les agents innombrables couvraient le sol français, donnant la chasse aux prêtres et les traquant comme des bêtes fauves. Plusieurs, après avoir erré quelque temps dans la solitude et s’être trainés de retraite en retraite, se retiraient sur la terre étrangère, préférant l’exil à cette vie passée au milieu d’alarmes et d’appréhensions continuelles”. Nel 1792, il Sollier si ritirò nascostamente o nella sua Céreste oppure a Meyrigue, verso Viens, una decina di chilometri ad est di Apt. Qui andò insieme al suo parroco Claude Vial, anche lui réfractaire. A questo punto le date divergono: secondo alcuni nella notte tra il 3 ed il 4 agosto, in seguito ad una denuncia, alcuni uomini armati, arrivati da Manosque, invasero il villaggio di Meyrigue, si impossessarono dei due rifugiati e li condussero nella loro città, dove furono rinchiusi nell’ex convento dei Cordeliers divenuto prigione. Il Vial vi fu subito giustiziato, mentre il Sollier riuscì a fuggire in Italia con alcuni preti amici. Il Sollier e i suoi compagni viaggiarono via terra, non avendo con sé quasi nessuna risorsa. Il suo biografo riferisce che teneva un diario giornaliero particolareggiato. Si fermarono a Nizza e a Torino, quindi, entrati nello Stato pontificio, proseguirono per Bologna con l’incertezza di trovarvi un rifugio. Ebbero invece dal vice legato delle lettere che li raccomandavano al cardinale Calcagnini, vescovo di Osimo. Dopo alcuni mesi di viaggio, fatto quasi tutto a piedi, tra fatiche e penose privazioni, il 27 ottobre 1792 il Sollier ed i suoi compagni arrivarono ad Osimo. Il vescovo Calcagnini fornì loro vestiti e biancheria, di cui erano del tutto privi. Il Sollier annota: “C’est-là, au reste, que la Providence nous avait destiné un refuge. La bonté, la confiance, les égards dont on nous entoura nous firent oublier bien des peines passées”. Ma il pensiero andava continuamente alla patria lasciata. I compagni del Sollier furono riuniti nello stesso convento, mentre egli, con grande sua amarezza e dolore, fu posto da solo presso i Silvestrini. Il Sollier, nella situazione di solitudine, per sfuggire ai ricordi che lo affliggevano, divenne insensibile al riposo di cui avrebbe potuto beneficiare e cercò la consolazione nella pietà e nello studio. Dalle lettere che inviò sia ad alcuni fedeli della diocesi di Apt sia ad amici compagni di esilio, si evidenzia il suo grande zelo per conservare presso di loro lo spirito di forza e di sacrificio. Per distrarsi dal pensiero dei mali che affliggevano il suo paese e che ogni giorno arrivavano ai suoi orecchi, il Sollier si consacrò allo studio. Si trovava “sur la terre des ruines, aux sources de l’histoire, au berceau de la littérature STORIA antique”, per cui non mancava il materiale appropriato per uno spirito avido di studi e di conoscenze. Percorse quindi le terre attorno ad Osimo, visitandone le rovine degli antichi monumenti e ritrovando le località nominate dagli storici e dai poeti romani. Frequentò le ricche e numerose biblioteche dei monasteri. Le letture degli scrittori ecclesiastici e dei letterati italiani completavano i suoi studi. Dopo due anni di silenzioso ritiro, il Sollier fu incaricato dal vescovo Calcagnini di ricoprire la cattedra di Filosofia presso il Collegio-Seminario “Campana”. Si trattava di un importante istituto culturale che conviveva, dall’inizio del secolo, nello stesso palazzo con il Seminario. La nomina del Sollier fu fatta malgrado i pregiudizi in merito alla sua condizione di straniero. Egli fu dapprima titubante ad accettarla, nella sua modestia, per lungo tempo, ma infine si decise e il 3 novembre 1794 iniziò il suo corso davanti ad un gran numero di allievi. Queste le sue prime considerazioni in merito: “Toute la ville parlait de ce nouvel emploi qui venait de m’être confié. J’étais attendu dans le collège avec une curiosité étonnée. Au reste, on avait contre moi toutes les préventions possibles; mais elles se dissipèrent bientôt, et je n’eus ensuite qu’à me féliciter des égards des maîtres et de l’affection des élèves”. L’impostazione ed i contenuti dell’insegnamento al “Campana” si mostrarono subito antiquati e sorpassati al Sollier. Prima di studiare Teologia, gli allievi apprendevano la lingua latina, quindi leggevano i testi dei letterati italiani più antichi e infine gli oratori ed i poeti classici italiani. Si trattava però di figure minori, trascurate dalla critica, che i colleghi stessi del Sollier ritenevano senza valore. L’insegnamento delle scienze non esisteva, se si eccettua qualche definizione di Fisica intramezzata nella Filosofia e senza l’ausilio di alcuno strumento. Egli tentò di inserire qualche riforma nella parte di insegnamento che gli competeva. Trovava che il testo, che doveva seguire, era di un autore “sans goût, sans méthode, peu exact et bien incomplet parmi beaucoup d’inutilités entassées”, e ciò pregiudicava il progresso dei suoi studenti. Per questo si mise a rivederlo e completarlo, cercando, con grande impegno e fatica, di riordinarlo. Inoltre aggiunse alla Filosofia un corso di Matematica e di Fisica, in rapporto con i progressi della scienza in Francia, cosa fino ad allora inusitata, che interessò molto gli allievi. Dopo un paio d’anni, resosi libero dall’inse- gnamento, il Sollier divise il suo tempo tra le ricerche e gli approfondimenti scientifici. Trasse profitto dal frequentare una ricca biblioteca che un amico gli mise a disposizione. Inoltre riprese le escursioni nelle vicine località, redigendone le descrizioni in numerosi volumi manoscritti, sui quali non ebbe più modo e tempo di ritornare, che riguardavano le scienze, la storia, la critica letteraria, la teologia dommatica, i soggetti di pietà. Avendo desiderio di visitare Roma, poté partire da Osimo il 19 maggio 1797, con alcuni suoi compagni. Vi si fermò diversi mesi, visitando i monumenti artistici e quelli religiosi e le biblioteche. Ebbe anche un’udienza particolare da Pio VI. Rientrato ad Osimo, il Sollier vi ritrovò la sua solitudine ed il suo riposo, che però non dovevano durare per molto. Nel 1799, infatti, l’Abbé Barret riferisce che una truppa di insorti si era impossessata di una posizione vicino Osimo e da là cannoneggiava la città. Il Sollier, che non usciva più dalla sua camera per paura, se ne stava alla finestra guardando tristemente gli orrori della guerra, quando una palla di cannone passò a poca distanza da lui. Pericoli di questo tipo si moltiplicarono anche in seguito. Egli sentiva anche i cannoni dei Russi su di Ancona nell’assedio che posero quell’anno. Il giorno in cui Ancona fu lasciata dai Francesi, il 15 novembre, vi si recò, come anche il 21 giugno dell’anno seguente 1800, quando Pio VII vi fece visita ed egli “fut admis d’une manière particulière au baisement des pieds”. Il 15 luglio 1801, dopo che Pio VII ebbe accolto con favore le offerte di Napoleone, il segretario di Stato Consalvi poté firmare il Concordato, che ridava legalmente nuova vita al cattolicesimo francese: la religione cattolica era riconosciuta e dichiarata appartenente alla maggioranza dei Francesi. Il Sollier fece un ultimo pellegrinaggio al santuario mariano di Loreto, che trovò immerso nella più grande desolazione e orribilmente profanato dal saccheggio dei soldati francesi. Quindi, il 26 ottobre 1801, partì per la Francia, attraverso Firenze, Pisa e Livorno. Ad Osimo aveva incontrato degli amici buoni e veri, che con la loro generosità e affetto gli avevano reso meno amari i mali dell’esilio. Per questo gli ci volle tutto il desiderio, che si prova dopo dieci anni di assenza, di rivedere il proprio paese e la propria famiglia, per resistere alle richieste con le quali essi avevano cercato di trattenerlo. Sia nel collegio-seminario “Campana” sia nel convento dei silvestrini lasciò un gran ricordo di sé. 21 STORIA Un Parco storico per Castelfidardo di Eugenio Paoloni* L’INDISCUTIBILE RILEVANZA PER LA STORIA D’ITALIA E LA SUA RISONANZA MONDIALE SONO IL BIGLIETTO DA VISITA PERCHÉ NASCA SUI LUOGHI DELLA BATTAGLIA UN PARCO STORICO CHE NE PERPETUI LA MEMORIA E VALORIZZI UNO STRAORDINARIO PATRIMONIO NATURALE. P er un Parco Storico della Battaglia di Castelfidardo del 18 settembre 1860. Da alcuni anni si parla ormai sempre più spesso del progetto di realizzare un Parco Storico, o meglio storico-turistico-culturale nei luoghi ove si svolse, il 18 settembre 1860 la famosa battaglia di Castelfidardo, considerata da vari storici come memorabile per la storia d’Italia, per l’Europa ed il mondo cattolico viste le sue conseguenze politiche. L’idea di realizzare un Parco Storico è portata avanti con passione e con entusiasmo dalla Associazione Italia Nostra, che ne pone le basi attuative nella costituzione del museo risorgimentale della battaglia e che nella sua opera di sensibilizzazione ha trovato l’importante aiuto dell’Amministrazione comunale, soprattutto con l’approvazione dello statuto del museo risorgimentale (10 marzo del 1984). L’atto va considerato come corona dei tre importantissimi emblemi del risorgimento italiano nel territorio di Castelfidardo: il monumento Ossario-Sacrario, costituito all’indomani della battaglia, ove sono sepolte le spoglie dei caduti dei due eserciti, il monumento nazionale ai liberatori delle Marche, inaugurato nel 18 settembre 1912 ad opera dell’artista Vito Pardo, e l’area della battaglia 22 dove si svolsero i momenti più cruenti dello scontro. Sono ormai ventisette anni che Italia Nostra grazie ad una convenzione con il comune di Castelfidardo garantisce la gestione scientifica e l’apertura del museo, oggi ormai il solo aperto nelle Marche. Anno dopo anno, Italia Nostra e l’Amministrazione comunale, in perfetta comunione d’intenti e sinergia, hanno continuato nell’opera meritoria di mantenere nei giovani la memoria di quell’avvenimento storico così importante per la nostra regione, per l’Italia e per il mondo. Frequentemente da ogni parte del STORIA globo, discendenti dei soldati che combatterono la battaglia sono venuti a visitare la nostra città. Le commemorazioni della battaglia, i raduni di bande storiche militari, con interessanti programmi di iniziative collaterali, hanno contraddistinto gli ultimi quattro lustri. Dalla costituzione del museo, ogni anno si sono tenuti convegni storici a cui hanno partecipato insigni professori universitari, esperti e studiosi di cose militari, responsabili di musei ed eminenti autorità civili e religiose. Grazie all’aiuto del Comune di Castelfidardo, della provincia di Ancona e della regione Marche, l’Associazione Italia Nostra ha anche promosso altri eventi scientifici e culturali: convegni, conferenze e pubblicazioni a carattere scientifico a tutela della selva di Castelfidardo, dove si è prevalentemente svolta la battaglia, ma che è anche area floristica protetta dalla Regione Marche e Sito di Interesse Comunitario (SIC). Oltre a queste manifestazioni, l’associazione si è fatta promotrice di una proposta per la costituzione di un vero e proprio Parco Storico della Battaglia, recepita con delibera unanime dal consiglio comunale del 19 febbraio 2005 mettendo così fine ad una controversia durata 25 anni per tutelare i luoghi della battaglia da insediamenti edilizi. Si tratta di una iniziativa unica, di grande rilevanza nazionale ed internazionale, che si può definire un esempio di “archeologia sperimentale” e che, comunque, risulterebbe il primo esempio di parco storico nella regione Marche. L’intento è quello di promuovere, dal punto di vista culturale, l’aspetto storico-ambientale del territorio comunale, ma anche quello dei comuni limitrofi e della regione Marche collegati alla battaglia di Castelfidardo, come già è stato fatto nell’allestimento del museo risorgimentale; calarsi nel passato per farlo rivivere e conoscere a tutti, attraverso una tutela e una promozione storica, il più possibile rigorose e formative. Questa proposta è l’evoluzione coerente di un atteggiamento di sensibilità alla tutela, alla salvaguardia e alla promozione di un ambiente naturale e storico che il decorrere del tempo non ha ancora modificato sostanzialmente e che noi abbiamo il dovere di tramandare ai nostri figli come hanno fatto i nostri genitori con noi. L’estensione territoriale del Parco Storico della Battaglia di Castelfidardo coinvolgerebbe nove comuni, e, nel solo territorio di 23 STORIA Castelfidardo, comprenderebbe la Selva, la collina di Monte San Pellegrino, le frazioni di Crocette, Campanari, Acquaviva e la vallata compresa tra i fiumi Aspio e Musone fino al mare Adriatico toccando lembi di territorio dei comuni di Castelfidardo, Loreto, Porto Recanati, Numana, Recanati, Osimo, Camerano, Sirolo, Ancona zona Monte Conero. Nella prima fase, considerando che il comune di Castelfidardo, il 19 febbraio 2005, con atto unanime del consiglio ha già deliberato la cancellazione della previsione urbanistica dal PRG della collina di Monte San Pellegrino, si potrà procedere alla costituzione del Parco Storico Ambientale, che, per ora, comprenderà il territorio di Castelfidardo, ma che prevede l’inserimento di quelli dei comuni limitrofi in tempi successivi. Parchi storici, sentieri e itinerari storico turistici. Mentre a tutti è sostanzialmente noto che cosa sia un parco naturalistico, meno conosciute sono l’esistenza e la natura dei parchi storici. Nella regione Marche sono istituititi e operanti i seguenti parchi naturalistici (alcuni dei quali 24 a carattere interregionale) e riserve, operanti anche a seguito del Piano Paesistico Ambientale Regionale (PPAR) L.R.43/1985, della L.R. 26/1987 e D.A.197/1989: il Parco Nazionale del Gran Sasso e dei Monti della Laga, il Parco Nazionale dei Monti Sibillini, il Parco del Monte Conero, il Parco Gola della Rossa e Frasassi, il Parco del Monte San Bartolo, il Parco Sasso Simone e Simoncello, le Riserve statali Abbadia di Fiastra, Gola del Furlo e Montagna di Torricchio; le oltre cento aree floristiche protette e le quindici foreste demaniali. “Parco Storico” in senso più proprio e specifico, sta ad indicare aree circoscritte, strettamente collegate ad eventi storici, spesso di carattere militare, verificatisi su un dato territorio - urbano o extraurbano - dei quali si siano conservati sia resti i monumentali (ad esempio edifici, fortificazioni, trincee, fossati, strade, torri, gallerie, monumenti funerari, cippi, armi di vario genere, arredi ed equipaggiamenti militari venuti alla luce casualmente o dissotterrati nel corso di scavi e di lavori campestri), sia fonti letterarie (cronache, diari dei corpi militari, registri dei comandanti, schemi di battaglie, ordini di guerra, piante e cartine militari, STORIA rapporti degli stati maggiori). In questo senso l’espressione Parco Storico è relativamente recente e praticamente entrata nell’uso dopo la seconda guerra mondiale. In effetti in Italia non si hanno ancora molti esempi di Parchi storici di questo genere, a differenza di altri paesi europei dove invece sono stati istituiti diversi e importanti parchi storici. Basta citare il Parco Storico della Battaglia di Waterloo, nel Belgio meridionale, che si estende nei vari comuni ove si svolse la famosa battaglia; con molti luoghi simbolo, arricchiti da musei, monumenti, cimeli, murales e manifestazioni di ricostruzione storica. Ma si potrebbero segnalare altri parchi che stanno a metà fra parco propriamente storico e parco demo-etno-antropologico: il Vikingeskibsallen, cioè il Museo delle navi vichinghe, sorto recentemente in riva al Fiordo di Roskilde in Danimarca, ove sono state ricomposte alcune navi da carico e da guerra affondate verso il 1000 e riportate alla luce intorno al 1960; oppure il Norks Folkemuseum di Oslo, interessante parco ove è ricostruito un antico villaggio norvegese con oltre 150 costruzioni in legno del ‘7/800. Anche l’Archeon in Olanda che ha ricostruito gli ambienti di tre epoche: preistorica, romana e medievale, fatte rivivere con l’aiuto di figuranti. Dello stesso genere uno dei pochi esempi in Italia, di recente istituzione, l’Archeopark di Darfo Boario Terme che riguarda il periodo dall’Età della Pietra a quella del Ferro; un parcolaboratorio interattivo per rivivere la preistoria. Si tratta di parchi nati nel secondo dopoguerra, per riscoprire e valorizzare gli aspetti più antichi della storia e della civiltà locale, ma anche con scopi turistici, e non per nulla essi sono meta di molti visitatori provenienti da tutta Europa e costituiscono una risorsa per gli abitanti del luogo e il territorio che li ospita e li conserva. Affini ai Parchi storici sono gli “Itinerari e Sentieri storici”, che sono stati negli ultimi trent’anni riscoperti e attrezzati soprattutto nei luoghi dove si combatté nel 1915-1918 la prima guerra mondiale. Italiani ed austriaci per difendersi dalle insidie dell’alta montagna e da quelle non meno gravi della guerra di posizione e di trincea, scavarono lungo le Alpi e soprattutto sulle Dolomiti, un sistema di camminamenti, caverne, cunicoli, appostamenti, ricoveri, caserme che costituiscono delle vere opere di ingegneria militare. Oggi questi luoghi, allora teatro di sanguinose battaglie, sono diventati rifugi, itinerari attrezzati, sentieri; cioè attrattive turistiche, ma soprattutto uno strumento di pace, di comunicazione e di fraternità fra le popolazioni di Paesi diversi, senza più frontiere fatte di filo spinato e di appostamenti di morte. Le Dolomiti, le Tre Cime di Lavaredo, la Marmolada, le Tofane offrono ormai in grandissima quantità sentieri storici, come la “Strada degli Alpini”, intagliata dai soldati italiani sulle pareti verticali di Cima Undici. Non meno suggestivi sono i sentieri che ripercorrono le vicende della guerra sulle montagne del Pasubio, come le fortificazioni di Cima Palòn, o la strada delle gallerie che comprende ben 51 cunicoli, il più lungo dei quali misura 370 metri. Del resto non ci sono solo quelli della Grande Guerra tra i sentieri storici; ci sono quelli napoleonici nelle Alpi Occidentali, la strada del Sempione, fatta ricostruire da Napoleone e strade ancora più antiche, come la Strada Priula, costruita verso la fine del Cinquecento da Alvise Priuli, che partendo dalle Valli bergamasche giungeva sino in Valtellina. Frequentata specialmente da mercanti svizzeri, era la strada che metteva in comunicazione la Repubblica Veneta con il Centro Europa. Rimasta immune dalla cementificazione e dall’asfalto, è oggi un lungo e difficile, ma interessante sentiero escursionistico e una testimonianza dell’incontro fra due culture a Sud e a Nord delle Alpi. Parchi e itinerari storici della seconda guerra mondiale sono stati realizzati anche in altre località del centro e del Nord Italia, specialmente laddove si sono verificati episodi a volte eroici a volte particolarmente tragici e dolorosi per le popolazioni locali. Per quanto riguarda l’epoca più vicina a noi potremmo ricordare il Parco e Museo storico della Linea Gotica, aperto nel comune di Auditore, in provincia di Pesaro Urbino, allo scopo di documentare il passaggio del fronte nella zona dell’alto pesarese durante la seconda guerra mondiale. Esso comprende anche un parco dove sono erette fortificazioni e collocati mezzi militari; vi si svolge anche attività didattica con visite guidate. In Italia i parchi storici più conosciuti sono quelli a carattere archeologico, dei quali si hanno numerosi esempi nelle Marche; a seguito della L.R. 16/1994 e D.A. 206/1998, 25 STORIA sono funzionanti i seguenti Parchi archeologici: Fossombrone, Castellone di Suasa, Sassoferrato, San Severino Marche, Urbisaglia, Falerone e Cupramarittima. Sono state poi individuate varie “aree archeologiche”: 4 in provincia di Pesaro Urbino, 8 in provincia di Ancona, 9 in provincia di Macerata e 1 in provincia di Ascoli Piceno; definito inoltre l’antico sistema viario della via consolare Flaminia, da Fano a Cantiano, e della via consolare Salaria, da Ascoli Piceno a Arquata del Tronto. Il Parco Archeologico di Urbs Salvia è certamente fra i più spettacolari delle Marche; il percorso della visita si snoda per circa un chilometro e consente di cogliere nella sua interezza i monumenti principali tipici di una antica città romana: il Serbatoio dell’Acquedotto, il Teatro e il sottostante edificio a Nicchioni; l’area sacra comprendente il grande Tempio con criptoportico, la cinta muraria, l’Anfiteatro. E’ bene ricordare che le citate leggi regionali del Piano Paesistico Ambientale Regionale prevedevano dei “Luoghi di memoria storica”, aree ove si erano svolte battaglie tra eserciti, da assoggettare a tutela parziale a cura degli strumenti urbanistici generali. Esse erano identificate nei comuni di Fermignano (battaglia del Metauro), Sassoferrato (battaglia del Sentino) e Serravalle del Chienti (battaglia di Colfiorito) Altri parchi storici sono in corso di realizzazione, come il Parco storico della battaglia del Trasimeno, sulle rive settentrionali del lago, ove, nel 217 avanti Cristo, Annibale inflisse ai Romani una delle più gravi sconfitte di tutta la seconda guerra punica, distruggendo un esercito di circa 30.000 uomini ed il Parco storico della Battaglia di Novara. Qualche proposta per l’ideazione e l’attivazione del Parco storico-ambientale a Castelfidardo. Ci preme intanto sottolineare che l’iniziativa vuole avere in primo luogo uno scopo culturale: tenere viva la memoria storica degli eventi che si sono svolti nel nostro territorio e promuovere una forma sostenibile di attività economica nell’area del parco storico-ambientale. Intenti recepiti dalla regione Marche, che ha emanato la L.R. 09 febbraio 2010, n. 5 “Valorizzazione dei luoghi della memoria storica risorgimentale relativi alla battaglia di Tolentino e Castelfidardo e 26 divulgazione dei relativi fatti storici”. Il Parco vuol essere anche un contenitore che aiuti gli studenti, i giovani, a comprendere la storia non soltanto leggendola sulle pagine dei libri, ma rivivendola nei luoghi dove gli eventi si sono svolti e sono diventati Storia con la S maiuscola; un’occasione per riflettere sul passato e per cercare di capire il presente e, quindi, immaginare il futuro. Nelle finalità didattiche rientra anche far conoscere le caratteristiche ambientali, le specialità della flora locale, delle specie che crescono lungo il fiume; far crescere nei giovani il rispetto per l’ambiente e per il paesaggio, la coscienza della necessità di tutelare l’equilibrio ecologico del nostro territorio. Il Parco vuol essere pure uno strumento di promozione del turismo culturale, che sa apprezzare i monumenti del passato, il patrimonio storico artistico delle nostre città, ma anche i paesaggi delle nostre colline e della costa. E per rendere concrete queste finalità, oltre al restauro dei monumenti e le ricerche storiche, si è iniziato a realizzare dei percorsi storici sui luoghi della battaglia, con opportune tabelle e segnavia, percorsi pedonali, ciclabili e, a breve, anche ippovie, con aree di sosta nei siti dove si sono verificati episodi significativi della battaglia o dove se ne conservano monumenti e testimonianze. Non sono mancate mostre fotografiche e documentali, convegni ed incontri con la popolazione dedicati alla storia risorgimentale, approfondendo gli avvenimenti avvenuti nei singoli comuni. A nostro avviso va valutato anche un profilo relativo a nuove opportunità di lavoro; in momenti di crisi come questi, i nostri imprenditori potrebbero attingere dagli eventi dell’epoca risorgimentale per creare tipologie di gadgets, riproduzioni di soldatini, di costumi civili e militari, bandiere, gagliardetti. A tal proposito, la Fondazione Ferretti ed il museo del Risorgimento di Castelfidardo mettono a disposizione libri, pubblicazioni o conferenze che illustrano le vicende storiche voltesi nel luogo. Il Parco Storico-Ambientale della Battaglia di Castelfidardo è di fatto già inserito negli itinerari e nei programmi di valorizzazione storica e naturalistica per un’offerta turistica del STORIA nostro territorio, la cui valenza è sicuramente a carattere internazionale. Le attività svolte per il 150° della battaglia e 150° per l’Unità d’Italia lo hanno ampiamente dimostrato facendo registrare oltre 10.000 visitatori. La realizzazione del DVD sulla battaglia, presentato alla mostra internazionale del libro di Torino e la ristampa dello “Strafforello”, ci hanno dato chiare indicazioni che la strada intrapresa è quella giusta. Stiamo anche inserendo il Parco Storico della Battaglia di Castelfidardo in un sito internet che dia il giusto valore ad un luogo così importante, dove si determinarono le fasi dell’evento bellico che aprì la strada all’unità d’Italia. Queste le prime intenzioni di un progetto in progress aperto al contributo di idee di quanti, comuni, province, regione o singole persone, hanno a cuore il futuro sostenibile dell’area vasta riconosciuta come l’area della Battaglia di Castelfidardo. * Eugenio Paoloni è il Presidente della Fondazione Ferretti di Castelfidardo (Foto tratte dal dépliant 2 dei “Quaderni della Selva di Castelfidardo”, corredato da foto e disegni di Daniele Carlini, Simone Mazzieri, Giuliano Salvucci, NISI Audiovisivi Castelfidardo) Le cancellate degli allori 27 STORIE FARMACIA Cruciani omeopatia dermocosmesi laboratorio galenico alimenti senza glutine Corso Matteotti, 107 - Porto Recanati, MC, 62017 Tel. 0719799146 28 STORIE ADRIATICHE RUGGERO BOSCOVICH, scienziato pontificio di Marco Moroni Veduta di Ragusa a metà del XVII secolo - Foto Wikipedia UNO SCIENZIATO COSMOPOLITA; GESUITA MA, A DETTA SUA, MEZZO TURCO. FILOSOFO, INGEGNERE, GEOGRAFO E METEOROLOGO. CON IL GENIO DELLA MATEMATICA. 29 STORIE ADRIATICHE L e nostre piccole storie adriatiche questa volta ci fanno incontrare un grande scienziato dalmata. Nato sulla sponda orientale dell’Adriatico, Ruggero Boscovich visse tra Roma, Rimini, Pesaro, Venezia, Milano, Parigi e Londra, ma la sua attività lo portò anche a Vienna, Costantinopoli, Varsavia e Cracovia. Contemporaneo di Voltaire, Diderot e D’Alembert, il gesuita Boscovich ha raccolto fino in fondo le sfide lanciate dagli intellettuali francesi dell’Enciclopédie, gareggiando con i maggiori illuministi del suo tempo in discipline come la filosofia naturale, la matematica, l’ingegneria, l’ottica, la geodesia, la meteorologia e l’idraulica. Anche da questi pochi cenni si comprende l’importanza di un personaggio come Ruggero Boscovich, la cui figura è tornata alla ribalta un anno fa quando, in occasione del terzo centenario della nascita, la sua patria oggi in terra croata gli ha dedicato una importante mostra. Era nato il 18 maggio 1711 a Ragusa (l’attuale Dubrovnik) quando la città, devota a San Biagio, portava ancora i segni del terribile terremoto che nel 1667 l’aveva quasi distrutta. Oggi Ragusa è conosciuta quasi soltanto dai cultori di storia adriatica, ma nel basso Medioevo e nella prima età moderna la città dalmata, che controllava una lunga fascia costiera ed era nota come Repubblica di San Biagio, aveva svolto un ruolo economico di grandissimo rilievo. Nel tentativo di delinearne la particolare funzione di intermediario economico tra l’Europa occidentale e l’Impero turco, Sergio Anselmi ha parlato di Ragusa come di una sorta di Hong Kong dell’Adriatico, “rispetto alla Cina di 30 allora, cioè alla Turchia”. Quando l’intera penisola balcanica era passata sotto il controllo turco, i ragusei erano riusciti a mantenere la loro libertà e, in cambio di un consistente tributo annuo, avevano ottenuto dal sultano Solimano il Magnifico notevoli privilegi per i propri mercanti che, in tal modo, erano giunti a egemonizzare i commerci con l’Occidente delle principali città balcaniche: da Belgrado a Sofia, da Filippopoli ad Adrianopoli. Boscovich, dunque, era nato a Ragusa da Nikola, ricco mercante serbo-bosniaco, e da Paola Bettera, di famiglia bergamasca ma ormai stabilitasi sia a Ragusa che a Nicopoli; per questo in una lettera del 1752 scherzosamente egli si firmerà come “il mezzo turco matematico pontificio”. Seguendo le orme del fratello maggiore, Bartolomeo, era entrato ben presto nel collegio dei gesuiti della sua città, allora diretto da due gesuiti italiani, i padri Storani e Capitozzi. Essendo, a giudizio dei suoi maestri, “giovane di grande speranze”, nel 1725 fu inviato a Roma, prima al Collegio di Sant’Andrea delle Fratte e poi al Collegio dei gesuiti di Roma, noto come Collegio Romano. Tornerà raramente a Ragusa, ma con la sua città di origine manterrà strettissimi rapporti e più volte, a Roma, a Venezia, a Vienna o a Parigi, opererà per conto e in favore della sua patria. Dati gli stretti rapporti tra Ragusa e Ancona, nel suo viaggio verso Roma il giovane Boscovich sicuramente sbarcò nel porto dorico e poi percorse la via lauretana, che collegava il santuario della Santa Casa alla capitale dello Stato pontificio. Nelle Marche tornò nel 1733 perché, essendosi ammalato, fu inviato nel collegio di Fermo. L’anno seguente, però, avendo composto i suoi primi Carmina di argomento scientifico, fu richiamato a Roma e, pur essendo ancora studente di teologia, gli fu affidata la cattedra di Logica e Matematica presso il Collegio Romano. Prima ancora di pronunciare i voti, incominciò a emergere con un gran numero di dissertazioni su questioni matematiche, astronomiche e meccaniche, che gli diedero prestigio nel mondo scientifico romano. Nonostante la sua giovane età, nel clima di rinnovamento culturale e scientifico promosso dal papa Benedetto XIV, nel 1744 Boscovich fu accolto nell’Arcadia e, operando nell’ambiente diplomatico vaticano, dove ebbe modo di conoscere alcuni dei più dotti stranieri di passaggio, iniziò a costruirsi una solida reputazione europea. Fin dagli anni Quaranta, avendo studiato a fondo le opere di Newton e dei suoi continuatori inglesi e francesi, si caratterizzò come uno dei più decisi sostenitori del newtonianismo nell’ambiente dei gesuiti romani. Nominato insegnante di Matematica nel Collegio Romano, si dedicò a studi di carattere fisico, matematico e astronomico nei quali, sviluppando le tesi di Newton e di Leibniz, incominciò a elaborare le idee che sarebbero poi confluite in una STORIE ADRIATICHE grande opera di filosofia naturale. Era divenuto socio corrispondente dell’Académie française ed aveva acquisito una notevole fama anche all’estero, tanto che il re del Portogallo Giovanni V lo invitò a partecipare alla spedizione scientifica promossa per realizzare una nuova carta geografica del Brasile. Boscovich era affascinato dal problema della forma e della figura della terra, un problema tipicamente newtoniano che implicava questioni matematiche, astronomiche e geodetiche; in quegli anni alcuni scienziati francesi avevano organizzato due famose spedizioni in Perù e in Lapponia per misurare gli archi di meridiano all’equatore e al polo. Rifiutò l’offerta del re del Portogallo; accettò invece il compito di stendere la carta dei territori pontifici, volendo approfittare di quell’incarico per misurare l’arco di meridiano tra Roma e Rimini. Nell’ottobre 1750 si mise all’opera con un altro gesuita, il matematico irlandese Cristoforo Maire; fu un compito non semplice che lo impegnò più di due anni, costringendolo a percorrere ampi tratti del territorio pontificio, in mezzo a popolazioni spesso ostili, che guardavano con sospetto quei due gesuiti muniti di strani strumenti geodetici e temevano di avere a che fare non con due scienziati, ma con due maghi. Le difficoltà maggiori Boscovich e Maire le incontrarono nell’ultima triangolazione, quella realizzata tra la foce dell’Ausa a Rimini, il colle di Monteluro, posto nei pressi di Pesaro, e il monte Carpegna; su questo monte, infatti, a lungo non si riusciva a erigere il segnale necessario per eseguire i rilievi geodetici dalla base riminese e dal campanile di Monteluro. Allo stesso modo non fu semplice la misurazione della base della triangolazione, posta sul litorale riminese, perché nel novembre 1751 i due scienziati vennero costantemente disturbati dalla pioggia e dal vento e per- ché nei mesi seguenti le grandi mareggiate spostarono più volte i segnali posti sulla spiaggia. La misurazione fu completata nel corso del 1752, sicché fu poi possibile realizzare la carta geografica, mentre le risultanze della spedizione furono pubblicate a Roma nel 1755 ed ebbero così grande risonanza che iniziative analoghe vennero poi realizzate in Austria, Moravia, Ungheria e persino in Pennsylvania. Su incarico del papa, Boscovich tornerà a Rimini nuovamente nel 1763, quando nella città romagnola si discuteva su come evitare il periodico insabbiamento del canale del porto. Mentre l’agrimensore Serafino Calindri e il medico-scienziato locale Giovanni Bianchi erano per la ripulitura del canale e il prolungamento dei moli, Boscovich suggerì una soluzione molto più drastica, ma davvero risolutiva: lo spostamento del fiume Marecchia e la deviazione delle sue acque fuori dal porto. Si preferirà dar avvio a lavori di “espurgazione” del canale tramite una macchina in grado di “scavare la ghiaia sott’acqua” inventata dal Calindri, ma dopo qualche decennio saranno necessari altri interventi per eliminare la ghiaia depositatasi nuovamente “sulla bocca del porto”. Ormai però Boscovich, pur mantenendo ancora stretti legami con la sua Ragusa, ha iniziato a muoversi sull’intero scenario europeo. Nel 1758 soggiorna a lungo a Vienna e vi pubblica la sua Philosophiae naturalis Theoria; nel 1759 è a Parigi dove frequenta l’ambiente accademico della capitale francese; nel 1760 è in Inghilterra, dove conosce Burke e Franklin, visita l’osservatorio di Greenwich e viene accolto come socio dalla Royal Society di Londra; nel dicembre 1760 lascia l’Inghilterra diretto a Costantinopoli, dove intende osservare il transito di Venere, ma durante il viaggio visita l’Olanda, si ferma nuovamente a Vienna, passa a Venezia, poi a Corfù e a Gallipoli di Turchia, sicché giunge a Costantinopoli nel novembre 1761, troppo tardi per l’osservazione di Venere. Ospitato dall’ambasciatore francese, si trattiene nella capitale ottomana oltre sei mesi; nel maggio 1762 riparte alla volta di Varsavia, attraversando la Bulgaria e la Moldavia, con l’intenzione di arrivare a San Pietroburgo. La guerra in corso, però, gli consiglia di dirigersi a Cracovia e poi di nuovo a Vienna, da dove nel settembre 1763 egli torna a Roma. Del percorso da Costantinopoli a Varsavia Boscovich tiene un “giornale di viaggio” che poi pubblicherà nel 1772. Dopo il rientro in Italia gli vengono affidate molte perizie in merito a problemi di ingegneria idraulica: il prosciugamento delle paludi pontine, la navigabilità del Tevere, i lavori necessari per rendere efficienti i porti di Terracina, Savona e, come si è detto, del porto-canale di Rimini. Nel 1764 Boscovich viene chiamato alla cattedra di Matematica dell’università di Pavia; intanto nello stesso anno egli cura la costruzione dell’osservatorio astronomico di Brera. Resta a Pavia fino al 1768, poi passa alle Scuole Palatine di Milano. Dopo la soppressione, nel 1773, della Compagnia di Gesù lascia di nuovo la Penisola e si trasferisce a Parigi, in qualità di direttore dell’Ottica navale della marina. Tornerà in Italia soltanto nel 1782, per trascorrervi gli ultimi anni della sua vita, dedicati alla pubblicazione di una grande opera di ottica e astronomia. Grande scienziato e tipico intellettuale cosmopolita dell’Europa del Settecento, ma sempre legato alla sua Ragusa e quindi figlio dell’Adriatico, Ruggero Boscovich morirà a Milano il 13 febbraio 1787. 31 I NOSTRI SUPERMERCATI ® ZIPPILLI Via Mazzini, 7/13 - PORTORECANATI (MC) Tel/Fax 071 9799198 PERSONAGGI Bruno Mugellini, la poesia del pianoforte di Paolo Onofri Foto del sito Weblog “I Santesi” A CENTO ANNI DALLA SUA MORTE, BRUNO MUGELLINI NON È PIÙ UN IGNOTO SULLA BOCCA DI TUTTI, MA UN GRANDE MAESTRO CHE LA SUA CITTÀ NATALE RICORDA E ONORA. P otenza Picena è la città dove il 24 Dicembre del 1871 è nato Bruno Mugellini. Il padre dott. Pio era venuto a Potenza Picena dopo aver avuto 1’incarico di medico chirurgo della nostra città il 22/11/1870, proveniente da Morro d’Alba. Insieme alla moglie Maria Paganetti, figlia di Carlo, erano andati ad abitare presso il Palazzo Pierandrei, in Piazza Grande n° 98 (oggi Piazza Giacomo Matteotti), dove il giorno 24 Dicembre 1871 alle ore 23 è nato Bruno, Stanislao, Pierfederico, I gnazio, Natale, Giuseppe Mugellini. Il dott. Pio Mugellini, figlio di Bruno, era originario di Roma, ed è rimasto a Potenza Picena fino al 1/12/1874, quando per avvicinarsi alla sua città natale, si trasferisce a Campagnano di Roma. Nel breve periodo in cui il dott. Pio Mugellini insieme alla sua famiglia è stato a Potenza Picena, ha avuto modo di partecipare alla vita sociale e culturale del nostro Paese. Infatti risulta tra i fondatori il 4/4/1874 della locale Filodrammatica, che si esibiva all’interno del Teatro Condominiale. Dopo la sua partenza da Potenza Picena, Bruno Mugellini non ha fatto più ritorno nella nostra città ed è morto a Bologna il 15 Gennaio del 1912. La nostra comunità non risulta aver partecipato ai suoi funerali che si sono svolti a Bologna in forma civile. Il Comune di Potenza Picena, Sindaco il Conte Carlo Buonaccorsi, ha invece aderito all’iniziativa che si è svolta a Fossombrone il giorno 16 Marzo del 1913 presso il Teatro Comunale Pietrucci, dove è stata anche scoperta una lapide a ricordo di Bruno Mugel- lini. Presso il nostro Archivio Storico Comunale si trova ancora una copia del grande manifesto dell’iniziativa. In compenso la nostra città gli ha dedicato, intitolandolo, il suo Teatro Condominiale (oggi Comunale) il giorno 28/10/1933, ed una via importante del Centro Storico, che in precedenza era dedicata a Giuseppe Garibaldi 33 PERSONAGGI (delibera della giunta Comunale del 1/8/1951, Sindaco il dott. Nazzareno Riccobelli). Anche nel Comune di Bologna esiste una via dedicata al nostro grande musicista. A Porto Potenza Picena è operante dal 23 Dicembre del 2004 una Accademia Popolare di musica intitolata al M° Bruno Mugellini. La Corale S. Stefano di Potenza Picena nelle ultime iniziative è stata sempre accompagnata da una Orchestra da Camera “Bruno Mugellini”, diretta dal M° Danilo Tarquini. Norberto Mancini gli ha dedicato note biografiche, ad iniziare da un ar ticolo apparso su L’Azione Fascista del 16/12/1933, poi in “Potentini Illustri” del 1950, “La mia terra” del 1954 ed infine in “Visioni Potentine” del 1958. Nel 1971 l’Adoap (Associazione difesa opere d’arte potentine), diretta dall’avvocato Silvano Mazzoni, in occasione del primo cente- 34 nario della nascita gli ha dedicato una mostra fotografica di Bruno Grandinetti. Nel 1982-1983 il dott. Mauro Mancini, per conto dell’Amministrazione Co munale guidata dal Sindaco Maria Magi e con l’assessorato alla cultura affidato a Giovanni Riccobelli, ha effettuato delle accurate ricerche sia presso il Liceo Musicale “G.B. Martini” di Bologna, dove ha studiato Bruno Mugellini e successivamente insegnato ed anche diretto, sia presso la Biblioteca Comunale di Fossombrone, città dove il maestro è sepolto nella tomba di famiglia dei Ceppetelli. Nel 1990, sindaco il Prof. Leonardo Melatini, in occasione della riapertura del Teatro Comunale “Bruno Mugellini”, dopo i lavori di restauro, il dott. Mauro Mancini ha presentato il suo libro che parla sia della storia del Teatro che della vita di Bruno Mugellini. Nel 1996 Bruno Grandinetti, in occasione dell’inaugurazione della sua mostra fotografica “Ignoti sulla bocca di tutti”, ha donato al Comune di Potenza Picena un libro di Bruno Mugellini sul “Gran metodo teorico-pratico per lo studio del pianoforte”. Successivamente la Biblioteca Comunale “Carlo Cenerelli Campana” ha acquistato altre opere di Bruno Mugellìni, che è possibile consultare presso i locali della struttura. Nel 2000, nei giorni 7 e 22 Gennaio, l’Amministrazione Comunale guidata dal sindaco Mario Morgoni ha fatto la prima cele- brazione ufficiale del maestro Bruno Mugellini , che si è svolta presso il Teatro a lui intitolato, a cui ha partecipato il M° C. Carrisi, direttore del Conservatorio “G.B. Martini” di Bologna, e sono state eseguite opere di Bruno Mugellini. Anche nell’ultima pubblicazione del Comune di Potenza Picena, curata da Renza Baiocco, con testi di Andrea Bovari, “II fascino della storia e il profumo del mare”, del maggio del 2009, viene ricordato Bruno Mugellini come uno dei figli più illustri. Citiamo infine anche l’articolo che apparirà sul prossimo numero della rivista “Primapagina” della Banca delle Marche a firma della giornalista Pamela Temperini di Macerata, che ha scritto una nota biografica di Bruno Mugellini sotto forma di racconto letterario, molto bello ed interessante, forse l’unico che ha saputo cogliere lo spirito del grande musicista. Il Comune di Potenza Picena ha organizzato, sabato 21 Gen naio 2012, un Convegno Nazionale di studi , un concerto in omaggio a Bruno Mugellini, “La musica ritrovata”, e una serie di iniziative presso il Teatro Comunale “Bruno Mugellini”. Questo è stato il vero rapporto di Potenza Picena con il grande maestro Bruno Mugellini ; il nostro articolo vuole ricordarne sia il 140° anniversario della nascita (Potenza Picena 24/12/1871) che il primo Centenario della morte (Bologna 15 Gennaio 1912). PERSONAGGI Odissea dall’INFERNO di Janula Malizia Foto di Truong Vinh Duc NEI SUOI “ANNIVERSARI DALLA NON-STORIA”, NOAM CHOMSKY HA SCRITTO CHE “TUTTE LE COSE MIGLIORI SONO CONSEGNATE ALLA NON-STORIA”. COME DIMOSTRA DUC, PROTAGONISTA DI UNA VICENDA DI INTEGRAZIONE DI TRENT’ANNI FA. C he sia bello o cattivo tempo, il punto di ritrovo per chi è cresciuto a Castelfidardo è sempre stato Porta Marina, ed è qui che la sera del due febbraio scorso ci siamo dati appuntamento, nel momento stesso in cui aveva iniziato a lasciare i primi segni tangibili quella lunga e grande nevicata che sarebbe poi passata alla storia come il nevo’ del 2012. Avevo sentito che quella era aria di neve non appena messo il naso fuori l’uscio di casa, e mi era subito tornato in mente un vecchio proverbio delle nostre parti: “Candelora, Candelora dell’inverno semo fora, se ce nengue e se ce pioe ce ne sta quarantanove”. Avrei avuto modo nei giorni appresso di verificare come la saggezza della nostra gente ci avesse azzeccato ancora una volta. Ci siamo ritrovati nel punto stabilito ed Enrico mi ha presentato il suo amico Duc. Ci siamo stretti la mano bersagliati dai fiocchi di neve e subito abbiamo deciso di riparare al chiuso in un posto tranquillo dove poter parlare. Ci aspettava una lunga serata di racconti da condividere e né io né Enrico ce li volevamo lasciar sfuggire per nessun motivo al mondo, tempesta di neve compresa. Sapevo che tutto aveva avuto inizio trentatré anni prima, quando Duc aveva circa dieci anni e il mondo era ancora diviso in due blocchi, con cortine di ferro e di bambù in un precario equilibrio che allora sembrava destinato a durare per sempre. I muri nel frattempo sono crollati, e nuove generazioni di uomini e donne si sono ritrovati adulti senza avere mai conosciuto termini come “guerra fredda”, se non andandoli a scovare nei libri di storia. I luoghi stessi in cui la vicenda aveva avuto inizio erano lontani, il mar della Cina era lontano, toccava andarlo a rintracciare sulle cartine geografiche per capire bene in che parte del mondo si trovava. Truong Vinh Duc è nato nel Vietnam del sud quarantatrè anni fa, in una striscia di terra devastata da decenni di occupazioni coloniali e conflitti sanguinosi. Soltanto nel 1976 il Sud si è ufficialmente riunificato con il Vietnam del Nord e fu proprio in quel periodo che centinaia di migliaia di persone, segnate da lunghe guerre e regimi autoritari, per circa un decennio, a cavallo degli anni ottanta, ebbero come unico obiettivo quello di andarsene a qualsiasi costo. Molti di coloro che salirono agli albori delle cronache come “boat people” riuscirono a rifarsi una vita altrove, molti altri no e alla stregua dei migranti di tempi più recenti sparirono in mare per sempre. Avevo tante domande da fare a Duc su quegli anni lontani che non stavo nella pelle, ma quando ci siamo seduti al tavolo in quel caldo e accogliente locale, Enrico e Duc hanno incominciato subito a darsi pacche sulle spalle e a ricordare i vecchi tempi di scuola. Erano proprio due vecchi amici con molti ricordi in comune ed è risaputo, quando “quelli di Castello” incominciano a tirar fuori i migliori momenti della loro giovinezza, c’è solo da avere pazienza ed approfittare dell’attimo in cui riprendono un po’ di fiato per prendere finalmente la parola. Com’era la vita nel paese che avete lasciato e cosa vi ha spinto ad andarvene? Chi decide di andarsene lo fa perché è costretto. Per la mia famiglia e per tutta la gente comune era difficile reperire qualsiasi cosa, persino i chiodi per costruire una casa. Sapevamo che molte persone prima di noi erano riuscite a scappare via con piccoli battelli e imbarcazioni di fortuna e sapevamo anche che non tutti ce l’avevano fatta. I miei genitori progettarono la fuga con altre persone che, come noi, volevano provare ad andarsene. Alla fine eravamo in novanta e tutti insieme abbiamo racimolato i soldi necessari per l’imbarcazione e per affrontare la navigazione, perché l’unica via possibile era il mare. Era il 1979 quando i miei genitori, i miei sei fratelli ed io abbiamo preso lo stretto necessario e siamo partiti in piena notte. Di nascosto delle autorità portuali abbiamo raggiunto gli altri compagni di viaggio sull’imbarcazione designata e preso il largo. 35 PERSONAGGI Don Quinto con un pulmino è salito fino a Genova per portarci a Castelfidardo, dove tutta la comunità ci attendeva e avevano preparato una casa tutta per noi dove potevamo finalmente ricominciare a vivere. Dove siete sbarcati e quale è stata l’accoglienza? Una volta in mare siamo stati presi di mira dai pirati tailandesi che ci hanno spogliato di tutto quello che avevamo. Ricordo che volevano portarsi via le mie sorelle più piccole. Finalmente dopo tre giorni e tre notti di mare aperto siamo arrivati davanti a un’isola della Malesia. Vedevo molta gente sulla spiaggia che cercava di dirci qualcosa. Quelle persone ci urlavano nella nostra lingua che dovevamo affondare la nostra imbarcazione, solo così potevamo salvarci. Poi ci spiegarono che se fossimo approdati con la nostra imbarcazione in buono stato, le autorità malesi ci avrebbero agganciato a una loro nave per riportarci al largo e abbandonarci in mezzo all’oceano. Non tutti sapevamo nuotare ma abbiamo fatto come ci dicevano, affondato la nave e raggiunto l’isola, per fortuna, tutti sani e salvi. Siamo finiti in un campo profughi gestito dalla Croce Rossa, le condizioni igieniche erano pessime, ci siamo dovuti arrangiare trovando alloggi di fortuna e abbiamo mangiato sempre lo stesso cibo: razione di riso e scatolette che ci venivano consegnate ogni tre giorni. Mi arrangiavo come potevo durante il periodo in cui siamo rimasti sull’isola, l’ottavo dei miei fratelli è nato durante quell’anno e quattro mesi interminabili. Come siete arrivati in Italia? Le persone che scappavano volevano andare tutti negli Stati Uniti, alcuni ci riuscivano e anche in breve tempo se avevano parenti già in America. Noi non avevamo nessuna idea di dove fosse l’Italia, fu grazie ad un seminarista vietnamita che studiava a Roma che scoprimmo questa possibilità. Aveva saputo che a Castelfidardo avevano fatto richiesta per accogliere una famiglia, un prete che si chiamava Don Quinto ed i suoi parrocchiani erano disponibili ad accoglierci tutti e dieci. Non avevamo intenzione di marcire in quel campo profughi della Malesia, così ci imbarcarono su un aereo e siamo arrivati all’aeroporto di Fiumicino nel 1980. E’ stato così che l’Italia entrò nella nostra vita. I tre mesi nel campo profughi di Latina mi hanno lasciato tanti brutti ricordi, abbiamo dovuto patire molti soprusi dagli altri stranieri, alla fila della mensa mi rimandavano sempre in fondo e non arrivava mai il mio turno. Finalmente ci portarono a Genova dove siamo stati accolti in un convento di suore e ci seguirono con grande umanità, ci diedero lezioni di italiano e la situazione rispetto a Latina migliorò notevolmente. Il tre ottobre 1980 36 Come è stata l’integrazione con la comunità di Castelfidardo? Siamo stati accolti molto bene, ci siamo integrati perfettamente nella comunità. Nella mia famiglia tre ci siamo convertiti al cattolicesimo e gli altri sono rimasti buddisti senza nessun problema. Io ed Enrico ci siamo conosciuti alle scuole medie, ho sempre potuto contare in un clima di solidarietà e di accoglienza, certamente è diverso per i migranti che arrivano oggi. Ho avuto molti aiuti, tante persone si sono rese disponibili per darmi una mano con lo studio dopo la scuola e ho sempre avuto un buon rendimento scolastico. Ho frequentato l’Istituto Tecnico Industriale di Castelfidardo e poi ho sempre lavorato. Dapprima nell’elettronica, ma era un lavoro troppo sedentario per i miei gusti e non ci ero portato. Così ho cambiato e da alcuni anni lavoro come impiantista. Sono felicemente sposato da 10 anni con una ragazza di Loreto e abbiamo due figli: Marco e Giulio. Hai mai avuto nostalgia del paese in cui sei nato? Nel 1993 era come se non mi sentissi realizzato così, insieme ad una compagno di classe delle superiori che abitava a Filottrano, il 27 luglio sono partito per il Vietnam. Abbiamo visitato i posti in cui ero nato e siamo andati anche nel Nord. Ma ho capito che l’idea che mi ero fatto del paese delle mie origini non corrispondeva alla realtà e ciò che ero diventato c’aveva poco a che fare. Dopo ci sono ritornato nel 2002 con mia moglie in viaggio di nozze. Che cosa pensi delle migrazioni di oggi? Come ho già detto, chi abbandona la propria terra lo fa perché è costretto. Oggi le cose sono cambiate rispetto ai tempi in cui siamo arrivati noi, quando il nostro arrivo è stato programmato e organizzato dalla comunità che ci ha accolto. L’immigrazione è sempre più massiccia e la crisi economica non aiuta, abbiamo paura che chi arriva può portarci via il posto di lavoro. Si è fatto tardi e la neve cade sempre più fitta. Usciamo dal locale e mentre ci salutiamo in mezzo ai fiocchi di neve ci raccomandiamo con Duc di fare attenzione per strada. Lui si fa una bella risata e ci dice: “Guardate quanto è bella la neve! E pensare che la prima volta che l’ho vista mi sono chiuso in casa per lo spavento.” Nella foto in alto, Duc è accanto al papà, secondo da destra. La bimba in braccio alla madre è oggi insegnante a Roma. INCHIESTE Il nuovo giornalismo dei cittadini di Emilio Pierini IL FUTURO DELL’INFORMAZIONE È NEL WEB? ALCUNI DICONO CHE QUESTO FUTURO È GIÀ QUI E CHE POSSIAMO COMINCIARE A DIRE ADDIO ALLA CARTA STAMPATA. A ll’inizio c’era solo la carta stampata. Ed il giornale classico, cartaceo, reperibile in edicola. Lo strumento non è certo andato in pensione. Ha tuttora un suo appeal ed un discreto numero di acquirenti. Se analizziamo infatti l’informazione locale ad esempio, scopriamo che il Corriere Adriatico, anche ai giorni d’oggi, può vantare circa 17 mila copie vendute, che per una realtà regionale non sono poche. Ma i dati sono incontrovertibili: tutta la carta stampata, nazionale e locale, negli ultimi tempi, è stata interessata da un calo generalizzato di vendite. Il motivo appare evidente: il tradizionale giornale cartaceo, da dieci anni a questa parte, ha avuto nella rete e nell’informazione reperibile nel web a tutti i livelli, un competitor agguerritissimo. Che non ha ovviamente fatto sconti a nessuno. La rete infatti, ha avuto il merito non solo di generare informazione, ma anche di fruirla, determinando, nel contempo, una profon- da trasformazione della professione del giornalista. La partecipazione diretta del fruitore e destinatario della notizia all’arricchimento della stessa informazione ha determinato un modo diverso di porre le notizie che vengono estese grazie all’intervento interattivo dello stesso lettore. L’informazione ne è uscita stravolta: le persone non hanno più il bisogno di mediatori. Il cosiddetto “popolo della rete” ha imparato a comunicare, ad informarsi, condividendo cultura e nozioni. Spesso divertendosi e prospettando una maniera totalmente differente di intendere il concetto di informazione. Il mass media classico, la Tv ed il giornale cartaceo, sono pertanto solo parzialmente riusciti a tenere il passo di uno strumento così potente pure nel proporre notizie e dibatterle in tempo reale. Anche a livello locale sono nati i primi siti Internet di informazione. Che hanno conquistato un’utenza diversa, forse più giovane, ma comunque desiderosa di una informazione più frizzante, meno ingessata, più fruibile. Il giornale di carta deve attendere la mattina successiva per arrivare in edicola. Internet non ha limiti di questo tipo: la notizia viene data appena è disponibile, in un flusso continuo ed inarrestabile che dura 24 ore su 24. Il tempo nel web, si scioglie, fino a dilatarsi. Chi è on line non ha orari, non ha scadenze, non si pone pertanto limiti. E spesso interagisce con lo strumento informativo senza il vincolo di censure preventive o limitazioni di alcun tipo. Wikipedia, You Tube, ed i Social Network come Facebook e Twitter sono diventati strumenti importanti nella nostra vita quotidiana. E sono puro combustibile del propagarsi dell’informazione perché generano il classico effetto a catena di infinita diffusione della notizia o della nozione. Nella nostra zona ci sono realtà di giornalismo on line che sono molto seguite. Siti che si occupano di informazione locale tramite portali dedicati, come Il Cittadino di Recanati (www.ilcittadinodirecanati.it), Cronache Maceratesi (www.cronachemaceratesi.it) o Vivere Civitanova (www.viverecivitanova.it). Le redazioni di questi siti giornalistici sono composte da personale molto giovane con una straordinaria capacità di reperire informazioni sul territorio e di diramarle in tempo reale con un buon successo di seguito. A differenza del giornale classico infatti, il portale di informazione sul web è spesso alimentato da quel fenomeno che viene definito con l’appellativo di “Citizen Journalism” (letteralmente, il “giornalismo dei cittadini”). Ovvero quel37 INCHIESTE la forma di giornalismo in cui è lo stesso cittadino a giocare un ruolo fondamentale nel processo di raccolta, analisi e diffusione di notizie ed informazioni. L’intreccio delle notizie arriva dalla gente comune. La forza di questo giornalismo è alimentata dalla rapidità e dalla facilità con cui la stessa utenza del sito può raccontare o filmare o fotografare un evento o una particolare situazione. Inviandola successivamente tramite posta elettronica al portale che provvede dunque a pubblicarla rendendola fruibile e godibile ai propri lettori in tempo reale. L’evento meteorologico straordinario che provoca conseguenze negative ad esempio, ed i paesaggi drammaticamente affascinanti che ne derivano (pensiamo alle recenti nevicate) viene catturato dal cittadino comune e reso pubblico, grazie anche alla notevole potenza di mezzi moderni quali cellulari o smartphone. E nel breve volgere di qualche minuto rimbalza tramite link ai predetti siti internet sui social network in una sorta di interconnessione dalla evidente efficacia. Un’altra funzione molto importante nel mondo dell’informazione, viene svolta dai blog. I blog vengono un po’ considerati come i mezzi di informazione del futuro. E per la loro complementarietà con i media tradizionali sono entrati in una nuova era sociale e massmediatica. I media tradizionali rimangono certo importanti, ma i blog possono esercitare addirittura il ruolo di osservatori critici degli stessi giornali cartacei. Succede sempre più spesso, infatti, che le denunce proposte dai blog vengono riprese dai giornali. Il tono informale, personalizzato, amichevole e penetrante dei blog facilita il tutto favorendo un approccio più fidelizzato e confidenziale tra lettore/fruitore e blogger/giornalista. Dietro il blog si scorge in maniera chiara la persona e la fiducia del lettore ne viene attratta. Gli articoli dei blog (post) sono proposti sotto forma di work in progress e sollecitano pertanto in maniera diretta ed efficace il contributo del lettore che è tacitamente invitato e tentato nel lasciare un proprio commento che arricchisce lo stesso post e genera ulteriore discussione. I blogger, inoltre, comunicano sotto forma di conversazioni schiette, scevre da condizionamenti e senza il timore di esprimere opinioni forti. La forza dello strumento è costituita 38 pertanto da questa efficacia e dal rapporto leale ed aperto tra blogger e lettore. Se il dialogo tra il giornalista della carta stampata ed il suo lettore infatti è quasi sempre di natura privata (sotto forma di rapporto epistolare riservato) il rapporto tra blogger/giornalista e fruitore/lettore è costantemente aperto e fruibile dalla comunità del web. Ed ha la peculiare caratteristica di essere immediato: dalle reazioni (commenti) che seguono alla pubblicazione di un articolo (post) in un blog, si capisce istantaneamente se il tema trattato è interessante o se la narrazione di un determinato argomento è stata particolarmente apprezzata dai lettori. Si crea dunque, conseguentemente, una fidelizzazione spontanea tra lettore e blogger. Il lettore ha la possibilità di seguire il suo blog preferito quotidianamente, può valutare i contenuti pubblicati quando vuole, interagendo in tempo reale con la disinvoltura di questo mezzo. A Porto Recanati ha avuto un buon successo un blog di informazione di carattere politico, L’Argano (www.arganoportorecanati. blogspot.com), nato poco più di un anno fa. In un contesto di informazione locale piuttosto stantia, L’Argano ha saputo differenziarsi per le tematiche proposte, spesso non trattate dalla stampa locale e per alcuni scoop realizzati, conquistandosi un discreto seguito. Dando voce ad una comunità del web che sentiva fortemente il bisogno di esprimere la propria opinione sulle numerose problematiche che carat- terizzano la vita politica e sociale locale. E grazie all’efficacia dello strumento si è aperta una via preferenziale di dialogo mediatico tra cittadino ed istituzioni che ha fisiologicamente dato vita ad un fenomeno che potremo definire come democrazia partecipativa del web. I lettori, infatti, attraverso i commenti manifestano la loro opinione, propongono iniziative, avanzano critiche molto spesso costruttive. E gli amministratori locali o chiunque si occupi di politica a Porto Recanati, tramite il blog, hanno a disposizione un mezzo dove quotidianamente le varie problematiche inerenti i vari aspetti della vita di un paese vengono analizzate e discusse. Uno strumento, insomma, dove il lavoro della giunta ma anche l’efficacia dell’azione politica dell’opposizione vengono costantemente posti sotto una sorta di giudizio da parte dei cittadini elettori. Edizioni di giornali on line e blog, hanno notevolmente cambiato il mondo dell’informazione. Rendendolo più aperto e soprattutto fruibile a tutti i livelli ed in ogni luogo. Lo sviluppo della tecnologia, in futuro, non potrà che accentuare questo fenomeno. Migliorando, in molti aspetti, il prodotto finale. Sempre più a disposizione di tutti e sempre più pratico e semplice da raggiungere. Non sappiamo quale sarà il futuro della carta stampata. Ma temiamo che, in questo contesto, l’informazione on line non potrà far altro che continuare ad eroderne consensi e lettori. ARTE La rotta della bellezza di Mauro Mazziero IL PERCORSO ARTISTICO E UMANO DI NANDO CAROTTI, MAESTRO, INNOVATORE E CAPITANO CORAGGIOSO. D al nostro primo incontro ebbi la sensazione che nel suo aspetto vi fosse un carattere che sfuggiva alla mia esperienza di ragazzo di campagna. Ne ebbi la conferma quando conobbi i suoi trascorsi nella Marina Militare. Il passo del marinaio è diverso da quello dell’uomo di terra, è naturalmente più sicuro, l’incedere è più solenne come per una necessaria conquista di stabilità. Nando Carotti ha acquisito molto presto l’istinto del navigatore e non ha mai lasciato il comando della sua nave. Una naturale riservatezza ed esi- genza di autonomia lo hanno portato a costruire, anno dopo anno, un suo stile personale che, nell’insegnamento, negli scritti e nella pittura, si caratterizza per forza e chiarezza. L’amore per le “Belle Arti” lo ha guidato, fin da giovane, verso una continua ricerca di bellezza e di senso. Oltre agli studi accademici frequenta lo studio di suo zio Virgilio Carotti, un raffinato artista di scuola ottocentesca, da cui apprende la tecnica del disegno accademico. Al segno netto della matita preferisce la morbidezza del carboncino e della sanguigna, da cui nascono i primi studi di figure e le Maternità, suo tema ricorrente. L’elezione, per meriti artistici, nel Senato Accademico dell’A.I.A.M. (Accademia Internazionale d’Arte Moderna di Roma) gli offre l’opportunità di conoscere i principali artisti presenti sul territorio nazionale e di promuoverne altri. Guido Reale e Mario Catte Ravot, per affinità artistiche ed umane, diverranno suoi amici. La sua pittura, lasciate le prime esperienze figurative, si nutre delle suggestioni che gli vengono dalle lunghe chiacchierate nelle “serate romane” in cui, con i suoi colleghi dell’Accademia, si lascia piacevolmente trasportare da sogni e progetti. Determinante sarà l’incontro con il pittore Lamberto Ciavatta di cui si considerò sempre amico e allievo. Da queste nuove esperienze nasce una superficie pittorica più sofferta che da corpo alle raffigurazioni di grotte e rocce al limite dell’astrazione. L’uso personale della spatola diventa la sua firma. Tornerà più avanti, negli anni novanta, all’uso del pennello con nuovi soggetti legati alla storia e alla mitologia. La figurazione, nel suo emerge39 ARTE re dalla materia viva e informe creata ancora con la spatola, mantiene una fluidità che nei corpi, ma anche nei paesaggi, fa pensare alla sostanza dei sogni, al lento affiorare di un particolare dalla memoria. Carotti dialoga, richiama, evoca dal suo immaginario più profondo dettagli cristallini, nuclei brillanti che attirano a sé il colore per vestirsi di abiti provvisori, mutanti, necessari ad una fugace apparizione. Il segreto di questi personaggi, che affiorano dal suo interiore, emerge nelle sue Memorie quando dialoga con la Madonna degli abissi e “lei” risponde da dietro la tela ancora bianca. Non è stato facile seguire questo percorso ma, infine, credo di aver trovato qualche appiglio nel ricordo della sue lezioni in Vico Balilla nº 1, a Potenza Picena, prima sede storica della sua Scuola di Arti Figurative. Da dove venivano quelle figure che sembravano sfuggire nel bianco della carta? Un pomeriggio d’autunno si soffermò a lungo a descrivere il particolare colore che entrava dai vetri della finestra al tramonto. Una luce, disse, che era difficile da riprodurre e lo riportava ad un’esperienza vissuta durante un suo viaggio. Si trattava di un sogno: nel dormiveglia un personaggio dall’aspetto canuto lo invitava a seguirlo su una strada bianca e luminosa dove si inoltrarono chiacchierando piacevolmente; nelle ore successive, sbarcato dalla nave e avviatosi al suo 40 lavoro fu accolto, nella città di destinazione, da un uomo identico a quello sognato e anche il luogo dell’incontro gli sembrò stranamente familiare. Ci confidò, quindi, del suo “dialogo” con alcuni dei personaggi dei suoi dipinti che sovente lo “chiamavano” o lui stesso andava a cercare nel suo inconscio, una zona misteriosa dove solo chi sa navigare può inoltrarsi. Quella sera Nando Carotti mi ha insegnato, e lo ha fatto con tutti coloro che lo hanno seguito, ad ascoltare e a dare corpo al sentire. Tutta la preparazione teorica e pratica che ci aveva dato era stata la necessaria struttura, la nostra personale imbarcazione con la quale, ora, dovevamo salpare. Nei suoi ultimi dipinti, realizzati prima che la malattia gli negasse l’uso della spatola, egli descrive la luce come elemento vitale della materia e che da essa emerge per mostrarne la sua natura profonda. Da laico esprime il suo senso del sacro che non trascende il mondo ma che è presente in esso, l’assoluto che si manifesta attraverso forme finite o improvvise folgorazioni che si spandono come fuochi. La pittura, come una pelle necessaria, ricopre ogni trama della tela con uno strato finissimo e senza ripensamenti, quella terra colorata mescolata all’olio di lino che, lungamente lavorata ed amata dalle mani di Nando Carotti, mostra infine la sua faccia d’eternità 1. Nando Carotti (Osimo 1922-Recanati 2005) ha servito la Patria in divisa congedandosi col grado di Capitano di fregata per dedicarsi all’arte. Pittore e saggista, è stato delegato dell’Accademia Italiana di Arte Moderna per le Marche e l’Umbria per la quale ha aperto una scuola di arti figurative a Potenza Picena e Porto Recanati. Sue opere sono in molte pinacoteche marchigiane, nella Basilica di Loreto e a Roma. Un suo profilo più completo è in “Portorecanatesi del XIX e XX secolo” di Lino Palanca. 1 Nella foto: Carotti, il Card. Comastri e Lino Palanca a Palazzo Lucangeli per la presentazione del volume “Biagio Biagetti nella sua terra”, dello stesso Carotti (foto dal volume “Memorie di un Maestro”) ARTE L’ombra di CARAVAGGIO a cura di Sergio Beccacece - foto fornita dall’autore C’È UN MISTERO NELLA CHIESA DEI CAPPUCCINI DI RECANATI. E RIGUARDA CARAVAGGIO. FORSE È IL TENEBROSO MAESTRO L’AUTORE DEL QUADRO COSÌ DETTO DELLA “MADONNA DELL’INSALATA”, MA CHE RAFFIGURA UN MOMENTO DELLA FUGA IN EGITTO DELLA SACRA FAMIGLIA. LA VICENDA VIENE DA TEMPO SEGUITA DA SERGIO BECCACECE, MEDICO RECANATESE, APPASSIONATO DELLE “COSE” DI CASA SUA E IN POSSESSO DI MATERIALE INTERESSANTE SULL’ARGOMENTO, CHE CI PROPONIAMO DI PUBBLICARE NEL PROSSIMO NUMERO DE “LO SPECCHIO MAGAZINE”. INTANTO, PER STUZZICARE L’ATTENZIONE DEI LETTORI, PROPONIAMO DUE INTERVENTI STIMOLANTI, PRODOTTI IN UN CONVEGNO SUL DIPINTO ORGANIZZATO DAL COMUNE DI RECANATI NEL DICEMBRE 2008. NE SONO STATI AUTORI PADRE GIUSEPPE BARTOLOZZI E IL PROF. CLAUDIO STRINATI. IL PRIMO È UN CAPPUCCINO, STUDIOSO D’ARTE; IL SECONDO È UN FAMOSO CRITICO D’ARTE, CHE HA RICOPERTO INCARICHI DI RILIEVO E PRESTIGIO NEL MINISTERO DEI BENI CULTURALI ED È STATO SOPRINTENDENTE DEL POLO MUSEALE ROMANO. 41 ARTE N ella chiesa del convento dei Cappuccini si conserva la bella pala d’altare maggiore del sec. XVII raffigurante la Traslazione della S. Casa di Loreto, e soprattutto la pala del secondo altare di destra, capolavoro attribuibile al Caravaggio rappresentante il “Ritorno dall’Egitto” della sacra Famiglia. “Dalla documentazione in nostro possesso quest’opera, che per primo nel 1912 lo studioso recanatese M. Patrizi attribuì al Caravaggio, è presente presso la chiesa dei Cappuccini di Recanati a partire dalla fine del sec. XIX. Nel presente dipinto la sacra Famiglia è colta nel momento di consumare una cena frugale e l’episodio evangelico è descritto in maniera realistica. Uno dei due angeli che scendono abbracciati dal cielo porta sulla mano una palma; poiché nella tradizione iconografica questa è generalmente collegata al martirio come principio della nuova vita, nel presente dipinto il tema della passione è posto in relazione con le erbe che dal grembo della Vergine passano nel piatto tenuto da Gesù e che simboleggiano, con ogni probabilità, le erbe amare con cui gli ebrei celebravano la Pasqua. Sul piano iconologico, dunque, si può pensare che l’artista abbia voluto proporre, a partire dall’episodio del ritorno della sacra Famiglia dall’Egitto, che Gesù è la nuova Pasqua, infatti non è la Vergine che tiene il piatto con le erbe da preparare per la cena ma è Gesù, poiché è lui che deve consumare le erbe amare, cioè bere il calice della passione redentrice. Se il tema del ritorno dall’Egitto aveva qualche raro precedente nella storia dell’arte, l’inserimento del tema della passione in questo soggetto sembra assolutamente originale e forse è da collegare alla committenza: i Cappuccini infatti, fin dai primordi della riforma, manifestarono particolare devozione verso questo tema. Come nella 42 Madonna dei Palafrenieri (Galleria Borghese), la Vergine è particolarmente inserita nel mistero della Redenzione poiché il tema delle erbe (passione) congiunge intimamente la Madre col Figlio. Se l’opera è effettivamente del Caravaggio, l’ipotesi più probabile è che provenga dal convento di Tolentino. Secondo la lettera di Lancillotto Maurutio del gennaio del 1604, il “pittore eccellentissimo et di molto valore” Caravaggio si troverebbe a Tolentino per eseguire la pala dell’altar maggiore della chiesa dei Cappuccini. Dal soppresso convento di Tolentino (1866) sarebbe passata a quello di Recanati fra il 1886 e il 1898, anno in cui è segnalata per la prima volta dallo Spezioli nella sua Guida storica di Rececanti (P. Giuseppe Bartolozzi). “La grande pala d’ altare, la cui qualità e potenza espressiva è indiscutibile, è del Caravaggio? Che il quadro sia “caravaggesco” e che sia di altissima qualità non vi sono dubbi. Stiamo discutendo, in ogni caso, di un capolavoro memorabile. L’ impostazione della pala di Recanati è densa e complessa sotto il profilo iconologico ma piuttosto classica sotto il profilo iconografico. Il gruppo della Madonna, il Bambino e s. Giuseppe è ben collegato. La figura della Vergine giganteggia sotto il duplice profilo disegnativo e cromatico, il s. Giuseppe appare meno approfondito ma è icastico e essenziale; i rari brani di Natura Morta sono bellissimi e l’ insieme dell’ opera colpisce per la sua bellezza. Anche la zona in alto è molto evidente e densa di contrasti luce e ombra. L’ aspetto narrativo è sviluppato come meglio non si potrebbe. I colori sono proprio quelli caravaggeschi con una punta, mi verrebbe da dire, di classicismo quasi carraccesco per l’ evidenza nobilissima delle forme e l’ attenzione scrupolosa alla descrizione dell’ambiente. Anche questo elemento non disdice al Caravaggio che fu apprezzato da Annibale Carracci e a sua volta guardò con attenzione ai primi esiti del classicismo carraccesco a Roma. Il quadro di Recanati potrebbe essere collegato con la committenza di Mons. Pandolfo Pucci che ospitò il giovane Caravaggio all’esordio della sua attività a Roma e per il quale l’artista fece, come afferma il Mancini, “copie di devotione che sono in Recanati”? Tale tesi risulta difficile da sostenere: il quadro non è una “copia di devozione” ma è opera originalissima e personalissima, chiunque ne sia l’ autore. Ha una freschezza di stesura e una efficacia espressiva che mai potrebbe far pensare a una copia. Inoltre è grande mentre le copie di devozione è lecito pensare che fossero dei quadretti, ripresi da qualche celebre prototipo che però non conosciamo, appunto di devozione e quindi riservati allo spazio della casa o, al più, della sacrestia, ma senza la pretesa di avere una grande e potente presenza nello spazio. La pala di Recanati, invece, questa potenza ce l’ ha. Inoltre l’ impostazione stilistica complessiva della pala di Recanati fa pensare a un’ opera matura di un maestro maturo. Intanto c’è la grande sapienza teologico e iconologica che vi è sottesa, così ben dimostrata dall’ esegesi del p. Giuseppe Bartolozzi; poi c’è una maturità del segno e del colore che fanno pensare a un maestro sperimentato. Dunque, Caravaggio dipinse questo quadro durante il breve periodo marchigiano che cade ormai nella sua maturità? E’ impossibile dirlo in mancanza di documenti più decisivi. Ne concludo che gli elementi per avvicinare questa somma opera all’ arte del Caravaggio ci sono ma l’ attribuzione non può essere proposta con certezza assoluta; importante è avere reinserito nel circuito degli alti studi questo autentico capolavoro” (Prof. Claudio Strinati) LETTERATURA TRANSTRÖMER poeta del silenzio di Luciana Interlenghi IL PREMIO NOBEL DEVE LA SUA FAMA IN ITALIA AL CENTRO MONDIALE DELLA POESIA DI RECANATI, UN’INVENZIONE DI FRANCO FOSCHI DEL QUALE SCOPRIAMO, SEMPRE DI PIÙ, LA SINGOLARE PREVEGGENZA. N on di rado mi coglie il desiderio di riascoltare qualche vecchio disco in vinile con un impianto hi-fi degli anni ’70 perfettamente funzionante e che, per questo motivo e non solo, non ho mai riposto in soffitta. “La voce del silenzio” di Mogol e Limiti giunge gracchiando con le note infinite di Mina. “… ci sono cose nel silenzio che non m’aspettavo mai…”. Proprio vero! Nel silenzio tutti i suoni, le vibrazioni, i segnali, così come nel bianco sono racchiusi tutti i colori dello spettro. Il silenzio restituisce ciò che contiene. Tomas Tranströmer, - si legge nel quotidiano La Voce - Nobel per la letteratura è un poeta che al silenzio si unisce in una simbiosi sottile, consegnando al lettore parole scritte di grande intensità. Nato il 15 aprile 1931 a Stoccolma è considerato il maggior poeta svedese vivente. La sua opera si colloca tra modernismo, espressionismo e surrealismo. L’Accademia gli ha assegnato il premio perché “attraverso le sue immagini dense, limpide, offre un nuovo accesso alla realtà”. Il riconoscimento arriva dopo una carriera più che trentennale, anche grazie alla presenza nell’Accademia di Svezia di Kjell Espmark, critico e poeta a sua volta, grande ammiratore delle opere di Tranströmer da lui definito in numerosi saggi come lo scrittore svedese cha ha saputo maggiormente influenzare la letteratura internazionale. Il premio Nobel raramente va a un poeta. Tra gli ultimi c’erano stati nel 1987 e nel 1996 Josip Brodskij e Wislawa Szymborska. “Il poeta, colpito da ictus nel 1990 - scrive la Dottoressa Donatella Donati - è tuttavia poco noto in Italia. Le sue opere arrivano per la prima volta nel nostro paese solo nel 1999 grazie all’opera di diffusione del Centro mondiale per la poesia Giacomo Leopardi. Tradotto in più di quaranta lingue, studiato nelle università di mezzo mondo e caro soprattutto ai poeti più giovani, è quasi un mistero per molti italiani. Nella collana del Centro mondiale della Poesia di Recanati, diretta da Mario Luzi durante la presidenza di Franco Foschi, è uscito nel 1999 un’elegante antologia delle sue poesie, tradotte da Giacomo Oreglia e presentate da Stanislao Nievo. Ricordo l’entusiasmo di Oreglia, editore e cultore delle opere di Tranströmer in Svezia e suo amico personale, per questo “poeta del silenzio”, così definito per la malattia che gli impediva di parlare, già allora proposto per il Nobel. Lo riceve ora a 80 anni, sempre in ritardo, come spesso capita ai grandi. Oreglia aveva 43 LETTERATURA fatto una lunga battaglia anche per il premio a Mario Luzi, al quale, in dirittura d’arrivo, fu preferito Dario Fo di cui qualcuno aspetta ancora il capolavoro. In sintesi mediatica, alcune caratteristiche della poesia di Tranströmer, psicologo, psicoterapeuta e pianista: essenzialità semantica; una chiocciola labirintica di pensieri, continui traslati, uso di forme e tecniche della musica; poesia che suona da “contro immagine” e replica della realtà; valore del silenzio, riassunto nell’immagine del violino chiuso nella custodia.” Stefano Salis ne Il Sole 24 ORE afferma “ … c’è un’altra cosa che merita di essere segnalata di questo Nobel. La giuria svedese ha un compito difficile, forse impossibile e sicuramente sovraesposto da un punto di vista mediatico. Dare un premio, per carità prestigioso e importante come il Nobel, è anche, però, fare una classifica degli scrittori (almeno così spesso viene percepita la faccenda dal pubblico), cosa palesemente insensata. Però, stavolta, se non altro, la giuria ha premiato con cognizione di causa. La letteratura (fino a quando non vincerà Bob Dylan e a quel punto sarà un’altra cosa) è un’attività che ha a che fare con la lingua. Se la letteratura arriva in Svezia in traduzione, e dunque si premiano autori in traduzione, stavolta viene premiato un autore “in originale” e chi meglio dei letterati svedesi può giudicare un letterato svedese? Non a caso, infatti, Tranströmer è un poeta. Uno, cioè, che nella lingua, nella parola trova la sua piena realizzazione. Infine, il motivo ancora più qualificante di questa scelta. Questo vincitore non è un poeta politico. Non è esiliato, non contesta nessun regime, non denuncia un bel niente, non affronta l’attualità. Questo vincitore, insomma, è un poeta-poeta. Che fa dell’equilibrismo linguistico (così ci dicono i suoi I ricordi mi vedono Una mattina di giugno quando è troppo presto per svegliarsi ma troppo tardi per riaddormentarsi. Devo uscire nella veranda che è satura di ricordi, ed essi mi seguono con lo sguardo. Non si vedono, sono fusi totalmente con lo sfondo, perfetti camaleonti. Sono così vicini che li sento respirare benché il canto degli uccelli sia assordante. 44 esegeti) la sua cifra, che svela l’umano e il misterioso grazie alla potenza della parola, che scruta l’umano e l’eterno con l’occhio inamovibile del pensiero poetico.” Robert Bly, uno dei suoi traduttori in inglese, ha scritto che le sue poesie “sono una specie di stazione ferroviaria dove treni che arrivano da enormi distanze restano per un istante nello stesso spazio”. Quel che scrive, come è la grande poesia, è anche musica. In un periodo in cui tutto è strillato e comunicato con prepotenza, il silenzio è cosa preziosa, da conservare e trasmettere a coloro i quali si muovono tra confusione e fragore che si fanno potere vivificante per personalità labili. Educare al silenzio, alla meditazione, al far “deserto” dentro di sé. Tranströmer ci trasmette tutto questo nei suoi versi liberi, ispirati a viaggi in giro per il mondo e ad esperienze intime con il suo personale tacere che gli ha permesso di “ascoltare” altro. “Da quando non sono più in grado di parlare scrive Tranströmer - ho scoperto nuovi aspetti della scrittura. E ora non posso più nascondermi dietro le chiacchiere …”. Per entrare nella poetica di Tranströmer è necessario uscire dai rumori delle grandi città, allontanarsi dai grandi agglomerati, là, dove i più “tacciono d’accordo tra loro”. Tranströmer è stato pubblicato dall’editore Crocetti nel 1996 nell’Antologia della poesia svedese contemporanea. Con lo stesso editore è uscito nel 2008 il volume Poesia dal silenzio e tra pochi giorni arriverà in libreria una nuova raccolta Il grande mistero di Haiku svedesi. “Non pensavo di poter più sentire questa gioia”, ha raccontato alla notizia dell’ assegnazione del Nobel Monica Bladh, sua moglie. LETTERATURA MONALDO “VILE”? MA VA LA’! di Carlo Trevisani A VOLTE ANCHE I CRITICI PIÙ RAFFINATI SI LASCIANO PRENDERE LA MANO DA SE STESSI. E FINISCONO PER RIPRODURRE QUALCHE LUOGO COMUNE. E QUALCHE INESATTEZZA. È SUCCESSO PURE A PIETRO CITATI CON IL BUON MONALDO? Monaldo Leopardi e sua moglie Adelaide Antici T orniamo ad occuparci del “Leopardi” di Pietro Citati, per confermare il giudizio di ottimo libro, viziato qua e là da talune incongruenze, che ne oscurano, almeno in parte, la complessiva innegabile validità. Dopo la censura dell’infelice definizione di “banale”, infondatamente attribuita al brano de “La ginestra” che evoca il principio di umana solidarietà, di cui si è detto nel numero 3 de “Lo specchio”, ci occupiamo qui di taluni non meno azzardati giudizi, contenuti nelle primissime pagine del libro, che riguardano la famiglia Leopardi, ed in particolare la figura del padre del poeta, Monaldo. Scrive Citati a pag. 3 di “..suo padre Monaldo, nato a Recanati nel 1766 da un’antica famiglia che risaliva, o diceva di risalire, al tredicesimo secolo”: la gratuita malignità implicita nella frase è di tutta evidenza, quasi che la famiglia Leopardi avesse millantato ascendenze tanto lontane, quanto non verificabili; in realtà la famiglia Leopardi non aveva nessun bisogno di millantare alcunché, se è vero, come è storicamente documentato, che annovera tra i propri antenati un Vanni, letterato e guerriero (secolo XIV°), un Pier Leopardo, reputato coltissimo (secolo XV°), un Pier Tommaso, famoso per cultura e virtù militari (secolo XV°), un Giacomo di Vito, accademico (secolo XVII°), e un Pier Nicolò, vescovo e poeta (secolo XVIII°). L’infelice battuta lascia trapelare una sorta di avversione ideologica per l’ascendenza storico - nobiliare di Monaldo e di Giacomo, trascurando di considerare che padre e figlio non solo non avevano ripudiato una siffatta ascendenza, ma anzi la rivendicavano orgogliosamente, tanto più che si trattava di nobiltà fondata sull’eccellenza nelle lettere e nelle armi, come tale ben più meritevole di quella fondata sul solo censo, o sulla mera benevolenza dei regnanti. Non meno ingiusti sono i giudizi, ben più pesanti, che Citati riserva alla 45 LETTERATURA figura di Monaldo Leopardi, di volta in volta definito come “protagonista di opera buffa”, “meschino e donchisciottesco”, “un Arlecchino, un Figaro o un Leporello, travestito da nobile: un servo furbo, vile e scurrile, che ha abbandonato di nascosto la sua livrea, indossando il vestito nero e lo spadino del conte Leopardi” (Pagg. 3 e 4). Un’acrimonia tanto gratuita, quanto infondata, si spiega soltanto se riportata a un pregiudizio culturale e classista: dal primo punto di vista Monaldo è etichettato da Citati con epiteti indegni, verosimilmente a motivo del suo essere uomo e autore di non vacillante appartenenza e ispirazione cattolica e conservatrice; sotto il secondo profilo, Citati non perdona a Monaldo di essere un emblematico rappresentante della classe aristocratica, sopravvissuto suo malgrado alla temperie rivoluzionaria, e alla sua propaggine napoleonica. A tutto ciò aggiungasi l’evidente intendimento di Citati di indulgere allo stereotipo che vuole esaltare Giacomo, bistrattando Monaldo: Giacomo sarebbe riuscito a sviluppare le sue potenzialità di incommensurabile genio universale, nonostante l’esempio negativo e la soffocante oppressione esercitati dalla figura paterna. Si tratta, in realtà, di uno stereotipo del tutto ideologico e fasullo, che gli scritti di Franco Foschi hanno demolito dalle fondamenta, tanto che oggi si può heghelianamente affermare, con ogni verosimiglianza, che Giacomo non sarebbe stato il Leopardi immenso che conosciamo e amiamo, se non avesse avuto alle spalle un padre della caratura di Monaldo. Veramente inqualificabile è la definizione di “..servo furbo, vile e scurrile..”, che avrebbe incarnato la realtà umana di Monaldo, sotto le mentite spoglie del Conte Leopardi: si tratta di giudizi inaccettabili, anche perché sostanzialmente falsi e formalmente ingiuriosi, che nessuna verve di presunto critico può incautamente adottare, senza sconfinare nel demanio dell’insolenza gratuita e della denigrazione fine a se stessa. A prescindere dal- 46 la contraddittorietà dei giudizi (un attaccabrighe “donchisciottesco” non può, nel contempo, essere un “vile”), Monaldo Leopardi non fu certamente “vile”, né nell’accezione latina di “spregevole”, e meno che mai nell’accezione corrente di “codardo”: lo stesso libro di Citati offre alcuni spunti atti a smentire una simile calunniosa definizione. Monaldo era profondamente religioso ed osservante, ma non esitava a entrare in contrasto con le gerarchie ecclesiastiche per questioni di principio (pag. 4: il che richiedeva non poco coraggio, stante la penetrante attitudine repressiva della polizia e dei tribunali dello stato pontificio). In punto di morte Monaldo scherzava col sacerdote che doveva somministrargli l’estrema unzione, e chiamò intorno a sé i figli, esortandoli a imparare “come si muore in conversazione (pag.13); un siffatto sereno coraggio nell’affrontare il passo estremo della morte è tutt’altro che usuale, tanto da far pensare al discrimine adottato dall’Alfieri per discernere la grandezza dalla viltà di un uomo: “uom, sei tu grande o vil? Muori, e il saprai”. Monaldo non ha mai millantato un valore militare che non gli apparteneva:“Io non ho mai saputo neppure dove stia di casa il valore, ma anche l’animale più timido, ridotto alla disperazione, trova un poco di ardire”: Il brano, tratto dagli Annali (pag. 374), si riferisce a un episodio del 1799, quando Monaldo, appena ventiduenne, si rifugia con la moglie, il fratello e un domestico, in un casolare fuori città, per sottrarsi alla condanna a morte comminatagli dai francesi, in quanto reo di aver accettato la carica di governatore di Recanati da parte degli insorgenti papalini; in tale circostanza furono nascoste tre sciabole sotto la paglia, da usare contro i francesi nel caso in cui il temuto saccheggio non si fosse limitato alla “roba”, ma avesse coinvolto le “persone”. Monaldo, in definitiva, non era certo un eroe, ma neppure un “vile”, così come non era un “meschino” personaggio da opera buffa, e meno che mai un “servo” travestito da nobile: Monaldo fu, in realtà, un uomo del suo tempo, conservatore illuminato, il cui connotato fondamentale fu quello di una grande onestà intellettuale, supportata da una non comune vena di autoironia, che gli permise di assurgere a una dignitosa notorietà letteraria, che travalicò i confini della Marca. Il sospetto conclusivo è che Citati si sia lasciato prendere la mano dal gusto del bello scrivere, che lo contraddistingue, e che l’uso improprio dell’aggettivo “vile” sia scaturito dal desiderio di creare ad ogni costo l’assonanza con “scurrile”, riferito a talune volgarità contenute nei “Dialoghetti”, con cui Monaldo si è reso in qualche modo precursore di una visione “realista” della scrittura, adeguata a talune sapidità del comune parlare Quanto alla caratura culturale del Monaldo autodidatta, che Citati svilisce a sproposito, basterà ricordare che fu il solo a non abboccare allo scherzo con cui Giacomo, nel 1826, spacciò per traduzione di un codice farfense del trecento un “Martirio dei SS, padri del Monte Sinai”, in realtà scritto dallo stesso Giacomo. Monaldo replica allo scherzo, inviando al figlio copia di uno scritto, da lui confezionato ad arte, circa un’antica leggenda religiosa di San Girio francese, che afferma di aver rinvenuto in biblioteca, e che Giacomo prende inizialmente per autentico, scrivendo al padre che il documento “è curiosissimo, e certamente antichissimo”. Questo gustoso episodio non accredita certo l’immagine del “dotto figlio di più dotto padre”, scritta da Carlo Antici a commento di uno dei primi lavori di Giacomo, ma rende in qualche modo giustizia alla effettiva consistenza del bagaglio culturale di Monaldo, che poteva permettersi il lusso di duellare col figlio, già riconosciuto filologo, nel redigere falsi documenti in linguaggio trecentesco. LETTERATURA UT PICTURA POESIS Novella Torregiani La Chiesa del Preziosissimo Sangue DUE POESIE DI NOVELLA TORREGIANI SUL PORTO E I SIMBOLI DI FORZA E FEDELTÀ DELLA SUA GENTE. IMPREZIOSITE, E NON POCO, DAI DISEGNI DI LUCIANA INTERLENGHI SECONDO CHE RICORDA ORAZIO: COSÌ NELLA PITTURA COME NELLA POESIA. 47 LETTERATURA MARU SEGRÉTU Sai cume ‘na ma’ granna, pîna d’acqua......e despèrdi e radùni... sai maru senza fónnu, chiami e ridi...e despèrdi e radùni.. iu campu solu cun te, ‘óce d’amore...e despèrdi e radùni t’éggu ‘nco’ all’uscùru: sempre r’lusci...e despèrdi e radùni o llùcchi... ànema trista buuuuuuuubanàruuuuu e ròiti e straòji Amicu? Sai nemìcu! Te ‘òju be’ e te òdiu...e despèrdi e radùni... mistèru sai ‘nfenìtu de tesòri ...e despèrdi e radùni segrétu cume ell’ànema d’ogni ômu...e despèrdi e radùni e ròiti e straòj.... La Torre 48 Pescatori Le case TÓRA DEL PORTU Putènte, muta sentinèlla del cèlu, oramài sai ‘na presènza,tu, ‘nt’el sole: senz’arme , sai e tu guàrdi la piazza che giò se spanne ‘èrsu la marìna. Sai tu ‘na mestegànza de sole cu’ la piôa, sai segnu sempre vivu de ‘ita nôa, o cara tóra de ‘stu paèsu mia. LETTERATURA La VOCE che spezza il MURO del SILENZIO di Umberto Vicaretti* Le passe-muraille, di Jean Marais (Paris, Montmartre) UNA POESIA DI RENATO PIGLIACAMPO TRATTA DALLA SUA RACCOLTA “L’ALBERO DI RAMI SENZA VENTO”. PROPONIAMO QUI (È QUANTO LO SPAZIO A DISPOSIZIONE CI CONSENTE) LA PARTE FINALE DEL COMMENTO DI UMBERTO VICARETTI, RAFFINATA E PUNTUALE INTERPRETAZIONE DELL’OPERA DEL POETA “ INFATICABILE E TENACE CERCATORE DI RISPOSTE”. 49 LETTERATURA LA TUA VOCE Sei passata nel respiro del vento volo desolato sul mio mare di te non conoscevo rotte per queste coste antiche sovrane (O Speranza che nel tuo nome invoco d’aver vissuto nei silenzi un amore: una breve stagione un impeto di sensi di parole scritte sulla sabbia) Tutto è andato! Guardo le nuvole sparire oltre il Cònero, simbolo di queste Marche tenaci sofferte di poeti rapiti nei pensieri, sul mare azzurro disteso l’onda rievoca il tuo nome che mai saprò nel tono di voce1 Nella terza fase della silloge, “Memorandum di luoghi e di persone”, Renato Pigliacampo compie il rito del ritorno, un “Nostos” in cui rivivono gli affetti familiari, il canto per una terra amata oltre ogni immaginazione, «Luogo d’infanzia mio proprio -,/ vitale e caro; elevando gli occhi/ il cuore ammaliato di te./ Chi sei?//» (Le Marche al plurale regione/ ch’espande miei proibiti sogni/ (…)// A te mi dono perché tutto è qui;/ fuggiasco mai, restato all’Avemaria» (Con delicatezza messo in eterno sonno). E’ questa la confessione di un amore sconfinato e di un sacro rispetto per il luogo in cui il poeta ha piantato le radici dell’anima, il “Topos” per eccellenza, punto definitivo di approdo, che restituisce la serenità tanto cercata nel suo peregrinare oltre quelle contrade che conservano le memorie più care, i segreti e le epifanie dell’infanzia. Qui il poeta esprime chiara la speranza di ritrovare pace e serenità: «La solitudine mi sarà meno penosa/ dormendo nel solco già dissodato» negli indimenticati anni della fanciullezza insieme alle figure dello zio e del nonno, custode amorevole di quel nipote “imberbe” che con loro santificava il lavoro dei campi. Netta esplode anche la rivendicazione di un’appartenenza e di un possesso di cui altri vorrebbero privarlo, «Già di me hanno sentenziato/ lo sfratto dal borgo selvaggio di mare;/ sulla carta traccio indelebile messaggio/ per i figli e nipoti generazioni future» (ibid.) Il cerchio dunque si chiude, il viaggio volge al termine, ma non si arrende il poeta, che ancora conduce con determinazione la sua lotta in favore dei compagni a lui accomunati da una drammatica condizione esistenziale. Ancora è vivo il martirio per 50 un destino avvero: «E’ stato difficile girovagare/ per la penisola con questo Silenzio./ Implosive grida per l’anima assetata», e ancora senza risposta è la domanda relativa al mistero, al senso dl vivere, al fine dell’umana avventura: «Corpo, siamo passati./ Geo ci assista per l’eternità/ nel groviglio metamorfico venire/ forse ancora in questa contrada?» (Preghiera per Geo). Sembra l’abbandono di ogni illusione, la consapevolezza di una solitudine cosmica che non riceve segnali, che non trovo ascolto non solo presso gli umani, ma neppure preso il Verbum. Nel consuntivo finale prevale un disperato sconforto, l’ironica amarezza per l’oblio incomprensibile, quasi un ostracismo, cui lo condanna la “sua” terra: «Non c’è più nessuno a cercarmi/ … / scordato dalla mia Porto dopo il guaio/ cui per vent’anni ho donato il Canto./ Gente comune, d’idiomatico linguaggio/ ho sollevato all’attenzione d’Italia./ Solo ora piegato a guardare le onde/ scopro che la vita discende al fine» (L’ultimo giro). ancora e sempre il silenzio, dunque, “risponde” al poeta, certifica la fine delle illusioni, marca la distanza siderale tra la realtà e il sogno, cala definitivamente il sipario su ogni spiraglio di speranza e di luce: «L’albero di ami senza vento/ su foglie essiccate nel muto orto/ stasera chiude la storia.» (L’albero di rami senza vento). E’ resa totale? Sembra di sì. ne prendiamo atto, anche se sappiamo che la tenacia di Renato Pigliacampo ha risorse inesauribili. Siamo certi che l’orgoglioso, indomabile, camusiano “Uomo in rivolta” che alberga in lui troverà ancora il coraggio e la forza per tornare (proprio lui che la natura ha beffardamente privato del suono e della musica) a “gridare” la parola, ad indicare la rotta, a trovare, per mezzo di un poièn luminoso, le risposte a lungo cercate e ad esorcizzare il silenzio. Renato Pigliacampo, L’albero di rami senza vento, prima edizione Gianni Luculano Editore, Pavia 2006; seconda edizione per Neftasia Editore, Pavia 2010. * Umberto Vicaretti, è dirigente scolastico a Luco de’ Marsi 1 Il poeta, per la disabilità uditiva, mai riconoscerà la voce dell’amata. Dalla silloge, L’albero di rami senza vento, 2^ edizione Neftasia Editore, Pavia 2010. LAVORO Dal fiume Potenza le verdi colline di Montarice di Mario Mancinelli L’EPOPEA DELLA TREBBIATURA RACCONTATA DA CHI HA VISSUTO IN PRIMA PERSONA IL MIRACOLO PIÙ GRANDE ILLUMINATO DAL SOLE: QUELLO DEL PANE. Un quadro di Elio Camilletti - contadino sul biroccio T rascorsi i mesi freddi, finalmente arrivava marzo, e con lui la primavera, quando, ricolma la terra di fiori, le colline sembrano riprendere vita dopo il lungo sonno invernale e la sera è illuminata dal falò di mille lucciole, che si agitano allegre in aria. E poi, l’estate, il periodo dell’anno che preferisco: il caldo, il canto delle cicale e lo svolazzare degli uccel- li da un albero all’altro, il grano pronto per essere raccolto. Era giunto il tempo della trebbiatura. Il lavoro più importante di tutto l’anno prendeva il via in luglio. I contadini tagliavano le spighe di grano usando una macchina tirata da animali, la falciatrice, la quale operava nel terreno con coltelli a forma di lancia, che si muovevano a mo’ di sega e lasciavano sul terreno le spighe da raccogliere. I contadini, subito dopo, legavano le spighe assieme formando delle fascine che in gergo contadino si chiamano covi, i quali venivano accatastati nell’aia per formare il barcone, che aveva la forma di una casa con tetto spiovente per evitare infiltrazioni d’acqua. Era un periodo di allegria e quando i bambini vedevano la grande macchina rossa trainata da un trattore sbuffante, l’aria si riempiva di 51 LAVORO grida festose di grandi e piccini. La trebbiatrice restava in funzione per più di un mese; infatti, finito di trebbiare il raccolto di un contadino, si iniziava subito quello del vicino e così via, aiutandosi a vicenda. Il lavoro giornaliero della trebbiatura durava in media dalle cinque alle quindici ore ed era molto faticoso. Si collocava la trebbiatrice parallela al barcone e sotto la macchina si scavavano delle buche per le ruote e si posizionavano mattoni o assi di legno per metterla a livello con il terreno. Poi si posizionavano i nastri trasportatori per la paglia e per la pula, cioè la lunga cinghia di trasmissione per trasmettere il moto dal motore del trattore alla puleggia della trebbia. Ultimati i preparativi, il capomacchina ordinava l’accensione dei motori e l’inizio dei lavori lo dava il motorista tramite una sirena dal suono assordante. I contadini sopra il tetto del barcone, cominciavano allora a inforcare i covi per passarli agli operatori, di solito le donne, che li slegavano e li accomodavano nel battitore spiegandoli a ventaglio per un ottimale funzionamento del meccanismo e per evitare inceppamenti. I chicchi venivano così divisi dal resto della spiga e finivano sopra un setaccio che rimuoveva le impurità. Il residuo dell’operazione era asportato tramite un ventilatore che lo convogliava direttamente al nastro della pula. Il grano ripulito dopo il setaccio, giungeva grazie a un nastro trasportatore all’interno dei diversi contenitori cilindrici di metallo che, girando, lasciavano cadere il grano all’interno di una vite senza fine, che sboccava sopra degli altri contenitori per stacciare i chicchi prima di riversarli nel sacco. La macchina, nella parte posteriore aveva due aperture cui si agganciavano i sacchi da riempire. Il motivo era molto semplice: al momento che uno dei due era pieno, si inseriva l’altro nella feritoia libera così da eliminare eventuali tempi morti. Una volta riempito il sacco, due uomini lo portavano fino alla bascula; lo sorreggevano con le mani sull’apertura e con l’ausilio di un bastone alla base. Il peso lordo ammontava a centouno chili e cinquecento grammi, cioè un quintale di peso netto più un chilo di tara ed un abbuono di mezzo chilo poiché durante il periodo di stoccaggio il grano tendeva ad asciugarsi e a perdere peso. Subito dopo la pesa si portavano i sacchi, a spalla, nel magazzino, che a volte era solo la soffitta dell’abitazione; per raggiungerla occorreva salire anche più di venti scalini con cento chili sulle spalle. Di solito il padrone, o una persona di sua fiducia, era presente per controllare il lavoro e portava con sé amici e parenti che assistevano al tutto all’ombra, chiacchierando e banchettando con il cibo preparato dalle mogli dei contadini. Come ho già scritto, il trebbiare era un lavoro duro e faticoso, già a metà 52 della giornata l’aria diventava irrespirabile per l’afa e la fitta polvere creata dagli elevatori che trasportavano paglia e pula, il sudore inzuppava gli indumenti fino a farli incollare alla pelle e per lo sforzo ogni muscolo del corpo sembrava sul punto di sfaldarsi. Per fortuna, a placare la stanchezza e rigenerare il corpo e lo spirito ci pensavano fiaschi di vino e brocche d’acqua e limone. Il pagliaio cresceva attorno ad un palo fino a raggiungere una forma conica. Per crearlo ci voleva esperienza e maestria, infatti la paglia che cadeva dal nastro dell’elevatore, veniva presa con i forconi, adagiata e pressata con i piedi girando sempre in senso orario per dare circolarità alla costruzione che si alzava piano piano. Da terra, una persona lo perfezionava pettinando la paglia con un lungo rastrello. Il motorista azionava di nuovo la sirena. Il lavoro era finito, i tavoli venivano apparecchiati e durante il pasto si servivano i piatti tipici della tradizione; tra i più gettonati i maccheroni al sugo di papera, l’oca arrosto e, come dolce, il ciambellone. Da bere, acqua fresca e moscatello. Una volta ultimato il raccolto di una famiglia, si passava alla successiva aiutandosi reciprocamente. Io abitavo a Montarice, vicino al fiume Potenza e lì partecipavano anche più di quindici famiglie e al lavoro si univano anche gli abitanti delle vicine contrade di Chiarino e di Santa Maria in Potenza, suggellando così un tacito accordo che si rinnovava ogni volta che ritornava il momento di darsi da fare, ma anche per avere l’occasione di passare insieme momenti di allegria e divertimento. E ogni volta il miracolo si ripeteva: c’era pane per tutto l’anno. ATTIVITA’ LO SPECCHIO La ricchezza celata al BABEL HOTEL di Eleonora Tiseni NÉ SOLO UN PROBLEMA NÉ SOLO UNA RISORSA, MA LE DUE COSE INSIEME. CON LA BILANCIA, PERÒ, DA FAR PENDERE SOPRATTUTTO SULLA SECONDA. L a presentazione del libro “Babel Hotel: vite migranti nel condominio più controverso d’Italia”, curato da Ramona Parenzan, è stata l’occasione, lo scorso venerdì 27 gennaio, per guardare con occhi diversi e da prospettive inedite una realtà che rappresenta la più urgente sfida della contemporaneità, non soltanto di Porto Recanati ma della società tutta, sempre più multietnica e complessa. Stiamo parlando della sfida dell’integrazione vera, dell’accoglienza, del concorrere insieme alla crescita e allo sviluppo economico, sociale, e culturale della nostra comunità nazionale. “Seguendo l’interesse per quelle che possono essere le metafore con cui descrivere il presente, noi dell’Associazione Lo Specchio abbiamo creduto che l’Hotel House potesse diventare immagine e spunto per ragionare sui temi della varia umanità”: questo ha affermato il Presidente Semplici nel suo intervento introduttivo. Intervallati dalla lettura dei racconti estratti dal libro, scritti da Ramona Parenzan, Clementina Sandra Ammendola, Rosana Crispim Da Costa e Dusica Sinadinovska, si sono susseguiti autorevoli e preziosi interventi. Ha aperto il Prof. Cristiano Maria Bellei, docente dell’Università Carlo Bo di Urbino, parlando di “narrazioni identitarie tra differenza e indifferenza.” Come ha spiegato Bellei, il titolo era legato alle narrazioni perché Babel Hotel è un libro di racconti - non di teorie sociologiche o antropologiche - che tira fuori la vita che c’è dietro le persone. Le narrazioni sono importanti perché noi siamo il prodotto di narrazioni: quelle che gli altri fanno di noi e quelle che noi facciamo degli altri. Esse sono un punto centrale su cui soffermarsi, soprattutto in periodi di crisi, in cui la paura produce la necessità di trincerarsi, di cercare certezze e punti di riferimento, in cui non si cerca il salto in avanti ma il salto indietro: “non so più chi sono e cerco dietro di me qualche sentiero nel quale io possa ritrovare delle radici.” Secondo Bellei, troppe volte il termine differenza è tacciato di negativismo, quando invece non è una brutta parola, ma dipende da come la si intende e la si interroga. La differenza, infatti, è qualcosa che può nascere unicamente da una misurazione comune, da un’uguaglianza, da una condivisione. Quando guardiamo, misuriamo e interpretiamo qualcuno dandone una definizione - che non ha nulla a che vedere con la verità di quella persona – a nostra volta veniamo misurati e interpretati: è un modo per poter avere un’idea di quello che si ha di fronte. E’ il processo di misurazione ad essere 53 ATTIVITA’ LO SPECCHIO interessante. Perché quando si misura qualcuno e si viene a nostra volta misurati è necessario avere in comune lo stesso metro di misurazione. Cosa succede: ognuno ha la libertà di appartenere a una propria specificità, che può trasformarsi come meglio crede, ma questa specificità è riconosciuta dall’altro – o dagli altri - attraverso un comune metro di misurazione. Se la differenza nasce da un’uguaglianza e per questo ha una valenza positiva, l’indifferenza, al contrario, è un elemento pericoloso. Essa, infatti, nasce dal fatto che non c’è processo comunicativo o di scambio, l’altro è qualcosa di completamente estraneo, una specie di extra terrestre caduto non si sa bene da dove, e con cui non si ha niente a che spartire. E’ assai attuale, inoltre, quello che Bellei ha affermato a proposito della purezza e dell’autenticità dell’identità e della cultura. 54 Entrambi, infatti, sono aspetti in continua evoluzione e trasformazione, che nascono per confronto, per differenziazione, per scontro, che non esistono in natura in maniera fissa, data. Parlare di purezza della cultura o di radici dell’italianità in un Paese come il nostro, attraversato da millenni di migrazioni, è qualcosa di assolutamente ridicolo. Egli, inoltre, ha definito l’Hotel House: “una potente metafora di un Paese che non ha il coraggio del progetto, che ha perso l’idea del futuro, che si è seduto su se stesso e non produce niente che abbia a che fare con quello che verrà domani. Il termine Babele rende bene l’idea. Se noi non riusciamo a governare queste realtà e non riusciamo ad avere una prospettiva, che può anche essere sbagliata ma ci deve essere, la Babele è qualcosa che prima o poi entrerà nelle case di tutti quanti. Le società hanno bisogno di essere governate e han- no bisogno di essere progettate, anche sbagliando, ma ci deve essere il coraggio della progettazione e il coraggio dell’utopia.” Il prof. Alberto Niccoli, Presidente della Banca di Credito Cooperativo di Recanati e Colmurano, nel suo intervento ha spiegato che una realtà apparentemente arida come una banca può offrire opportunità di integrazione agli immigrati e a coloro che li accolgono, attraverso strumenti di microcredito e di micro finanza. E’ fondamentale conoscere quanto e come gli immigrati ci stanno aiutando a risolvere i nostri problemi, e riscoprire cosa possiamo imparare da loro. I dati ISTAT rilevano che gli immigrati costituiscono l’8% della popolazione, ed è figlio di immigrati un bambino su 5 che nasce in Italia. Se non ci fosse la quota elevata di bambini che nascono da coppie immigrate o miste, il tasso di natalità italiano si ridurrebbe drasticamente. Il loro contributo, inoltre, in ambito pensionistico e sanitario, inoltre, è fondamentale. Su 100 imprese costituite nel nostro Paese, un terzo sono create da immigrati. Questo significa che essi sono dotati di una forte spinta imprenditoriale e di una maggiore capacità di creare iniziative economiche rispetto ai giovani italiani. Una percentuale non irrisoria di loro possiede per sfatare un pregiudizio - diplomi elevati dal punto di vista scolastico, e sono motivati dalla volontà di affermarsi in un am- ATTIVITA’ LO SPECCHIO biente spesse volte ostile. Per farlo iniziano attività economiche, cercano nuovi posti di lavoro, introducono innovazione, e una banca può aiutarli a realizzarsi. Gli italiani, dal canto loro, possono trasmettere agli immigrati quella cultura del risparmio e del mettere da parte i soldi - per investirli nell’acquisto di una casa - di cui sono da sempre i maestri. Secondo Niccoli, questo principio deve passare da noi agli immigrati per scoprire insieme le opportunità per costruire un Paese migliore; per realizzare, in una realtà già multiculturale e multietnica, un melting pot sull’esempio degli Stati Uniti, un luogo nel quale le diverse tradizioni possano convivere. Il contributo del Prof. Gialluigi Mondaini, docente presso il Dipartimento di Architettura della facoltà di ingegneria dell’Università politecnica delle Marche, ha permesso ai presenti di viaggiare nei cambiamenti avvenuti nel modo di concepire, vivere e organizzare le città, a loro volta riflesso, rappresentazione e “fisicizzazione” dei cambiamenti che sono avvenuti e che avvengono nella società. Mondaini, riprendendo il concetto di “narrazione” introdotto dal Prof. Bellei, ha affermato che oggi gli spazi della città - la piazza in primis - hanno smesso di essere “luoghi narranti”. La città storica era piena di luoghi narranti, di spazi costruiti attraverso un continuum di storie possibili che gli astanti potevano vivere e attuare. La città contemporanea, l’attuale fisicizzazione di essa, al contrario, non ha più storie da raccontare; sempre più difficilmente si costruiscono luoghi pubblici di incontro e sempre più, invece, si costruiscono piccoli paradisi individuali, il più lontano possibile dalla comunità. La rigenerazione della città contemporanea può partire dal recupero e dallo sfruttamento della ricchezza insita in realtà periferiche complesse e degradate dal punto di vista “fisico”, come ad esempio lo stesso Hotel House. Una rigenerazione, quindi, che parte dalla riqualificazione dell’esistente, senza demolire o occupare nuovi suoli, ma recuperando lo spazio vuoto o aperto, o manipolando il suolo quando lo spazio viene a mancare, come ad esempio i piani terra o l’attacco al suolo che sono spesso in situazioni di degrado perché occupati dalle auto o dai garage. Occorre – secondo Mondaini – riportare nelle periferie la multifunzionalità, potenziare i servizi a fianco delle residenze, far diventare lo spazio degli abitanti lo spazio della comunità; introdurre, appunto, nuove funzioni secondo una sinergia tra pubblico e privato: spazialità commerciali, educative e ludiche per costruire una sorta di micro città nella città. La scuola è il primo laboratorio di integrazione, il luogo da cui inizia la formazione del cittadino di domani, dove la convivenza delle differenze – in qualunque modo si esprimano – è un fatto quotidiano, non una situazione emergenziale. Il primo dei due interventi provenienti da questo mondo è stato quello della dirigente dell’Istituto Enrico Medi, la Prof.ssa Daniela Boccanera, che ha illustrato il protocollo di accoglienza messo in atto dalla scuola per realizzare un’integrazione vera e non di facciata, “trendy”, volendo utilizzare un termine in voga nel linguaggio giovanile. Il protocollo necessita del dialogo e della collaborazione tra l’alunno, la famiglia e i docenti che compongono la commissione intercultura. Una figura centrale è, inoltre, quella del mediatore culturale, risorsa della quale ci si può avvalere nell’ambito del progetto ICAM – nato della sinergia tra Regione Marche e il Fondo europeo per l’integrazione – che aiuta a comprendere qual è stata l’esperienza e il percorso vissuti dal ragazzo fino a quel momento, e a superare quello che è l’ostacolo maggiore alla comunicazione: la conoscenza della lingua. E’ sul potenziamento della conoscenza della lingua italiana, infatti, che vengono veicolati gli sforzi e le risorse maggiori. La dirigente ha evidenziato, inoltre, come gli alunni che iniziano il loro percorso educativo dalla scuola dell’infanzia non abbiano problemi di integrazione e non si sentano diversi, perché non sono stati ancora “contaminati” 55 ATTIVITA’ LO SPECCHIO dalla cultura adulta, non hanno ancora avuto la possibilità di crearsi quelle griglie di valutazione che gli adulti, appunto, usano nel momento in cui esprimono i loro pregiudizi. I problemi insorgono quando le sovrastrutture, le paure, e i pregiudizi, si trasmettono dai genitori ai figli. E’ anche su questo che bisogna lavorare, sulle paure dei più grandi. Un fenomeno che la scuola si trova ad affrontare sempre più frequentemente, è inoltre quello dei ragazzi che arrivano ad anno scolastico in corso, frequentano qualche mese, poi spariscono perché magari tornano nel paese di origine, e si ripresentano l’anno successivo. Questo implica per la scuola riattivare il processo di conoscenza e cercare di ricostruire quel vuoto di apprendimento e di esperienze, per l’alunno il dover recuperare la socialità che aveva realizzato in precedenza. Intenso e coinvolgente l’intervento della Prof.ssa Bianchini, che ha messo da parte i tecnicismi privilegiando il racconto dell’esperienza umana e della sfida educativa, che insieme alle altre colleghe che si occupano di intercultura, affronta ogni giorno nell’ambito del progetto “Insieme è più facile”: titolo del suo intervento e sintesi del primo obiettivo che la scuola si pone. Ad esso si affiancano l’obiettivo di offrire a tutti le stesse opportunità, pur partendo da situazioni diverse, e quello della promozione della crescita e del succes56 so di ciascun alunno. I bambini e i ragazzi stranieri, al loro ingresso a scuola, non rappresentano un problema o una risorsa, sono semplicemente bambini e ragazzi, che esigono risposte serie ai loro bisogni. Accanto ai loro doveri, al pari degli altri ragazzi hanno il diritto di essere distratti, svogliati, o di avere il proprio ritmo di apprendimento. Quando viene chiesto loro cosa vogliono fare da grandi, le loro risposte sono uguali a quelle dei ragazzi di Porto Recanati; per loro l’Hotel House è casa, dove vivono con i genitori e i fratelli, così com’è casa la scuola, dove vivono diverse ore della giornata insieme ai compagni. La professoressa ha sottolineato come per i bambini sia naturale e spontaneo essere pronti a conoscere, a interessarsi all’altro, e come sia compito degli adulti coltivare questa capacità empatica, fare in modo che non vada persa e insegnare a riconoscere negli altri i sentimenti, le emozioni e gli stati d’animo comuni a tutti gli individui. Il percorso che si compie nella scuola è faticoso e dagli esiti diversi per ciascun individuo, ma non c’è soddisfazione maggiore del vedere come tra i ragazzi – di 36/40 nazionalità diverse - le cose siano molto più semplici che fra noi grandi, e che forse il futuro per molti di loro sarà migliore, perché loro sono migliori, meno diffidenti, più spontanei e generosi. L’esperienza quotidiana dimostra e insegna che insieme è più facile affrontare la vita e andare avanti, all’Hotel House come in qualsiasi altra realtà. Ha concluso la parte “ufficiale” degli interventi, prima dell’apertura del dibattito, il messaggio di Diop Sek Mustafa, rappresentante delle comunità abitanti l’Hotel House. Le parole e il tono da lui usati hanno rappresentato un grido di dolore - forte e pieno di dignità -, e allo stesso tempo una richiesta di aiuto a tutta la comunità cittadina. Diop, e chi lui rappresentava, sentono un profondo legame con il nostro Paese e soprattutto con il nostro territorio, dove si sono stabiliti da tanti anni e hanno trascorso una fetta di vita maggiore rispetto a quella vissuta nel Paese di origine e dove lavorano e vivono insieme alla famiglia e ai fratelli. Radicato è anche il legame con l’Hotel House, che “una volta, fino alla metà degli anni ’90 era il condominio più bello della Regione Marche”, nel quale vogliono vivere nella pace e nella legalità. Per questo chiedono aiuto alla comunità portorecanatese, perché insieme, immigrati e italiani, si possa cambiare e realizzare una rinascita del condominio, che dovrà passare attraverso la soluzione della controversia che si protrae da anni con l’amministratore, controversia che rappresenta una delle più rilevanti urgenze dell’oggi. ATTIVITA’ LO SPECCHIO Concorso fotografico nazionale Le MARCHE allo SPECCHIO LA REGIONE MARCHE VISTA DAGLI OCCHI DI CHI LA VIVE. Campagna marchigiana presa di coscienza sulla natura 1977-2000 - courtesy Simone Giacomelli L’iniziativa L’associazione culturale Lo Specchio, unitamente alla redazione della rivista Lo Specchio Magazine, bandisce un concorso fotografico artistico nazionale volto a promuovere la riscoperta e la valorizzazione dei beni ambientali, paesistici e architettonici della regione Marche. L’iniziativa, dal titolo “Le Marche allo Specchio”, è caratterizzata dalla infinita varietà di soggetti raffigurabili, dalla “libertà creativa” e dai mezzi e capacità tecniche necessarie alla realizzazione delle immagini. Agli autori selezionati saranno riservate ulteriori forme di rappresentazione delle opere fotografiche e ai vincitori saranno riconosciuti dei premi. Il vincitore assoluto vedrà la propria immagine sulla copertina del prossimo numero de Lo Specchio Magazine. La presentazione ed il programma delle varie attività saranno costantemente proposti e aggiornati sul sito http://www.associazionelospecchio.it/. I premi Tra le immagini inviate - ad insindacabile giudizio della Giuria Tecnica – saranno indicate 10 fotografie che saranno pubblicate dal Magazine. Le foto vincitrici saranno poi premiate, il 10 di agosto 2012 presso i Giardini Diaz corso Matteotti, Porto Recanati, durante le manifestazioni dello Specchio Magazine Festival 2012. Premio speciale sarà dato all’immagine più votata dai visitatori della pagina ufficiale dello Specchio Magazine su Facebook , sarà possibile cliccare “mi piace” sulle foto partecipanti , a fine concorso, la foto più votata riceverà un premio speciale. Gli unici voti validi sono quelli dati sulla pagina ufficiale dello Specchio Magazine. E’ possibile esprimere la propria preferenza fino al 05 agosto 2012. 57 ATTIVITA’ LO SPECCHIO I premi: 1° Classificato: Apparecchio fotografico digitale compatto Nikon e pubblicazione sulla copertina del prossimo numero de Lo Specchio Magazine. 2° Classificato: Libro fotografico 3° Classificato: Borsa fotografica Dall’4° al 10° Classificato: Attestato di partecipazione e pubblicazione. Premio Speciale vincitore su Internet Apparecchio fotografico digitale compatto Nikon In caso di impossibilità, da parte dei vincitori, a ritirare personalmente il premio, questo verrà inviato presso il suo domicilio. Non sono previsti in alcun caso premi in denaro. Regolamento · La partecipazione al Concorso è gratuita e si svolge esclusivamente on line. · I partecipanti sono chiamati ad inviare le opere fotografiche nel periodo compreso tra il 2 maggio 2012 ed il 15 luglio 2012 all’indirizzo di posta elettronica [email protected]. · Ad ogni iscritto è consentita la partecipazione mediante la trasmissione di un massimo di tre immagini. · Le fotografie, alle quali va obbligatoriamente dato un titolo, dovranno essere inviate in formato elettronico “.jpg” con una dimensione massima - per il lato lungo - di 1500 px. · L’organizzazione declina ogni responsabilità per i problemi tecnici, gli errori, le cancellazioni, il mancato funzionamento delle linee di comunicazione che dovessero presentarsi nella trasmissione delle fotografie. · Il partecipante, caricando le immagini, dichiara implicitamente di esserne autore e di detenerne tutti i diritti. · Inviando le fotografie il partecipante solleva gli organizzatori da qualsiasi richiesta avanzata da terzi in relazione alla titolarità dei diritti d’autore delle fotografie e alla violazione dei diritti delle persone rappresentate e di ogni altro diritto connesso alle fotografie inviate. · Le fotografie selezionate sono scelte dalla Giuria Tecnica e le sue decisioni sono insindacabili. · La Giuria Tecnica, si riserva il diritto, a sua discrezione, di escludere ogni immagine pervenuta che non sia in linea con i requisiti indicati nel regolamento. · Le fotografie nelle quali compaiano persone riconoscibili devono essere necessariamente corredate da una liberatoria alla ripresa ed alla pubblicazione firmata dai soggetti fotografati, pena l’esclusione dal concorso. · Inviando le fotografie il partecipante accetta il presente Regolamento. · Ogni informazione di carattere personale sarà utilizzata nel rispetto delle norme a tutela della privacy. Immagini digitali Sono ammesse correzioni digitali in post produzione (quali tagli, aggiustamento colori, contrasto, rimozione macchie, ecc.) ma non manipolazioni (fotomontaggi, uso timbro clone e quant’altro tenda ad alterare la realtà ripresa). 58 Condizioni di esclusione Saranno escluse le opere: · Lesive della comune decenza · Contenente riferimenti pubblicitari, politici o riconducibili all’ambito religioso. · Le fotografie che siano già risultate vincitrici in altri concorsi. La Giuria potrà altresì escludere, a suo insindacabile giudizio: · Gli autori che tentano di orientare il voto popolare. · Coloro che dovessero tenere un comportamento non consono ad una leale competizione. Pubblicazione Inviando le fotografie il partecipante concede all’associazione culturale Lo Specchio i diritti di pubblicazione delle stesse nell’ambito di ogni utilizzazione connessa all’iniziativa . L’autore dell’opera fotografica inviata alla selezione garantisce che l’opera stessa è esclusivo frutto del proprio ingegno e che tale opera possiede i requisiti di novità e di originalità. L’autore cede all’associazione culturale Lo Specchio , a titolo gratuito ed a tempo indeterminato, il diritto di riprodurre l’opera - con qualsiasi mezzo consentito dalla tecnologia e secondo le modalità ritenute più opportune dall’associazione. Disposizioni generali L’organizzazione si riserva il diritto di modificare e/o abolire in ogni momento le condizioni e le procedure aventi oggetto il presente concorso prima della data di sua conclusione. In tal caso l’organizzazione stessa provvederà a dare adeguata comunicazione. L’associazione non assume responsabilità per qualsiasi problema o circostanza che possa inibire lo svolgimento o la partecipazione al presente concorso. Il materiale inviato non è soggetto a restituzione. Ai sensi del D.P.R. n.430 del 26.10.2001, art.6, il presente concorso non è soggetto ad autorizzazione ministeriale. GIURIA Antonio Baleani - AFI Presidente Foto Cineclub Recanati Franco Cingolani - Socio Aurora Foglia - Redazione Lo Specchio Magazine Lino Palanca - Direttore Lo Specchio Magazine Vanni Semplici - Presidente Associazione Lo Specchio Andrea Santarelli - Responsabile Commerciale Lo Specchio Magazine ATTIVITA’ LO SPECCHIO Via M o n t e s c h ia vo, 5 60030 M a io l a t i S p o n t in i, A N C ON A www.gvcatering.it s.Shoes w w w. m a n a s . c o m facebook.com/Manas.Shoes w w w. m a n a s . c o m facebook.com/Manas.Shoes 59 ASSOCIAZIONE CULTURALE LO SPECCHIO Nell’ambito dello SPECCHIO MAGAZINE FESTIVAL 2012 presenta DIALOGHI IN CORSO Rassegna di presentazioni librarie a cura di Scriptorama 28 aprile 2012 ore 17,30 Meglio che noi stessi. Narrare il consumo al tempo della crisi ǡ͝Ȁ 12 maggio 2012 ore 17,30 Un fatto umano ơ ǡ 19 maggio 2012 ore 17,30 Guida al corpo della donna ǡ Ǥ ǡ ǯ ǤȀ ơ Ǥ Ǩ Specchio Magazine Festival winter #1 DIALOGHI in corso di Vanni Semplici I ncontro, confronto, dibattito. L’Associazione Lo Specchio continua a proporre momenti di riflessione sulla contemporaneità. Dopo il successo della rassegna estiva, anche la stagione invernale offre l’occasione per rivolgere uno sguardo a questioni “scottanti” che fanno parte della nostra agenda sociale con giornalisti, scrittori ed esperti. “Lo Specchio Magazine Festival winter I edizione”, si presenta al pubblico con un calendario di tre appuntamenti da non perdere, curati dall’agenzia di consulenze editoriali Scriptorama, per parlare della crisi, di legalità e di parità tra sessi ed emancipazione. Il Festival si apre il 28 aprile con il Professor Gian Paolo Parenti, che parlerà dell’attuale crisi economica alla luce delle teorie e degli studi raccolti nel volume “Meglio che noi stessi. Narrare il consumo al tempo della crisi”. La premessa di Parenti è che, attraverso strumenti di storytelling, da anni le pubblicità sono diventate delle vere e proprie narrazioni, anche di stampo seriale, dove lo spettatore è protagonista. È questo il modo più utilizzato dai marchi per trasmettere un’immagine forte di sé che coinvolga anche il consumatore, con l’ovvio fine di indurlo all’acquisto. La tesi di Parenti è che il modo in cui percepiamo l’attuale crisi può essere legato a strumento “terapeutico”, atto a ridurre l’ansia e l’aggressività sociali, ridando valore alle scelte personali. come i marchi oggi comunicano al pubblico: sono venute meno le narrazioni nelle quali i consumatori si riconoscono e di cui si percepiscono come protagonisti in evoluzione, e il risultato è una stasi collettiva. Parenti parlerà della capacità dei rituali consumistici di definire chi siamo, e di investire di valore le nostre vite, indicandoci la direzione per il miglioramento di noi stessi. La comunicazione d’impresa – marketing in testa – può persino diventare, secondo Parenti, uno Il 12 maggio si parla invece di legalità e di due personaggi che possono essere considerati a tutti gli effetti “eroi civili” per il coraggio con cui hanno affrontato e combattuto le mafie, pagando per questo con la vita. Manfredi Giffone presenterà “Un fatto umano”, un poetico omaggio ai magistrati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, pubblicato da Einaudi nel 2011, nel ventennale della loro morte. Il volume a fumetti (realizzato con Fabrizio Longo e Alessandro Parodi) racconta la loro storia e quella della mafia siciliana e dei suoi connubi con la politica. Tra gli anni Settanta e l’inizio dei Novanta, Cosa Nostra è l’organizzazione criminale più potente al mondo e i Corleonesi di Totò Riina scatenano una guerra interna alla mafia e contemporaneamente lanciano un assalto frontale allo Stato. In questo clima di violenza, nonostante tutto, un manipo- 61 Specchio Magazine Festival winter #1 lo di uomini intraprende una lotta per contrastare la mafia e recidere i legami che l’avviluppano alle istituzioni. Gli effetti di questa lotta si proiettano tuttora nella vita pubblica italiana. Terzo e ultimo appuntamento della stagione sarà quello con il Dott. Carlo Flamigni, che insieme a Margherita Granbassi è autore del libro “Guida al corpo della donna dalla A alla Z”, che verrà presentato nel corso del pomeriggio del 19 maggio. Si parlerà dunque di donne, di parità sessuale e molto di più. La premessa degli autori è che, oggi più che mai, gli uomini cercano di esercitare il proprio controllo sul corpo della donna: con la forza o con mezzi più subdoli. È un tema in cui si intrecciano pubblico e privato, politica e violenza, medicina e psicanalisi, pubblicità e velinismo. Il libro di Flamigni e Granbassi è non solo un vademecum, ma una lente d’ingrandimento su tutti quei comportamenti dominanti (e rimasti pressoché immutati attraverso i secoli) determinati da una società maschilista per esercitare il controllo sulla donna e la sua femminilità (sfera sessuale, aborto, maternità...). Ma nel libro non vengono nemmeno risparmiati quei comportamenti femminili che attivamente incitano e assecondano la prosecuzione di queste pratiche, tra cui l’oggettivazione del corpo operata da marketing, pubblicità e, non ultimo, dalla politica. Il Programma 28 aprile 2012 ore 17,30 Meglio che noi stessi. Narrare il consumo al tempo della crisi Gian Paolo Parenti Chiesa di San Pietrino , Via Leopardi 9/a Recanati Accompagnamento musicale di Antonio del Sordo 12 maggio 2012 ore 17,30 Un fatto umano Manfredi Giffone Palestra Diaz, Corso Matteotti Porto Recanati Interventi musicali di Enzo Cesari Trio 19 maggio 2012 ore 17,30 Guida al corpo della donna di Carlo Flamigni, Margherita Granbassi . Palestra Diaz, Corso Matteotti Porto Recanati 62 RECENSIONI La Marca geniale di Lucia Flaùto LO SVILUPPO DELL’IMPRENDITORIALITÀ NELL’ANCONETANO, DAL DOPOGUERRA AL 1980; UNA FOTOGRAFIA PRECISA, FEDELE E DOCUMENTATA DI UN PERIODO IRRIPETIBILE E DELLA STRAORDINARIA VITALITÀ DI UN DISTRETTO. “ Mettersi in proprio: la nascita dell’imprenditoria diffusa nel distretto sud di Ancona” per i tipi di Affinità elettive è il risultato di un lavoro di ricerca svolto da Matteo Biscarini, acuto osservatore del territorio grazie anche al lungo impegno politico e amministrativo. L’analisi abbraccia un arco temporale che va dall’immedia to dopoguerra (luglio ‘44, data della liberazione) al 1980: attraverso i 302 registri alla Camera di Commercio di Ancona relativi alle iscrizioni di nuove attività nelle città di Castelfidardo, Camerano, Filottrano, Loreto, Numana, Offagna, Osimo e Sirolo si coglie nitidamente il fermento di quegli anni, la scintilla di un fenomeno economico e sociale che sfata alcuni luoghi comuni. Lo sviluppo del modello industriale deriva cioè non tanto dall’organizza zione mezzadrile delle campagne marchigiane ma dall’emergere di una classe imprenditoriale urbana che si era andata formando nel tempo e che ha saputo cavalcare un momento storico particolare in cui si sono combinate una serie di condizioni favorevoli attingendo - questo sì – a quella manodopera contadina avvezza alla fatica che i testi di economia definiscono ”l’esercito industriale di riserva”. Il saper fare manuale, tipico della zona, prende ispirazione dalla esperienza di Paolo Soprani il cui successo apre la strada a numerosi tentativi. Passato il fronte l’attività della produzione delle fisarmoniche riprende con vigore. Dopo il 1950 inizia quella diversificazione e decentramento produttivo che permetteranno di superare la crisi profonda dei primi anni ‘60. La fisarmonica crolla, ma il patrimonio di competenza, abilità, professionalità acquisito da chi ha imparato a costruire le minutissime componenti dello strumento, rimane. La genialità, la cultura dei la voro, il so stegno degli istituti di credito dell’epo ca e quella che Biscarini definisce una sana invidia sociale (se ci riesci tu, ci provo anch’io) esplode nella ricerca di nuovi settori o nuove nicchie, una miniera, da cui parte la scintilla della plastica, -si deve all’osimano Vinicio Leonardi la nascita della lavorazione della plastica nel nostro distretto -, dei circuiti stampati, della galvanica, dell’elettronica, della mec canica di precisione e via dicendo. E’ una sorta di “rinascimento” di cui tutti si sentono attori protagonisti, coinvolti in un progetto per il futuro. E’ la realtà di un tessuto imprenditoriale che si confronta sulle capacità, inventa e mette a frutto ciò che ha imparato ne gli anni precedenti. La seconda parte del libro di Bisca rini, oltre alle testimonianze di quella eccezionale generazione di imprendi tori che fanno risaltare l’elemento centrale - la creatività della persona – contiene una ricerca sulle dinamiche specifiche di ciascuno degli otto comuni presi in esame. Ogni realtà ha una storia a sé. Loreto ha trovato l’elemento caratterizzante nell’industria delle corone, Filottrano in quelle dell’abbigliamento, Sirolo e Numana nel turismo, Camerano e Castelfidardo nelle fisarmoniche. L’industrializzazione di Osimo ha raccolto un po’ di ognuna di queste specificità e ha fondato la propria forza anche su un rapporto positivo dell’industria con il mondo contadino. Questo rapporto viene da lontano: l’industria serica che metteva in stretto contatto la produzione agricola dei bachi da seta - arrivata a caratterizzare anche il nostro paesaggio con le case coloniche, con bigattiere e i piantoni di gelsi - con la produzione industriale delle numerose filande. Genialità, lavoro, sacrificio, che hanno portato l’Italia ad essere la settima potenza industriale del mondo. Una esperienza irripetibile 1. Matteo Biscarini, Mettersi in proprio, Ancona, Affinità Elettive, 2009, pp. 156 1 La recensione è tratta da Il Comune di Castelfidardo, novembre 2009. 63 RECENSIONI OSIMO è bello raccontato così Lo Specchio Libri UN ALTRO STRAORDINARIO LAVORO DI UN AUTORE BACIATO IN FRONTE DA CLIO, MUSA DELLA STORIA L a storia di Osimo come un calendario illustrato; da una parte della pagina il racconto sintetico, una sorta di notes delle vicende della città, dall’altra le foto e le illustrazioni delle opere e dei giorni, e dei personaggi, che hanno segnato il lungo cammino della Vetus Auximon. Mentre scriviamo, il libro si accredita, temerario, come l’ultima opera di Massimo Morroni, ma è probabile che il dato sia già diventato vecchio quando questa recensione verrà pubblicata; l’autore è un inguaribile grafomane. Ma prezioso, per tutti; un principe della ricerca storica E la storia, si sa, si può scriverla in parecchi modi. Morroni ce ne ha dato una quantità industriale di esempi affrontando sovente argomenti ardui e spinosi, con la consapevolezza di chi sa di poter far ricorso a un vasto patrimonio di conoscenze assimilate e rielaborate in anni di impegno appassionato e caratterizzato da un fiuto 64 non comune per ciò che si deve trovare e per come farlo. Questa volta l’autore ha scelto di offrirci un’opera di divulgazione. Deve aver forzato non poco la propensione alla dissezione del fatto, all’anatomia del documento, che gli sono congeniali, quasi una seconda natura. Ma è riuscito nell’intento: la storia di Osimo, da quando la città è sorta dalle acque fino al 2009 d. C., vale a dire giusto ieri, scorre veloce come sotto la penna di un cronista, è resa leggibile a tutti, si percorre senza sosta in poco tempo, senza stancarsi. Quel che ancora più conta, è che la lettura provoca il desiderio di saperne di più, di andare a spigolare approfondimenti tra i libri indicati in bibliografia e tra quelli della lista di opere firmate dallo stesso Morroni. A noi sembra che l’autore sia nel pieno diritto di vedersi riconosciuto il merito di aver messo a disposizione di tutti, vogliamo dire di ogni persona quale che sia il suo grado di istruzione, una materia solitamente preda degli studiosi o degli amateurs delle cose di storia. Arte difficile. Quando si tratta dei propri pari non ci si deve certo preoccupare dell’uso di citazioni letterarie, linguaggi specialistici o raffinati riferimenti intellettuali; ma quando ci si rivolge a tutti, proprio a tutti, beh, allora bisogna essere capaci di trovare un linguaggio che vada bene per il laureato e per chi non ha potuto finire le scuole elementari. Ed è un’operazione che si può fare solo se si ha autentica padronanza della materia trattata e proposta. Il che nel nostro caso non è proprio in discussione. Massimo Morroni Immagini ed echi dalla storia di Osimo Osimo, Tipografia Luce, 2011, pp. 385 RECENSIONI Riviste della Marca Lo Specchio Libri LE MARCHE, REALTÀ INDEFINITA E PLURALE? ANCHE, MA PURE CAPACI DI FARSI CONIUGARE AL SINGOLARE. L ’Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione nelle Marche, conosciuto anche come Istituto Storia Marche, è un laboratorio vivo di cultura e di ricerca storica sul Novecento e non solo. L’iniziativa editoriale di punta è il quadrimestrale “Storia e problemi contemporanei”, di cui presentiamo l’ultimo numero pubblicato, intitolato “Riviste marchigiane” e dedicato a periodici politico – culturali che apparvero nel panorama culturale regionale fra gli anni conclusivi del regime fascista e gli anni Ottanta. Le esperienze editoriali che si susseguirono nel corso dei vari decenni, seppur guidati da orientamenti politici divergenti, furono legate dal fil rouge rappresentato dalla volontà di superare lo stereotipo che da sempre gravava sulla nostra Regione, interpretata e giudicata come una realtà policentrica senza una fisionomia definita, degradata e periferica, con una cultura che era il riflesso di questa povertà. C’era l’aspirazione, inoltre, a porre rimedio alla diaspora delle intelligenze avvenuta nei secoli precedenti, con la creazione di un vivaio “residenziale” che potesse entrare in relazione e confronto con il mondo culturale nazionale e globale. Nel suo saggio, Valentina Baiocco ripercorre la vicenda di Davide Lajolo, intellettuale di punta del PCI degli anni ’50, che prima di realizzare il fallimento e la vacuità delle promesse del fascimo e di convertirsi al comunismo, fu vicedirettore e animatore della rivista “Il Glauco”, mensile di cultura della federazione fascista anconetana. Simone Massacesi incentra il suo contributo sulle iniziative di Enzo Santarelli, che con “La Rassegna marchigiana” prima e “Marche nuove” poi propose, negli anni Cinquanta, una lettura inedita delle tematiche legate alla cultura e allo sviluppo economico, nel tentativo di definire i caratteri peculiari della cultura regionale, aprendosi al contributo di intellettuali di varie provenienze ideologiche mossi dalla volontà di “sostituire al municipalismo il cosmopolitismo, al conformismo la libertà di espressione, e alla cultura di pochi, la cultura di molti.” Andrea Pongetti ci parla di due riviste di orientamento cattolico che accompagnarono il momento storico che segnò la realizzazione compiuta dell’Ente Regione, che, seppure nato con la Costituzione entrata in vigore nel 1948, rimase una mera entità geografica fino al 1970, quando vennero indette le prime elezioni dei consigli regionali. “Marche ’70”, e “Il Marchigiano” che ne raccolse l’eredità, svolsero un ruolo importante nella creazione di un comune sentire regionale, dando vita a un dibattito acceso e costruttivo che voleva inserire il “nostro” fare cultura nel più vasto contesto metropolitano italiano ed europeo. Di notevole interesse, infine è il contributo che apre la pubblicazione e precede l’introduzione di Lidia Pupilli e Massimo Raffaeli, ovvero la relazione, chiara e avvincente, che il Prof. Emilio Gentile ha svolto sull’esame dei presunti diari manoscritti di Benito Mussolini. Attraverso lo studio delle cinque agende – dal 1935 al 1939 – e l’analisi comparativa di documenti coevi, fondi di archivio e materiale stampa, l’esperto è arrivato a sciogliere l’interrogativo sulla loro autenticità. Storia e problemi contemporanei, n.58 Quadrimestrale Istituto Storia Marche Bologna, Clueb, 2011 65 I weekend culturali, artistici , enogastronomici Itinerari e percorsi per conoscere le terre dell’Infinito, un viaggio nel cuore della regione Marche tra arte, storia e cultura, mare e colline, scorci e paesaggi sorprendenti, degustando i tipici prodotti enogastronomici. L’ufficio Turismo di Recanati, in collaborazione con le strutture di accoglienza e le aziende agricole del territorio, ha realizzato una suggestiva offerta turistica composta di pacchetti vacanza “tutto compreso”. Un’esperienza unica per i visitatori della città leopardiana di vivere ed immergersi completamente nell’ambiente marchigiano. Itinerario Piceno Itinerario Maceratese • Montecosaro - Santa Maria a Piè di Chienti • Abbazia S.Maria di Chiaravalle di Fiastra • Piane di Falerone - Teatro Romano • Monte San Martino Azienda Agro-zootecnica • Belmonte Piceno - Azienda Agricola • Loro Piceno - Cantina del vino cotto • Montelparo - Azienda Agricola • Urbisaglia - Parco archeologico • Ascoli Piceno • Serrapetrona - Cantina di vernaccia Per informazioni: Ufficio IAT tel 071.981471 www.recanatiturismo.it TERRITORIO E TURISMO I nuovi denominatori comuni di sviluppo di Andrea Santarelli foto IAT Recanati L’ASSESSORE AL TURISMO DI RECANATI, ARMANDO TADDEI, SUONA LA CAMPANA PER CHIAMARE A RACCOLTA LE GRANDI ENERGIE SPARSE NEL TERRITORIO. C’È UN PROBLEMA: IL CAMPANILE. S postiamo un attimo l’attenzione dalla crisi economica e dalla mole di informazioni e preoccupazioni che i notiziari continuano ad inviarci. Proviamo piuttosto a concentrarci su quello che ci circonda più da vicino: la nostra famiglia e la nostra casa, ovviamente, ma anche il nostro territorio. Di quest’ultimo se ne parla generalmente nella sua accezione tipicamente ambientale, ma sta acquisendo sempre più valore anche nelle tematiche turistico-economiche. Il territorio può rappresentare una chiave di volta su cui sviluppare l’architrave della nostra crescita, ma non può sopportare speculazioni ed interessi particolari, ecco perché dal suo sfruttamento si deve passare ad una sua valorizzazione. Questo l’argomento di discussione che abbiamo sottoposto all’Assessore al turismo di Recanati, Armando Taddei . Assessore, potremmo iniziare parlando del numero di arrivi e presenze turistiche, di percentuali e risultati ma, piuttosto, Le propongo di partire dallo stato di salute del nostro territorio ed il suo peso nella qualità dell’offerta turistica. “Purtroppo il nostro territorio è ancora acerbo dal punto di vista turistico, c’è una grande voglia, da parte dei singoli comuni, del ‘fai da te’ piuttosto che di associazioni zonali che danno voce a specifici interessi, questo se da un lato dimostra una grande vitalità del territorio, dall’altro si dissipano risorse importanti con risultati modesti. Abbiamo un territorio con strutture non sempre all’altezza di un turismo moderno, infrastrutture che non facilitano certo la fruibilità dei luoghi o la scoperta di percorsi particolari. Inoltre, anche il turismo costiero, nella sua stagione che raramente supera i 60gg, non riesce ad avere le presenze di altri competitor dell’Adriatico”. Che tipo di sviluppo si può immaginare per il nostro territorio? Può realmente il turismo offrire opportunità economiche rilevanti? “Tenendo conto della crisi dell’industria manifatturiera, che inevitabilmente diventerà crisi generale, dovremo far leva sul turismo come volano di crescita e di occupazione. Abbiamo le carte in regola per poter attirare turisti dall’Italia e dall’estero, ci sono luoghi molto belli da vivere, abbiamo cibi,vini e oli che non sono secondi a nessuno, inoltre abbiamo delle bellezze storico/artistiche di grande valore e personaggi illustri che attraverso le loro arti riescono ad arrivare nel profondo dell’animo delle genti come pochi”. Quali sono le attività da promuovere e gli strumenti da utilizzare per perseguire questo nuovo tipo 67 TERRITORIO E TURISMO di sviluppo? Come aumentare il ‘fatturato’ del turismo senza nuocere al territorio? “Dobbiamo promuovere la nostra terra, senza scimmiottare altre realtà. Il nostro patrimonio di persone e cose è talmente importante e numeroso che è sufficiente mostrare ed esibire ciò che abbiamo. Penso anche ai percorsi enogastronomici che si snodano tra le nostre bellissime campagne, il turista ama vivere bene, mangiare bene, vedere belle cose e soprattutto provare emozioni. Se noi riusciremo a superare le gelosie reciproche ed offrirci al turista come un unico territorio da vivere e scoprire, allora avremo raggiunto il nostro risultato”. Il grado di coinvolgimento e l’impatto sociale. Come rendere partecipi i cittadini e le imprese? Quali sono i benefici derivanti da un tipo di sviluppo basato su turismo e territorio? “Le imprese fanno parte del territorio e se sono delle eccellenze ne sono il suo valore aggiunto. Lo sviluppo turistico tende, giocoforza, a preservare un certo tipo di territorio da brutture e cementificazioni. Questo è già un importante traguardo perchè significa l’affermazione del bello. Se poi il turismo si sviluppa, come tutti noi speriamo, allora possiamo dire che non solo la disoccupazione sarà un ricordo, ma nasceranno anche tante piccole imprese del settore o del suo indotto che saranno la garanzia maggiore alla tutela del nostro patrimonio, ma anche di innovazione e sviluppo del comparto”. La cabina di regia. Come giudica l’idea di un distretto turistico Recanati- Loreto- Porto Recanati? “Ho sempre pensato ad una cabina di regia regionale, il nostro territorio è troppo piccolo per permettersi strutture intermedie. Se poi parliamo di turismo internazionale, allora anche le Marche sono piccole, immaginiamo un giapponese o cinese o russo che viene in vacanza, credo che prima venga in Italia come meta,e soltanto dopo scopra il resto. Recanati, Loreto e Porto Recanati insieme hanno una grande possibilità ed è quella di offrire, in un unico prodotto, il turismo marino, culturale e religioso. Questo permetterebbe 68 una stagione turistica lunga 12 mesi all’anno e turismi sin’ora poco sfruttati come quello congressuale o scolastico. Detto questo, la collaborazione dei tre comuni potrebbe essere strategica per molte altre situazioni, se solo il campanile non fosse così importante e ci fosse maggiore fiducia tra le persone”. Iniziative e programmi. Cosa propone Recanati? “Recanati, dopo un grande 2011 dal punto di vista turistico con un + 30% di presenze, si appresta ad ospitare un numero ancora maggiori di arrivi nel 2012. Tra le tante iniziative in atto vorrei sottolineare quella dei ‘Weekend Recanatesi’, una serie di piccoli pacchetti vacanze in grado di fondere gli aspetti culturali, artistici ed enogastronomici del nostro territorio in un unico prodotto. Si tratta di diversi percorsi che partono da Recanati e portano il turista alla scoperta delle Marche. Ogni percorso ha la sua peculiarità ma tutti sono un inno al vivere slow, a godere quindi di una vacanza appieno e senza fretta. In aggiunta, Recanati si è dotata recentemente di una guida satellitare in 3d, un’applicazione che si può facilmente e gratuitamente scaricare da internet e permette di scoprire la città in un modo suggestivo anche nei luoghi meno conosciuti. Per passare agli eventi, mi piace ricordare i due importanti appuntamenti fissi: AMANTICA e VILLA IN CANTO. Amantica è una due giorni, in Luglio, all’insegna del folklore e dell’organetto che anima il vecchio rione di Castelnuovo coinvolgendo totalmente i suoi abitanti. VILLA IN CANTO si svilupperà invece a cavallo tra Luglio ed Agosto e consisterà in sei rappresentazioni liriche ambientate nello splendido scenario del museo di Villa Colloredo. Si tratta di un format ormai conosciuto e apprezzato a livello nazionale ed internazionale. Questi sono solamente alcuni degli appuntamenti, la lista è davvero lunga e sicuramente non mancheranno i concerti , le mostre, lo sport...quella che si prospetta è davvero una nuova ed interessante estate recanatese”. FOTO dall’alto:_Casa Leopardi e Chiesa S.Maria di Montemorello_ Museo civico di Villa Colloredo Mels _ Teatro Persiani_ Porta San Filippo LAVORO 69 Associazione Comune di Porto Recanati PORTORECANATESI nel XIX e XX secolo di Lino Palanca La vita quotidiana dei portorecanatesi: ambiente, case, scuole, strade, malattie, emigrazione, lavoro ed altro: come poche centinaia di pescatori, artieri e contadini sono diventati una Comunità . 300 pagine, 60 tra foto e cartoline del Porto di ieri e di oggi. Cartolibreria GIUGGIOLONI - TORREGIANI Via M.L. King Porto Recanati Edicola Luchetti Via Boccalini Porto Recanati SPORT Vai come vuoi: fa bene all’anima di Pierluigi Ferramondo Foto fornite da Gruppo AVIS - Montelupone Il G.P. AVIS di Montelupone LO SPORT CHE EDUCA E FORMA E FA CRESCERE IL SENTIMENTO DELLA SOLIDARIETÀ. È LO SPIRITO CHE REGNA NEL GRUPPO PODISTICO AVIS DI MONTELUPONE DOVE SI INSEGNA CHE NELL’ATTIVITÀ SPORTIVA, E NON SOLO, SI POSSONO FARE GRANDI COSE CON POCO. 71 SPORT S fogliamo le pagine più belle della storia del nostro Gruppo Podistico Avis, sodalizio sportivo e non solo, ribadendone con forza i principi ispiratori: sport amatoriale, turismo culturale, socialità e solidarietà. Lo slogan della manifestazione annuale di Montelupone, che si svolge nella terza domenica di luglio, è molto significativo: Corri con noi e VAI COME VUOI. Con i gemelli della Associazione Podistica Interregionale denominata 5 M (dalla M di Montelupone alle altre M: Maserà di Padova, Marlia di Lucca, Monteforte d’Alpone (Verona) e Mantova), abbiamo coniato la bella frase, ch’è tutto un programma: Uniti nello sport, corriamo per la vita, l’amicizia e la pace. Correva l’anno 1980, quando il Gruppo Podistico Montelupone, costituito nel 1977, dopo tre anni di attiva partecipazione alle altrui manifestazioni nelle Marche, al fine di entrare a pieno titolo nel calendario del Comitato Regionale, decise di organizzare a Montelupone la 1^ VAI COME VUOI, podistica estiva non competitiva, a passo libero, con vari percorsi più o meno lunghi a seconda dell’età dei partecipanti. Fu il primo lusinghiero successo, con ben 445 podisti. Ciò galvanizzò gli organizzatori, che riproposero 72 annualmente la manifestazione. Un crescendo rossiniano negli anni successivi, con una media di 900 presenze e alcune punte oltre i mille. Dal 1990 al 1994 abbiamo vissuto alcune esaltanti imprese sportive concretizzando, di anno in anno, rapporti di gemellaggio con prestigiose realtà sportive extra-regionali, attraverso maxi-staffette di centinaia di km: 7/8 aprile 1990, Montelupone-Maserà di Padova km. 360; 26/28 aprile 1991, MonteluponeMarlia di Lucca km. 380; 17/18 gennaio 1992, Montelupone-Monteforte d’Alpone km. 342; 26/27 giugno 1993, Montelupone-Mantova km. 340. A coronamento dei predetti gemellaggi, fu costituita l’Associazione Podistica Interregionale 5 M, di cui s’è detto, nell’ambito di una grande manifestazione a carattere nazionale nella città di Mantova, sede della FIASP (Federazione Italiana Amatori Sport Popolari), alla quale siamo affiliati dal 1990. Le 5 M, nel maggio 1994, concretizzarono uno straordinario gemellaggio europeo con il Marathon Club di Monaco di Baviera, in staffette, partendo ogni sodalizio dalla propria località. Noi da Montelupone abbiamo percorso, dal pomeriggio del 10 alla sera del 14 maggio, SPORT 820 km. in condizioni climatiche ottimali, attraversando strade provinciali e comunali, i centri storici di Ancona, Pesaro, Rimini, Ravenna, Ferrara, Verona, Trento, Bressanone, Innsbruck, Rosenheim e Monaco, München). Una esperienza e un’impresa sportiva a dir poco esaltanti, un eccezionale pezzo di storia del nostro Gruppo. Un altro memorabile week-end di fine ottobre 2004: 315 km. di staffetta podistica per uno storico gemellaggio, non solo sportivo, ma anche istituzionale tra Montelupone e Montelupo Fiorentino. Nella nota città della ceramica toscana, accolti dalla Società di Atletica locale e dalle Autorità cittadine, sindaco in testa, dopo la immancabile manifestazione sportiva, si è svolta una suggestiva cerimonia nella sala consiliare, cementando un patto di amicizia tra le due Amministrazioni Comunali. Il nostro Gruppo ha stretto altri rapporti, con scambi annuali in occasione dei propri eventi sportivi, con altre Società e GG. Podistici di varie località: Terni, Sarzana (SP), Terno d’Isola (BG), Pontefelcino (PG), Badia Polesine (RO), Marega di Bevilacqua (VR), Longare (VI), Brescia, Ferrara, Villa Rosa (TE), Avis Milano, Avis Imola. Collaborando con la Sezione Veterani Sportivi di Potenza Picena- Montelupone, negli anni 1985-’86, ad Arezzo, abbiamo partecipato alla celebre staffetta a squadre di 50 km. (10x5 km.) denominata Intra Tevero et Arno. Successivamente, nel 1988/’89 abbiamo contribuito al successo della predetta Sezione UNVS conquistatrice di un prestigioso alloro: titolo di campione d’Italia nella manifestazione aretina. Una notazione relativa alla Marcia Atletica: su imput del C. R. Marche abbiamo organizzato a Montelupone, nell’ambito della VAI COME VUOI, dal 1992 al 2001, una gara atletico-amatoriale di Marcia Avis alla quale hanno partecipato annualmente atleti di alcune Società marchigiane, che coltivano tale particolare specialità sportiva. La storia del nostro Sodalizio sportivo continua, con passione e spirito di volontariato, per quanto concerne la macchina organizzativa dell’evento tradizionale di luglio. Siamo giunti alla 33^ edizione della classica VAI COME VUOI: domenica 15 luglio a Montelupone parteciperanno tutte le Società extra-regionali gemellate e 30 Gruppi Podistici delle Marche, con un migliaio circa di partecipanti. Sarà un bel raduno e una grande festa sportiva. E non solo. 73 FARMACIA COMUNALE PIAZZA F.lli BRANCONDI, 48 TEL. 071.9799028 - FAX 071.7590562 SUCCURSALE ESTIVA LOC. SCOSSICCI TEL.071.9798222 PORTO RECANATI (MC) OMEOPATIA FITOTERAPIA DIETETICI Farmacia Comunale IL RUOLO INFORMATIVO DELLE FARMACIE N el contesto sanitario generale le farmacie forniscono, oltre ai prodotti farmaceutici, anche informazioni e servizi. A proposito delle informazioni, da sempre il farmacista dà consigli e suggerimenti in base alle sue competenze, esprime il suo parere in merito all’appropriatezza dei farmaci prescritti, e consiglia prodotti o novità utili per curare piccole patologie o disturbi trattabili con prodotti esenti da ricetta medica. Vale la pena fare una panoramica su una serie di sostanze presenti sul mercato che possono essere di aiuto a prevenire problematiche relative alla nostra salute, o a rendere i disturbi meno pesanti per il nostro fisico già provato. Partiamo da quelle sostanze note come integratori, di cui non vanno troppo enfatizzati gli effetti - la panacea per tutti mali non esiste - ma vanno considerati per quello che sono, non certo sostitutivi dei farmaci che, al bisogno, occorre assumere su consiglio medico. Una dieta variata può essere più che positiva per mantenere uno stato di benessere generale, ma in alcune condizioni una integrazione alimentare può essere di aiuto. E’ il caso ad esempio degli ormai famosi Omega3, di cui sono stati verificati numerosi effetti benefici. Uno degli ultimi, rilevato con una revisione sistematica* pubblicata da una equipe italiana, interessa le persone trattate con chemioterapia antineoplastica. Gli Omega3, infatti, ridurrebbero la tossicità nei tessuti sani, gli effetti collaterali, e migliorerebbero la qualità della vita nel periodo di terapia. Un po’ più discusso è invece l’effetto sull’endotelio, la struttura cellulare che protegge la parete interna dei vasi sanguigni, dove gli effetti dell’Omega3 sembrano essere determinanti nel favorire una protezione endoteliale la cui erosione (ipertensione, diabete, ecc.) costituisce la principale causa di formazione di placche aterosclerotiche e quindi di possibile futura obliterazione arteriosa. Gli antiossidanti in genere (sostanze deputate a contrastare l’azione dei radicali liberi, scorie che accumulandosi danneggiano i tessuti, compresa la superficie interna dei vasi sanguigni e del cuore) sono sostanze che possono essere assunte quale integrazione ad una dieta variata ed essere di aiuto in caso di rischio particolare di patologie da cui ci si può difendere. Ad esempio, la luteina, contenuta in elevate qualità nel tuorlo d’uovo e negli spinaci, si concentra nell’area centrale della retina (macula) proteggendola dai raggi UV e prevenendo la degenerazione maculare senile. Questa azione viene svolta anche dalla Vit. E, Vit. C, Coenzima Q. Nell’ambito degli antiossidanti rientra anche la soia, da tempo ritenuta utile nel contrastare i sintomi della menopausa, effetto ora sostenuto da numerosi studi e revisioni sistematiche. L’effetto è quello di ridurre i sintomi vasomotori e urogenitali. Questa breve rassegna non può certamente essere esaustiva, né tantomeno può essere esente da pareri medici, indispensabili laddove i disturbi non siano chiaramente inquadrati e possono lasciar supporre la necessità di formulare una diagnosi precisa. I farmaci, anche con i loro effetti collaterali, sono spesso indispensabili nella risoluzione di problemi dove il loro uso, nel bilancio costo-beneficio risulta a favore di quest’ultimo. Dott. Paolo Ambrosi Direttore Farmacia Comunale S.p.A. Porto Recanati Dott. Alberto Giattini Medico, membro C.d.A. Farmacia Comunale S.p.A. Porto Recanati * Revisioni sistematiche: sintesi di diversi articoli scientifici indirizzati sullo stesso obiettivo, sono universalmente considerate le fonti bibliografiche più attendibili. BIEFFE SRL via Mariano Guzzini, 38 62019 RECANATI (MC) tel. 071.7578017 fax 071.7578021 www.graficabieffe.it