La carta è rock. e resiste all`assalto del web

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La carta è rock. e resiste all`assalto del web
LO SPECCHIO
www.associazionelospecchio.it • [email protected]
MAGAZINE
N. 3 - APRILE 2012 - ANNO II
Trimestrale di cultura, tempo libero, sport e varia attualità
Testi di: Lino Palanca, Giancarlo Liuti, Alberto Niccoli, Silvano Petrosino, Aurora Foglia, Massimo Morroni, Eugenio Paoloni, Marco Moroni,
Paolo Onofri, Janula Malizia, Emilio Pierini, Mauro Mazziero, Sergio Beccacece, Luciana Interlenghi, Carlo Trevisani, Novella Torregiani,
Umberto Vicaretti, Mario Mancinelli, Eleonora Tiseni, Vanni Semplici, Lucia Flaùto, Andrea Santarelli, Pierluigi Ferramondo, Paolo Ambrosi,
Alberto Giattini
La carta è rock.
e resiste all’assalto del web
INCHIESTA
D I S T R I B U Z I O N E G R AT U I TA
La Direzione e
la Redazione
si uniscono
al dolore
della nostra
collaboratrice
Cristina
Castellani per
la perdita della
mamma
Signora Fedora.
PREMIO PORTO RECANATI
Concorso Internazionale di poesia. XXIII edizione 5
IMMAGINARIO
Un nome spaventosamente immortale 7
Bentornato Maestà Imperiale 9
ECONOMIA
Quale riforma per le pensioni? 11
Non consumate i nostri ragazzi 14
STORIA
Il terremoto di San Marco 16
Via dalla turpe Francia 18
Un Parco storico per Castelfidardo 22
STORIE ADRIATICHE
Ruggero Boscovich, scienziato pontificio 29
PERSONAGGI
Bruno Mugellini, la poesia del pianoforte 33
Odissea dall’inferno 35
INCHIESTA
Il nuovo giornalismo dei cittadini 37
ARTE
La rotta della bellezza 39
L’ombra di Caravaggio 41
LETTERATURA
Tranströmer poeta del silenzio 43
Monaldo “vile”? ma va la’! 45
Ut pictura poesis 47
La voce che spezza il muro del silenzio 49
LAVORO
Dal fiume Potenza le verdi colline di Montarice 51
ATTIVITA’ LO SPECCHIO
La ricchezza celata al Babel Hotel 53
Concorso fotografico nazionale “Le Marche allo Specchio” 57
SPECCHIO MAGAZINE FESTIVAL WINTER #1
Dialoghi in corso 61
RECENSIONI
La Marca geniale 63
Osimo è bello raccontato così 64
Riviste della Marca 65
TERRITORIO E TURISMO
I nuovi denominatori comuni di sviluppo 67
SPORT
Vai come vuoi: fa bene all’anima 71
Trimestrale di cultura, tempo libero, sport e varia attualità.
Proprietà: Associazione Lo Specchio, C.so Matteotti, 34 - 62017- Porto Recanati (MC)
Direttore responsabile: Lino Palanca - cell. 333.4304172; e-mail: [email protected]
Direttore editoriale: Vanni Semplici - cell. 331.5786518; e-mail: [email protected]
Capi servizio: Giorgio Corvatta - cell. 338.7648664; e-mail: [email protected]
Aurora Foglia - e-mail: [email protected]
Emilio Pierini - cell. 338.7370016; e-mail: [email protected]
In redazione: Cristina Castellani - [email protected]
Eleonora Tiseni - [email protected]
Responsabile commerciale pubblicità: Andrea Santarelli - [email protected]
Distribuzione gratuita
Registrazione Tribunale di Macerata Registro 599 del 5 aprile 2011
Hanno collaborato a questo numero: Lino Palanca, Giancarlo Liuti, Alberto Niccoli, Silvano Petrosino, Aurora Foglia,
Massimo Morroni, Eugenio Paoloni, Marco Moroni, Paolo Onofri, Janula Malizia, Emilio Pierini, Mauro Mazziero, Sergio Beccacece,
Luciana Interlenghi, Carlo Trevisani, Novella Torregiani, Umberto Vicaretti, Mario Mancinelli, Eleonora Tiseni, Vanni Semplici,
Lucia Flaùto, Andrea Santarelli, Pierluigi Ferramondo, Paolo Ambrosi, Alberto Giattini
Chiuso in redazione il 10 aprile 2012
PREMIO PORTO RECANATI
CONCORSO INTERNAZIONALE di POESIA
«CITTA’ di PORTO RECANATI»
XXIII Edizione 2012
col Patrocinio del Comune di Porto Recanati e della Regione Marche
e la collaborazione dell’Associazione Lo Specchio-Porto Recanati
Art. 1 – Il poeta invierà una sola poesia a tema
libero. L’organizzazione suggerisce di considerare tematiche sulla disabilità, sulla solitudine,
su “i nuovi poveri”, sugli extracomunitari, sugli
anziani, sugli eventi catastrofici ecc., affinché
si rifletta sulla condizione dell’uomo e del suo
esistere, ideazione che portò all’istituzione del
Premio Città di Porto Recanati 25 anni fa. Comunque sia, i temi indicati sono solo indicativi.
La poesia inviata, che non deve superare i 35
vv. (per non eccedere nelle spese di stampa
nell’eventuale raccolta dei testi dei Vincitori
e dei selezionati in un’Antologia), può essere
stata anche edita, ma non deve aver mai vinto il primo premio in altri concorsi. L’originale
deve riportare: nome e cognome dell’autore,
indirizzo di casa, indicazione della sua e-mail e
la dichiarazione: “Dichiaro d’essere autore dell’
opera inviata al concorso”.
Art. 2 – La Giuria, composta di quattro membri, sarà resa nota nel giorno della premiazione;
essa stilerà una graduatoria dei tre vincitori dei
premi in denaro e degli altri meritevoli sino al
10° classificato.
La Giuria, a suo insindacabile giudizio, premierà quei poeti che, con l’impegno culturale e la
propria testimonianza, abbiano contribuito a
superare una condizione di vita difficile, o addirittura rendendola fonte di ispirazione.
Art. 3 – I premi in denaro sono:
1° classificato 500 euro, targa o trofeo.
2° classificato 300 euro, targa o trofeo.
3° classificato 200 euro, targa o trofeo.
Art. 4 - Le poesie dovranno essere spedite
entro il 31 luglio 2012 (farà fede il timbro postale di partenza) in quattro copie, per posta
ordinaria al seguente indirizzo:
Prof. Renato Pigliacampo c/o Concorso Internazionale di Poesia “Città di Porto Recanati”, XXIII Edizione 2012, Casella Postale n. 61,
62017 PORTO RECANATI, MC. La poesia potrà
anche essere inviata per e-mail a: [email protected]. Il concorrente verserà la tassa
d’iscrizione di 15 (quindici) euro sul conto corrente postale n. 29 68 76 21 intestato a Renato
Pigliacampo c/o Casisma., o con altra modalità
di scelta. La somma sarà messa disposizione
del monte-premi.
Informazioni. La premiazione avverrà a Porto
Recanati, probabilmente nella seconda/terza
decade di settembre. I vincitori dei premi in
denaro avranno comunicazione scritta del giorno, del luogo e dell’ora della cerimonia. E’ prevista una raccolta delle migliori opere in una
silloge.
Si chiede la cortesia di diffondere il Premio nei
media e tra gli amici interessati. Grazie.
Cari lettori: grazie
I
l nostro magazine festeggia un anno da record:
quattro numeri, lettori di un territorio diffuso
che va da Castelfidardo a Civitanova Marche,
passando per Macerata, oltre 20 firme, una diffusione ampia sul territorio e un continuo contatto
con voi, dimostrato dai tanti attestati di stima e dalle tante mail alla redazione.
Più che raddoppiati i clic sul nostro sito, il che ci ha
convinto a portare il magazine on line con nuove
rubriche e collaborazioni. Un successo straordinario che dobbiamo a voi.
Quindi un grazie sentito con la volontà di migliorare ancora. Abbiamo bisogno di voi, di nuovi collaboratori, di nuovi soci. Ecco quindi il mio invito ad
associarvi.
tere culturale della associazione, con uno sforzo
in prima persona nella selezione degli interventi e
nella realizzazione degli stessi. È da queste stesse
valutazioni che nasce la proposta di aderire all’Associazione lo Specchio.
Anche se il tuo apporto potrà essere soltanto saltuario e di sostegno morale noi ne abbiamo comunque bisogno e perciò ti chiediamo di confermare la
tua adesione. Iscriversi non obbliga nessuno a compiere ciò che non può o non si sente di fare, ma più
soci siamo e maggiore sarà la ricchezza dell’Associazione.
Non proponiamo richieste di sostegni unicamente
economici, ma chiediamo di contribuire al percorso
di formazione sociale e culturale che la nostra Associazione intraprenderà.
Perché associarsi?
La risposta è molto semplice ed è racchiusa nella
definizione stessa di “Associazione”: ci si iscrive
per portare avanti tutti insieme la passione che ci
ha spinto nel costituirla, per poter continuare a
crescere. Il bisogno di cultura è un’esigenza fondamentale, imprescindibile in ogni cittadino che
intenda non “omologarsi” alla mediocrità delle proposte in campo.
Con questa semplice premessa è nata l’ Associazione culturale lo Specchio, costituita nel 2008 con
l’intento di organizzare eventi culturali.
Si deve infatti tener presente il mutato interesse
a livello locale e nazionale per quanto riguarda le
proposte culturali, e i dati della partecipazione alle
nostre iniziative rafforzano la nostra convinzione
che la qualità delle proposte ha un immediato riscontro nel gradimento dei lettori.
Di conseguenza, riteniamo che nuovi criteri debbano sovrintendere al ruolo e alle attività di carat-
Come associarsi
Le iscrizioni all’Associazione hanno validità annuale. Le nuove iscrizioni avranno validità fino al
31 dicembre 2012. L’iscrizione all’associazione lo
Specchio va effettuata esclusivamente in formato
elettronico compilando la richiesta di registrazione in base alla tipologia scelta. Il direttivo comunicherà in modalità elettronica l’accoglimento della
domanda . La quota associativa del socio ordinario
per l’anno 2012 è stata fissata in € 10,00 (dieci )
pro capite. Le quota associativa per i soci Sostenitori è libera. Quanti intendono aderire all’Associazione lo possono fare liberamente, contribuendo
alla diffusione della cultura Per il versamento della
quota è possibile effettuare un bonifico presso la
BANCA DI CREDITO COOPERATIVO DI RECANATI E
COLMURANO FILIALE DI PORTO RECANATI - IBAN :
IT-06/H/08765/69110/000040115617.
Ancora un grazie di cuore.
Vanni Semplici
Il Presidente dell’Associazione Lo Specchio – Porto Recanati
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IMMAGINARIO
UN NOME
spaventosamente immortale
di Lino Palanca
.. IGNARO DEL MIO FATO, E QUANTE VOLTE / QUESTA MIA VITA DOLOROSA E NUDA / VOLENTIER CON
LA MORTE AVREI CANGIATO … (Le ricordanze).
L’immagine di copertina dei RACCONTI DI IERI, edizione Garzanti del 1951
D
ieci anni fa ho rinvenuto una copia dei “Racconti di ieri” di Guelfo
Civinini in una bancarella di Largo Porto Giulio, a Porto Recanati. Il volumetto, formato
10.5 cm. x 14.5, proviene dalla biblioteca comunale di Rieti come
svela un timbro nell’ultima pagina.1
Il titolo di uno dei testi, “Giacomo Leopardi fu Pasquale”, non
può non richiamare l’attenzione
di quanti seguono con interesse quel che riguarda Leopardi.
La storia è collocata al tramonto
dell’Ottocento e messa in penna a un giovane giornalista di un
quotidiano romano, che ci introduce nel tema ricordando come,
sovente, gli sia capitato di vedere
a spasso per la Capitale persone
abbigliate e qua e là ritoccate a
imitazione di personalità della politica o della cultura fin de
siècle. Sicché, si era imbattuto in
un Ruggero Bonghi e un Vittorio
Emanuele, un Mazzini, un Pascarella; di D’Annunzio poi, allora
divino aedo delle cronache rosa
del Messaggero, ne aveva visti un
battaglione. Ma uno che cercasse
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IMMAGINARIO
di nascondere la sua somiglianza
con un grand’uomo non gli era
mai avvenuto di incontrarlo. Almeno fino al giorno dell’arrivo in
redazione di Giacomo Leopardi.
Il cuore gonfio di dispiaceri, come
il poeta. E una gran voglia di sfogarsi, come il poeta.
Non si tratta di un uomo afflitto
solo dalla somiglianza fisica col
Recanatese. Troppo facile. Il poveretto, calabrese, ragioniere e
reduce da un maldestro tentativo di suicidio, è assai più di un
sosia. Intanto si chiama proprio
Giacomo Leopardi; di Pasquale,
è vero, non di Monaldo; calabrese e non marchigiano, vero anche
questo. Però, a guardarlo “… mal
vestito, striminzito e sbilenco,
anzi quasi addirittura gobbo …”,
sembra il poeta sputato tel quel,
come se l’avessero messo dentro
uno stampo appena nato modellandogli le forme del viso, del
cranio e delle spalle, del petto e
del dorso, per far schizzare fuori
dall’involucro la copia di un genio
mal servito dalla natura nei tratti
esteriori.
Il figlio del fu Pasquale ha lasciato crescere la barba per occultarsi, ma quando in redazione si
mette di profilo e la tira perché il
giornalista si renda conto di quel
ch’egli “è”, subito si disegnano i
lineamenti della maschera mortuaria del poeta, nota anche ai
ragazzini “… Gli stessi erano i lineamenti, il profilo del naso, lo
zigomo rilevato sulla gota smunta, la fronte solcata, l’orbita affossata, la bocca sottile e dolorosa”.
Una leopardite dalle forme ormai
indissociabili dalla vita del soggetto, una sorta di malattia non
più operabile, ché se il chirurgo
intervenisse, con essa morrebbe
pure il paziente. Come l’amore di
Swann per la leggera Odette, descritto da Proust 2.
Suo padre Pasquale, patito di Leopardi, ha ereditato a sua volta
da Monaldo, per simmetria: una
vita trascorsa da “… signorotto
rovinato e spensierato …” che
“… non faceva nulla, scriveva versi e viveva fra i libri”. Maledetto,
una gran parte di colpa è stata
sua: “Quando mia madre fu in
cinta di me mio padre le portò in
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regalo quella maschera di gesso,
gliel’appese sul letto e le disse –
Ecco, guardalo bene, e fammi un
figliolo che gli somigli”.
Al ragazzo Giacomo-bis non erano stati risparmiati il dileggio
dei coetanei, la ripulsa delle ragazze, che lo chiamavano gobbino e vecchietto “… le bambine
specialmente erano le più crudeli”, vittima, come il poeta, di
un popolo che Ottonieri ricorda
“… deditissimo a motteggiare”.
Persino lo zio prete, nell’ammettere sconfortato l’assenza di fede
nel giovane, sospirava: “Proprio
come quell’altro!” 3
La maledizione del nome gli è
stata compagna anche nell’unica
avventura d’amore tentata con
una ragazza traviata e bruttina,
che rifiutò, inviperita, l’offerta di
matrimonio appena conosciute le
sue generalità: da studentessa le
era toccata una bocciatura a causa
del maledetto gobbo, che le aveva troncato la carriera scolastica.
E poi, lei si chiamava Nerina, e
allora, chiese, conciati così dove
vogliamo andare? “… sarebbe da
far ridere i morti”! Vero, commenta il ragioniere, e aggiunge: “…
anche quell’altro che pure, dicono, non rideva mai”.
Nell’animo della copia del poeta
si agita sovente uno spirito alieno. Parlando col giornalista usa le
stesse parole di Filippo Ottonieri
mentre il demone che gli modella
i pensieri persegue tenace a manipolare la metà oscura della sua
psiche, sempre meno governata
dalla volontà. Il giovane denuncia, come Ottonieri, “… che tanto
la gioia come il dolore rendono
egualmente estranei gli uomini
alle infelicità dei loro simili ……
alle volte mi vengono su parole
che, lo sento anch’io, non sono
mie, pensieri che non sono miei
… Di dove, di dove mi vengono”?
E alla fine se ne esce col leopardiano grido di rimpianto che non
si cancellerà mai: Ahi, Nerina, in
cuor mi regna l’antico amor!
Giacomo calabro termina il racconto con voce colma di rassegnazione; lascia il giornalista con
la preghiera di non citare in cronaca il suo nome di suicida mancato. Per questo è salito in reda-
zione. Desidera restare nel più
profondo dell’anonimato, nel grigio indistinto della moltitudine
cittadina, vittima di una battaglia
perduta prima ancora di cominciare a combatterla.
È rassegnato. Il suo cervello di
computista, dove tutto se ne sta
squadrato e ordinato, continuerà
di sicuro a subire i graffi dell’io
straniero che lì dentro ha preso stanza. La società gli ha imposto, in virtù di un nome certo
non scelto da lui, una specie di
maschera pirandelliana che non
riuscirà più a staccarsi dal volto.
Sente che non sfuggirà alla presa
di quell’altro, agnello sacrificale
destinato a restare tale fino alla
morte, preda di una maledizione
che lo fa protagonista di una storia alla Stephen King.
Guelfo Civinini, Racconti
di ieri, Milano, Garzanti,
1951. Tutte le citazioni,
salvo indicazione contraria,
sono da qui tratte. Civinini
(Livorno 1873-Roma 1954),
fu giornalista e scrittore.
A Fiume con D’Annunzio,
nazionalista, aderì anche al
fascismo, allontanandosene
però dopo le leggi razziali del
’38 e il patto d’acciaio con
la Germania. Vincitore del
premio Viareggio nel 1937, fu
Accademico d’Italia nel ’39.
Scrisse per molti giornali, tra
cui Il Corriere della sera; suo
il libretto de La fanciulla del
West di Puccini (1908). Su di
lui vedi Potentia-Archivi di
Porto Recanati e dintorni,
n.14, Recanati, Bieffe, 2004,
pp. 78-80.
2
Marcel Proust, Un amore
di Swann, Milano, Garzanti,
1970, p. 141.
3
Giacomo Leopardi, Operette
morali, Detti memorabili
di Filippo Ottonieri, cap IV,
1824.
1
IMMAGINARIO
Bentornato
MAESTÀ IMPERIALE
di Giancarlo Liuti
FU SEME LA BOLLA D’ORO … E IL BRODETTO IL FRUTTO. UN IMPOSSIBILE (?) FEDERICO II,
TORNATO A DARE UN’OCCHIATA ALLA SUA CREATURA IN RIVA ALL’ADRIATICO.
S
i sa che corrono tempi di
stravaganze nel vestire, ma
non è certo cosa di tutti i
giorni incontrare, alle otto
di sera, a Porto Recanati, sul lungomare Scarfiotti, un tale con una
tunica blu a mezza gamba, una
mantellina di velluto scarlatto,
una calzamaglia rossa fino ai piedi e, in testa, una grossa corona
dorata. Mi accorgo che è disorientato e decido di aiutarlo.
“Guardi che il Lola è chiuso, gli
dico, semmai provi al Babalù, ma
tenga presente che le feste di Carnevale son finite da un pezzo”.
Lui assume un’aria severa e,
come offeso, alza la voce: “Lola?
Babalù? Carnevale? Che roba è
questa? Non mi manchi di rispetto, signore. E badi che nel corpetto tengo una lama bene affilata”.
“Mi scusi, volevo consigliarla per
il meglio. Ma lei, mi dica, chi è?”
La domanda lo delude: “Che
brutta epoca è questa se la gente
non riconosce più neanche Federico Secondo, re di Germania, re
di Sicilia e imperatore del Sacro
Romano Impero! Uno che fu chiamato ‘stupore del mondo’ per la
sua straordinaria eccellenza, uno
che non ce n’è mai stato un altro
migliore di lui. S’inginocchi, signore, e mi baci la mano”.
Stento a credergli, sono trasecolato. Ma il suo portamento regale
ha per me l’effetto di un liquido
ipnotico. Così, quasi mi vergogno
di dirlo, faccio un inchino e gli
bacio l’anello che lui porta sulla
destra e peserà mezzo chilo. Poi,
con la deferenza che è d’uopo per
i sudditi ma in preda a una incontenibile curiosità, gli rivolgo altre
domande.
“Lei, maestà, nacque a Jesi, no?”
“Sotto una tenda, il 26 dicembre
del 1194, mia madre Costanza
d’Altavilla fu presa all’improvviso
dalle doglie durante il viaggio verso sud”.
“Anch’io sono di Jesi, maestà.
Vede gli scherzi del destino? Siamo concittadini”.
Benevolmente sorride: “Diciamo
pure di sì”.
“Mi faccia capire una cosa, maestà. Lei, dunque, è ancora vivo?”
“Il mio corpo si spense a cinquantasei anni, in un paesino di
Puglia. Ma lo spirito di un autentico imperatore non muore mai, è
immortale”.
“E perché da queste parti dopo
più di otto secoli?”
“Amai questa terra e ci sono tornato per vedere se è rimasta dolce, tenera e bella come allora”.
“Però non risulta che lei sia mai
passato qui e ci abbia trascorso,
che so, una vacanza”.
“Visitai tantissimi luoghi, e di
questo, da Recanati a Porto Recanati, m’innamorai. Il fatto che non
risulti nei libri dipende dalla sciatteria degli storici”.
“Allora può fare il confronto. Che
ne pensa della Porto Recanati
di oggi? Questo lungomare, per
esempio, non lo trova stupendo?”
“Adesso sì, ma l’altro ieri non c’era”.
“Come non c’era?”
“L’aveva spazzato via una mareggiata, una di quelle che più volte
all’anno si mangiano la spiaggia, il
marciapiede, la strada e arrivano
fino ai villaggi turistici. I bagnini
sono infuriati, m’hanno detto che
di una scogliera frangiflutti se ne
parla, se ne parla e se ne parla,
ma rimane nel libro dei sogni”.
“Ai suoi tempi le opere pubbliche si facevano meglio?”
“Questo è sicuro. Nel 1229 emisi, da imperatore, una Bolla d’Oro
che concedeva a Recanati il diritto di erigere un castello, costruire
9
IMMAGINARIO
un porto e non pagare le tasse. Quello fu il primo
passo per la nascita, molto più tardi, del Comune di
Porto Recanati. Un atto di grande modernità laica
e di grande amore per questa gente. Più o meno il
castello c’è ancora, con tanto di torre. Ed è la cosa
più importante di questo paese. E il porto? Niente,
come le scogliere”.
“Adesso, insomma, non le piace quasi nulla”.
“La mia Bolla d’Oro è diventata una bolla speculativa. Cemento dappertutto, a montagne. Quando ho
visto quello che Recanati ha lasciato fare al confine
con Porto Recanati, supermercati e compagnia bella,
e quello che Porto Recanati ha lasciato fare in riva
all’Adriatico col falso nome di Borgo Marinaro, mi
son venuti i brividi”.
“Non le do torto, maestà, ma perché ha detto modernità laica?”
“Perché volevo unificare l’Italia nell’impero, contrastare le pretese dei baroni feudali e arginare lo
strapotere della Chiesa. Litigai con ben cinque papi,
Innocenzo III, Onorio III, Gregorio IX, Celestino IV
e Innocenzo IV. Fu dura, sa? Spesso la spuntai, fui
pure scomunicato, ma purtroppo mi uccise quella
maledetta indigestione di orecchiette con cime di
rapa che presi in Puglia. E alla fine vinse la Chiesa”.
“Oggi, maestà, è molto diverso”.
“Dice? Con, a due passi, la Santa Casa di Loreto?
Via, lasciamo perdere. E sulla poltrona di sindaco di
Porto Recanati non siede forse una signora iscritta al
partito che fra tutti è il più vicino alla Chiesa?”
“Ma quel partito, maestà, governa la Provincia insieme con la sinistra”.
“Destra, centro, sinistra. Problemi vostri, della vostra
perdita di veri ideali, di vere stelle polari che non
indichino solo il presente. Io, guardi, feci riforme destinate a durare nei secoli, il nuovo ordine giuridico
che furono le Costituzioni di Melfi, e l’impulso alla
scienza medica della scuola salernitana, e l’istituzione dell’università di Napoli. Quella sì che era politica
ad altissimo livello! Altro che Mario Monti!”.
“Mi perdoni, maestà, ma lei mi sembra un esponente dell’antipolitica, un brutto fenomeno, un fenomeno che rischia di far morire la democrazia”.
“Democrazia? Ecco una parola che nell’epoca mia
non andava di moda. Però combattei, e vinsi, contro
la Lega Lombarda, quella del Carroccio, che si opponeva al disegno di unificare l’Italia. Sono passati
ottocent’anni, signore, la Lega è tornata e vuole la
secessione. Sarebbe questo il vostro progresso?”
“Ha dato un’occhiata all’Hotel House? Cosa ne pensa degli immigrati? Cosa ne pensa dell’Islam?”
“Da piccolo, a Palermo, fra i miei maestri c’era anche un dottissimo Imàm. E m’insegnò tante cose, in
astronomia, in matematica, nelle scienze naturali. Fu
anche per merito suo che poi aprii la corte alla cultura araba perché io, ecco la modernità, capii l’importanza di superare ogni barriera e di conoscere il
mondo. L’Hotel House? E’ un ghetto, me ne sono
accorto. Fosse per me, invece, lo farei diventare una
facoltà universitaria”.
“Non esageri, maestà. Lì ci abita tanta gente perbe10
ne, ma non mancano spacciatori di droga, contraffattori di marchi, gruppetti di malfattori. Non negherà che per la sicurezza dei cittadini portorecanatesi
questo è un problema reale”.
“Bisogna integrarsi, accordarsi, smussare le asprezze, accettare le diversità. Non a caso ero contrario
alle Crociate. Partecipai alla sesta, nel 1228, ma vuol
sapere come? Stipulai un trattato col sultano e senza
colpo ferire ottenni la liberazione di Gerusalemme”.
“Tutto bene ai suoi tempi, maestà, e tutto male oggi?
Perdoni la sfrontatezza, ma a me pare che lei tiri un
po’ troppo l’acqua al proprio mulino”.
“E sia, ammetto che neanche allora si viveva in un
paradiso terrestre. Però, siamo onesti, chi fu che, prima dei fiorentini, diede dignità alla lingua volgare e
mise le basi dell’italiano? Vogliamo dimenticare poeti come Cielo d’Alcamo, Giacomo da Lentini e Pier
della Vigna, tutta gente della mia corte? E non solo.
Sappia che la forza spirituale della mia Bolla d’Oro
gettò il seme, sulla terra vostra, anche della grande
poesia. Per questo, forse, avete avuto un Leopardi”.
“Mi dica ancora, maestà, mi parli del brodetto alla
portorecanatese. Lo mangiò? Le piacque? E’ tornato
anche per questo?”.
Ma al suono della parola “brodetto” la figura di
Federico Secondo si trasforma in una nuvola di rilucente vapore che si alza di un paio di metri, piega a
sud e ad altissima velocità si dirige verso i ristoranti
del centro.
ECONOMIA
Quale RIFORMA
per le PENSIONI?
di Alberto Niccoli*
foto da sito tesoro.usb.it
AVREMO UN SISTEMA PENSIONISTICO PIÙ EQUO E SOSTENIBILE?
PROBABILMENTE SÌ,
MA CON QUALCHE RIGIDEZZA DI TROPPO.
11
ECONOMIA
P
artiamo da due punti:
il primo è quello che
la spesa per le pensioni pubbliche in Italia
è nettamente più elevata rispetto ad altri paesi, europei e
non; vari elementi concorrono
in questa direzione: l’elevata
speranza di vita degli italiani;
la bassa natalità; e, infine, l’elevato rapporto fra pensione e
reddito da lavoro per chiunque
abbia avuto un’occupazione
regolare nel tempo. Negli altri
paesi europei, anche escludendo la Gran Bretagna, dove la
pensione pubblica è superiore
al 40% dell’ultima retribuzione soltanto per quanti godono
di redditi molto, molto bassi,
il livello medio delle pensioni è dell’ordine del 60% delle
retribuzioni. Nel nostro paese, per le brutte abitudini acquisite in passato, la pensione
considerata normale è pari ad
almeno l’80% dello stipendio,
e una percentuale di copertura dell’ordine del 60%, quale
quella prevista per il futuro del
sistema pensionistico del nostro paese, è ritenuta assolutamente insufficiente. Eppure,
altrove non è così.
Il secondo punto è costituito
dall’enorme farraginosità ed
eterogeneità della normativa,
per cui il settore pensionistico,
nonostante le importanti riforme “Amato” e “Dini” risalenti
agli anni ’90 del secolo scorso,
continua ad essere caratterizzato da un estremo livello di
iniquità: vi sono persone che
ottengono ancora pensioni
molto elevate rispetto ai contributi che hanno versato, nonostante le loro famiglie non
siano in condizioni di povertà,
e altre per le quali è vero l’opposto. Nonostante le lamentele
espresse dagli interessati e a
confronto dei contributi versati
dalle diverse categorie di lavoratori, in linea di massima sono
avvantaggiati quanti operano
nel settore agricolo, grazie alla
presenza di contributi molto
bassi e dell’integrazione della
12
pensione al minimo, e i lavoratori autonomi. Inoltre, sono avvantaggiati quanti sono riusciti
ad andare in pensione ad età
relativamente basse, i dipendenti pubblici e quanti hanno periodi relativamente brevi
di contribuzione; sono invece
danneggiati coloro per i quali questi ultimi sono talmente
brevi da non dar luogo ad alcuna pensione, fino al raggiungimento dell’età che permette
di godere di quella sociale, o
che continuano a lavorare oltre
i quarant’anni di contribuzione.
La riforma Fornero ha voluto in
primo luogo risolvere, sia pur
gradualmente, questi problemi
attraverso l’applicazione, dapprima parziale e poi esclusiva,
del principio “contributivo” al
posto di quello “retributivo”;
ovvero, la pensione è legata
ai contributi versati e non alla
retribuzione percepita. Se si
escludono le pensioni di natura non previdenziale, come
quella sociale, quella integrata al minimo, ecc., la prosecuzione dell’attività lavorativa e
ulteriori annualità di contribuzione garantiscono comunque
un aumento dell’assegno pensionistico, anche per chi ha già
versato i contributi per più di
40 anni.
In secondo luogo, viene aumentata progressivamente l’età minima prevista per il pensionamento, e ciò soprattutto
avviene in maniera molto più
rapida rispetto alla normativa
precedente: per le donne, tale
età è già salita da 60 a 62 anni
dall’inizio del 2012 e raggiungerà i 66 nel 2018; in precedenza quest’ultima soglia sarebbe
stata raggiunta solo nel 2026.
Per gli uomini essa, attraverso
il sistema delle finestre e delle quote, era già pari a 66. L’obiettivo di questa normativa è
quello di rendere coerente l’età
del pensionamento con la durata della vita delle persone, la
quale sta aumentando di poco
più di due anni ogni decennio
per i maschi, e poco meno per
le donne.
In terzo luogo, è stato introdotta una flessibilità che permette
alle donne un’età di pensionamento compresa fra quella minima e i 70 anni e agli uomini
un intervallo di scelta compresa fra i 66 e i 70. A seconda
dell’età di pensionamento effettivo, chiamato “anticipato”
se lo stesso avviene prima della pensione di “vecchiaia”, l’importo della stessa viene ridotto
rispetto a quello normale.
Le norme contenute nella riforma sono molto più numerose
rispetto a quelle che abbiamo potuto ricordare in questo
breve articolo, dove abbiamo
esaminato l’evenienza più frequente, e cioè quella dei lavoratori dipendenti. In ogni caso,
desidero esprimere un giudizio
positivo sulla riforma che, nonostante stia creando problemi
ECONOMIA
a tanti, ha certamente reso più equo e sostenibile il sistema pensionistico italiano e, proprio per
questo, rimarrà in vigore per moltissimo tempo.
Per un punto tuttavia, a mio parere si sarebbe
potuto fare di più, e cioè quello relativo alla
flessibilità del sistema, che va ulteriormente aumentata.
Mi riferisco al fatto che, se l’importo della pensione è correttamente e opportunamente collegato a quello dei contributi versati, il cui montante viene in qualche modo “spalmato” sugli
anni di vita residua, calcolata al momento del
pensionamento, tenendo anche conto dell’eventuale pensione di reversibilità del coniuge, si
potrebbe ridurre di molto l’età minima di pensionamento. Se una persona desidera andare in
pensione a 50 anni, con 30 anni di contributi,
perché non permetterglielo e costringerla ad andare a 62 con una contribuzione di 42? Secondo
le tavole dell’ISTAT relative al 2007 una donna
di 50 anni ha una speranza di vita di altri 35,2,
mentre una di 62 ne ha una di 24,3; è facile
calcolare che, per riavere indietro i contributi
versati, la prima dovrebbe godere di una pensione di poco inferiore alla metà di quella della
seconda; che male c’è se una persona preferisce
andare in pensione all’età più bassa, anziché a
quella più elevata?
Infine, occorre cominciare a pensare alla possibilità che il passaggio dalla vita attiva, con occupazione, al pensionamento non debba necessariamente avvenire soltanto una volta in quella di
una persona: periodi di lavoro e periodi di pensione possono alternarsi più volte, ovviamente
con il calcolo di valori della pensione coerenti
con i contributi versati; così, all’interno delle famiglie e a seconda delle loro esigenze, periodi
di lavoro e periodi di pensione potrebbero essere scelti di comune accordo fra nonni, genitori
e nipoti in modo da garantire a questi ultimi
un’assistenza adeguata e, nel contempo, l’equilibrio dei conti dell’INPS. I calcoli sono un po’
più complicati, le pensioni nei primi periodi di
pensionamento più basse, perché nessuno ha la
certezza di trovare un nuovo lavoro ad età avanzate, ma comunque possibili. Perché non farlo?
* Alberto Niccoli è il Presidente della Banca di Credito
Cooperativo di Recanati e
Colmurano
13
ECONOMIA
Non consumate
i nostri RAGAZZI
Silvano Petrosino
per g.c. del Sole 24 ore
foto dal sito dirittodicritica.com
L’UNICA COSA CHE INTERESSA DEI GIOVANI È FARLI SPENDERE.
INVECE BISOGNA DARE LORO LAVORO:
È IL PATTO GENERAZIONALE FONDAMENTALE PER LA COESIONE
14
ECONOMIA
T
utti ne parlano come il problema centrale
dell’at­tuale momento: si tratta del lavoro e soprattutto di quello che non c’è, del lavoro per i
giovani. Nel sot­tolineare, a volte con passione
e con toni allarma­ti, tale centralità si sviluppa il più
delle volte un ra­gionamento di questo tipo: per sviluppare il lavoro è necessario rilanciare l’economia, ma
per rilancia­re l’economia è necessario incrementare i
consumi. All’interno di un simile sillogismo, che peraltro non lo è affatto, la tanto celebrata centralità del
lavoro si trova inevitabilmente lateralizzata, spostata ai
mar­gini, mentre il centro viene occupato dai consumi.
Forse per iniziare a parlare seriamente del lavoro è
necessario prendere le distanze proprio da una si­mile
impostazione della questione, un’impostazio­ne che dimostra di essere del tutto cieca di fronte a quelli che
sono i due fattori essenziali all’origine dell’attuale crisi:
la sovraproduzione di merci dovu­ta alla innovazione
tecnologica, l’esaurirsi della ca­pacità di consumo da
parti di soggetti che, almeno nel nostro primo mondo,
non riescono più ad ingur­gitare nuovi prodotti.
A meno che non si voglia trasformare il consumo, oltre che in un dovere morale, addirittura in un ob­bligo
sociale (e anche questo in parte sta già avve­nendo:
per uscire dalla crisi, così si arriva a pensa­re, tutti devono consumare), per tentare di affrontare in modo
serio il tema del lavoro è necessario deco­struire proprio la falsa evidenza che lo lega, secondo un nesso
che tende sempre a presentarsi come del tutto ovvio,
all’incremento dei consumi, allargando di conseguenza lo sguardo verso ciò che costituisce quell’umanità
dell’uomo che resiste ad ogni inter­pretazione in termini di prodotti e di consumo (af­fetti, desideri, memorie,
tradizioni, legami, ragioni, fedi, ecc.).
Nel suo seminario su L’etica della psicoanalisi Lacan
afferma: «Rispetto a ciò di cui si tratta, ossia a ciò che
si riferisce al desiderio, al suo concerto e sconcerto,
la posizione del potere, quale che sia, in ogni circostanza, in ogni incidenza, storica e non, è stata sempre
la stessa. Qual è il proclama di Ales­sandro all’arrivo
a Persepoli come pure di Ritler all’arrivo a Parigi? Il
preambolo importa poco - Sono venuto a liberarvi da
questo o da quello. L’essenziale è questo - Continuate
a lavorare. Il lavoro non sifer­mi. Che vuoI dire - Beninteso questa non è in alcun modo un’occasione per
manifestare il minimo deside­rio. La morale del potere,
del servizio dei beni, è P
­ er i desideri, ripassate. Che
aspettino». «Continuate a lavorare» ha significato fino a
qualche tempo fa, soprattutto sotto la spinta dell’industrializzazione e dell’innovazione tecnologica, «continuate a pro­durre, che la produzione non si fermi, non
si perda tempo a pensare a questioni filosofico-religiose co­me il desiderio, la felicità, la
verità, la giustizia,
i le­
gami affettivi,
ecc., ma si produca; del desiderio se ne parlerà
in un secondo
momento,
che
aspetti». Un tale
proclama è sempre attuale, anche
se forse il suo appello deve essere
oggi riformulato: non più «For­za, lavorate, producete,
continuate a produrre», ma «Forza, consumate. Continuate a consumare. Il con­sumo non si fermi, per il
desiderio, e per tutto ciò che riguarda l’umanità stessa
dell’uomo, ripassate».
All’interno di una simile scena che i giovani non
trovino lavoro (e non solo loro) non è affatto un pro­
blema, dato che l’essenziale è che essi non smettano
di consumare.
E in effetti i giovani, anche se senza lavoro, conti­
nuano a consumare, consumando i risparmi che i lo­ro
genitori, soprattutto in Italia, hanno accumulato. Ecco,
questa potrebbe essere un’idea per rilanciare i consumi e aiutare l’economia nello stanco primo mondo (si
chiama alienazione: non è l’economia che deve essere
al servizio dei singoli, ma i singoli devo­no mettersi al
servizio dell’economia): se i consumi devono «sempre
e comunque» aumentare, perché non considerare il risparmio stesso delle famiglie come un nuovo mercato
da sfruttare? I giovani non lavorano ma grazie al risparmio delle loro famiglie consumano. Per il resto (lavoro,
dignità personale, costruzione di un futuro, di famiglie,
ecc.) si ripassi.
In democrazia ognuno può dire quello che vuole,
ma anche in democrazia bisognerebbe non solo dire
quel che si pensa ma soprattutto pensare a quel che
si dice. Chi ha il coraggio di definire «ragionamento»
la cinica argomentazione che, facendo finta di pre­
occuparsi dei giovani, in verità non riesce neanche per
un istante a non inchinarsi di fronte a quell’ido­lo del
consumo la cui parola d’ordine, come per ogni autentico idolo, è «ancora, sempre di più»?
15
STORIA
IL TERREMOTO DI SAN MARCO
di Aurora Foglia
Le foto ritraggono palazzo Venieri e il complesso di San Vito e sono di Aurora Foglia
I
LEGATI DAL “FIL ROUGE” DI UN TERREMOTO FINITO TRA LE PAGINE DELLA STORIA LOCALE,
PRESTIGIOSI NOMI DELL’ARCHITETTURA SETTECENTESCA RIDISEGNANO TASSELLI DI CITTÀ.
cultori della storia locale conoscono gli Annali di Monaldo Leopardi1 come testimonianza fedele e minuziosa di
un tempo che spazia dalle origini
della città di Recanati fino all’Ottocento, e tra i tanti episodi uno in
particolare non può non meritare
attenzione:
“Ai 24 di aprile del 1741, la mattina per tempo, fu una scossa violentissima di terremoto, e ne soffrirono molti fabbricati della città e del
territorio, ma non ci fu morte di
uomini. Ho convissuto con alcuni
trovatisi al tempo di quel flagello,
e dicevano che nell’atto dello scuotimento alcune muraglie apertesi
e subitamente ristrettesi avevano
permesso la vista dell’aperta campagna. Ne sono poco persuaso,
e dubito che questo sia quasi un
modo proverbiale per indicare la
violenza delle scosse. Questo terremoto si chiama oggidì il terremoto di San Marco, ma veramente
seguì il giorno innanzi alla festa
del Santo. Il comune (di Recanati)
ascrisse fra i protettori della città
Sant’Emidio2, risolvendo di farne
ogni anno la festa, e inoltre decretò che per cinque anni sarebbero
proibiti i festini, le maschere e le
commedie in musica con le cantarine3. Ai 29 di luglio dell’istesso
anno cadde una volta doppia nel
Palazzo Carradori (prima Venieri) e colpì molte persone. Nel 1743
precipitò sino dai fondamenti la
facciata della chiesa di San Vito, la
quale poi fu rifatta col disegno del
Vanvitelli. Probabilmente queste
due ruine furono una conseguenza del terremoto.”4.
L’autore sottolinea come l’evento
sismico abbia fortemente impressionato la popolazione, ricorrendo ad un tono romanzato com’e16
ra l’uso letterario del tempo; ciò
che resta drammaticamente certo,
grazie alla cronaca del Leopardi e
alle pubblicazioni di studiosi delle
vicende del recanatese, è come il
sisma abbia gravemente lesionato
numerosi edifici civili e religiosi
entro e fuori le mura cittadine.
La Recanati colpita dal terremoto è un luogo che da secoli
non muta significativamente aspetto5. La crisi scaturita dalla battuta
di arresto dei legami commerciali
con Venezia, la perdita di Loreto6 e
una grave carestia del 15917 comportano un progressivo declino,
durante il quale lo sviluppo urbano si arresta.
Il secolo successivo si rivela ben
più interessante sotto il profilo architettonico; pur non espandendosi al di fuori delle mura cittadine,
il centro urbano vede avviarsi numerosi cantieri per il restauro e il
recupero di importanti fabbriche.
Significativo il contributo di Carlo
Orazio Leopardi8, canonico e architetto dilettante, che interviene
sui più pregevoli edifici civili e di
culto, con il suo gusto tra tardobarocco e neoclassicismo.
In una fase di progressivo affrancamento dalle forme tardomedievali, è innegabile come l’evento
sismico del 1741 sia alla base del
rinnovamento stilistico di numerose strutture, che spesso per ragioni
economiche non avevano modo
di adeguare le loro linee alle più
recenti tendenze del gusto, e che
trovavano nella fatalità tragica del
terremoto una preziosa occasione di rinnovamento del proprio
aspetto stilistico. In presenza di
una committenza facoltosa, per
l’edilizia nobiliare, o di prestigio,
per l’architettura religiosa, vengono incaricati della ricostruzione i
principali architetti del tempo.
Celebrati come capolavori, o criticati perché dissimili alle originarie
fattezze, tanti tasselli di città restaurati ridefiniscono il mosaico di
un luogo in lenta evoluzione.
I danni subìti da Palazzo
Venieri, edificio antichissimo che
troneggia a ridosso delle mura
cittadine, spingono il conte Carradori a incaricare il comasco Pietro
Augustoni9, architetto molto attivo
nelle Marche, di restaurare radicalmente l’edificio.
Il committente, che da poco era
entrato in possesso del Palazzo
acquistandolo da un discendente
del cardinale che ne aveva iniziati
i lavori, sovvenziona con non pochi sforzi i grands travaux, che investono aspetti strutturali e stilistici
della fabbrica.
La facciata quattrocentesca viene
ridefinita in una forma vicina al
gusto del tempo, lasciando intuire
le tracce di un porticato che ospitava le antiche botteghe utilizzate
dal Comune durante le fiere; il lato
STORIA
del porticato rivolto al mare è parzialmente chiuso dalla realizzazione di due corpi di fabbrica adibiti
a stalla e scuderia.
Al fine di ripristinare la staticità della struttura, le colonne in marmo
del cortile vengono semi inglobate
da due pilastri in muratura. L’intervento, in linea con il sapere del
tempo10, cela la finezza espressiva
di Giuliano da Majano11, che alla
fine del Quattrocento aveva disegnato le linee del Palazzo.
La chiesa di san Vito è tra
i più antichi edifici di culto del recanatese, e per la centralità della
sua posizione nell’insediamento
cittadino ha sempre avuto un ruolo di primo piano nella vita della
popolazione, tanto da essere denominata pieve12già dagli inizi del
Duecento.
L’impianto originale, basilicale tripartito e comune a tutte le chiese
tardoromaniche dell’area, viene rifoderato nel Seicento su disegno di
Pier Paolo Jacometti, seguendo le
linee del gusto barocco.
Il terremoto produce i suoi effetti
sulla facciata, che crolla rovinosamente nel 1743; ne viene subito
realizzata una provvisoria su disegno del Nicoletti, demolita nel
1746 assieme a due arcate, lesionate anch’esse dal sisma.
Nel 1747 inizia la costruzione della nuova facciata, su disegno del
celebre architetto Luigi Vanvitelli, molto attivo nelle Marche, che
all’epoca si trovava presso il cantiere della basilica lauretana dove
realizza il campanile13.
I lavori sono diretti dal capomastro
Pietro Bernasconi, di aiuto anche
presso la fabbrica di Loreto, che rielabora in fase di cantiere il disegno.
Il progettista è vincolato dallo
schema preesistente e dai rapporti
dimensionali tra le navate, dovendo adattare la facciata a una struttura volumetricamente già definita,
ma ciò non impedisce al genio del
Vanvitelli di creare una composizione considerata un capolavoro,
nella quale trionfa la stessa bicromia che caratterizza il campanile
loretano.
Fuori le mura cittadine, il
terremoto danneggia numerose
parti del castello di Montefiore,
sorto agli inizi del Duecento sul
confine occidentale del territorio recanatese con la funzione di
difendere la città dalle frequenti
incursioni osimane14. Il maniero,
costituito da vari corpi di fabbrica distaccati dalle possenti mura a
scarpa, viene completato nel Quattrocento con la realizzazione della torre, elemento più rappresentativo del fabbricato, che sorge al
centro di un terrapieno circondato
da una cortina continua terminante
con merli a coda di rondine.
Nella seconda metà dell’Ottocento vengono portati a compimento
i lavori di restauro15 resi necessari
dal sisma e dalla vetustà del fabbricato, addirittura un secolo dopo
il danneggiamento, a differenza di
quanto avviene per gli edifici intra moenia. Pare che gli interventi eseguiti non abbiano rispettato
la foggia originale della struttura,
tanto che lo Spezioli16 li descrive
come condotti senza badar punto
al genere di quella costruzione, ed
il nuovo muro, verso la strada di
Montefano, non ha somiglianza
alcuna coll’antico; di certo, la sostituzione del ponte levatoio con
uno di tipo fisso in muratura, pur
dettata da ovvie ragioni pratiche,
penalizza l’aura fiabesca del castello.
Altri cantieri di rilievo,
non citati dal Leopardi ma avviati
probabilmente in seguito ai danni
prodotti dal sisma, sono quello di
Palazzo Roberti, oggi Carancini,
e quello della chiesa di sant’Agostino. Gli interni della chiesa, di
un’austera sobrietà propria degli
spazi di matrice mendicante, vengono adattati al gusto del tempo
con accorgimenti che conferiscono profondità all’aula unica. Le
stesse accortezze sono impiegate
del ridisegno della facciata e dello
scalone del Palazzo; nell’atrio, un
colonnato con serliana17 immette
nel giardino retrostante incorniciando il mare e il monte Conero,
creando una quinta scenica che
indirizza lo sguardo del visitatore
divenuto spettatore. L’analisi stilistica, più che l’attenta lettura di
fonti documentarie, permette agli
storici locali di attribuire entrambi a Ferdinando Galli da Bibiena,
architetto e scenografo bolognese
attivo nelle maggiori città italiane
ed europee18.
*
Una travatura di legno ben connessa in una
casa non si scompagina in un terremoto, così
un cuore deciso dopo matura riflessione non
verrà meno al momento del pericolo. Siracide.
A Fabio e Gloria.
1
Leopardi M., Annali recanatesi dalle origini
della città all’anno 1800, inediti alla sua morte
avvenuta nel 1847.
2
Sant’Emidio di Ascoli, 273-303. Martire cristiano, è patrono delle città di Ascoli Piceno e
Leporano, protettore contro il terremoto.
3
Le cantarine, nella settecentesca commedia
dell’arte, eseguivano gli intermezzi e le canzoncine che chiudevano la rappresentazione.
4
Foschi F. (a cura di), Leopardi M., Annali di
Recanati, Loreto e Porto Recanati, Recanati,
1993, p.333.
5
Scarrocchia S., La città della rifeudalizzazione, in Sbaffi A., Scarrocchia S., Recanati tra
mito e museo, Bologna, 1998, pp. 47-64.
6
Nel 1586 la diocesi di Recanati fu soppressa
e nel contempo fu eretta la diocesi di Loreto,
che ne incorporò il territorio.
7
Figlio di Giacomo e Fiordalisa Carradori, prozio del Poeta.
8
Si veda Moroni M., Recanati nella carestia del
1591, in Proposte e ricerche, 1986.
9
Como, 1741- Fermo, 1815. Si veda F. Maranesi,
Fermo -Guida Turistica, Fermo, 1957.
10
Risoluzione finalizzata all’aumento della capacità sismica della struttura, che presenta,
alla luce dello stato dell’arte, gli svantaggi di
non reversibilità, invasività e aumento delle
masse sismiche. Analogo a quello dell’Augustoni è l’intervento del Borromini nella riedificazione della Basilica di san Giovanni in
Laterano.
11
Maiano, 1432 – Napoli, 1490. Scultore, architetto e intarsiatore.
12
Il termine pieve, di origine latina, indica il
luogo di riunione delle popolazioni provenienti
dai villaggi circostanti, centro per il culto e il
ritrovo entro le mura.
13
Si veda F. Mariano, Loreto: il cantiere infinito, in F. Mariano, Architettura nelle Marche,
Firenze, 1996, pp. 201-205.
14
F. Mariano, L’architettura e gli architetti militari, in F. Mariano, op. cit., pp. 206-208.
15
L. R. Varinelli, Recanati storia ed arte, Recanati, 1979, pp. 186-189.
16
Spezioli V., Guida di Recanati, Chieti, 1968,
pp. 92-93.
17
La serliana, elemento architettonico composto da un arco a tutto sesto affiancato simmetricamente da due aperture sormontate da un
architrave, è propria dell’architettura bizantina. Trova largo impiego nel Rinascimento.
18
Si veda J. Bentini, D. Lenzi, I Bibiena: una
famiglia europea, Venezia, 2000.
17
STORIA
Via dalla turpe Francia
di Massimo Morroni - foto fornite dall’autore
RIBELLE ALLO STATO NATO DALLA RIVOLUZIONE DEL 1789, FEDELE ALLA CHIESA.
L’ESILIO MARCHIGIANO DI UN PRETE FRANCESE, CHE LASCIÒ DI SÉ UN OTTIMO RICORDO
E TROVÒ NELLA NOSTRA TERRA AMICI BUONI E VERI.
T
ra il 1792 ed il 1801 si fermò ad Osimo
Henri-Anne Sollier, uno dei tanti preti francesi detti réfractaires in quanto, sotto la
Révolution, non giurarono la Costituzione
civile del clero del 1790, per cui dovettero nascondersi o emigrare o essere giustiziati. Riguardo all’estensore della biografia del Sollier, intitolata Vie de
l’abbé Sollier vicaire-général du diocèse d’Avignon,
ancien supérieur du séminaire, uscita ad Avignone
nel 1843, egli si riscontra solo come “abbé Barret” e
non se ne conosce il nome.
La patria del Sollier è Céreste, villaggio all’estremità sudoccidentale del dipartimento Alpes-deHaute-Provence, con capoluogo Digne, al centro della
regione Provence-Alpes-Côte-d’Azur, nel Parco naturale regionale del Luberon. Ora, come allora, Céreste
conta un migliaio di abitanti. Il Sollier nacque dunque
sotto il regno di Luigi XV. Riguardo alla sua famiglia,
le attestazioni sono discordanti. Secondo l’abbé Barret,
era «d’une condition fort commune et presque sans ressource du côté de la fortune». Invece, ricerche più recenti
riferiscono che entrambe le famiglie di provenienza dei
suoi genitori erano molto agiate e, in particolare, i Sollier
erano grandi proprietari terrieri; inoltre, il suo atto di battesimo confermerebbe che la sua famiglia apparteneva
ad un ambiente di notabili.
La famiglia si occupò poco del Nostro, che
fu invece notato dal parroco, l’abbé Vial, per «les
heureuses dispositions de son esprit et de son coeur”.
Questi gli insegnò i primi elementi della lingua latina, fornendogli così le basi per quella che sarebbe
stata la carriera della sua vita. Verso l’età di quindici
anni (1776), il Sollier fu messo nel collegio della vicina Apt, a compiere gli studi di umanità (“umane
18
lettere”). Sentitosi portato per la vita sacerdotale, fu
inviato dal vescovo di Apt, De Cély, al grande seminario Saint-Charles-de-la-Croix di Avignone, che
dista una cinquantina di chilometri da Apt. Qui, applicandosi instancabilmente, dimostrò tra l’altro una
grande propensione per la teologia; inoltre, durante le vacanze, si dedicava alle scienze naturali ed a
quelle esatte. Dopo breve tempo fu nominato confe-
STORIA
renziere di teologia e di filosofia.
Appena diplomato, gli fu affidato
per i suoi meriti culturali l’insegnamento della filosofia all’interno del seminario stesso. Si iscrisse
quindi all’università di Avignone,
dalla quale uscì brillantemente laureato, e la sua fu una delle
ultime tesi, in quanto ben presto
l’ateneo sarebbe stato soppresso
dalla tempesta rivoluzionaria.
Dopo due anni che insegnava al seminario (tra il 1783
e il 1784), il vescovo di Apt, De
Cély lo richiamò nella sua diocesi
e lo incaricò di insegnare filosofia, matematica e fisica nel locale
collegio. Durante l’estate si recava
con i suoi allievi ad esplorare le
catene del Ventoux e del Luberon,
raccogliendo numerose osservazioni geologiche. Al collegio insegnò per sei anni, probabilmente
dal 1785 al 1790.
Con l’abolizione del regime feudale (agosto 1789), la Chiesa francese aveva perduto le decime. Alla fine dello stesso mese, fu
emanata la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, basata sul modello del “Virginia Bill
of Rights”. Il 2 novembre, visto il
prolungarsi della crisi finanziaria,
si decise di mettere a disposizione della nazione le ricchezze fondiarie della Chiesa. Alla votazione
finale 510 rappresentanti contro
346 furono favorevoli alla nazionalizzazione dei beni ecclesiastici
con l’onere per lo Stato di pagare
ai parroci un traitement. La vendita dei beni iniziò il mese seguente.
Il 13 febbraio 1790 con un
decreto l’Assemblea votò la proibizione per l’avvenire dei voti religiosi e soppresse tutti gli ordini
e le congregazioni (esclusi quelli
che esercitavano attività ospedaliera e scolastica). Il comitato ecclesiastico dell’Assemblea ebbe
poi il compito di elaborare una
Costituzione civile del Clero. La
legge fu votata il 12 luglio 1790
e doveva sostituire il Concordato
del 1516. Essa tendeva a riorga-
nizzare in profondità la Chiesa
francese, trasformando i parroci
in funzionari pubblici ecclesiastici. La Costituzione comportò in
sintesi le seguenti misure:
- soppressione dei capitoli delle
cattedrali e dei benefici “senza carico di anime”;
- soppressione di 47 diocesi; ne
resta una per ogni dipartimento e
sono raggruppate in dieci metropoli;
- elezione dei vescovi e dei preti
da parte del corpo elettorale;
- i vescovi hanno i vicari vescovili;
- vescovi e preti sono retribuiti
dallo Stato;
- tutti i religiosi hanno dei diritti
civici che li autorizzano a lasciare
i loro posti;
- un ecclesiastico non può essere sindaco, ufficiale comunale o
consigliere generale. E’ elettore
ed è eleggibile all’Assemblea Nazionale. Il decreto d’applicazione
fu votato il 27 novembre. Esso
prevedeva il giuramento: “tous
les ecclésiastiques prêteront le serment exigé un jour de dimanche
après la messe, en présence du
conseil général de la commune et
des fidèles. Ceux qui ne le prêteront pas seront réputés avoir renoncé à leur office et il sera pourvu à leur remplacement». Il testo
del giuramento era il seguente:
“Je jure de veiller avec soin sur
les fidèles de la paroisse qui m’est
confiée, d’être fidèle à la nation,
à la loi, au roi et de maintenir de
tout mon pouvoir la Constitution
décrétée par l’Assemblée nationale
et acceptée par le Roi».
Dopo otto giorni, il 4 gennaio 1791, i deputati del clero
dovettero giurare: 80 vescovi si
rifiutarono. Il giorno 7 iniziarono
i giuramenti nelle province, che
durarono circa due mesi. La quasi totalità dei vescovi non giurò,
come anche la metà dei parroci.
I membri del clero, che non facevano riferimento ad una parrocchia, considerati come non utili
(circa tre quinti del clero), furono
costretti a ritirarsi oppure ad entrare nelle fila del clero delle parrocchie, prestando giuramento. La
risposta ufficiale del papa arrivò
con due brevi nella primavera con
Quod aliquantum del 10 marzo e
Caritas del 13 aprile. Pio VI considerava la Costituzione eretica, sacrilega e scismatica. Chiedeva ai
preti di non giurare o di ritrattare.
Ciò provocò una rottura nel clero
francese. Si ebbero così i preti
costituzionali e i réfractaires. I
primi, detti anche assermentés,
jureurs e intrus, prestarono giuramento di fedeltà alla Costituzione. I preti réfractaires furono
19
STORIA
appunto quelli che si rifiutarono
di giurare, cioè quasi tutti i vescovi (meno cinque) e più della
metà dei parroci. La proporzione
fu molto superiore nell’alto clero
che nel basso; i vicari furono più
réfractaires dei preti. Le regioni
periferiche ebbero più réfractaires della regione parigina e
del centro, forse per motivo della
maggior presenza di clero gallicano e giansenista in queste zone.
La maggior parte dei preti
réfractaires scelsero il partito della controrivoluzione, per cui i patrioti sospettarono gli ecclesiastici,
generando odi ardenti. Numerosi
cattolici, contadini, artigiani o
borghesi, che avevano sostenuto il Terzo Stato, si congiunsero
così con l’opposizione. I dibattiti
scossero profondamente la società francese, iniziando a dividere
la nazione in due parti. Dal 1791
la maggior parte dei preti cattolici
francesi, obbligati a cedere la direzione delle loro chiese agli “intrusi”, fuggirono. Verso
la
fine dell’anno, l’Assemblea Legislativa emise il Decreto contro i
preti réfractaires. Esso stabiliva
che ogni cittadino deve prestare
la sua fedeltà alla legge. I deputati
dell’Assemblea Legislativa ritenevano che i preti réfractaires fossero solo dei faziosi; decisero quin20
di che questi non potevano invocare i diritti della Costituzione, e
che dovevano essere considerati
sospetti e da sottomettere ad una
sorveglianza particolare; inoltre
perdevano il loro trattamento.
La vita per i preti réfractaires diveniva sempre più ardua:
«Il était extrêmement difficile de se
soustraire aux recherches de cette
police infernale dont les agents
innombrables couvraient le sol
français, donnant la chasse aux
prêtres et les traquant comme des
bêtes fauves. Plusieurs, après avoir
erré quelque temps dans la solitude et s’être trainés de retraite en
retraite, se retiraient sur la terre
étrangère, préférant l’exil à cette
vie passée au milieu d’alarmes et
d’appréhensions continuelles”.
Nel 1792, il Sollier si ritirò
nascostamente o nella sua Céreste
oppure a Meyrigue, verso Viens,
una decina di chilometri ad est
di Apt. Qui andò insieme al suo
parroco Claude Vial, anche lui
réfractaire. A questo punto
le date divergono: secondo alcuni nella notte tra il 3 ed il 4 agosto, in seguito ad una denuncia,
alcuni uomini armati, arrivati da
Manosque, invasero il villaggio di
Meyrigue, si impossessarono dei
due rifugiati e li condussero nella
loro città, dove furono rinchiusi
nell’ex convento dei Cordeliers
divenuto prigione. Il Vial vi fu subito giustiziato, mentre il Sollier
riuscì a fuggire in Italia con alcuni
preti amici.
Il Sollier e i suoi compagni viaggiarono via terra, non
avendo con sé quasi nessuna risorsa. Il suo biografo riferisce che
teneva un diario giornaliero particolareggiato. Si fermarono a Nizza e a Torino, quindi, entrati nello
Stato pontificio, proseguirono per
Bologna con l’incertezza di trovarvi un rifugio. Ebbero invece
dal vice legato delle lettere che li
raccomandavano al cardinale Calcagnini, vescovo di Osimo. Dopo
alcuni mesi di viaggio, fatto quasi
tutto a piedi, tra fatiche e penose privazioni, il 27 ottobre 1792 il
Sollier ed i suoi compagni arrivarono ad Osimo. Il vescovo Calcagnini fornì loro vestiti e biancheria, di cui erano del tutto privi. Il
Sollier annota: “C’est-là, au reste,
que la Providence nous avait destiné un refuge. La bonté, la confiance, les égards dont on nous
entoura nous firent oublier bien
des peines passées”. Ma il pensiero
andava continuamente alla patria
lasciata.
I compagni del Sollier furono riuniti nello stesso convento,
mentre egli, con grande sua amarezza e dolore, fu posto da solo
presso i Silvestrini. Il Sollier, nella
situazione di solitudine, per sfuggire ai ricordi che lo affliggevano,
divenne insensibile al riposo di
cui avrebbe potuto beneficiare e
cercò la consolazione nella pietà
e nello studio. Dalle lettere che
inviò sia ad alcuni fedeli della diocesi di Apt sia ad amici compagni
di esilio, si evidenzia il suo grande zelo per conservare presso di
loro lo spirito di forza e di sacrificio. Per distrarsi dal pensiero dei
mali che affliggevano il suo paese
e che ogni giorno arrivavano ai
suoi orecchi, il Sollier si consacrò
allo studio. Si trovava “sur la terre des ruines, aux sources de l’histoire, au berceau de la littérature
STORIA
antique”, per cui non mancava il materiale appropriato per uno spirito avido di studi e di conoscenze.
Percorse quindi le terre attorno ad Osimo, visitandone le rovine degli antichi monumenti e ritrovando
le località nominate dagli storici e dai poeti romani. Frequentò le ricche e numerose biblioteche dei
monasteri. Le letture degli scrittori ecclesiastici e dei
letterati italiani completavano i suoi studi.
Dopo due anni di silenzioso ritiro, il Sollier fu
incaricato dal vescovo Calcagnini di ricoprire la cattedra di Filosofia presso il Collegio-Seminario “Campana”. Si trattava di un importante istituto culturale
che conviveva, dall’inizio del secolo, nello stesso palazzo con il Seminario. La nomina del Sollier fu fatta
malgrado i pregiudizi in merito alla sua condizione
di straniero. Egli fu dapprima titubante ad accettarla,
nella sua modestia, per lungo tempo, ma infine si
decise e il 3 novembre 1794 iniziò il suo corso davanti ad un gran numero di allievi. Queste le sue prime considerazioni in merito: “Toute la ville parlait de
ce nouvel emploi qui venait de m’être confié. J’étais
attendu dans le collège avec une curiosité étonnée.
Au reste, on avait contre moi toutes les préventions
possibles; mais elles se dissipèrent bientôt, et je n’eus
ensuite qu’à me féliciter des égards des maîtres et de
l’affection des élèves”.
L’impostazione ed i contenuti dell’insegnamento al “Campana” si mostrarono subito antiquati
e sorpassati al Sollier. Prima di studiare Teologia, gli
allievi apprendevano la lingua latina, quindi leggevano i testi dei letterati italiani più antichi e infine gli
oratori ed i poeti classici italiani. Si trattava però di
figure minori, trascurate dalla critica, che i colleghi
stessi del Sollier ritenevano senza valore. L’insegnamento delle scienze non esisteva, se si eccettua qualche definizione di Fisica intramezzata nella Filosofia
e senza l’ausilio di alcuno strumento.
Egli tentò di inserire qualche riforma nella
parte di insegnamento che gli competeva. Trovava
che il testo, che doveva seguire, era di un autore
“sans goût, sans méthode, peu exact et bien incomplet parmi beaucoup d’inutilités entassées”, e ciò pregiudicava il progresso dei suoi studenti. Per questo si
mise a rivederlo e completarlo, cercando, con grande impegno e fatica, di riordinarlo. Inoltre aggiunse alla Filosofia un corso di Matematica e di Fisica,
in rapporto con i progressi della scienza in Francia,
cosa fino ad allora inusitata, che interessò molto gli
allievi.
Dopo un paio d’anni, resosi libero dall’inse-
gnamento, il Sollier divise il suo tempo tra le ricerche e gli approfondimenti scientifici. Trasse profitto
dal frequentare una ricca biblioteca che un amico
gli mise a disposizione. Inoltre riprese le escursioni nelle vicine località, redigendone le descrizioni
in numerosi volumi manoscritti, sui quali non ebbe
più modo e tempo di ritornare, che riguardavano le
scienze, la storia, la critica letteraria, la teologia dommatica, i soggetti di pietà.
Avendo desiderio di visitare Roma, poté partire da Osimo il 19 maggio 1797, con alcuni suoi
compagni. Vi si fermò diversi mesi, visitando i monumenti artistici e quelli religiosi e le biblioteche.
Ebbe anche un’udienza particolare da Pio VI.
Rientrato ad Osimo, il Sollier vi ritrovò la sua
solitudine ed il suo riposo, che però non dovevano
durare per molto. Nel 1799, infatti, l’Abbé Barret riferisce che una truppa di insorti si era impossessata di
una posizione vicino Osimo e da là cannoneggiava
la città. Il Sollier, che non usciva più dalla sua camera per paura, se ne stava alla finestra guardando
tristemente gli orrori della guerra, quando una palla
di cannone passò a poca distanza da lui. Pericoli
di questo tipo si moltiplicarono anche in seguito.
Egli sentiva anche i cannoni dei Russi su di Ancona
nell’assedio che posero quell’anno. Il giorno in cui
Ancona fu lasciata dai Francesi, il 15 novembre, vi
si recò, come anche il 21 giugno dell’anno seguente
1800, quando Pio VII vi fece visita ed egli “fut admis
d’une manière particulière au baisement des pieds”.
Il 15 luglio 1801, dopo che Pio VII ebbe accolto con favore le offerte di Napoleone, il segretario
di Stato Consalvi poté firmare il Concordato, che ridava legalmente nuova vita al cattolicesimo francese: la religione cattolica era riconosciuta e dichiarata
appartenente alla maggioranza dei Francesi. Il Sollier
fece un ultimo pellegrinaggio al santuario mariano
di Loreto, che trovò immerso nella più grande desolazione e orribilmente profanato dal saccheggio
dei soldati francesi. Quindi, il 26 ottobre 1801, partì per la Francia, attraverso Firenze, Pisa e Livorno.
Ad Osimo aveva incontrato degli amici buoni e veri,
che con la loro generosità e affetto gli avevano reso
meno amari i mali dell’esilio. Per questo gli ci volle tutto il desiderio, che si prova dopo dieci anni
di assenza, di rivedere il proprio paese e la propria
famiglia, per resistere alle richieste con le quali essi
avevano cercato di trattenerlo. Sia nel collegio-seminario “Campana” sia nel convento dei silvestrini
lasciò un gran ricordo di sé.
21
STORIA
Un Parco storico
per Castelfidardo
di Eugenio Paoloni*
L’INDISCUTIBILE RILEVANZA PER LA STORIA D’ITALIA E LA SUA RISONANZA MONDIALE SONO IL
BIGLIETTO DA VISITA PERCHÉ NASCA SUI LUOGHI DELLA BATTAGLIA UN PARCO STORICO CHE NE
PERPETUI LA MEMORIA E VALORIZZI UNO STRAORDINARIO PATRIMONIO NATURALE.
P
er un Parco Storico della Battaglia
di Castelfidardo del 18 settembre
1860.
Da alcuni anni si parla ormai
sempre più spesso del progetto di realizzare un
Parco Storico, o meglio storico-turistico-culturale
nei luoghi ove si svolse, il 18 settembre 1860
la famosa battaglia di Castelfidardo, considerata
da vari storici come memorabile per la storia
d’Italia, per l’Europa ed il mondo cattolico viste
le sue conseguenze politiche.
L’idea di realizzare un Parco Storico è
portata avanti con passione e con entusiasmo
dalla Associazione Italia Nostra, che ne pone
le basi attuative nella costituzione del museo
risorgimentale della battaglia e che nella sua opera
di sensibilizzazione ha trovato l’importante aiuto
dell’Amministrazione comunale, soprattutto
con l’approvazione dello statuto del museo
risorgimentale (10 marzo del 1984). L’atto va
considerato come corona dei tre importantissimi
emblemi del risorgimento italiano nel territorio
di Castelfidardo: il monumento Ossario-Sacrario,
costituito all’indomani della battaglia, ove sono
sepolte le spoglie dei caduti dei due eserciti, il
monumento nazionale ai liberatori delle Marche,
inaugurato nel 18 settembre 1912 ad opera
dell’artista Vito Pardo, e l’area della battaglia
22
dove si svolsero i momenti più cruenti dello
scontro.
Sono ormai ventisette anni che Italia
Nostra grazie ad una convenzione con il comune
di Castelfidardo garantisce la gestione scientifica
e l’apertura del museo, oggi ormai il solo aperto
nelle Marche.
Anno dopo anno, Italia Nostra e
l’Amministrazione comunale, in perfetta
comunione d’intenti e sinergia, hanno continuato
nell’opera meritoria di mantenere nei giovani
la memoria di quell’avvenimento storico così
importante per la nostra regione, per l’Italia e
per il mondo. Frequentemente da ogni parte del
STORIA
globo, discendenti dei soldati che combatterono
la battaglia sono venuti a visitare la nostra città.
Le commemorazioni della battaglia, i
raduni di bande storiche militari, con interessanti
programmi di iniziative collaterali, hanno
contraddistinto gli ultimi quattro lustri. Dalla
costituzione del museo, ogni anno si sono tenuti
convegni storici a cui hanno partecipato insigni
professori universitari, esperti e studiosi di
cose militari, responsabili di musei ed eminenti
autorità civili e religiose.
Grazie all’aiuto del Comune di
Castelfidardo, della provincia di Ancona e della
regione Marche, l’Associazione Italia Nostra ha
anche promosso altri eventi scientifici e culturali:
convegni, conferenze e pubblicazioni a carattere
scientifico a tutela della selva di Castelfidardo,
dove si è prevalentemente svolta la battaglia, ma
che è anche area floristica protetta dalla Regione
Marche e Sito di Interesse Comunitario (SIC).
Oltre
a
queste
manifestazioni,
l’associazione si è fatta promotrice di una
proposta per la costituzione di un vero e
proprio Parco Storico della Battaglia, recepita
con delibera unanime dal consiglio comunale
del 19 febbraio 2005 mettendo così fine ad
una controversia durata 25 anni per tutelare i
luoghi della battaglia da insediamenti edilizi. Si
tratta di una iniziativa unica, di grande rilevanza
nazionale ed internazionale, che si può definire
un esempio di “archeologia sperimentale” e
che, comunque, risulterebbe il primo esempio
di parco storico nella regione Marche. L’intento
è quello di promuovere, dal punto di vista
culturale, l’aspetto storico-ambientale del
territorio comunale, ma anche quello dei
comuni limitrofi e della regione Marche collegati
alla battaglia di Castelfidardo, come già è stato
fatto nell’allestimento del museo risorgimentale;
calarsi nel passato per farlo rivivere e conoscere
a tutti, attraverso una tutela e una promozione
storica, il più possibile rigorose e formative.
Questa proposta è l’evoluzione coerente
di un atteggiamento di sensibilità alla tutela, alla
salvaguardia e alla promozione di un ambiente
naturale e storico che il decorrere del tempo
non ha ancora modificato sostanzialmente e che
noi abbiamo il dovere di tramandare ai nostri
figli come hanno fatto i nostri genitori con noi.
L’estensione territoriale del Parco Storico
della Battaglia di Castelfidardo coinvolgerebbe
nove comuni, e, nel solo territorio di
23
STORIA
Castelfidardo, comprenderebbe la Selva, la
collina di Monte San Pellegrino, le frazioni di
Crocette, Campanari, Acquaviva e la vallata
compresa tra i fiumi Aspio e Musone fino al
mare Adriatico toccando lembi di territorio dei
comuni di Castelfidardo, Loreto, Porto Recanati,
Numana, Recanati, Osimo, Camerano, Sirolo,
Ancona zona Monte Conero.
Nella prima fase, considerando che il
comune di Castelfidardo, il 19 febbraio 2005,
con atto unanime del consiglio ha già deliberato
la cancellazione della previsione urbanistica dal
PRG della collina di Monte San Pellegrino, si
potrà procedere alla costituzione del Parco
Storico Ambientale, che, per ora, comprenderà
il territorio di Castelfidardo, ma che prevede
l’inserimento di quelli dei comuni limitrofi in
tempi successivi.
Parchi storici, sentieri e itinerari storico
turistici.
Mentre a tutti è sostanzialmente noto che
cosa sia un parco naturalistico, meno conosciute
sono l’esistenza e la natura dei parchi storici.
Nella regione Marche sono istituititi e operanti
i seguenti parchi naturalistici (alcuni dei quali
24
a carattere interregionale) e riserve, operanti
anche a seguito del Piano Paesistico Ambientale
Regionale (PPAR) L.R.43/1985, della L.R. 26/1987
e D.A.197/1989: il Parco Nazionale del Gran
Sasso e dei Monti della Laga, il Parco Nazionale
dei Monti Sibillini, il Parco del Monte Conero,
il Parco Gola della Rossa e Frasassi, il Parco
del Monte San Bartolo, il Parco Sasso Simone e
Simoncello, le Riserve statali Abbadia di Fiastra,
Gola del Furlo e Montagna di Torricchio; le
oltre cento aree floristiche protette e le quindici
foreste demaniali.
“Parco Storico” in senso più proprio
e specifico, sta ad indicare aree circoscritte,
strettamente collegate ad eventi storici, spesso di
carattere militare, verificatisi su un dato territorio
- urbano o extraurbano - dei quali si siano
conservati sia resti i monumentali (ad esempio
edifici, fortificazioni, trincee, fossati, strade, torri,
gallerie, monumenti funerari, cippi, armi di
vario genere, arredi ed equipaggiamenti militari
venuti alla luce casualmente o dissotterrati nel
corso di scavi e di lavori campestri), sia fonti
letterarie (cronache, diari dei corpi militari,
registri dei comandanti, schemi di battaglie,
ordini di guerra, piante e cartine militari,
STORIA
rapporti degli stati maggiori). In questo senso
l’espressione Parco Storico è relativamente
recente e praticamente entrata nell’uso dopo la
seconda guerra mondiale.
In effetti in Italia non si hanno ancora
molti esempi di Parchi storici di questo genere,
a differenza di altri paesi europei dove invece
sono stati istituiti diversi e importanti parchi
storici. Basta citare il Parco Storico della
Battaglia di Waterloo, nel Belgio meridionale,
che si estende nei vari comuni ove si svolse
la famosa battaglia; con molti luoghi simbolo,
arricchiti da musei, monumenti, cimeli, murales
e manifestazioni di ricostruzione storica. Ma si
potrebbero segnalare altri parchi che stanno a
metà fra parco propriamente storico e parco
demo-etno-antropologico: il Vikingeskibsallen,
cioè il Museo delle navi vichinghe, sorto
recentemente in riva al Fiordo di Roskilde in
Danimarca, ove sono state ricomposte alcune
navi da carico e da guerra affondate verso il 1000
e riportate alla luce intorno al 1960; oppure il
Norks Folkemuseum di Oslo, interessante parco
ove è ricostruito un antico villaggio norvegese
con oltre 150 costruzioni in legno del ‘7/800.
Anche l’Archeon in Olanda che ha ricostruito
gli ambienti di tre epoche: preistorica, romana e
medievale, fatte rivivere con l’aiuto di figuranti.
Dello stesso genere uno dei pochi esempi in
Italia, di recente istituzione, l’Archeopark di
Darfo Boario Terme che riguarda il periodo
dall’Età della Pietra a quella del Ferro; un parcolaboratorio interattivo per rivivere la preistoria.
Si tratta di parchi nati nel secondo dopoguerra,
per riscoprire e valorizzare gli aspetti più antichi
della storia e della civiltà locale, ma anche con
scopi turistici, e non per nulla essi sono meta
di molti visitatori provenienti da tutta Europa
e costituiscono una risorsa per gli abitanti del
luogo e il territorio che li ospita e li conserva.
Affini ai Parchi storici sono gli “Itinerari
e Sentieri storici”, che sono stati negli ultimi
trent’anni riscoperti e attrezzati soprattutto
nei luoghi dove si combatté nel 1915-1918 la
prima guerra mondiale. Italiani ed austriaci per
difendersi dalle insidie dell’alta montagna e da
quelle non meno gravi della guerra di posizione
e di trincea, scavarono lungo le Alpi e soprattutto
sulle Dolomiti, un sistema di camminamenti,
caverne, cunicoli, appostamenti, ricoveri,
caserme che costituiscono delle vere opere di
ingegneria militare. Oggi questi luoghi, allora
teatro di sanguinose battaglie, sono diventati
rifugi, itinerari attrezzati, sentieri; cioè attrattive
turistiche, ma soprattutto uno strumento di pace,
di comunicazione e di fraternità fra le popolazioni
di Paesi diversi, senza più frontiere fatte di filo
spinato e di appostamenti di morte. Le Dolomiti,
le Tre Cime di Lavaredo, la Marmolada, le Tofane
offrono ormai in grandissima quantità sentieri
storici, come la “Strada degli Alpini”, intagliata
dai soldati italiani sulle pareti verticali di Cima
Undici. Non meno suggestivi sono i sentieri
che ripercorrono le vicende della guerra sulle
montagne del Pasubio, come le fortificazioni
di Cima Palòn, o la strada delle gallerie che
comprende ben 51 cunicoli, il più lungo dei
quali misura 370 metri.
Del resto non ci sono solo quelli della
Grande Guerra tra i sentieri storici; ci sono quelli
napoleonici nelle Alpi Occidentali, la strada
del Sempione, fatta ricostruire da Napoleone e
strade ancora più antiche, come la Strada Priula,
costruita verso la fine del Cinquecento da Alvise
Priuli, che partendo dalle Valli bergamasche
giungeva sino in Valtellina. Frequentata
specialmente da mercanti svizzeri, era la strada
che metteva in comunicazione la Repubblica
Veneta con il Centro Europa. Rimasta immune
dalla cementificazione e dall’asfalto, è oggi
un lungo e difficile, ma interessante sentiero
escursionistico e una testimonianza dell’incontro
fra due culture a Sud e a Nord delle Alpi.
Parchi e itinerari storici della seconda
guerra mondiale sono stati realizzati anche in altre
località del centro e del Nord Italia, specialmente
laddove si sono verificati episodi a volte eroici
a volte particolarmente tragici e dolorosi per le
popolazioni locali. Per quanto riguarda l’epoca
più vicina a noi potremmo ricordare il Parco
e Museo storico della Linea Gotica, aperto nel
comune di Auditore, in provincia di Pesaro
Urbino, allo scopo di documentare il passaggio
del fronte nella zona dell’alto pesarese durante
la seconda guerra mondiale. Esso comprende
anche un parco dove sono erette fortificazioni e
collocati mezzi militari; vi si svolge anche attività
didattica con visite guidate.
In Italia i parchi storici più conosciuti
sono quelli a carattere archeologico, dei quali
si hanno numerosi esempi nelle Marche; a
seguito della L.R. 16/1994 e D.A. 206/1998,
25
STORIA
sono funzionanti i seguenti Parchi archeologici:
Fossombrone, Castellone di Suasa, Sassoferrato,
San Severino Marche, Urbisaglia, Falerone e
Cupramarittima. Sono state poi individuate varie
“aree archeologiche”: 4 in provincia di Pesaro
Urbino, 8 in provincia di Ancona, 9 in provincia
di Macerata e 1 in provincia di Ascoli Piceno;
definito inoltre l’antico sistema viario della via
consolare Flaminia, da Fano a Cantiano, e della
via consolare Salaria, da Ascoli Piceno a Arquata
del Tronto. Il Parco Archeologico di Urbs Salvia
è certamente fra i più spettacolari delle Marche;
il percorso della visita si snoda per circa un
chilometro e consente di cogliere nella sua
interezza i monumenti principali tipici di una
antica città romana: il Serbatoio dell’Acquedotto,
il Teatro e il sottostante edificio a Nicchioni;
l’area sacra comprendente il grande Tempio con
criptoportico, la cinta muraria, l’Anfiteatro.
E’ bene ricordare che le citate leggi
regionali del Piano Paesistico Ambientale
Regionale prevedevano dei “Luoghi di memoria
storica”, aree ove si erano svolte battaglie tra
eserciti, da assoggettare a tutela parziale a cura
degli strumenti urbanistici generali. Esse erano
identificate nei comuni di Fermignano (battaglia
del Metauro), Sassoferrato (battaglia del Sentino)
e Serravalle del Chienti (battaglia di Colfiorito)
Altri parchi storici sono in corso di
realizzazione, come il Parco storico della
battaglia del Trasimeno, sulle rive settentrionali
del lago, ove, nel 217 avanti Cristo, Annibale
inflisse ai Romani una delle più gravi sconfitte
di tutta la seconda guerra punica, distruggendo
un esercito di circa 30.000 uomini ed il Parco
storico della Battaglia di Novara.
Qualche proposta per l’ideazione e
l’attivazione del Parco storico-ambientale a
Castelfidardo.
Ci preme intanto sottolineare che
l’iniziativa vuole avere in primo luogo uno
scopo culturale: tenere viva la memoria
storica degli eventi che si sono svolti nel
nostro territorio e promuovere una forma
sostenibile di attività economica nell’area del
parco storico-ambientale. Intenti recepiti dalla
regione Marche, che ha emanato la L.R. 09
febbraio 2010, n. 5 “Valorizzazione dei luoghi
della memoria storica risorgimentale relativi
alla battaglia di Tolentino e Castelfidardo e
26
divulgazione dei relativi fatti storici”.
Il Parco vuol essere anche un contenitore
che aiuti gli studenti, i giovani, a comprendere la
storia non soltanto leggendola sulle pagine dei
libri, ma rivivendola nei luoghi dove gli eventi
si sono svolti e sono diventati Storia con la S
maiuscola; un’occasione per riflettere sul passato
e per cercare di capire il presente e, quindi,
immaginare il futuro. Nelle finalità didattiche
rientra anche far conoscere le caratteristiche
ambientali, le specialità della flora locale, delle
specie che crescono lungo il fiume; far crescere
nei giovani il rispetto per l’ambiente e per il
paesaggio, la coscienza della necessità di tutelare
l’equilibrio ecologico del nostro territorio.
Il Parco vuol essere pure uno strumento
di promozione del turismo culturale, che
sa apprezzare i monumenti del passato, il
patrimonio storico artistico delle nostre città,
ma anche i paesaggi delle nostre colline e della
costa.
E per rendere concrete queste finalità,
oltre al restauro dei monumenti e le ricerche
storiche, si è iniziato a realizzare dei percorsi
storici sui luoghi della battaglia, con opportune
tabelle e segnavia, percorsi pedonali, ciclabili e,
a breve, anche ippovie, con aree di sosta nei siti
dove si sono verificati episodi significativi della
battaglia o dove se ne conservano monumenti e
testimonianze.
Non sono mancate mostre fotografiche
e documentali, convegni ed incontri con la
popolazione dedicati alla storia risorgimentale,
approfondendo gli avvenimenti avvenuti nei
singoli comuni.
A nostro avviso va valutato anche un
profilo relativo a nuove opportunità di lavoro;
in momenti di crisi come questi, i nostri
imprenditori potrebbero attingere dagli eventi
dell’epoca risorgimentale per creare tipologie
di gadgets, riproduzioni di soldatini, di costumi
civili e militari, bandiere, gagliardetti. A tal
proposito, la Fondazione Ferretti ed il museo
del Risorgimento di Castelfidardo mettono a
disposizione libri, pubblicazioni o conferenze
che illustrano le vicende storiche voltesi nel
luogo.
Il
Parco
Storico-Ambientale
della
Battaglia di Castelfidardo è di fatto già inserito
negli itinerari e nei programmi di valorizzazione
storica e naturalistica per un’offerta turistica del
STORIA
nostro territorio, la cui valenza è sicuramente
a carattere internazionale. Le attività svolte per
il 150° della battaglia e 150° per l’Unità d’Italia
lo hanno ampiamente dimostrato facendo
registrare oltre 10.000 visitatori.
La realizzazione del DVD sulla battaglia,
presentato alla mostra internazionale del libro di
Torino e la ristampa dello “Strafforello”, ci hanno
dato chiare indicazioni che la strada intrapresa
è quella giusta. Stiamo anche inserendo il Parco
Storico della Battaglia di Castelfidardo in un sito
internet che dia il giusto valore ad un luogo
così importante, dove si determinarono le fasi
dell’evento bellico che aprì la strada all’unità
d’Italia.
Queste le prime intenzioni di un progetto
in progress aperto al contributo di idee di quanti,
comuni, province, regione o singole persone,
hanno a cuore il futuro sostenibile dell’area
vasta riconosciuta come l’area della Battaglia di
Castelfidardo.
* Eugenio Paoloni è il Presidente
della Fondazione Ferretti di Castelfidardo
(Foto tratte dal dépliant 2 dei “Quaderni
della Selva di Castelfidardo”, corredato da
foto e disegni di Daniele Carlini, Simone
Mazzieri, Giuliano Salvucci, NISI Audiovisivi
Castelfidardo)
Le cancellate degli allori
27
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28
STORIE ADRIATICHE
RUGGERO BOSCOVICH,
scienziato pontificio
di Marco Moroni
Veduta di Ragusa a metà del XVII secolo - Foto Wikipedia
UNO SCIENZIATO COSMOPOLITA; GESUITA MA, A DETTA SUA, MEZZO TURCO.
FILOSOFO, INGEGNERE, GEOGRAFO E METEOROLOGO. CON IL GENIO DELLA
MATEMATICA.
29
STORIE ADRIATICHE
L
e nostre piccole storie adriatiche questa
volta ci fanno incontrare un grande scienziato dalmata. Nato sulla sponda orientale
dell’Adriatico, Ruggero Boscovich visse tra
Roma, Rimini, Pesaro, Venezia, Milano, Parigi e
Londra, ma la sua attività lo portò anche a Vienna,
Costantinopoli, Varsavia e Cracovia.
Contemporaneo di Voltaire, Diderot e D’Alembert, il gesuita Boscovich ha raccolto fino in
fondo le sfide lanciate dagli intellettuali francesi
dell’Enciclopédie, gareggiando con i maggiori illuministi del suo tempo in discipline come la filosofia naturale, la matematica, l’ingegneria, l’ottica, la
geodesia, la meteorologia e l’idraulica. Anche da
questi pochi cenni si comprende l’importanza di
un personaggio come Ruggero Boscovich, la cui
figura è tornata alla ribalta un anno fa quando,
in occasione del terzo centenario della nascita, la
sua patria oggi in terra croata gli ha dedicato una
importante mostra.
Era nato il 18 maggio 1711 a Ragusa (l’attuale Dubrovnik) quando la città, devota a San
Biagio, portava ancora i segni del terribile terremoto che nel 1667 l’aveva quasi distrutta. Oggi Ragusa è conosciuta quasi soltanto dai cultori di storia adriatica, ma nel basso Medioevo e nella prima
età moderna la città dalmata, che controllava una
lunga fascia costiera ed era nota come Repubblica
di San Biagio, aveva svolto un ruolo economico di
grandissimo rilievo. Nel tentativo di delinearne la
particolare funzione di intermediario economico
tra l’Europa occidentale e l’Impero turco, Sergio
Anselmi ha parlato di Ragusa come di una sorta
di Hong Kong dell’Adriatico, “rispetto alla Cina di
30
allora, cioè alla Turchia”. Quando l’intera penisola balcanica era passata sotto il controllo turco, i
ragusei erano riusciti a mantenere la loro libertà
e, in cambio di un consistente tributo annuo, avevano ottenuto dal sultano Solimano il Magnifico
notevoli privilegi per i propri mercanti che, in tal
modo, erano giunti a egemonizzare i commerci
con l’Occidente delle principali città balcaniche:
da Belgrado a Sofia, da Filippopoli ad Adrianopoli.
Boscovich, dunque, era nato a Ragusa da
Nikola, ricco mercante serbo-bosniaco, e da Paola
Bettera, di famiglia bergamasca ma ormai stabilitasi
sia a Ragusa che a Nicopoli; per questo in una lettera del 1752 scherzosamente egli si firmerà come
“il mezzo turco matematico pontificio”. Seguendo
le orme del fratello maggiore, Bartolomeo, era entrato ben presto nel collegio dei gesuiti della sua
città, allora diretto da due gesuiti italiani, i padri
Storani e Capitozzi. Essendo, a giudizio dei suoi
maestri, “giovane di grande speranze”, nel 1725 fu
inviato a Roma, prima al Collegio di Sant’Andrea
delle Fratte e poi al Collegio dei gesuiti di Roma,
noto come Collegio Romano. Tornerà raramente
a Ragusa, ma con la sua città di origine manterrà
strettissimi rapporti e più volte, a Roma, a Venezia,
a Vienna o a Parigi, opererà per conto e in favore
della sua patria.
Dati gli stretti rapporti tra Ragusa e Ancona,
nel suo viaggio verso Roma il giovane Boscovich
sicuramente sbarcò nel porto dorico e poi percorse la via lauretana, che collegava il santuario della Santa Casa alla capitale dello Stato pontificio.
Nelle Marche tornò nel 1733 perché, essendosi
ammalato, fu inviato nel collegio di Fermo. L’anno seguente, però, avendo composto i suoi primi
Carmina di argomento scientifico, fu richiamato a
Roma e, pur essendo ancora studente di teologia,
gli fu affidata la cattedra di Logica e Matematica
presso il Collegio Romano.
Prima ancora di pronunciare i voti, incominciò a emergere con un gran numero di dissertazioni su questioni matematiche, astronomiche e meccaniche, che gli diedero prestigio nel
mondo scientifico romano. Nonostante la sua giovane età, nel clima di rinnovamento culturale e
scientifico promosso dal papa Benedetto XIV, nel
1744 Boscovich fu accolto nell’Arcadia e, operando nell’ambiente diplomatico vaticano, dove ebbe
modo di conoscere alcuni dei più dotti stranieri
di passaggio, iniziò a costruirsi una solida reputazione europea. Fin dagli anni Quaranta, avendo
studiato a fondo le opere di Newton e dei suoi
continuatori inglesi e francesi, si caratterizzò come
uno dei più decisi sostenitori del newtonianismo
nell’ambiente dei gesuiti romani.
Nominato insegnante di Matematica nel
Collegio Romano, si dedicò a studi di carattere fisico, matematico e astronomico nei quali, sviluppando le tesi di Newton e di Leibniz, incominciò a elaborare le idee che sarebbero poi confluite in una
STORIE ADRIATICHE
grande opera di filosofia naturale. Era divenuto socio corrispondente dell’Académie française
ed aveva acquisito una notevole
fama anche all’estero, tanto che
il re del Portogallo Giovanni V
lo invitò a partecipare alla spedizione scientifica promossa per
realizzare una nuova carta geografica del Brasile.
Boscovich era affascinato
dal problema della forma e della figura della terra, un problema tipicamente newtoniano che
implicava questioni matematiche, astronomiche e geodetiche;
in quegli anni alcuni scienziati francesi avevano organizzato
due famose spedizioni in Perù
e in Lapponia per misurare gli
archi di meridiano all’equatore
e al polo. Rifiutò l’offerta del re
del Portogallo; accettò invece il
compito di stendere la carta dei
territori pontifici, volendo approfittare di quell’incarico per
misurare l’arco di meridiano tra
Roma e Rimini.
Nell’ottobre 1750 si mise
all’opera con un altro gesuita,
il matematico irlandese Cristoforo Maire; fu un compito non
semplice che lo impegnò più di
due anni, costringendolo a percorrere ampi tratti del territorio
pontificio, in mezzo a popolazioni spesso ostili, che guardavano con sospetto quei due gesuiti muniti di strani strumenti
geodetici e temevano di avere a
che fare non con due scienziati,
ma con due maghi. Le difficoltà
maggiori Boscovich e Maire le
incontrarono nell’ultima triangolazione, quella realizzata tra la
foce dell’Ausa a Rimini, il colle
di Monteluro, posto nei pressi
di Pesaro, e il monte Carpegna;
su questo monte, infatti, a lungo non si riusciva a erigere il
segnale necessario per eseguire
i rilievi geodetici dalla base riminese e dal campanile di Monteluro. Allo stesso modo non fu
semplice la misurazione della
base della triangolazione, posta
sul litorale riminese, perché nel
novembre 1751 i due scienziati
vennero costantemente disturbati dalla pioggia e dal vento e per-
ché nei mesi seguenti le grandi
mareggiate spostarono più volte
i segnali posti sulla spiaggia. La
misurazione fu completata nel
corso del 1752, sicché fu poi
possibile realizzare la carta geografica, mentre le risultanze della spedizione furono pubblicate
a Roma nel 1755 ed ebbero così
grande risonanza che iniziative
analoghe vennero poi realizzate
in Austria, Moravia, Ungheria e
persino in Pennsylvania.
Su incarico del papa, Boscovich tornerà a Rimini nuovamente nel 1763, quando nella
città romagnola si discuteva su
come evitare il periodico insabbiamento del canale del porto.
Mentre l’agrimensore Serafino
Calindri e il medico-scienziato
locale Giovanni Bianchi erano
per la ripulitura del canale e il
prolungamento dei moli, Boscovich suggerì una soluzione
molto più drastica, ma davvero
risolutiva: lo spostamento del
fiume Marecchia e la deviazione
delle sue acque fuori dal porto.
Si preferirà dar avvio a lavori di “espurgazione” del canale
tramite una macchina in grado
di “scavare la ghiaia sott’acqua”
inventata dal Calindri, ma dopo
qualche decennio saranno necessari altri interventi per eliminare la ghiaia depositatasi nuovamente “sulla bocca del porto”.
Ormai però Boscovich,
pur mantenendo ancora stretti
legami con la sua Ragusa, ha iniziato a muoversi sull’intero scenario europeo. Nel 1758 soggiorna a lungo a Vienna e vi pubblica la sua Philosophiae naturalis
Theoria; nel 1759 è a Parigi dove
frequenta l’ambiente accademico della capitale francese; nel
1760 è in Inghilterra, dove conosce Burke e Franklin, visita l’osservatorio di Greenwich e viene
accolto come socio dalla Royal
Society di Londra; nel dicembre
1760 lascia l’Inghilterra diretto a
Costantinopoli, dove intende osservare il transito di Venere, ma
durante il viaggio visita l’Olanda, si ferma nuovamente a Vienna, passa a Venezia, poi a Corfù
e a Gallipoli di Turchia, sicché
giunge a Costantinopoli nel novembre 1761, troppo tardi per
l’osservazione di Venere. Ospitato dall’ambasciatore francese, si
trattiene nella capitale ottomana
oltre sei mesi; nel maggio 1762
riparte alla volta di Varsavia, attraversando la Bulgaria e la Moldavia, con l’intenzione di arrivare a San Pietroburgo. La guerra
in corso, però, gli consiglia di dirigersi a Cracovia e poi di nuovo
a Vienna, da dove nel settembre
1763 egli torna a Roma. Del percorso da Costantinopoli a Varsavia Boscovich tiene un “giornale
di viaggio” che poi pubblicherà
nel 1772.
Dopo il rientro in Italia
gli vengono affidate molte perizie in merito a problemi di ingegneria idraulica: il prosciugamento delle paludi pontine, la
navigabilità del Tevere, i lavori
necessari per rendere efficienti
i porti di Terracina, Savona e,
come si è detto, del porto-canale di Rimini. Nel 1764 Boscovich viene chiamato alla cattedra
di Matematica dell’università di
Pavia; intanto nello stesso anno
egli cura la costruzione dell’osservatorio astronomico di Brera.
Resta a Pavia fino al 1768, poi
passa alle Scuole Palatine di Milano. Dopo la soppressione, nel
1773, della Compagnia di Gesù
lascia di nuovo la Penisola e si
trasferisce a Parigi, in qualità di
direttore dell’Ottica navale della
marina. Tornerà in Italia soltanto
nel 1782, per trascorrervi gli ultimi anni della sua vita, dedicati
alla pubblicazione di una grande
opera di ottica e astronomia.
Grande scienziato e tipico intellettuale cosmopolita
dell’Europa del Settecento, ma
sempre legato alla sua Ragusa e
quindi figlio dell’Adriatico, Ruggero Boscovich morirà a Milano
il 13 febbraio 1787.
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PERSONAGGI
Bruno Mugellini,
la poesia del pianoforte
di Paolo Onofri
Foto del sito Weblog “I Santesi”
A CENTO ANNI DALLA SUA MORTE, BRUNO MUGELLINI NON È PIÙ UN IGNOTO SULLA BOCCA DI TUTTI,
MA UN GRANDE MAESTRO CHE LA SUA CITTÀ NATALE RICORDA E ONORA.
P
otenza Picena è la città dove il 24 Dicembre del 1871 è nato Bruno Mugellini. Il padre dott. Pio era venuto a Potenza Picena dopo aver avuto 1’incarico di
medico chirurgo della nostra città il 22/11/1870,
prove­niente da Morro d’Alba. Insieme alla moglie Maria Paganetti, figlia di Carlo, erano andati ad abitare presso il Palazzo Pierandrei, in
Piaz­za Grande n° 98 (oggi Piazza Giacomo
Matteotti), dove il giorno 24 Di­cembre 1871 alle
ore 23 è nato Bruno, Stanislao, Pierfederico, I
gnazio, Natale, Giuseppe Mugellini.
Il dott. Pio Mugellini, figlio di Bruno, era originario di Roma, ed è rimasto a Potenza Picena
fino al 1/12/1874, quando per avvicinarsi alla
sua città natale, si trasferisce a Campagnano di
Roma. Nel breve perio­do in cui il dott. Pio Mugellini insieme alla sua famiglia è stato a Potenza
Picena, ha avuto modo di partecipare alla vita
sociale e cultu­rale del nostro Paese. Infatti risulta tra i fondatori il 4/4/1874 della locale Filodrammatica, che si esibiva all’interno del Teatro
Condominiale. Dopo la sua partenza da Potenza
Picena, Bruno Mugellini non ha fatto più ritorno
nella nostra città ed è morto a Bologna il 15
Gennaio del 1912.
La nostra comunità non risulta aver partecipato
ai suoi funerali che si sono svolti a Bologna
in forma civile. Il Comune di Potenza Picena,
Sindaco il Conte Carlo Buonaccorsi, ha invece
aderito all’iniziati­va che si è svolta a Fossombrone il giorno 16 Marzo del 1913 presso il
Teatro Comunale Pietrucci, dove è stata anche
scoperta una lapide a ricordo di Bruno Mugel-
lini. Presso il nostro Archivio Storico Comunale
si trova ancora una copia del grande manifesto
dell’iniziativa. In compenso la nostra città gli
ha dedicato, intitolandolo, il suo Teatro Condominiale (oggi Comunale) il giorno 28/10/1933,
ed una via importante del Centro Storico, che in
precedenza era dedicata a Giuseppe Garibaldi
33
PERSONAGGI
(delibera della giunta Comunale del 1/8/1951, Sindaco il dott.
Nazzareno Riccobelli).
Anche nel Comune di Bologna
esiste una via dedicata al nostro grande mu­sicista. A Porto Potenza Picena è operante
dal 23 Dicembre del 2004 una
Accademia Popolare di musica
intitolata al M° Bruno Mugellini. La Cora­le S. Stefano di
Potenza Picena nelle ultime
iniziative è stata sempre accompagnata da una Orchestra
da Camera “Bruno Mugellini”,
diretta dal M° Danilo Tarquini.
Norberto Mancini gli ha dedicato note biografiche, ad
iniziare da un ar­
ticolo apparso su L’Azione Fascista del
16/12/1933, poi in “Poten­tini
Illustri” del 1950, “La mia terra”
del 1954 ed infine in “Visioni
Potentine” del 1958. Nel 1971
l’Adoap (Associazione difesa
opere d’arte potentine), diretta
dall’avvocato Silvano Mazzoni,
in occasione del primo cente-
34
nario della nascita gli ha dedicato una mostra fotografica di
Bruno Grandinetti.
Nel 1982-1983 il dott. Mauro
Mancini, per conto dell’Amministrazione Co­
munale guidata dal Sindaco Maria Magi
e con l’assessorato alla cultura
affidato a Giovanni Riccobelli, ha effettuato delle accurate ricerche sia presso il Liceo
Musicale “G.B. Martini” di Bologna, dove ha studiato Bruno
Mugellini e successivamente
insegnato ed anche diretto, sia
presso la Biblioteca Comunale
di Fossombrone, città dove il
maestro è sepolto nella tomba
di famiglia dei Ceppetelli. Nel
1990, sindaco il Prof. Leo­nardo
Melatini, in occasione della riapertura del Teatro Comunale
“Bruno Mugellini”, dopo i lavori di restauro, il dott. Mauro
Mancini ha presen­tato il suo
libro che parla sia della storia del Teatro che della vita
di Bruno Mugellini. Nel 1996
Bruno Grandinetti, in occasione dell’inaugurazione della sua
mostra fotografica “Ignoti sulla
bocca di tutti”, ha donato al
Comune di Potenza Picena un
libro di Bruno Mugellini sul
“Gran metodo teorico-pratico
per lo studio del pianoforte”.
Successivamente la Biblioteca Comunale “Carlo Cenerelli
Campana” ha acquistato altre
opere di Bruno Mugellìni, che
è possibile consultare presso i
locali del­la struttura. Nel 2000,
nei giorni 7 e 22 Gennaio,
l’Amministrazione Co­munale
guidata dal sindaco Mario Morgoni ha fatto la prima cele-
brazione ufficiale del maestro
Bruno Mugellini , che si è svolta presso il Teatro a lui intitolato, a cui ha partecipato il M° C.
Carrisi, direttore del Conservatorio “G.B. Martini” di Bologna,
e sono state eseguite opere di
Bruno Mugellini.
Anche nell’ultima pubblicazione del Comune di Potenza Picena, curata da Renza Baiocco,
con testi di Andrea Bovari, “II
fascino della storia e il profumo del mare”, del maggio del
2009, viene ricordato Bruno
Mugellini come uno dei figli
più illustri.
Citiamo infine anche l’articolo
che apparirà sul prossimo numero della rivista “Primapagina” della Banca delle Marche a
firma della giornalista Pamela Temperini di Macerata, che
ha scritto una nota biografica
di Bruno Mugellini sotto forma
di racconto letterario, molto
bello ed interes­sante, forse l’unico che ha saputo cogliere lo
spirito del grande musi­cista.
Il Comune di Potenza Picena
ha organizzato, sabato 21 Gen­
naio 2012, un Convegno Nazionale di studi , un concerto
in omaggio a Bruno Mugellini,
“La musica ritrovata”, e una serie di iniziative presso il Teatro
Comunale “Bruno Mugellini”.
Questo è stato il vero rapporto
di Potenza Picena con il grande maestro Bruno Mugellini ;
il nostro articolo vuole ricordarne sia il 140° anniversario
della nascita (Potenza Picena
24/12/1871) che il primo Centenario della morte (Bologna
15 Gennaio 1912).
PERSONAGGI
Odissea dall’INFERNO
di Janula Malizia
Foto di Truong Vinh Duc
NEI SUOI “ANNIVERSARI DALLA NON-STORIA”, NOAM CHOMSKY HA SCRITTO CHE “TUTTE LE COSE
MIGLIORI SONO CONSEGNATE ALLA NON-STORIA”. COME DIMOSTRA DUC,
PROTAGONISTA DI UNA VICENDA DI INTEGRAZIONE DI TRENT’ANNI FA.
C
he sia bello o cattivo tempo, il punto di ritrovo per chi è cresciuto a Castelfidardo è
sempre stato Porta Marina, ed è qui che la
sera del due febbraio scorso ci siamo dati
appuntamento, nel momento stesso in cui aveva iniziato a lasciare i primi segni tangibili quella lunga e
grande nevicata che sarebbe poi passata alla storia
come il nevo’ del 2012. Avevo sentito che quella era
aria di neve non appena messo il naso fuori l’uscio
di casa, e mi era subito tornato in mente un vecchio
proverbio delle nostre parti: “Candelora, Candelora
dell’inverno semo fora, se ce nengue e se ce pioe ce
ne sta quarantanove”. Avrei avuto modo nei giorni
appresso di verificare come la saggezza della nostra
gente ci avesse azzeccato ancora una volta. Ci siamo
ritrovati nel punto stabilito ed Enrico mi ha presentato il suo amico Duc. Ci siamo stretti la mano bersagliati dai fiocchi di neve e subito abbiamo deciso di
riparare al chiuso in un posto tranquillo dove poter
parlare. Ci aspettava una lunga serata di racconti da
condividere e né io né Enrico ce li volevamo lasciar
sfuggire per nessun motivo al mondo, tempesta di
neve compresa. Sapevo che tutto aveva avuto inizio
trentatré anni prima, quando Duc aveva circa dieci
anni e il mondo era ancora diviso in due blocchi, con
cortine di ferro e di bambù in un precario equilibrio
che allora sembrava destinato a durare per sempre. I
muri nel frattempo sono crollati, e nuove generazioni
di uomini e donne si sono ritrovati adulti senza avere
mai conosciuto termini come “guerra fredda”, se non
andandoli a scovare nei libri di storia. I luoghi stessi
in cui la vicenda aveva avuto inizio erano lontani,
il mar della Cina era lontano, toccava andarlo a rintracciare sulle cartine geografiche per capire bene in
che parte del mondo si trovava. Truong Vinh Duc è
nato nel Vietnam del sud quarantatrè anni fa, in una
striscia di terra devastata da decenni di occupazioni
coloniali e conflitti sanguinosi. Soltanto nel 1976 il
Sud si è ufficialmente riunificato con il Vietnam del
Nord e fu proprio in quel periodo che centinaia di
migliaia di persone, segnate da lunghe guerre e regimi autoritari, per circa un decennio, a cavallo degli
anni ottanta, ebbero come unico obiettivo quello di
andarsene a qualsiasi costo. Molti di coloro che salirono agli albori delle cronache come “boat people”
riuscirono a rifarsi una vita altrove, molti altri no e
alla stregua dei migranti di tempi più recenti sparirono in mare per sempre. Avevo tante domande
da fare a Duc su quegli anni lontani che non stavo
nella pelle, ma quando ci siamo seduti al tavolo in
quel caldo e accogliente locale, Enrico e Duc hanno incominciato subito a darsi pacche sulle spalle e
a ricordare i vecchi tempi di scuola. Erano proprio
due vecchi amici con molti ricordi in comune ed è
risaputo, quando “quelli di Castello” incominciano a
tirar fuori i migliori momenti della loro giovinezza,
c’è solo da avere pazienza ed approfittare dell’attimo
in cui riprendono un po’ di fiato per prendere finalmente la parola.
Com’era la vita nel paese che avete lasciato e
cosa vi ha spinto ad andarvene?
Chi decide di andarsene lo fa perché è costretto.
Per la mia famiglia e per tutta la gente comune era
difficile reperire qualsiasi cosa, persino i chiodi per
costruire una casa. Sapevamo che molte persone prima di noi erano riuscite a scappare via con piccoli
battelli e imbarcazioni di fortuna e sapevamo anche
che non tutti ce l’avevano fatta. I miei genitori progettarono la fuga con altre persone che, come noi,
volevano provare ad andarsene. Alla fine eravamo
in novanta e tutti insieme abbiamo racimolato i soldi
necessari per l’imbarcazione e per affrontare la navigazione, perché l’unica via possibile era il mare.
Era il 1979 quando i miei genitori, i miei sei fratelli
ed io abbiamo preso lo stretto necessario e siamo
partiti in piena notte. Di nascosto delle autorità portuali abbiamo raggiunto gli altri compagni di viaggio
sull’imbarcazione designata e preso il largo.
35
PERSONAGGI
Don Quinto con un pulmino è salito fino a Genova
per portarci a Castelfidardo, dove tutta la comunità
ci attendeva e avevano preparato una casa tutta per
noi dove potevamo finalmente ricominciare a vivere.
Dove siete sbarcati e quale è stata l’accoglienza?
Una volta in mare siamo stati presi di mira dai pirati
tailandesi che ci hanno spogliato di tutto quello che
avevamo. Ricordo che volevano portarsi via le mie
sorelle più piccole. Finalmente dopo tre giorni e tre
notti di mare aperto siamo arrivati davanti a un’isola
della Malesia. Vedevo molta gente sulla spiaggia che
cercava di dirci qualcosa. Quelle persone ci urlavano
nella nostra lingua che dovevamo affondare la nostra imbarcazione, solo così potevamo salvarci. Poi
ci spiegarono che se fossimo approdati con la nostra
imbarcazione in buono stato, le autorità malesi ci
avrebbero agganciato a una loro nave per riportarci
al largo e abbandonarci in mezzo all’oceano. Non
tutti sapevamo nuotare ma abbiamo fatto come ci
dicevano, affondato la nave e raggiunto l’isola, per
fortuna, tutti sani e salvi. Siamo finiti in un campo profughi gestito dalla Croce Rossa, le condizioni
igieniche erano pessime, ci siamo dovuti arrangiare trovando alloggi di fortuna e abbiamo mangiato
sempre lo stesso cibo: razione di riso e scatolette
che ci venivano consegnate ogni tre giorni. Mi arrangiavo come potevo durante il periodo in cui siamo
rimasti sull’isola, l’ottavo dei miei fratelli è nato durante quell’anno e quattro mesi interminabili.
Come siete arrivati in Italia?
Le persone che scappavano volevano andare tutti
negli Stati Uniti, alcuni ci riuscivano e anche in breve
tempo se avevano parenti già in America. Noi non
avevamo nessuna idea di dove fosse l’Italia, fu grazie
ad un seminarista vietnamita che studiava a Roma
che scoprimmo questa possibilità. Aveva saputo che
a Castelfidardo avevano fatto richiesta per accogliere
una famiglia, un prete che si chiamava Don Quinto
ed i suoi parrocchiani erano disponibili ad accoglierci tutti e dieci. Non avevamo intenzione di marcire
in quel campo profughi della Malesia, così ci imbarcarono su un aereo e siamo arrivati all’aeroporto di
Fiumicino nel 1980. E’ stato così che l’Italia entrò
nella nostra vita. I tre mesi nel campo profughi di
Latina mi hanno lasciato tanti brutti ricordi, abbiamo
dovuto patire molti soprusi dagli altri stranieri, alla
fila della mensa mi rimandavano sempre in fondo e
non arrivava mai il mio turno. Finalmente ci portarono a Genova dove siamo stati accolti in un convento di suore e ci seguirono con grande umanità,
ci diedero lezioni di italiano e la situazione rispetto
a Latina migliorò notevolmente. Il tre ottobre 1980
36
Come è stata l’integrazione con la comunità di
Castelfidardo?
Siamo stati accolti molto bene, ci siamo integrati perfettamente nella comunità. Nella mia famiglia tre ci
siamo convertiti al cattolicesimo e gli altri sono rimasti buddisti senza nessun problema. Io ed Enrico
ci siamo conosciuti alle scuole medie, ho sempre
potuto contare in un clima di solidarietà e di accoglienza, certamente è diverso per i migranti che
arrivano oggi. Ho avuto molti aiuti, tante persone
si sono rese disponibili per darmi una mano con lo
studio dopo la scuola e ho sempre avuto un buon
rendimento scolastico. Ho frequentato l’Istituto Tecnico Industriale di Castelfidardo e poi ho sempre
lavorato. Dapprima nell’elettronica, ma era un lavoro troppo sedentario per i miei gusti e non ci ero
portato. Così ho cambiato e da alcuni anni lavoro
come impiantista. Sono felicemente sposato da 10
anni con una ragazza di Loreto e abbiamo due figli:
Marco e Giulio.
Hai mai avuto nostalgia del paese in cui sei nato?
Nel 1993 era come se non mi sentissi realizzato così,
insieme ad una compagno di classe delle superiori
che abitava a Filottrano, il 27 luglio sono partito per
il Vietnam. Abbiamo visitato i posti in cui ero nato
e siamo andati anche nel Nord. Ma ho capito che
l’idea che mi ero fatto del paese delle mie origini
non corrispondeva alla realtà e ciò che ero diventato
c’aveva poco a che fare. Dopo ci sono ritornato nel
2002 con mia moglie in viaggio di nozze.
Che cosa pensi delle migrazioni di oggi?
Come ho già detto, chi abbandona la propria terra
lo fa perché è costretto. Oggi le cose sono cambiate
rispetto ai tempi in cui siamo arrivati noi, quando
il nostro arrivo è stato programmato e organizzato
dalla comunità che ci ha accolto. L’immigrazione è
sempre più massiccia e la crisi economica non aiuta,
abbiamo paura che chi arriva può portarci via il posto di lavoro.
Si è fatto tardi e la neve cade sempre più fitta. Usciamo dal locale e mentre ci salutiamo in mezzo ai fiocchi di neve ci raccomandiamo con Duc di fare attenzione per strada. Lui si fa una bella risata e ci dice:
“Guardate quanto è bella la neve! E pensare che la
prima volta che l’ho vista mi sono chiuso in casa per
lo spavento.”
Nella foto in alto, Duc è
accanto al papà, secondo
da destra. La bimba in
braccio alla madre è oggi
insegnante a Roma.
INCHIESTE
Il nuovo giornalismo
dei cittadini
di Emilio Pierini
IL FUTURO DELL’INFORMAZIONE È NEL WEB? ALCUNI DICONO CHE QUESTO FUTURO È GIÀ QUI
E CHE POSSIAMO COMINCIARE A DIRE ADDIO ALLA CARTA STAMPATA.
A
ll’inizio c’era solo la carta stampata. Ed il giornale classico, cartaceo, reperibile in edicola.
Lo strumento non è certo andato in pensione. Ha tuttora un suo appeal ed un discreto numero di acquirenti. Se analizziamo infatti l’informazione locale ad esempio, scopriamo che il Corriere
Adriatico, anche ai giorni d’oggi, può vantare circa 17
mila copie vendute, che per una realtà regionale non
sono poche. Ma i dati sono incontrovertibili: tutta la
carta stampata, nazionale e locale, negli ultimi tempi,
è stata interessata da un calo generalizzato di vendite.
Il motivo appare evidente: il tradizionale giornale cartaceo, da dieci anni a questa parte, ha avuto nella rete
e nell’informazione reperibile nel web a tutti i livelli,
un competitor agguerritissimo. Che non ha ovviamente fatto sconti a nessuno. La rete infatti, ha avuto il
merito non solo di generare informazione, ma anche
di fruirla, determinando, nel contempo, una profon-
da trasformazione della professione del giornalista. La
partecipazione diretta del fruitore e destinatario della
notizia all’arricchimento della stessa informazione ha
determinato un modo diverso di porre le notizie che
vengono estese grazie all’intervento interattivo dello
stesso lettore. L’informazione ne è uscita stravolta: le
persone non hanno più il bisogno di mediatori. Il cosiddetto “popolo della rete” ha imparato a comunicare,
ad informarsi, condividendo cultura e nozioni. Spesso
divertendosi e prospettando una maniera totalmente
differente di intendere il concetto di informazione. Il
mass media classico, la Tv ed il giornale cartaceo, sono
pertanto solo parzialmente riusciti a tenere il passo di
uno strumento così potente pure nel proporre notizie
e dibatterle in tempo reale. Anche a livello locale sono
nati i primi siti Internet di informazione. Che hanno
conquistato un’utenza diversa, forse più giovane, ma
comunque desiderosa di una informazione più frizzante, meno ingessata, più fruibile. Il giornale di carta deve
attendere la mattina successiva per arrivare in edicola.
Internet non ha limiti di questo tipo: la notizia viene data appena è disponibile, in un flusso continuo
ed inarrestabile che dura 24 ore su 24. Il tempo nel
web, si scioglie, fino a dilatarsi. Chi è on line non ha
orari, non ha scadenze, non si pone pertanto limiti. E
spesso interagisce con lo strumento informativo senza
il vincolo di censure preventive o limitazioni di alcun
tipo. Wikipedia, You Tube, ed i Social Network come
Facebook e Twitter sono diventati strumenti importanti
nella nostra vita quotidiana. E sono puro combustibile
del propagarsi dell’informazione perché generano il
classico effetto a catena di infinita diffusione della notizia o della nozione.
Nella nostra zona ci sono realtà di giornalismo on line
che sono molto seguite. Siti che si occupano di informazione locale tramite portali dedicati, come Il Cittadino di Recanati (www.ilcittadinodirecanati.it), Cronache
Maceratesi (www.cronachemaceratesi.it) o Vivere Civitanova (www.viverecivitanova.it). Le redazioni di questi siti giornalistici sono composte da personale molto
giovane con una straordinaria capacità di reperire informazioni sul territorio e di diramarle in tempo reale
con un buon successo di seguito. A differenza del
giornale classico infatti, il portale di informazione sul
web è spesso alimentato da quel fenomeno che viene
definito con l’appellativo di “Citizen Journalism” (letteralmente, il “giornalismo dei cittadini”). Ovvero quel37
INCHIESTE
la forma di giornalismo in cui è lo
stesso cittadino a giocare un ruolo
fondamentale nel processo di raccolta, analisi e diffusione di notizie
ed informazioni. L’intreccio delle
notizie arriva dalla gente comune.
La forza di questo giornalismo è alimentata dalla rapidità e dalla facilità
con cui la stessa utenza del sito può
raccontare o filmare o fotografare
un evento o una particolare situazione. Inviandola successivamente
tramite posta elettronica al portale
che provvede dunque a pubblicarla rendendola fruibile e godibile ai
propri lettori in tempo reale. L’evento meteorologico straordinario
che provoca conseguenze negative
ad esempio, ed i paesaggi drammaticamente affascinanti che ne
derivano (pensiamo alle recenti nevicate) viene catturato dal cittadino
comune e reso pubblico, grazie anche alla notevole potenza di mezzi
moderni quali cellulari o smartphone. E nel breve volgere di qualche
minuto rimbalza tramite link ai predetti siti internet sui social network
in una sorta di interconnessione
dalla evidente efficacia.
Un’altra funzione molto importante
nel mondo dell’informazione, viene
svolta dai blog. I blog vengono un
po’ considerati come i mezzi di informazione del futuro. E per la loro
complementarietà con i media tradizionali sono entrati in una nuova era sociale e massmediatica. I
media tradizionali rimangono certo
importanti, ma i blog possono esercitare addirittura il ruolo di osservatori critici degli stessi giornali cartacei. Succede sempre più spesso,
infatti, che le denunce proposte dai
blog vengono riprese dai giornali.
Il tono informale, personalizzato,
amichevole e penetrante dei blog
facilita il tutto favorendo un approccio più fidelizzato e confidenziale
tra lettore/fruitore e blogger/giornalista. Dietro il blog si scorge in
maniera chiara la persona e la fiducia del lettore ne viene attratta. Gli
articoli dei blog (post) sono proposti sotto forma di work in progress
e sollecitano pertanto in maniera
diretta ed efficace il contributo del
lettore che è tacitamente invitato e
tentato nel lasciare un proprio commento che arricchisce lo stesso post
e genera ulteriore discussione. I
blogger, inoltre, comunicano sotto forma di conversazioni schiette,
scevre da condizionamenti e senza
il timore di esprimere opinioni forti.
La forza dello strumento è costituita
38
pertanto da questa efficacia e dal
rapporto leale ed aperto tra blogger
e lettore. Se il dialogo tra il giornalista della carta stampata ed il suo lettore infatti è quasi sempre di natura privata (sotto forma di rapporto
epistolare riservato) il rapporto tra
blogger/giornalista e fruitore/lettore è costantemente aperto e fruibile
dalla comunità del web. Ed ha la
peculiare caratteristica di essere immediato: dalle reazioni (commenti) che seguono alla pubblicazione
di un articolo (post) in un blog, si
capisce istantaneamente se il tema
trattato è interessante o se la narrazione di un determinato argomento
è stata particolarmente apprezzata
dai lettori. Si crea dunque, conseguentemente, una fidelizzazione
spontanea tra lettore e blogger. Il
lettore ha la possibilità di seguire il
suo blog preferito quotidianamente, può valutare i contenuti pubblicati quando vuole, interagendo in
tempo reale con la disinvoltura di
questo mezzo.
A Porto Recanati ha avuto un buon
successo un blog di informazione di carattere politico, L’Argano
(www.arganoportorecanati.
blogspot.com), nato poco più di
un anno fa. In un contesto di informazione locale piuttosto stantia,
L’Argano ha saputo differenziarsi
per le tematiche proposte, spesso
non trattate dalla stampa locale e
per alcuni scoop realizzati, conquistandosi un discreto seguito. Dando voce ad una comunità del web
che sentiva fortemente il bisogno di
esprimere la propria opinione sulle
numerose problematiche che carat-
terizzano la vita politica e sociale
locale. E grazie all’efficacia dello
strumento si è aperta una via preferenziale di dialogo mediatico tra
cittadino ed istituzioni che ha fisiologicamente dato vita ad un fenomeno che potremo definire come
democrazia partecipativa del web. I
lettori, infatti, attraverso i commenti
manifestano la loro opinione, propongono iniziative, avanzano critiche molto spesso costruttive. E gli
amministratori locali o chiunque si
occupi di politica a Porto Recanati,
tramite il blog, hanno a disposizione un mezzo dove quotidianamente le varie problematiche inerenti
i vari aspetti della vita di un paese vengono analizzate e discusse.
Uno strumento, insomma, dove il
lavoro della giunta ma anche l’efficacia dell’azione politica dell’opposizione vengono costantemente
posti sotto una sorta di giudizio da
parte dei cittadini elettori. Edizioni
di giornali on line e blog, hanno
notevolmente cambiato il mondo
dell’informazione. Rendendolo più
aperto e soprattutto fruibile a tutti
i livelli ed in ogni luogo. Lo sviluppo della tecnologia, in futuro, non
potrà che accentuare questo fenomeno. Migliorando, in molti aspetti, il prodotto finale. Sempre più a
disposizione di tutti e sempre più
pratico e semplice da raggiungere.
Non sappiamo quale sarà il futuro
della carta stampata. Ma temiamo
che, in questo contesto, l’informazione on line non potrà far altro che
continuare ad eroderne consensi e
lettori.
ARTE
La rotta della bellezza
di Mauro Mazziero
IL PERCORSO ARTISTICO E UMANO DI NANDO CAROTTI,
MAESTRO, INNOVATORE E CAPITANO CORAGGIOSO.
D
al nostro primo incontro ebbi la sensazione che nel suo
aspetto vi fosse un
carattere che sfuggiva alla mia
esperienza di ragazzo di campagna. Ne ebbi la conferma
quando conobbi i suoi trascorsi
nella Marina Militare. Il passo
del marinaio è diverso da quello dell’uomo di terra, è naturalmente più sicuro, l’incedere
è più solenne come per una
necessaria conquista di stabilità. Nando Carotti ha acquisito
molto presto l’istinto del navigatore e non ha mai lasciato il
comando della sua nave. Una
naturale riservatezza ed esi-
genza di autonomia lo hanno
portato a costruire, anno dopo
anno, un suo stile personale
che, nell’insegnamento, negli
scritti e nella pittura, si caratterizza per forza e chiarezza. L’amore per le “Belle Arti” lo ha
guidato, fin da giovane, verso
una continua ricerca di bellezza e di senso. Oltre agli studi
accademici frequenta lo studio
di suo zio Virgilio Carotti, un
raffinato artista di scuola ottocentesca, da cui apprende la
tecnica del disegno accademico.
Al segno netto della matita preferisce la morbidezza del carboncino e della sanguigna, da
cui nascono i primi studi di figure e le Maternità, suo tema
ricorrente. L’elezione, per meriti artistici, nel Senato Accademico dell’A.I.A.M. (Accademia
Internazionale d’Arte Moderna
di Roma) gli offre l’opportunità
di conoscere i principali artisti
presenti sul territorio nazionale
e di promuoverne altri. Guido
Reale e Mario Catte Ravot, per
affinità artistiche ed umane, diverranno suoi amici.
La sua pittura, lasciate le prime
esperienze figurative, si nutre
delle suggestioni che gli vengono dalle lunghe chiacchierate nelle “serate romane” in cui,
con i suoi colleghi dell’Accademia, si lascia piacevolmente
trasportare da sogni e progetti.
Determinante sarà l’incontro
con il pittore Lamberto Ciavatta
di cui si considerò sempre amico e allievo. Da queste nuove
esperienze nasce una superficie pittorica più sofferta che
da corpo alle raffigurazioni di
grotte e rocce al limite dell’astrazione. L’uso personale della spatola diventa la sua firma.
Tornerà più avanti, negli anni
novanta, all’uso del pennello
con nuovi soggetti legati alla
storia e alla mitologia.
La figurazione, nel suo emerge39
ARTE
re dalla materia viva e informe
creata ancora con la spatola,
mantiene una fluidità che nei
corpi, ma anche nei paesaggi,
fa pensare alla sostanza dei
sogni, al lento affiorare di un
particolare dalla memoria. Carotti dialoga, richiama, evoca
dal suo immaginario più profondo dettagli cristallini, nuclei
brillanti che attirano a sé il colore per vestirsi di abiti provvisori, mutanti, necessari ad una
fugace apparizione. Il segreto
di questi personaggi, che affiorano dal suo interiore, emerge nelle sue Memorie quando
dialoga con la Madonna degli
abissi e “lei” risponde da dietro
la tela ancora bianca.
Non è stato facile seguire questo percorso ma, infine, credo
di aver trovato qualche appiglio nel ricordo della sue lezioni in Vico Balilla nº 1, a Potenza Picena, prima sede storica
della sua Scuola di Arti Figurative. Da dove venivano quelle
figure che sembravano sfuggire nel bianco della carta?
Un pomeriggio d’autunno si
soffermò a lungo a descrivere
il particolare colore che entrava dai vetri della finestra al
tramonto. Una luce, disse, che
era difficile da riprodurre e lo
riportava ad un’esperienza vissuta durante un suo viaggio.
Si trattava di un sogno: nel
dormiveglia un personaggio
dall’aspetto canuto lo invitava
a seguirlo su una strada bianca
e luminosa dove si inoltrarono
chiacchierando piacevolmente;
nelle ore successive, sbarcato
dalla nave e avviatosi al suo
40
lavoro fu accolto, nella città
di destinazione, da un uomo
identico a quello sognato e
anche il luogo dell’incontro
gli sembrò stranamente familiare. Ci confidò, quindi, del
suo “dialogo” con alcuni dei
personaggi dei suoi dipinti che
sovente lo “chiamavano” o lui
stesso andava a cercare nel suo
inconscio, una zona misteriosa
dove solo chi sa navigare può
inoltrarsi.
Quella sera Nando Carotti mi
ha insegnato, e lo ha fatto con
tutti coloro che lo hanno seguito, ad ascoltare e a dare corpo
al sentire. Tutta la preparazione teorica e pratica che ci aveva dato era stata la necessaria
struttura, la nostra personale
imbarcazione con la quale, ora,
dovevamo salpare. Nei suoi
ultimi dipinti, realizzati prima
che la malattia gli negasse l’uso
della spatola, egli descrive la
luce come elemento vitale della materia e che da essa emerge per mostrarne la sua natura
profonda.
Da laico esprime il suo senso
del sacro che non trascende il
mondo ma che è presente in
esso, l’assoluto che si manifesta attraverso forme finite o
improvvise folgorazioni che
si spandono come fuochi. La
pittura, come una pelle necessaria, ricopre ogni trama della
tela con uno strato finissimo e
senza ripensamenti, quella terra colorata mescolata all’olio di
lino che, lungamente lavorata
ed amata dalle mani di Nando Carotti, mostra infine la sua
faccia d’eternità 1.
Nando Carotti (Osimo 1922-Recanati 2005) ha servito la Patria in
divisa congedandosi col grado di
Capitano di fregata per dedicarsi
all’arte. Pittore e saggista, è stato
delegato dell’Accademia Italiana
di Arte Moderna per le Marche e
l’Umbria per la quale ha aperto
una scuola di arti figurative a Potenza Picena e Porto Recanati. Sue
opere sono in molte pinacoteche
marchigiane, nella Basilica di Loreto e a Roma. Un suo profilo più
completo è in “Portorecanatesi del
XIX e XX secolo” di Lino Palanca.
1
Nella foto: Carotti, il Card. Comastri e Lino Palanca a Palazzo Lucangeli per la presentazione del
volume “Biagio Biagetti nella sua
terra”, dello stesso Carotti (foto
dal volume “Memorie di un Maestro”)
ARTE
L’ombra di CARAVAGGIO
a cura di Sergio Beccacece - foto fornita dall’autore
C’È UN MISTERO NELLA CHIESA DEI CAPPUCCINI DI RECANATI. E RIGUARDA CARAVAGGIO. FORSE È
IL TENEBROSO MAESTRO L’AUTORE DEL QUADRO COSÌ DETTO DELLA “MADONNA DELL’INSALATA”,
MA CHE RAFFIGURA UN MOMENTO DELLA FUGA IN EGITTO DELLA SACRA FAMIGLIA. LA VICENDA
VIENE DA TEMPO SEGUITA DA SERGIO BECCACECE, MEDICO RECANATESE, APPASSIONATO DELLE
“COSE” DI CASA SUA E IN POSSESSO DI MATERIALE INTERESSANTE SULL’ARGOMENTO, CHE CI
PROPONIAMO DI PUBBLICARE NEL PROSSIMO NUMERO DE “LO SPECCHIO MAGAZINE”. INTANTO,
PER STUZZICARE L’ATTENZIONE DEI LETTORI, PROPONIAMO DUE INTERVENTI STIMOLANTI,
PRODOTTI IN UN CONVEGNO SUL DIPINTO ORGANIZZATO DAL COMUNE DI RECANATI NEL
DICEMBRE 2008. NE SONO STATI AUTORI PADRE GIUSEPPE BARTOLOZZI E IL PROF. CLAUDIO
STRINATI. IL PRIMO È UN CAPPUCCINO, STUDIOSO D’ARTE; IL SECONDO È UN FAMOSO CRITICO
D’ARTE, CHE HA RICOPERTO INCARICHI DI RILIEVO E PRESTIGIO NEL MINISTERO DEI BENI
CULTURALI ED È STATO SOPRINTENDENTE DEL POLO MUSEALE ROMANO.
41
ARTE
N
ella chiesa del convento
dei Cappuccini si conserva la bella pala d’altare maggiore del sec.
XVII raffigurante la Traslazione
della S. Casa di Loreto, e soprattutto la pala del secondo altare di
destra, capolavoro attribuibile al
Caravaggio rappresentante il “Ritorno dall’Egitto” della sacra Famiglia. “Dalla documentazione in
nostro possesso quest’opera, che
per primo nel 1912 lo studioso recanatese M. Patrizi attribuì al Caravaggio, è presente presso la chiesa dei Cappuccini di Recanati a
partire dalla fine del sec. XIX. Nel
presente dipinto la sacra Famiglia
è colta nel momento di consumare una cena frugale e l’episodio
evangelico è descritto in maniera
realistica. Uno dei due angeli che
scendono abbracciati dal cielo
porta sulla mano una palma; poiché nella tradizione iconografica
questa è generalmente collegata
al martirio come principio della
nuova vita, nel presente dipinto il tema della passione è posto
in relazione con le erbe che dal
grembo della Vergine passano nel
piatto tenuto da Gesù e che simboleggiano, con ogni probabilità,
le erbe amare con cui gli ebrei
celebravano la Pasqua. Sul piano iconologico, dunque, si può
pensare che l’artista abbia voluto
proporre, a partire dall’episodio
del ritorno della sacra Famiglia
dall’Egitto, che Gesù è la nuova
Pasqua, infatti non è la Vergine
che tiene il piatto con le erbe da
preparare per la cena ma è Gesù,
poiché è lui che deve consumare
le erbe amare, cioè bere il calice
della passione redentrice. Se il
tema del ritorno dall’Egitto aveva
qualche raro precedente nella storia dell’arte, l’inserimento del tema
della passione in questo soggetto
sembra assolutamente originale
e forse è da collegare alla committenza: i Cappuccini infatti, fin
dai primordi della riforma, manifestarono particolare devozione
verso questo tema. Come nella
42
Madonna dei Palafrenieri (Galleria Borghese), la Vergine è particolarmente inserita nel mistero
della Redenzione poiché il tema
delle erbe (passione) congiunge
intimamente la Madre col Figlio.
Se l’opera è effettivamente del Caravaggio, l’ipotesi più probabile
è che provenga dal convento di
Tolentino. Secondo la lettera di
Lancillotto Maurutio del gennaio
del 1604, il “pittore eccellentissimo et di molto valore” Caravaggio
si troverebbe a Tolentino per eseguire la pala dell’altar maggiore
della chiesa dei Cappuccini. Dal
soppresso convento di Tolentino
(1866) sarebbe passata a quello
di Recanati fra il 1886 e il 1898,
anno in cui è segnalata per la prima volta dallo Spezioli nella sua
Guida storica di Rececanti (P. Giuseppe Bartolozzi).
“La grande pala d’ altare, la cui
qualità e potenza espressiva è
indiscutibile, è del Caravaggio?
Che il quadro sia “caravaggesco”
e che sia di altissima qualità non
vi sono dubbi. Stiamo discutendo, in ogni caso, di un capolavoro memorabile. L’ impostazione
della pala di Recanati è densa e
complessa sotto il profilo iconologico ma piuttosto classica sotto
il profilo iconografico. Il gruppo
della Madonna, il Bambino e s.
Giuseppe è ben collegato. La figura della Vergine giganteggia
sotto il duplice profilo disegnativo e cromatico, il s. Giuseppe
appare meno approfondito ma è
icastico e essenziale; i rari brani
di Natura Morta sono bellissimi e
l’ insieme dell’ opera colpisce per
la sua bellezza. Anche la zona in
alto è molto evidente e densa di
contrasti luce e ombra. L’ aspetto
narrativo è sviluppato come meglio non si potrebbe. I colori sono
proprio quelli caravaggeschi con
una punta, mi verrebbe da dire, di
classicismo quasi carraccesco per
l’ evidenza nobilissima delle forme e l’ attenzione scrupolosa alla
descrizione dell’ambiente. Anche
questo elemento non disdice al
Caravaggio che fu apprezzato da
Annibale Carracci e a sua volta
guardò con attenzione ai primi
esiti del classicismo carraccesco a
Roma. Il quadro di Recanati potrebbe essere collegato con la
committenza di Mons. Pandolfo
Pucci che ospitò il giovane Caravaggio all’esordio della sua attività a Roma e per il quale l’artista
fece, come afferma il Mancini,
“copie di devotione che sono in
Recanati”? Tale tesi risulta difficile
da sostenere: il quadro non è una
“copia di devozione” ma è opera
originalissima e personalissima,
chiunque ne sia l’ autore. Ha una
freschezza di stesura e una efficacia espressiva che mai potrebbe
far pensare a una copia. Inoltre è
grande mentre le copie di devozione è lecito pensare che fossero
dei quadretti, ripresi da qualche
celebre prototipo che però non
conosciamo, appunto di devozione e quindi riservati allo spazio
della casa o, al più, della sacrestia,
ma senza la pretesa di avere una
grande e potente presenza nello
spazio. La pala di Recanati, invece, questa potenza ce l’ ha. Inoltre
l’ impostazione stilistica complessiva della pala di Recanati fa pensare a un’ opera matura di un maestro maturo. Intanto c’è la grande
sapienza teologico e iconologica
che vi è sottesa, così ben dimostrata dall’ esegesi del p. Giuseppe Bartolozzi; poi c’è una maturità
del segno e del colore che fanno
pensare a un maestro sperimentato. Dunque, Caravaggio dipinse
questo quadro durante il breve
periodo marchigiano che cade ormai nella sua maturità? E’ impossibile dirlo in mancanza di documenti più decisivi. Ne concludo
che gli elementi per avvicinare
questa somma opera all’ arte del
Caravaggio ci sono ma l’ attribuzione non può essere proposta
con certezza assoluta; importante
è avere reinserito nel circuito degli alti studi questo autentico capolavoro” (Prof. Claudio Strinati)
LETTERATURA
TRANSTRÖMER
poeta del silenzio
di Luciana Interlenghi
IL PREMIO NOBEL DEVE LA SUA FAMA IN ITALIA AL CENTRO MONDIALE DELLA POESIA DI RECANATI,
UN’INVENZIONE DI FRANCO FOSCHI DEL QUALE SCOPRIAMO, SEMPRE DI PIÙ,
LA SINGOLARE PREVEGGENZA.
N
on di rado mi coglie il
desiderio di riascoltare
qualche
vecchio
disco in vinile con
un impianto hi-fi degli anni ’70
perfettamente funzionante e che,
per questo motivo e non solo,
non ho mai riposto in soffitta.
“La voce del silenzio” di Mogol e
Limiti giunge gracchiando con le
note infinite di Mina.
“… ci sono cose nel silenzio che
non m’aspettavo mai…”. Proprio
vero! Nel silenzio tutti i suoni, le
vibrazioni, i segnali, così come
nel bianco sono racchiusi tutti
i colori dello spettro. Il silenzio
restituisce ciò che contiene.
Tomas Tranströmer, - si legge
nel quotidiano La Voce - Nobel
per la letteratura è un poeta
che al silenzio si unisce in una
simbiosi sottile, consegnando al
lettore parole scritte di grande
intensità. Nato il 15 aprile 1931
a Stoccolma è considerato il
maggior poeta svedese vivente.
La sua opera si colloca tra
modernismo,
espressionismo
e surrealismo. L’Accademia gli
ha assegnato il premio perché
“attraverso le sue immagini dense,
limpide, offre un nuovo accesso
alla realtà”. Il riconoscimento
arriva dopo una carriera più che
trentennale, anche grazie alla
presenza nell’Accademia di Svezia
di Kjell Espmark, critico e poeta
a sua volta, grande ammiratore
delle opere di Tranströmer da
lui definito in numerosi saggi
come lo scrittore svedese cha ha
saputo maggiormente influenzare
la letteratura internazionale. Il
premio Nobel raramente va a un
poeta. Tra gli ultimi c’erano stati
nel 1987 e nel 1996 Josip Brodskij
e Wislawa Szymborska.
“Il poeta, colpito da ictus nel 1990
- scrive la Dottoressa Donatella
Donati - è tuttavia poco noto in
Italia. Le sue opere arrivano per
la prima volta nel nostro paese
solo nel 1999 grazie all’opera di
diffusione del Centro mondiale
per la poesia Giacomo Leopardi.
Tradotto in più di quaranta
lingue, studiato nelle università di
mezzo mondo e caro soprattutto
ai poeti più giovani, è quasi un
mistero per molti italiani. Nella
collana del Centro mondiale della
Poesia di Recanati, diretta da
Mario Luzi durante la presidenza
di Franco Foschi, è uscito nel
1999 un’elegante antologia delle
sue poesie, tradotte da Giacomo
Oreglia e presentate da Stanislao
Nievo. Ricordo l’entusiasmo di
Oreglia, editore e cultore delle
opere di Tranströmer in Svezia e
suo amico personale, per questo
“poeta del silenzio”, così definito
per la malattia che gli impediva
di parlare, già allora proposto per
il Nobel. Lo riceve ora a 80 anni,
sempre in ritardo, come spesso
capita ai grandi. Oreglia aveva
43
LETTERATURA
fatto una lunga battaglia anche per il premio a Mario
Luzi, al quale, in dirittura d’arrivo, fu preferito Dario
Fo di cui qualcuno aspetta ancora il capolavoro. In
sintesi mediatica, alcune caratteristiche della poesia
di Tranströmer, psicologo, psicoterapeuta e pianista:
essenzialità semantica; una chiocciola labirintica
di pensieri, continui traslati, uso di forme e tecniche
della musica; poesia che suona da “contro immagine”
e replica della realtà; valore del silenzio, riassunto
nell’immagine del violino chiuso nella custodia.”
Stefano Salis ne Il Sole 24 ORE afferma “ … c’è
un’altra cosa che merita di essere segnalata di questo
Nobel. La giuria svedese ha un compito difficile,
forse impossibile e sicuramente sovraesposto da un
punto di vista mediatico. Dare un premio, per carità
prestigioso e importante come il Nobel, è anche, però,
fare una classifica degli scrittori (almeno così spesso
viene percepita la faccenda dal pubblico), cosa
palesemente insensata. Però, stavolta, se non altro,
la giuria ha premiato con cognizione di causa. La
letteratura (fino a quando non vincerà Bob Dylan e
a quel punto sarà un’altra cosa) è un’attività che ha
a che fare con la lingua. Se la letteratura arriva in
Svezia in traduzione, e dunque si premiano autori
in traduzione, stavolta viene premiato un autore
“in originale” e chi meglio dei letterati svedesi può
giudicare un letterato svedese? Non a caso, infatti,
Tranströmer è un poeta. Uno, cioè, che nella lingua,
nella parola trova la sua piena realizzazione.
Infine, il motivo ancora più qualificante di questa
scelta. Questo vincitore non è un poeta politico.
Non è esiliato, non contesta nessun regime, non
denuncia un bel niente, non affronta l’attualità.
Questo vincitore, insomma, è un poeta-poeta. Che
fa dell’equilibrismo linguistico (così ci dicono i suoi
I ricordi mi vedono
Una mattina di giugno quando è troppo presto
per svegliarsi ma troppo tardi per riaddormentarsi.
Devo uscire nella veranda che è satura
di ricordi, ed essi mi seguono con lo sguardo.
Non si vedono, sono fusi totalmente
con lo sfondo, perfetti camaleonti.
Sono così vicini che li sento respirare
benché il canto degli uccelli sia assordante.
44
esegeti) la sua cifra, che svela l’umano e il misterioso
grazie alla potenza della parola, che scruta l’umano
e l’eterno con l’occhio inamovibile del pensiero
poetico.”
Robert Bly, uno dei suoi traduttori in inglese,
ha scritto che le sue poesie “sono una specie di
stazione ferroviaria dove treni che arrivano da
enormi distanze restano per un istante nello stesso
spazio”. Quel che scrive, come è la grande poesia, è
anche musica. In un periodo in cui tutto è strillato
e comunicato con prepotenza, il silenzio è cosa
preziosa, da conservare e trasmettere a coloro
i quali si muovono tra confusione e fragore che
si fanno potere vivificante per personalità labili.
Educare al silenzio, alla meditazione, al far “deserto”
dentro di sé. Tranströmer ci trasmette tutto questo
nei suoi versi liberi, ispirati a viaggi in giro per il
mondo e ad esperienze intime con il suo personale
tacere che gli ha permesso di “ascoltare” altro.
“Da quando non sono più in grado di parlare scrive Tranströmer - ho scoperto nuovi aspetti della
scrittura. E ora non posso più nascondermi dietro
le chiacchiere …”. Per entrare nella poetica di
Tranströmer è necessario uscire dai rumori delle
grandi città, allontanarsi dai grandi agglomerati, là,
dove i più “tacciono d’accordo tra loro”.
Tranströmer è stato pubblicato dall’editore Crocetti
nel 1996 nell’Antologia della poesia svedese
contemporanea. Con lo stesso editore è uscito nel
2008 il volume Poesia dal silenzio e tra pochi giorni
arriverà in libreria una nuova raccolta Il grande
mistero di Haiku svedesi. “Non pensavo di poter più
sentire questa gioia”, ha raccontato alla notizia dell’
assegnazione del Nobel Monica Bladh, sua moglie.
LETTERATURA
MONALDO “VILE”?
MA VA LA’!
di Carlo Trevisani
A VOLTE ANCHE I CRITICI PIÙ RAFFINATI SI LASCIANO PRENDERE LA MANO DA SE STESSI.
E FINISCONO PER RIPRODURRE QUALCHE LUOGO COMUNE. E QUALCHE INESATTEZZA.
È SUCCESSO PURE A PIETRO CITATI CON IL BUON MONALDO?
Monaldo Leopardi e sua moglie Adelaide Antici
T
orniamo ad occuparci del “Leopardi” di Pietro Citati, per confermare il giudizio di ottimo
libro, viziato qua e là da talune incongruenze,
che ne oscurano, almeno in parte, la complessiva innegabile validità. Dopo la censura dell’infelice definizione di “banale”, infondatamente attribuita
al brano de “La ginestra” che evoca il principio di
umana solidarietà, di cui si è detto nel numero 3 de
“Lo specchio”, ci occupiamo qui di taluni non meno
azzardati giudizi, contenuti nelle primissime pagine
del libro, che riguardano la famiglia Leopardi, ed in
particolare la figura del padre del poeta, Monaldo.
Scrive Citati a pag. 3 di “..suo padre Monaldo,
nato a Recanati nel 1766 da un’antica famiglia che
risaliva, o diceva di risalire, al tredicesimo secolo”: la
gratuita malignità implicita nella frase è di tutta evidenza, quasi che la famiglia Leopardi avesse millantato
ascendenze tanto lontane, quanto non verificabili; in
realtà la famiglia Leopardi non aveva nessun bisogno
di millantare alcunché, se è vero, come è storicamente
documentato, che annovera tra i propri antenati un
Vanni, letterato e guerriero (secolo XIV°), un Pier Leopardo, reputato coltissimo (secolo XV°), un Pier Tommaso, famoso per cultura e virtù militari (secolo XV°),
un Giacomo di Vito, accademico (secolo XVII°), e un
Pier Nicolò, vescovo e poeta (secolo XVIII°). L’infelice
battuta lascia trapelare una sorta di avversione ideologica per l’ascendenza storico - nobiliare di Monaldo
e di Giacomo, trascurando di considerare che padre
e figlio non solo non avevano ripudiato una siffatta
ascendenza, ma anzi la rivendicavano orgogliosamente, tanto più che si trattava di nobiltà fondata sull’eccellenza nelle lettere e nelle armi, come tale ben più
meritevole di quella fondata sul solo censo, o sulla
mera benevolenza dei regnanti. Non meno ingiusti
sono i giudizi, ben più pesanti, che Citati riserva alla
45
LETTERATURA
figura di Monaldo Leopardi, di volta in volta definito come “protagonista di opera buffa”, “meschino e
donchisciottesco”, “un Arlecchino,
un Figaro o un Leporello, travestito da nobile: un servo furbo, vile
e scurrile, che ha abbandonato di
nascosto la sua livrea, indossando
il vestito nero e lo spadino del conte
Leopardi” (Pagg. 3 e 4).
Un’acrimonia tanto gratuita, quanto infondata, si spiega
soltanto se riportata a un pregiudizio culturale e classista: dal primo
punto di vista Monaldo è etichettato da Citati con epiteti indegni,
verosimilmente a motivo del suo
essere uomo e autore di non vacillante appartenenza e ispirazione
cattolica e conservatrice; sotto il secondo profilo, Citati non perdona a
Monaldo di essere un emblematico
rappresentante della classe aristocratica, sopravvissuto suo malgrado alla temperie rivoluzionaria, e
alla sua propaggine napoleonica.
A tutto ciò aggiungasi l’evidente
intendimento di Citati di indulgere
allo stereotipo che vuole esaltare
Giacomo, bistrattando Monaldo:
Giacomo sarebbe riuscito a sviluppare le sue potenzialità di incommensurabile genio universale,
nonostante l’esempio negativo e
la soffocante oppressione esercitati dalla figura paterna. Si tratta, in
realtà, di uno stereotipo del tutto
ideologico e fasullo, che gli scritti
di Franco Foschi hanno demolito
dalle fondamenta, tanto che oggi
si può heghelianamente affermare,
con ogni verosimiglianza, che Giacomo non sarebbe stato il Leopardi
immenso che conosciamo e amiamo, se non avesse avuto alle spalle
un padre della caratura di Monaldo.
Veramente inqualificabile è
la definizione di “..servo furbo, vile
e scurrile..”, che avrebbe incarnato
la realtà umana di Monaldo, sotto
le mentite spoglie del Conte Leopardi: si tratta di giudizi inaccettabili, anche perché sostanzialmente
falsi e formalmente ingiuriosi, che
nessuna verve di presunto critico
può incautamente adottare, senza
sconfinare nel demanio dell’insolenza gratuita e della denigrazione
fine a se stessa. A prescindere dal-
46
la contraddittorietà dei giudizi (un
attaccabrighe
“donchisciottesco”
non può, nel contempo, essere un
“vile”), Monaldo Leopardi non fu
certamente “vile”, né nell’accezione latina di “spregevole”, e meno
che mai nell’accezione corrente di
“codardo”: lo stesso libro di Citati
offre alcuni spunti atti a smentire
una simile calunniosa definizione.
Monaldo era profondamente religioso ed osservante, ma non esitava a entrare in contrasto con le gerarchie ecclesiastiche per questioni
di principio (pag. 4: il che richiedeva non poco coraggio, stante
la penetrante attitudine repressiva
della polizia e dei tribunali dello
stato pontificio). In punto di morte
Monaldo scherzava col sacerdote
che doveva somministrargli l’estrema unzione, e chiamò intorno
a sé i figli, esortandoli a imparare
“come si muore in conversazione
(pag.13); un siffatto sereno coraggio nell’affrontare il passo estremo
della morte è tutt’altro che usuale,
tanto da far pensare al discrimine adottato dall’Alfieri per discernere la grandezza dalla viltà di un
uomo: “uom, sei tu grande o vil?
Muori, e il saprai”.
Monaldo non ha mai millantato un valore militare che non
gli apparteneva:“Io non ho mai saputo neppure dove stia di casa il valore, ma anche l’animale più timido, ridotto alla disperazione, trova
un poco di ardire”: Il brano, tratto
dagli Annali (pag. 374), si riferisce
a un episodio del 1799, quando
Monaldo, appena ventiduenne, si
rifugia con la moglie, il fratello e
un domestico, in un casolare fuori
città, per sottrarsi alla condanna a
morte comminatagli dai francesi, in
quanto reo di aver accettato la carica di governatore di Recanati da
parte degli insorgenti papalini; in
tale circostanza furono nascoste tre
sciabole sotto la paglia, da usare
contro i francesi nel caso in cui il
temuto saccheggio non si fosse limitato alla “roba”, ma avesse coinvolto le “persone”.
Monaldo, in definitiva,
non era certo un eroe, ma neppure un “vile”, così come non era un
“meschino” personaggio da opera
buffa, e meno che mai un “servo”
travestito da nobile: Monaldo fu,
in realtà, un uomo del suo tempo, conservatore illuminato, il cui
connotato fondamentale fu quello
di una grande onestà intellettuale,
supportata da una non comune
vena di autoironia, che gli permise
di assurgere a una dignitosa notorietà letteraria, che travalicò i confini della Marca. Il sospetto conclusivo è che Citati si sia lasciato prendere la mano dal gusto del bello
scrivere, che lo contraddistingue, e
che l’uso improprio dell’aggettivo
“vile” sia scaturito dal desiderio di
creare ad ogni costo l’assonanza
con “scurrile”, riferito a talune volgarità contenute nei “Dialoghetti”,
con cui Monaldo si è reso in qualche modo precursore di una visione “realista” della scrittura, adeguata a talune sapidità del comune
parlare
Quanto alla caratura culturale del Monaldo autodidatta, che
Citati svilisce a sproposito, basterà
ricordare che fu il solo a non abboccare allo scherzo con cui Giacomo, nel 1826, spacciò per traduzione di un codice farfense del
trecento un “Martirio dei SS, padri
del Monte Sinai”, in realtà scritto
dallo stesso Giacomo. Monaldo
replica allo scherzo, inviando al
figlio copia di uno scritto, da lui
confezionato ad arte, circa un’antica leggenda religiosa di San Girio
francese, che afferma di aver rinvenuto in biblioteca, e che Giacomo
prende inizialmente per autentico,
scrivendo al padre che il documento “è curiosissimo, e certamente antichissimo”. Questo gustoso episodio non accredita certo l’immagine
del “dotto figlio di più dotto padre”,
scritta da Carlo Antici a commento di uno dei primi lavori di Giacomo, ma rende in qualche modo
giustizia alla effettiva consistenza
del bagaglio culturale di Monaldo,
che poteva permettersi il lusso di
duellare col figlio, già riconosciuto
filologo, nel redigere falsi documenti in linguaggio trecentesco.
LETTERATURA
UT PICTURA POESIS
Novella Torregiani
La Chiesa del Preziosissimo Sangue
DUE POESIE DI NOVELLA TORREGIANI SUL PORTO E I SIMBOLI
DI FORZA E FEDELTÀ DELLA SUA GENTE. IMPREZIOSITE, E NON
POCO, DAI DISEGNI DI LUCIANA INTERLENGHI SECONDO CHE
RICORDA ORAZIO: COSÌ NELLA PITTURA COME NELLA POESIA.
47
LETTERATURA
MARU SEGRÉTU
Sai cume
‘na ma’
granna,
pîna d’acqua......e despèrdi
e radùni...
sai maru
senza fónnu,
chiami
e ridi...e despèrdi
e radùni..
iu campu
solu
cun te,
‘óce d’amore...e despèrdi
e radùni
t’éggu ‘nco’
all’uscùru:
sempre
r’lusci...e despèrdi
e radùni
o llùcchi...
ànema trista
buuuuuuuubanàruuuuu e ròiti
e straòji
Amicu?
Sai nemìcu!
Te ‘òju be’
e te òdiu...e despèrdi
e radùni...
mistèru
sai
‘nfenìtu
de tesòri ...e despèrdi
e radùni
segrétu
cume
ell’ànema
d’ogni ômu...e despèrdi
e radùni
e ròiti
e straòj....
La Torre
48
Pescatori
Le case
TÓRA DEL PORTU
Putènte, muta
sentinèlla del cèlu,
oramài sai ‘na presènza,tu,
‘nt’el sole:
senz’arme , sai
e tu guàrdi la piazza
che giò se spanne
‘èrsu la marìna.
Sai tu ‘na mestegànza
de sole cu’ la piôa,
sai segnu sempre vivu
de ‘ita nôa,
o cara tóra
de ‘stu paèsu mia.
LETTERATURA
La VOCE che spezza
il MURO del SILENZIO
di Umberto Vicaretti*
Le passe-muraille, di Jean Marais (Paris, Montmartre)
UNA POESIA DI RENATO PIGLIACAMPO TRATTA DALLA SUA RACCOLTA
“L’ALBERO DI RAMI SENZA VENTO”. PROPONIAMO QUI (È QUANTO
LO SPAZIO A DISPOSIZIONE CI CONSENTE) LA PARTE FINALE DEL
COMMENTO DI UMBERTO VICARETTI, RAFFINATA E PUNTUALE
INTERPRETAZIONE DELL’OPERA DEL POETA “ INFATICABILE E TENACE
CERCATORE DI RISPOSTE”.
49
LETTERATURA
LA TUA VOCE
Sei passata nel respiro del vento
volo desolato sul mio mare
di te non conoscevo rotte
per queste coste antiche sovrane
(O Speranza che nel tuo nome invoco
d’aver vissuto nei silenzi un amore:
una breve stagione
un impeto di sensi
di parole scritte sulla sabbia)
Tutto è andato!
Guardo le nuvole sparire
oltre il Cònero, simbolo
di queste Marche tenaci sofferte
di poeti rapiti nei pensieri,
sul mare azzurro disteso
l’onda rievoca il tuo nome
che mai saprò nel tono di voce1
Nella terza fase della silloge, “Memorandum di
luoghi e di persone”, Renato Pigliacampo compie il
rito del ritorno, un “Nostos” in cui rivivono gli affetti
familiari, il canto per una terra amata oltre ogni
immaginazione, «Luogo d’infanzia mio proprio -,/
vitale e caro; elevando gli occhi/ il cuore ammaliato
di te./ Chi sei?//» (Le Marche al plurale regione/
ch’espande miei proibiti sogni/ (…)// A te mi dono
perché tutto è qui;/ fuggiasco mai, restato all’Avemaria»
(Con delicatezza messo in eterno sonno). E’ questa
la confessione di un amore sconfinato e di un sacro
rispetto per il luogo in cui il poeta ha piantato le
radici dell’anima, il “Topos” per eccellenza, punto
definitivo di approdo, che restituisce la serenità tanto
cercata nel suo peregrinare oltre quelle contrade
che conservano le memorie più care, i segreti e le
epifanie dell’infanzia. Qui il poeta esprime chiara la
speranza di ritrovare pace e serenità: «La solitudine
mi sarà meno penosa/ dormendo nel solco già
dissodato» negli indimenticati anni della fanciullezza
insieme alle figure dello zio e del nonno, custode
amorevole di quel nipote “imberbe” che con loro
santificava il lavoro dei campi. Netta esplode anche la
rivendicazione di un’appartenenza e di un possesso
di cui altri vorrebbero privarlo, «Già di me hanno
sentenziato/ lo sfratto dal borgo selvaggio di mare;/
sulla carta traccio indelebile messaggio/ per i figli e
nipoti generazioni future» (ibid.)
Il cerchio dunque si chiude, il viaggio volge al
termine, ma non si arrende il poeta, che ancora
conduce con determinazione la sua lotta in favore
dei compagni a lui accomunati da una drammatica
condizione esistenziale. Ancora è vivo il martirio per
50
un destino avvero: «E’ stato difficile girovagare/ per
la penisola con questo Silenzio./ Implosive grida
per l’anima assetata», e ancora senza risposta è la
domanda relativa al mistero, al senso dl vivere, al fine
dell’umana avventura: «Corpo, siamo passati./ Geo
ci assista per l’eternità/ nel groviglio metamorfico
venire/ forse ancora in questa contrada?» (Preghiera
per Geo).
Sembra l’abbandono di ogni illusione, la
consapevolezza di una solitudine cosmica che
non riceve segnali, che non trovo ascolto non solo
presso gli umani, ma neppure preso il Verbum. Nel
consuntivo finale prevale un disperato sconforto,
l’ironica amarezza per l’oblio incomprensibile, quasi
un ostracismo, cui lo condanna la “sua” terra: «Non
c’è più nessuno a cercarmi/ … / scordato dalla mia
Porto dopo il guaio/ cui per vent’anni ho donato il
Canto./ Gente comune, d’idiomatico linguaggio/ ho
sollevato all’attenzione d’Italia./ Solo ora piegato a
guardare le onde/ scopro che la vita discende al
fine» (L’ultimo giro).
ancora e sempre il silenzio, dunque, “risponde” al
poeta, certifica la fine delle illusioni, marca la distanza
siderale tra la realtà e il sogno, cala definitivamente
il sipario su ogni spiraglio di speranza e di luce:
«L’albero di ami senza vento/ su foglie essiccate nel
muto orto/ stasera chiude la storia.» (L’albero di rami
senza vento).
E’ resa totale? Sembra di sì. ne prendiamo atto, anche
se sappiamo che la tenacia di Renato Pigliacampo ha
risorse inesauribili. Siamo certi che l’orgoglioso,
indomabile, camusiano “Uomo in rivolta” che alberga
in lui troverà ancora il coraggio e la forza per tornare
(proprio lui che la natura ha beffardamente privato
del suono e della musica) a “gridare” la parola, ad
indicare la rotta, a trovare, per mezzo di un poièn
luminoso, le risposte a lungo cercate e ad esorcizzare
il silenzio.
Renato Pigliacampo, L’albero di rami senza vento,
prima edizione Gianni Luculano Editore, Pavia 2006; seconda edizione per Neftasia Editore, Pavia 2010.
* Umberto Vicaretti, è dirigente
scolastico a Luco de’ Marsi
1 Il poeta, per la disabilità uditiva,
mai riconoscerà la voce dell’amata.
Dalla silloge, L’albero di rami
senza vento, 2^ edizione Neftasia
Editore, Pavia 2010. LAVORO
Dal fiume Potenza
le verdi colline di Montarice
di Mario Mancinelli
L’EPOPEA DELLA TREBBIATURA RACCONTATA DA CHI HA VISSUTO IN PRIMA PERSONA
IL MIRACOLO PIÙ GRANDE ILLUMINATO DAL SOLE: QUELLO DEL PANE.
Un quadro di Elio Camilletti - contadino sul biroccio
T
rascorsi i mesi freddi, finalmente arrivava marzo, e con lui la primavera, quando, ricolma la
terra di fiori, le colline sembrano
riprendere vita dopo il lungo sonno invernale e la sera è illuminata dal falò di mille lucciole, che
si agitano allegre in aria. E poi,
l’estate, il periodo dell’anno che
preferisco: il caldo, il canto delle
cicale e lo svolazzare degli uccel-
li da un albero all’altro, il grano
pronto per essere raccolto. Era
giunto il tempo della trebbiatura.
Il lavoro più importante di tutto
l’anno prendeva il via in luglio. I
contadini tagliavano le spighe di
grano usando una macchina tirata
da animali, la falciatrice, la quale
operava nel terreno con coltelli a
forma di lancia, che si muovevano a mo’ di sega e lasciavano sul
terreno le spighe da raccogliere. I
contadini, subito dopo, legavano
le spighe assieme formando delle
fascine che in gergo contadino si
chiamano covi, i quali venivano
accatastati nell’aia per formare il
barcone, che aveva la forma di
una casa con tetto spiovente per
evitare infiltrazioni d’acqua.
Era un periodo di allegria e quando i bambini vedevano la grande
macchina rossa trainata da un trattore sbuffante, l’aria si riempiva di
51
LAVORO
grida festose di grandi e piccini. La trebbiatrice restava in funzione per più di un mese; infatti, finito di
trebbiare il raccolto di un contadino, si iniziava subito quello del vicino e così via, aiutandosi a vicenda.
Il lavoro giornaliero della trebbiatura durava in media dalle cinque alle quindici ore ed era molto faticoso. Si collocava la trebbiatrice parallela al barcone
e sotto la macchina si scavavano delle buche per le
ruote e si posizionavano mattoni o assi di legno per
metterla a livello con il terreno. Poi si posizionavano
i nastri trasportatori per la paglia e per la pula, cioè
la lunga cinghia di trasmissione per trasmettere il
moto dal motore del trattore alla puleggia della trebbia. Ultimati i preparativi, il capomacchina ordinava
l’accensione dei motori e l’inizio dei lavori lo dava
il motorista tramite una sirena dal suono assordante.
I contadini sopra il tetto del barcone, cominciavano
allora a inforcare i covi per passarli agli operatori, di
solito le donne, che li slegavano e li accomodavano
nel battitore spiegandoli a ventaglio per un ottimale
funzionamento del meccanismo e per evitare inceppamenti.
I chicchi venivano così divisi dal resto della spiga e
finivano sopra un setaccio che rimuoveva le impurità. Il residuo dell’operazione era asportato tramite un
ventilatore che lo convogliava direttamente al nastro
della pula. Il grano ripulito dopo il setaccio, giungeva grazie a un nastro trasportatore all’interno dei
diversi contenitori cilindrici di metallo che, girando,
lasciavano cadere il grano all’interno di una vite senza fine, che sboccava sopra degli altri contenitori per
stacciare i chicchi prima di riversarli nel sacco. La
macchina, nella parte posteriore aveva due aperture
cui si agganciavano i sacchi da riempire. Il motivo
era molto semplice: al momento che uno dei due era
pieno, si inseriva l’altro nella feritoia libera così da
eliminare eventuali tempi morti.
Una volta riempito il sacco, due uomini lo portavano fino alla bascula; lo sorreggevano con le mani
sull’apertura e con l’ausilio di un bastone alla base.
Il peso lordo ammontava a centouno chili e cinquecento grammi, cioè un quintale di peso netto più un
chilo di tara ed un abbuono di mezzo chilo poiché
durante il periodo di stoccaggio il grano tendeva ad
asciugarsi e a perdere peso. Subito dopo la pesa si
portavano i sacchi, a spalla, nel magazzino, che a
volte era solo la soffitta dell’abitazione; per raggiungerla occorreva salire anche più di venti scalini con
cento chili sulle spalle.
Di solito il padrone, o una persona di sua fiducia,
era presente per controllare il lavoro e portava con
sé amici e parenti che assistevano al tutto all’ombra,
chiacchierando e banchettando con il cibo preparato dalle mogli dei contadini. Come ho già scritto, il
trebbiare era un lavoro duro e faticoso, già a metà
52
della giornata l’aria diventava irrespirabile per l’afa e
la fitta polvere creata dagli elevatori che trasportavano paglia e pula, il sudore inzuppava gli indumenti
fino a farli incollare alla pelle e per lo sforzo ogni
muscolo del corpo sembrava sul punto di sfaldarsi. Per fortuna, a placare la stanchezza e rigenerare
il corpo e lo spirito ci pensavano fiaschi di vino e
brocche d’acqua e limone.
Il pagliaio cresceva attorno ad un palo fino a raggiungere una forma conica. Per crearlo ci voleva
esperienza e maestria, infatti la paglia che cadeva
dal nastro dell’elevatore, veniva presa con i forconi,
adagiata e pressata con i piedi girando sempre in
senso orario per dare circolarità alla costruzione che
si alzava piano piano. Da terra, una persona lo perfezionava pettinando la paglia con un lungo rastrello. Il motorista azionava di nuovo la sirena. Il lavoro
era finito, i tavoli venivano apparecchiati e durante
il pasto si servivano i piatti tipici della tradizione; tra
i più gettonati i maccheroni al sugo di papera, l’oca
arrosto e, come dolce, il ciambellone. Da bere, acqua fresca e moscatello.
Una volta ultimato il raccolto di una famiglia, si passava alla successiva aiutandosi reciprocamente. Io
abitavo a Montarice, vicino al fiume Potenza e lì partecipavano anche più di quindici famiglie e al lavoro
si univano anche gli abitanti delle vicine contrade di
Chiarino e di Santa Maria in Potenza, suggellando
così un tacito accordo che si rinnovava ogni volta
che ritornava il momento di darsi da fare, ma anche
per avere l’occasione di passare insieme momenti di
allegria e divertimento.
E ogni volta il miracolo si ripeteva: c’era pane per
tutto l’anno.
ATTIVITA’ LO SPECCHIO
La ricchezza celata
al BABEL HOTEL
di Eleonora Tiseni
NÉ SOLO UN PROBLEMA NÉ SOLO UNA RISORSA, MA LE DUE COSE INSIEME. CON LA BILANCIA, PERÒ,
DA FAR PENDERE SOPRATTUTTO SULLA SECONDA.
L
a presentazione del libro “Babel Hotel: vite
migranti nel condominio più controverso
d’Italia”, curato da Ramona Parenzan, è stata l’occasione, lo scorso venerdì 27 gennaio, per guardare con occhi diversi e da prospettive
inedite una realtà che rappresenta la più urgente
sfida della contemporaneità, non soltanto di Porto
Recanati ma della società tutta, sempre più multietnica e complessa. Stiamo parlando della sfida
dell’integrazione vera, dell’accoglienza, del concorrere insieme alla crescita e allo sviluppo economico, sociale, e culturale della nostra comunità
nazionale.
“Seguendo l’interesse per quelle che possono essere le metafore con cui descrivere il presente, noi
dell’Associazione Lo Specchio abbiamo creduto
che l’Hotel House potesse diventare immagine e
spunto per ragionare sui temi della varia umanità”:
questo ha affermato il Presidente Semplici nel suo
intervento introduttivo.
Intervallati dalla lettura dei racconti estratti dal libro, scritti da Ramona Parenzan, Clementina Sandra Ammendola, Rosana Crispim Da Costa e Dusica Sinadinovska, si sono susseguiti autorevoli e
preziosi interventi.
Ha aperto il Prof. Cristiano Maria Bellei, docente dell’Università Carlo Bo di Urbino, parlando di
“narrazioni identitarie tra differenza e indifferenza.”
Come ha spiegato Bellei, il titolo era legato alle
narrazioni perché Babel Hotel è un libro di racconti - non di teorie sociologiche o antropologiche - che tira fuori la vita che c’è dietro le persone.
Le narrazioni sono importanti perché noi siamo il
prodotto di narrazioni: quelle che gli altri fanno
di noi e quelle che noi facciamo degli altri. Esse
sono un punto centrale su cui soffermarsi, soprattutto in periodi di crisi, in cui la paura produce la
necessità di trincerarsi, di cercare certezze e punti
di riferimento, in cui non si cerca il salto in avanti
ma il salto indietro: “non so più chi sono e cerco
dietro di me qualche sentiero nel quale io possa
ritrovare delle radici.”
Secondo Bellei, troppe volte il termine differenza è
tacciato di negativismo, quando invece non è una
brutta parola, ma dipende da come la si intende
e la si interroga. La differenza, infatti, è qualcosa
che può nascere unicamente da una misurazione
comune, da un’uguaglianza, da una condivisione.
Quando guardiamo, misuriamo e interpretiamo
qualcuno dandone una definizione - che non ha
nulla a che vedere con la verità di quella persona –
a nostra volta veniamo misurati e interpretati: è un
modo per poter avere un’idea di quello che si ha
di fronte. E’ il processo di misurazione ad essere
53
ATTIVITA’ LO SPECCHIO
interessante. Perché quando si
misura qualcuno e si viene a nostra volta misurati è necessario
avere in comune lo stesso metro
di misurazione. Cosa succede:
ognuno ha la libertà di appartenere a una propria specificità,
che può trasformarsi come meglio crede, ma questa specificità
è riconosciuta dall’altro – o dagli
altri - attraverso un comune metro di misurazione.
Se la differenza nasce da un’uguaglianza e per questo ha una
valenza positiva, l’indifferenza,
al contrario, è un elemento pericoloso. Essa, infatti, nasce dal
fatto che non c’è processo comunicativo o di scambio, l’altro
è qualcosa di completamente
estraneo, una specie di extra terrestre caduto non si sa bene da
dove, e con cui non si ha niente
a che spartire.
E’ assai attuale, inoltre, quello
che Bellei ha affermato a proposito della purezza e dell’autenticità dell’identità e della cultura.
54
Entrambi, infatti, sono aspetti in
continua evoluzione e trasformazione, che nascono per confronto, per differenziazione, per
scontro, che non esistono in natura in maniera fissa, data.
Parlare di purezza della cultura o
di radici dell’italianità in un Paese come il nostro, attraversato da
millenni di migrazioni, è qualcosa di assolutamente ridicolo.
Egli, inoltre, ha definito l’Hotel
House: “una potente metafora di
un Paese che non ha il coraggio
del progetto, che ha perso l’idea
del futuro, che si è seduto su se
stesso e non produce niente che
abbia a che fare con quello che
verrà domani. Il termine Babele rende bene l’idea. Se noi non
riusciamo a governare queste
realtà e non riusciamo ad avere
una prospettiva, che può anche
essere sbagliata ma ci deve essere, la Babele è qualcosa che
prima o poi entrerà nelle case di
tutti quanti. Le società hanno bisogno di essere governate e han-
no bisogno di essere progettate,
anche sbagliando, ma ci deve
essere il coraggio della progettazione e il coraggio dell’utopia.”
Il prof. Alberto Niccoli, Presidente della Banca di Credito Cooperativo di Recanati e Colmurano,
nel suo intervento ha spiegato
che una realtà apparentemente
arida come una banca può offrire opportunità di integrazione
agli immigrati e a coloro che li
accolgono, attraverso strumenti
di microcredito e di micro finanza.
E’ fondamentale conoscere
quanto e come gli immigrati ci
stanno aiutando a risolvere i nostri problemi, e riscoprire cosa
possiamo imparare da loro.
I dati ISTAT rilevano che gli immigrati costituiscono l’8% della
popolazione, ed è figlio di immigrati un bambino su 5 che nasce
in Italia. Se non ci fosse la quota
elevata di bambini che nascono
da coppie immigrate o miste, il
tasso di natalità italiano si ridurrebbe drasticamente. Il loro contributo, inoltre, in ambito pensionistico e sanitario, inoltre, è
fondamentale.
Su 100 imprese costituite nel nostro Paese, un terzo sono create
da immigrati. Questo significa
che essi sono dotati di una forte
spinta imprenditoriale e di una
maggiore capacità di creare iniziative economiche rispetto ai
giovani italiani. Una percentuale
non irrisoria di loro possiede per sfatare un pregiudizio - diplomi elevati dal punto di vista
scolastico, e sono motivati dalla
volontà di affermarsi in un am-
ATTIVITA’ LO SPECCHIO
biente spesse volte ostile. Per
farlo iniziano attività economiche, cercano nuovi posti di lavoro, introducono innovazione,
e una banca può aiutarli a realizzarsi.
Gli italiani, dal canto loro, possono trasmettere agli immigrati
quella cultura del risparmio e
del mettere da parte i soldi - per
investirli nell’acquisto di una
casa - di cui sono da sempre i
maestri.
Secondo Niccoli, questo principio deve passare da noi agli
immigrati per scoprire insieme
le opportunità per costruire un
Paese migliore; per realizzare,
in una realtà già multiculturale e multietnica, un melting pot
sull’esempio degli Stati Uniti, un
luogo nel quale le diverse tradizioni possano convivere.
Il contributo del Prof. Gialluigi
Mondaini, docente presso il Dipartimento di Architettura della
facoltà di ingegneria dell’Università politecnica delle Marche,
ha permesso ai presenti di viaggiare nei cambiamenti avvenuti
nel modo di concepire, vivere e
organizzare le città, a loro volta riflesso, rappresentazione e
“fisicizzazione” dei cambiamenti
che sono avvenuti e che avvengono nella società.
Mondaini, riprendendo il concetto di “narrazione” introdotto
dal Prof. Bellei, ha affermato che
oggi gli spazi della città - la piazza in primis - hanno smesso di
essere “luoghi narranti”.
La città storica era piena di luoghi narranti, di spazi costruiti attraverso un continuum di storie
possibili che gli astanti potevano
vivere e attuare. La città contemporanea, l’attuale fisicizzazione
di essa, al contrario, non ha più
storie da raccontare; sempre più
difficilmente si costruiscono luoghi pubblici di incontro e sempre più, invece, si costruiscono
piccoli paradisi individuali, il più
lontano possibile dalla comunità.
La rigenerazione della città contemporanea può partire dal recupero e dallo sfruttamento della ricchezza insita in realtà periferiche complesse e degradate
dal punto di vista “fisico”, come
ad esempio lo stesso Hotel House.
Una rigenerazione, quindi, che
parte dalla riqualificazione dell’esistente, senza demolire o occupare nuovi suoli, ma recuperando lo spazio vuoto o aperto, o
manipolando il suolo quando lo
spazio viene a mancare, come
ad esempio i piani terra o l’attacco al suolo che sono spesso
in situazioni di degrado perché
occupati dalle auto o dai garage.
Occorre – secondo Mondaini –
riportare nelle periferie la multifunzionalità, potenziare i servizi
a fianco delle residenze, far diventare lo spazio degli abitanti
lo spazio della comunità; introdurre, appunto, nuove funzioni
secondo una sinergia tra pubblico e privato: spazialità commerciali, educative e ludiche per
costruire una sorta di micro città
nella città.
La scuola è il primo laboratorio
di integrazione, il luogo da cui
inizia la formazione del cittadino
di domani, dove la convivenza
delle differenze – in qualunque
modo si esprimano – è un fatto
quotidiano, non una situazione
emergenziale.
Il primo dei due interventi provenienti da questo mondo è stato quello della dirigente dell’Istituto Enrico Medi, la Prof.ssa
Daniela Boccanera, che ha illustrato il protocollo di accoglienza messo in atto dalla scuola per
realizzare un’integrazione vera e
non di facciata, “trendy”, volendo utilizzare un termine in voga
nel linguaggio giovanile.
Il protocollo necessita del dialogo e della collaborazione tra
l’alunno, la famiglia e i docenti
che compongono la commissione intercultura. Una figura centrale è, inoltre, quella del mediatore culturale, risorsa della quale
ci si può avvalere nell’ambito
del progetto ICAM – nato della
sinergia tra Regione Marche e
il Fondo europeo per l’integrazione – che aiuta a comprendere qual è stata l’esperienza e il
percorso vissuti dal ragazzo fino
a quel momento, e a superare
quello che è l’ostacolo maggiore alla comunicazione: la conoscenza della lingua. E’ sul potenziamento della conoscenza
della lingua italiana, infatti, che
vengono veicolati gli sforzi e le
risorse maggiori.
La dirigente ha evidenziato, inoltre, come gli alunni che iniziano
il loro percorso educativo dalla
scuola dell’infanzia non abbiano
problemi di integrazione e non
si sentano diversi, perché non
sono stati ancora “contaminati”
55
ATTIVITA’ LO SPECCHIO
dalla cultura adulta, non hanno
ancora avuto la possibilità di crearsi quelle griglie di valutazione
che gli adulti, appunto, usano
nel momento in cui esprimono
i loro pregiudizi. I problemi insorgono quando le sovrastrutture, le paure, e i pregiudizi, si trasmettono dai genitori ai figli. E’
anche su questo che bisogna lavorare, sulle paure dei più grandi. Un fenomeno che la scuola
si trova ad affrontare sempre più
frequentemente, è inoltre quello
dei ragazzi che arrivano ad anno
scolastico in corso, frequentano
qualche mese, poi spariscono
perché magari tornano nel paese di origine, e si ripresentano
l’anno successivo. Questo implica per la scuola riattivare il
processo di conoscenza e cercare di ricostruire quel vuoto di
apprendimento e di esperienze,
per l’alunno il dover recuperare
la socialità che aveva realizzato
in precedenza.
Intenso e coinvolgente l’intervento della Prof.ssa Bianchini,
che ha messo da parte i tecnicismi privilegiando il racconto
dell’esperienza umana e della
sfida educativa, che insieme alle
altre colleghe che si occupano di
intercultura, affronta ogni giorno
nell’ambito del progetto “Insieme è più facile”: titolo del suo
intervento e sintesi del primo
obiettivo che la scuola si pone.
Ad esso si affiancano l’obiettivo
di offrire a tutti le stesse opportunità, pur partendo da situazioni diverse, e quello della promozione della crescita e del succes56
so di ciascun alunno. I bambini
e i ragazzi stranieri, al loro ingresso a scuola, non rappresentano un problema o una risorsa,
sono semplicemente bambini
e ragazzi, che esigono risposte
serie ai loro bisogni. Accanto ai
loro doveri, al pari degli altri ragazzi hanno il diritto di essere
distratti, svogliati, o di avere il
proprio ritmo di apprendimento.
Quando viene chiesto loro cosa
vogliono fare da grandi, le loro
risposte sono uguali a quelle dei
ragazzi di Porto Recanati; per
loro l’Hotel House è casa, dove
vivono con i genitori e i fratelli,
così com’è casa la scuola, dove
vivono diverse ore della giornata
insieme ai compagni.
La professoressa ha sottolineato
come per i bambini sia naturale e spontaneo essere pronti a
conoscere, a interessarsi all’altro,
e come sia compito degli adulti
coltivare questa capacità empatica, fare in modo che non vada
persa e insegnare a riconoscere
negli altri i sentimenti, le emozioni e gli stati d’animo comuni a
tutti gli individui. Il percorso che
si compie nella scuola è faticoso
e dagli esiti diversi per ciascun
individuo, ma non c’è soddisfazione maggiore del vedere come
tra i ragazzi – di 36/40 nazionalità diverse - le cose siano molto
più semplici che fra noi grandi,
e che forse il futuro per molti di
loro sarà migliore, perché loro
sono migliori, meno diffidenti,
più spontanei e generosi. L’esperienza quotidiana dimostra e
insegna che insieme è più facile
affrontare la vita e andare avanti,
all’Hotel House come in qualsiasi altra realtà.
Ha concluso la parte “ufficiale”
degli interventi, prima dell’apertura del dibattito, il messaggio di
Diop Sek Mustafa, rappresentante delle comunità abitanti l’Hotel
House.
Le parole e il tono da lui usati
hanno rappresentato un grido di
dolore - forte e pieno di dignità
-, e allo stesso tempo una richiesta di aiuto a tutta la comunità
cittadina. Diop, e chi lui rappresentava, sentono un profondo
legame con il nostro Paese e
soprattutto con il nostro territorio, dove si sono stabiliti da tanti
anni e hanno trascorso una fetta
di vita maggiore rispetto a quella vissuta nel Paese di origine e
dove lavorano e vivono insieme
alla famiglia e ai fratelli.
Radicato è anche il legame con
l’Hotel House, che “una volta,
fino alla metà degli anni ’90 era
il condominio più bello della
Regione Marche”, nel quale vogliono vivere nella pace e nella
legalità.
Per questo chiedono aiuto alla
comunità portorecanatese, perché insieme, immigrati e italiani,
si possa cambiare e realizzare
una rinascita del condominio,
che dovrà passare attraverso la
soluzione della controversia che
si protrae da anni con l’amministratore, controversia che rappresenta una delle più rilevanti
urgenze dell’oggi.
ATTIVITA’ LO SPECCHIO
Concorso fotografico nazionale
Le MARCHE allo SPECCHIO
LA REGIONE MARCHE VISTA DAGLI OCCHI DI CHI LA VIVE.
Campagna marchigiana presa di coscienza sulla natura 1977-2000 - courtesy Simone Giacomelli
L’iniziativa
L’associazione culturale Lo Specchio, unitamente alla redazione della rivista Lo Specchio Magazine, bandisce un
concorso fotografico artistico nazionale volto a promuovere la riscoperta e la valorizzazione dei beni ambientali,
paesistici e architettonici della regione Marche.
L’iniziativa, dal titolo “Le Marche allo Specchio”, è caratterizzata dalla infinita varietà di soggetti raffigurabili,
dalla “libertà creativa” e dai mezzi e capacità tecniche
necessarie alla realizzazione delle immagini. Agli autori
selezionati saranno riservate ulteriori forme di rappresentazione delle opere fotografiche e ai vincitori saranno riconosciuti dei premi. Il vincitore assoluto vedrà la
propria immagine sulla copertina del prossimo numero
de Lo Specchio Magazine. La presentazione ed il programma delle varie attività saranno costantemente proposti e aggiornati sul sito
http://www.associazionelospecchio.it/.
I premi
Tra le immagini inviate - ad insindacabile giudizio della
Giuria Tecnica – saranno indicate 10 fotografie che saranno pubblicate dal Magazine.
Le foto vincitrici saranno poi premiate, il 10 di agosto
2012 presso i Giardini Diaz corso Matteotti, Porto Recanati, durante le manifestazioni dello Specchio Magazine
Festival 2012.
Premio speciale sarà dato all’immagine più votata dai
visitatori della pagina ufficiale dello Specchio Magazine
su Facebook , sarà possibile cliccare “mi piace” sulle foto
partecipanti , a fine concorso, la foto più votata riceverà
un premio speciale. Gli unici voti validi sono quelli dati
sulla pagina ufficiale dello Specchio Magazine.
E’ possibile esprimere la propria preferenza fino al 05
agosto 2012.
57
ATTIVITA’ LO SPECCHIO
I premi:
1° Classificato: Apparecchio fotografico digitale compatto Nikon e pubblicazione sulla copertina del prossimo numero de Lo Specchio Magazine.
2° Classificato: Libro fotografico
3° Classificato: Borsa fotografica
Dall’4° al 10° Classificato: Attestato di partecipazione e
pubblicazione.
Premio Speciale vincitore su Internet
Apparecchio fotografico digitale compatto Nikon
In caso di impossibilità, da parte dei vincitori, a ritirare
personalmente il premio, questo verrà inviato presso il
suo domicilio.
Non sono previsti in alcun caso premi in denaro.
Regolamento
· La partecipazione al Concorso è gratuita e si svolge
esclusivamente on line.
· I partecipanti sono chiamati ad inviare le opere fotografiche nel periodo compreso tra il 2 maggio 2012 ed il
15 luglio 2012 all’indirizzo di posta elettronica
[email protected].
· Ad ogni iscritto è consentita la partecipazione mediante la trasmissione di un massimo di tre immagini.
· Le fotografie, alle quali va obbligatoriamente dato un
titolo, dovranno essere inviate in formato elettronico
“.jpg” con una dimensione massima - per il lato lungo
- di 1500 px.
· L’organizzazione declina ogni responsabilità per i problemi tecnici, gli errori, le cancellazioni, il mancato funzionamento delle linee di comunicazione che dovessero
presentarsi nella trasmissione delle fotografie.
· Il partecipante, caricando le immagini, dichiara implicitamente di esserne autore e di detenerne tutti i diritti.
· Inviando le fotografie il partecipante solleva gli organizzatori da qualsiasi richiesta avanzata da terzi in relazione alla titolarità dei diritti d’autore delle fotografie e
alla violazione dei diritti delle persone rappresentate e
di ogni altro diritto connesso alle fotografie inviate.
· Le fotografie selezionate sono scelte dalla Giuria Tecnica e le sue decisioni sono insindacabili.
· La Giuria Tecnica, si riserva il diritto, a sua discrezione,
di escludere ogni immagine pervenuta che non sia in linea con i requisiti indicati nel regolamento.
· Le fotografie nelle quali compaiano persone riconoscibili devono essere necessariamente corredate da una
liberatoria alla ripresa ed alla pubblicazione firmata dai
soggetti fotografati, pena l’esclusione dal concorso.
· Inviando le fotografie il partecipante accetta il presente
Regolamento.
· Ogni informazione di carattere personale sarà utilizzata
nel rispetto delle norme a tutela della privacy.
Immagini digitali
Sono ammesse correzioni digitali in post produzione
(quali tagli, aggiustamento colori, contrasto, rimozione
macchie, ecc.) ma non manipolazioni (fotomontaggi,
uso timbro clone e quant’altro tenda ad alterare la realtà ripresa).
58
Condizioni di esclusione
Saranno escluse le opere:
· Lesive della comune decenza
· Contenente riferimenti pubblicitari, politici o riconducibili all’ambito religioso.
· Le fotografie che siano già risultate vincitrici in altri
concorsi.
La Giuria potrà altresì escludere, a suo insindacabile giudizio:
· Gli autori che tentano di orientare il voto popolare.
· Coloro che dovessero tenere un comportamento non
consono ad una leale competizione.
Pubblicazione
Inviando le fotografie il partecipante concede all’associazione culturale Lo Specchio i diritti di pubblicazione
delle stesse nell’ambito di ogni utilizzazione connessa
all’iniziativa .
L’autore dell’opera fotografica inviata alla selezione garantisce che l’opera stessa è esclusivo frutto del proprio
ingegno e che tale opera possiede i requisiti di novità e
di originalità.
L’autore cede all’associazione culturale Lo Specchio , a
titolo gratuito ed a tempo indeterminato, il diritto di riprodurre l’opera - con qualsiasi mezzo consentito dalla
tecnologia e secondo le modalità ritenute più opportune dall’associazione.
Disposizioni generali
L’organizzazione si riserva il diritto di modificare e/o abolire in ogni momento le condizioni e le procedure aventi
oggetto il presente concorso prima della data di sua conclusione. In tal caso l’organizzazione stessa provvederà a
dare adeguata comunicazione. L’associazione non assume responsabilità per qualsiasi problema o circostanza
che possa inibire lo svolgimento o la partecipazione al
presente concorso.
Il materiale inviato non è soggetto a restituzione.
Ai sensi del D.P.R. n.430 del 26.10.2001, art.6, il presente
concorso non è soggetto ad autorizzazione ministeriale.
GIURIA
Antonio Baleani - AFI Presidente
Foto Cineclub Recanati
Franco Cingolani - Socio
Aurora Foglia - Redazione Lo Specchio Magazine
Lino Palanca - Direttore Lo Specchio Magazine
Vanni Semplici - Presidente Associazione Lo Specchio
Andrea Santarelli - Responsabile Commerciale Lo
Specchio Magazine
ATTIVITA’ LO SPECCHIO
Via M o n t e s c h ia vo, 5
60030 M a io l a t i S p o n t in i, A N C ON A
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facebook.com/Manas.Shoes
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59
ASSOCIAZIONE CULTURALE
LO SPECCHIO
Nell’ambito dello
SPECCHIO MAGAZINE FESTIVAL 2012
presenta
DIALOGHI IN CORSO
Rassegna di presentazioni librarie a cura di Scriptorama
28 aprile 2012 ore 17,30
Meglio che noi stessi. Narrare il consumo al tempo della crisi
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12 maggio 2012 ore 17,30
Un fatto umano
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19 maggio 2012 ore 17,30
Guida al corpo della donna
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Specchio Magazine Festival winter #1
DIALOGHI in corso
di Vanni Semplici
I
ncontro, confronto, dibattito. L’Associazione Lo Specchio continua a proporre
momenti di riflessione sulla
contemporaneità. Dopo il successo della rassegna estiva, anche la stagione invernale offre
l’occasione per rivolgere uno
sguardo a questioni “scottanti” che fanno parte della nostra
agenda sociale con giornalisti,
scrittori ed esperti. “Lo Specchio Magazine Festival winter
I edizione”, si presenta al pubblico con un calendario di tre
appuntamenti da non perdere,
curati dall’agenzia di consulenze
editoriali Scriptorama, per parlare della crisi, di legalità e di parità tra sessi ed emancipazione.
Il Festival si apre il 28 aprile con
il Professor Gian Paolo Parenti,
che parlerà dell’attuale crisi economica alla luce delle teorie e
degli studi raccolti nel volume
“Meglio che noi stessi. Narrare
il consumo al tempo della crisi”.
La premessa di Parenti è che,
attraverso strumenti di storytelling, da anni le pubblicità sono
diventate delle vere e proprie
narrazioni, anche di stampo seriale, dove lo spettatore è protagonista. È questo il modo più
utilizzato dai marchi per trasmettere un’immagine forte di sé che
coinvolga anche il consumatore,
con l’ovvio fine di indurlo all’acquisto. La tesi di Parenti è che
il modo in cui percepiamo l’attuale crisi può essere legato a
strumento “terapeutico”, atto a
ridurre l’ansia e l’aggressività sociali, ridando valore alle scelte
personali.
come i marchi oggi comunicano
al pubblico: sono venute meno
le narrazioni nelle quali i consumatori si riconoscono e di cui si
percepiscono come protagonisti
in evoluzione, e il risultato è una
stasi collettiva. Parenti parlerà
della capacità dei rituali consumistici di definire chi siamo, e di
investire di valore le nostre vite,
indicandoci la direzione per il
miglioramento di noi stessi. La
comunicazione d’impresa – marketing in testa – può persino diventare, secondo Parenti, uno
Il 12 maggio si parla invece di
legalità e di due personaggi che
possono essere considerati a tutti gli effetti “eroi civili” per il coraggio con cui hanno affrontato
e combattuto le mafie, pagando
per questo con la vita. Manfredi Giffone presenterà “Un fatto
umano”, un poetico omaggio ai
magistrati Giovanni Falcone e
Paolo Borsellino, pubblicato da
Einaudi nel 2011, nel ventennale della loro morte. Il volume a
fumetti (realizzato con Fabrizio
Longo e Alessandro Parodi) racconta la loro storia e quella della
mafia siciliana e dei suoi connubi con la politica. Tra gli anni
Settanta e l’inizio dei Novanta,
Cosa Nostra è l’organizzazione
criminale più potente al mondo
e i Corleonesi di Totò Riina scatenano una guerra interna alla
mafia e contemporaneamente
lanciano un assalto frontale allo
Stato. In questo clima di violenza, nonostante tutto, un manipo-
61
Specchio Magazine Festival winter #1
lo di uomini intraprende una lotta per contrastare
la mafia e recidere i legami che l’avviluppano alle
istituzioni. Gli effetti di questa lotta si proiettano
tuttora nella vita pubblica italiana.
Terzo e ultimo appuntamento della stagione sarà
quello con il Dott. Carlo Flamigni, che insieme a
Margherita Granbassi è autore del libro “Guida al
corpo della donna dalla A alla Z”, che verrà presentato nel corso del pomeriggio del 19 maggio. Si
parlerà dunque di donne, di parità sessuale e molto di più. La premessa degli autori è che, oggi più
che mai, gli uomini cercano di esercitare il proprio
controllo sul corpo della donna: con la forza o con
mezzi più subdoli. È un tema in cui si intrecciano
pubblico e privato, politica e violenza, medicina e
psicanalisi, pubblicità e velinismo. Il libro di Flamigni e Granbassi è non solo un vademecum, ma
una lente d’ingrandimento su tutti quei comportamenti dominanti (e rimasti pressoché immutati attraverso i secoli) determinati da una società
maschilista per esercitare il controllo sulla donna
e la sua femminilità (sfera sessuale, aborto, maternità...). Ma nel libro non vengono nemmeno
risparmiati quei comportamenti femminili che attivamente incitano e assecondano la prosecuzione
di queste pratiche, tra cui l’oggettivazione del corpo operata da marketing, pubblicità e, non ultimo,
dalla politica.
Il Programma
28 aprile 2012 ore 17,30
Meglio che noi stessi. Narrare il consumo al
tempo della crisi
Gian Paolo Parenti
Chiesa di San Pietrino , Via Leopardi 9/a Recanati
Accompagnamento musicale di Antonio del Sordo
12 maggio 2012 ore 17,30
Un fatto umano
Manfredi Giffone
Palestra Diaz, Corso Matteotti Porto Recanati
Interventi musicali di Enzo Cesari Trio
19 maggio 2012 ore 17,30
Guida al corpo della donna
di Carlo Flamigni, Margherita Granbassi .
Palestra Diaz, Corso Matteotti Porto Recanati
62
RECENSIONI
La Marca geniale
di Lucia Flaùto
LO SVILUPPO DELL’IMPRENDITORIALITÀ NELL’ANCONETANO, DAL DOPOGUERRA AL 1980;
UNA FOTOGRAFIA PRECISA, FEDELE E DOCUMENTATA DI UN PERIODO IRRIPETIBILE E DELLA
STRAORDINARIA VITALITÀ DI UN DI­STRETTO.
“
Mettersi in proprio: la nascita
dell’imprenditoria diffusa nel
distretto sud di Ancona” per
i tipi di Affinità elet­tive è il risultato
di un lavoro di ricerca svolto da
Matteo Biscarini, acuto osservatore
del territorio gra­zie anche al lungo
impegno politico e amministrativo.
L’analisi abbraccia un arco temporale
che va dall’immedia­
to dopoguerra
(luglio ‘44, data della liberazione)
al 1980: attraverso i 302 registri alla
Camera di Commercio di Ancona
relativi alle iscrizioni di nuove attività
nelle città di Castelfidardo, Ca­merano,
Filottrano, Loreto, Numana, Offagna,
Osimo e Sirolo si coglie niti­damente
il fermento di quegli anni, la scintilla
di un fenomeno economico e sociale
che sfata alcuni luoghi comu­ni. Lo
sviluppo del modello industriale
deriva cioè non tanto dall’organizza­
zione mezzadrile delle campagne
marchigiane ma dall’emergere di
una classe imprenditoriale urbana
che si era andata formando nel
tempo e che ha saputo cavalcare
un momento storico particolare in
cui si sono com­binate una serie di
condizioni favore­voli attingendo
- questo sì – a quella manodopera
contadina avvezza alla fatica che
i testi di economia definiscono
”l’esercito industriale di riserva”. Il
saper fare manuale, tipico della zona,
prende ispirazione dalla esperienza
di Paolo Soprani il cui successo apre
la strada a numerosi tentativi. Passato
il fronte l’attività della produzione
delle fisarmoniche riprende con
vigore. Dopo il 1950 inizia quella
diversificazione e decentramento
produttivo che permetteranno di
superare la crisi profonda dei primi
anni ‘60. La fisarmonica crolla, ma
il patrimonio di competenza, abilità,
professionalità acquisito da chi ha
imparato a costruire le minutissime
componenti dello strumento, rimane.
La genialità, la cultura dei la­
voro,
il so­
stegno degli istituti di credito
dell’epo­
ca e quella che Biscarini
definisce una sana invidia sociale (se
ci riesci tu, ci provo anch’io) esplode
nella ricerca di nuovi settori o
nuove nicchie, una miniera, da
cui parte la scintilla della plastica,
-si deve all’osimano Vinicio Leonardi
la nascita della lavorazione della
plastica nel nostro distretto -, dei
circuiti stampati, della galvanica,
dell’elettronica, della mec­
canica
di precisione e via dicendo. E’ una
sorta di “rinascimento” di cui tutti si
sentono attori protagonisti, coinvolti
in un progetto per il futuro. E’ la
real­tà di un tessuto imprenditoriale
che si confronta sulle capacità,
inventa e mette a frutto ciò che ha
imparato ne­
gli anni precedenti. La
seconda parte del libro di Bisca­
rini, oltre alle testimonianze di
quella eccezionale generazione
di imprendi­
tori che fanno risaltare
l’elemento centrale - la creatività della
persona – contiene una ricerca sulle
dinamiche specifiche di ciascuno
degli otto comuni presi in esame.
Ogni realtà ha una storia a sé. Loreto
ha trovato l’elemento caratterizzante
nell’industria delle corone, Filottrano
in quelle dell’abbigliamento, Sirolo
e Numana nel turismo, Camerano
e Castelfidardo nelle fisarmoniche.
L’industrializzazione di Osimo ha
raccolto un po’ di ognuna di queste
specificità e ha fondato la propria
forza anche su un rapporto positivo
dell’industria con il mondo contadino.
Questo rapporto viene da lontano:
l’industria serica che metteva in stretto
contatto la produzione agricola dei
bachi da seta - arrivata a caratterizzare
anche il nostro paesaggio con le
case coloniche, con bigattiere e i
piantoni di gelsi - con la produzione
industriale delle numerose filande.
Genialità, lavoro, sacrificio, che
hanno portato l’Italia ad essere
la settima potenza industriale del
mondo. Una esperienza irripetibile 1.
Matteo Biscarini,
Mettersi in proprio,
Ancona, Affinità Elettive, 2009,
pp. 156
1 La recensione è tratta da
Il Comune di Castelfidardo,
novembre 2009.
63
RECENSIONI
OSIMO è bello
raccontato così
Lo Specchio Libri
UN ALTRO STRAORDINARIO LAVORO DI UN AUTORE BACIATO IN FRONTE DA CLIO, MUSA DELLA STORIA
L
a storia di Osimo come un
calendario illustrato; da una
parte della pagina il racconto
sintetico, una sorta di notes delle vicende della città, dall’altra le
foto e le illustrazioni delle opere e
dei giorni, e dei personaggi, che
hanno segnato il lungo cammino
della Vetus Auximon.
Mentre scriviamo, il libro si accredita, temerario, come l’ultima
opera di Massimo Morroni, ma è
probabile che il dato sia già diventato vecchio quando questa
recensione verrà pubblicata; l’autore è un inguaribile grafomane.
Ma prezioso, per tutti; un principe
della ricerca storica
E la storia, si sa, si può scriverla
in parecchi modi. Morroni ce ne
ha dato una quantità industriale di
esempi affrontando sovente argomenti ardui e spinosi, con la consapevolezza di chi sa di poter far
ricorso a un vasto patrimonio di
conoscenze assimilate e rielaborate in anni di impegno appassionato e caratterizzato da un fiuto
64
non comune per ciò che si deve
trovare e per come farlo.
Questa volta l’autore ha scelto di
offrirci un’opera di divulgazione.
Deve aver forzato non poco la
propensione alla dissezione del
fatto, all’anatomia del documento, che gli sono congeniali, quasi
una seconda natura. Ma è riuscito
nell’intento: la storia di Osimo, da
quando la città è sorta dalle acque fino al 2009 d. C., vale a dire
giusto ieri, scorre veloce come
sotto la penna di un cronista, è
resa leggibile a tutti, si percorre
senza sosta in poco tempo, senza
stancarsi.
Quel che ancora più conta, è che
la lettura provoca il desiderio di
saperne di più, di andare a spigolare approfondimenti tra i libri
indicati in bibliografia e tra quelli
della lista di opere firmate dallo
stesso Morroni.
A noi sembra che l’autore sia nel
pieno diritto di vedersi riconosciuto il merito di aver messo a disposizione di tutti, vogliamo dire
di ogni persona quale che sia il
suo grado di istruzione, una materia solitamente preda degli studiosi o degli amateurs delle cose
di storia.
Arte difficile. Quando si tratta dei
propri pari non ci si deve certo
preoccupare dell’uso di citazioni
letterarie, linguaggi specialistici
o raffinati riferimenti intellettuali; ma quando ci si rivolge a tutti,
proprio a tutti, beh, allora bisogna essere capaci di trovare un
linguaggio che vada bene per il
laureato e per chi non ha potuto finire le scuole elementari. Ed
è un’operazione che si può fare
solo se si ha autentica padronanza
della materia trattata e proposta. Il
che nel nostro caso non è proprio
in discussione.
Massimo Morroni
Immagini ed echi dalla storia
di Osimo
Osimo, Tipografia Luce, 2011,
pp. 385
RECENSIONI
Riviste della Marca
Lo Specchio Libri
LE MARCHE, REALTÀ INDEFINITA E PLURALE?
ANCHE, MA PURE CAPACI DI FARSI CONIUGARE AL SINGOLARE.
L
’Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione nelle Marche, conosciuto anche come Istituto Storia
Marche, è un laboratorio vivo di
cultura e di ricerca storica sul Novecento e non solo. L’iniziativa
editoriale di punta è il quadrimestrale “Storia e problemi contemporanei”, di cui presentiamo l’ultimo numero pubblicato, intitolato
“Riviste marchigiane” e dedicato
a periodici politico – culturali che
apparvero nel panorama culturale regionale fra gli anni conclusivi
del regime fascista e gli anni Ottanta.
Le esperienze editoriali che si
susseguirono nel corso dei vari
decenni, seppur guidati da orientamenti politici divergenti, furono
legate dal fil rouge rappresentato
dalla volontà di superare lo stereotipo che da sempre gravava sulla
nostra Regione, interpretata e giudicata come una realtà policentrica senza una fisionomia definita,
degradata e periferica, con una
cultura che era il riflesso di questa povertà. C’era l’aspirazione,
inoltre, a porre rimedio alla diaspora delle intelligenze avvenuta
nei secoli precedenti, con la creazione di un vivaio “residenziale”
che potesse entrare in relazione e
confronto con il mondo culturale
nazionale e globale.
Nel suo saggio, Valentina Baiocco ripercorre la vicenda di Davide
Lajolo, intellettuale di punta del
PCI degli anni ’50, che prima di
realizzare il fallimento e la vacuità
delle promesse del fascimo e di
convertirsi al comunismo, fu vicedirettore e animatore della rivista “Il Glauco”, mensile di cultura
della federazione fascista anconetana.
Simone Massacesi incentra il suo
contributo sulle iniziative di Enzo
Santarelli, che con “La Rassegna
marchigiana” prima e “Marche
nuove” poi propose, negli anni
Cinquanta, una lettura inedita delle tematiche legate alla cultura e
allo sviluppo economico, nel tentativo di definire i caratteri peculiari della cultura regionale, aprendosi al contributo di intellettuali
di varie provenienze ideologiche
mossi dalla volontà di “sostituire
al municipalismo il cosmopolitismo, al conformismo la libertà di
espressione, e alla cultura di pochi, la cultura di molti.”
Andrea Pongetti ci parla di due
riviste di orientamento cattolico
che accompagnarono il momento
storico che segnò la realizzazione
compiuta dell’Ente Regione, che,
seppure nato con la Costituzione
entrata in vigore nel 1948, rimase
una mera entità geografica fino al
1970, quando vennero indette le
prime elezioni dei consigli regionali.
“Marche ’70”, e “Il Marchigiano”
che ne raccolse l’eredità, svolsero un ruolo importante nella creazione di un comune sentire regionale, dando vita a un dibattito
acceso e costruttivo che voleva
inserire il “nostro” fare cultura nel
più vasto contesto metropolitano
italiano ed europeo.
Di notevole interesse, infine è il
contributo che apre la pubblicazione e precede l’introduzione
di Lidia Pupilli e Massimo Raffaeli, ovvero la relazione, chiara
e avvincente, che il Prof. Emilio
Gentile ha svolto sull’esame dei
presunti diari manoscritti di Benito Mussolini. Attraverso lo studio
delle cinque agende – dal 1935 al
1939 – e l’analisi comparativa di
documenti coevi, fondi di archivio e materiale stampa, l’esperto è
arrivato a sciogliere l’interrogativo
sulla loro autenticità.
Storia e problemi contemporanei, n.58
Quadrimestrale Istituto Storia
Marche
Bologna, Clueb, 2011
65
I weekend culturali, artistici ,
enogastronomici
Itinerari e percorsi
per conoscere le terre
dell’Infinito, un viaggio
nel cuore della regione
Marche tra arte, storia e
cultura, mare e colline,
scorci e paesaggi
sorprendenti, degustando
i tipici prodotti
enogastronomici.
L’ufficio Turismo
di Recanati, in
collaborazione con le
strutture di accoglienza
e le aziende agricole del
territorio, ha realizzato
una suggestiva offerta
turistica composta di
pacchetti vacanza “tutto
compreso”.
Un’esperienza unica
per i visitatori della
città leopardiana di
vivere ed immergersi
completamente
nell’ambiente
marchigiano.
Itinerario Piceno
Itinerario Maceratese
•
Montecosaro - Santa Maria a Piè di Chienti
•
Abbazia S.Maria di Chiaravalle di Fiastra
•
Piane di Falerone - Teatro Romano
•
Monte San Martino Azienda Agro-zootecnica
•
Belmonte Piceno - Azienda Agricola
•
Loro Piceno - Cantina del vino cotto
•
Montelparo - Azienda Agricola
•
Urbisaglia - Parco archeologico
•
Ascoli Piceno
•
Serrapetrona - Cantina di vernaccia
Per informazioni:
Ufficio IAT
tel 071.981471
www.recanatiturismo.it
TERRITORIO E TURISMO
I nuovi denominatori comuni
di sviluppo
di Andrea Santarelli
foto IAT Recanati
L’ASSESSORE AL TURISMO DI RECANATI, ARMANDO TADDEI, SUONA LA CAMPANA PER CHIAMARE A
RACCOLTA LE GRANDI ENERGIE SPARSE NEL TERRITORIO. C’È UN PROBLEMA: IL CAMPANILE.
S
postiamo un attimo l’attenzione dalla crisi economica e
dalla mole di informazioni e
preoccupazioni che i notiziari continuano ad inviarci. Proviamo
piuttosto a concentrarci su quello che
ci circonda più da vicino: la nostra
famiglia e la nostra casa, ovviamente, ma anche il nostro territorio. Di
quest’ultimo se ne parla generalmente nella sua accezione tipicamente
ambientale, ma sta acquisendo sempre più valore anche nelle tematiche
turistico-economiche. Il territorio può
rappresentare una chiave di volta su
cui sviluppare l’architrave della nostra crescita, ma non può sopportare
speculazioni ed interessi particolari,
ecco perché dal suo sfruttamento si
deve passare ad una sua valorizzazione. Questo l’argomento di discussione che abbiamo sottoposto all’Assessore al turismo di Recanati, Armando
Taddei .
Assessore, potremmo iniziare
parlando del numero di arrivi e
presenze turistiche, di percentuali e risultati ma, piuttosto, Le
propongo di partire dallo stato di
salute del nostro territorio ed il
suo peso nella qualità dell’offerta
turistica.
“Purtroppo il nostro territorio è ancora acerbo dal punto di vista turistico, c’è una grande voglia, da parte dei singoli comuni, del ‘fai da te’
piuttosto che di associazioni zonali
che danno voce a specifici interessi,
questo se da un lato dimostra una
grande vitalità del territorio, dall’altro si dissipano risorse importanti
con risultati modesti.
Abbiamo un territorio con strutture non sempre all’altezza di un turismo moderno, infrastrutture che
non facilitano certo la fruibilità
dei luoghi o la scoperta di percorsi
particolari. Inoltre, anche il turismo
costiero, nella sua stagione che raramente supera i 60gg, non riesce ad
avere le presenze di altri competitor
dell’Adriatico”.
Che tipo di sviluppo si può immaginare per il nostro territorio?
Può realmente il turismo offrire
opportunità economiche rilevanti?
“Tenendo conto della crisi dell’industria manifatturiera, che inevitabilmente diventerà crisi generale,
dovremo far leva sul turismo come
volano di crescita e di occupazione.
Abbiamo le carte in regola per poter
attirare turisti dall’Italia e dall’estero, ci sono luoghi molto belli da
vivere, abbiamo cibi,vini e oli che
non sono secondi a nessuno, inoltre
abbiamo delle bellezze storico/artistiche di grande valore e personaggi illustri che attraverso le loro arti
riescono ad arrivare nel profondo
dell’animo delle genti come pochi”.
Quali sono le attività da promuovere e gli strumenti da utilizzare
per perseguire questo nuovo tipo
67
TERRITORIO E TURISMO
di sviluppo? Come aumentare il
‘fatturato’ del turismo senza nuocere al territorio?
“Dobbiamo promuovere la nostra terra, senza scimmiottare altre realtà. Il
nostro patrimonio di persone e cose è
talmente importante e numeroso che
è sufficiente mostrare ed esibire ciò
che abbiamo. Penso anche ai percorsi
enogastronomici che si snodano tra
le nostre bellissime campagne, il turista ama vivere bene, mangiare bene,
vedere belle cose e soprattutto
provare emozioni. Se noi riusciremo
a superare le gelosie reciproche ed offrirci al turista come un unico territorio da vivere e scoprire, allora avremo raggiunto il nostro risultato”.
Il grado di coinvolgimento e l’impatto sociale. Come rendere partecipi i cittadini e le imprese? Quali
sono i benefici derivanti da un tipo
di sviluppo basato su turismo e territorio?
“Le imprese fanno parte del territorio
e se sono delle eccellenze ne sono il
suo valore aggiunto. Lo sviluppo turistico tende, giocoforza, a preservare
un certo tipo di territorio da brutture
e cementificazioni. Questo è già un
importante traguardo perchè significa l’affermazione del bello. Se poi il
turismo si sviluppa, come tutti noi
speriamo, allora possiamo dire che
non solo la disoccupazione sarà un
ricordo, ma nasceranno anche tante piccole imprese del settore o del
suo indotto che saranno la garanzia
maggiore alla tutela del nostro patrimonio, ma anche di innovazione e
sviluppo del comparto”.
La cabina di regia. Come giudica
l’idea di un distretto turistico Recanati- Loreto- Porto Recanati?
“Ho sempre pensato ad una cabina di
regia regionale, il nostro territorio è
troppo piccolo per permettersi strutture intermedie. Se poi parliamo di turismo internazionale, allora anche le
Marche sono piccole, immaginiamo
un giapponese o cinese o russo che
viene in vacanza, credo che prima
venga in Italia come meta,e soltanto
dopo scopra il resto.
Recanati, Loreto e Porto Recanati
insieme hanno una grande possibilità ed è quella di offrire, in un unico
prodotto, il turismo marino, culturale e religioso. Questo permetterebbe
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una stagione turistica lunga 12 mesi
all’anno e turismi sin’ora poco sfruttati come quello congressuale o scolastico.
Detto questo, la collaborazione dei tre
comuni potrebbe essere strategica per
molte altre situazioni, se solo il campanile non fosse così importante e ci
fosse maggiore fiducia tra le persone”.
Iniziative e programmi. Cosa propone Recanati?
“Recanati, dopo un grande 2011 dal
punto di vista turistico con un + 30%
di presenze, si appresta ad ospitare
un numero ancora maggiori di arrivi nel 2012. Tra le tante iniziative
in atto vorrei sottolineare quella dei
‘Weekend Recanatesi’, una serie di
piccoli pacchetti vacanze in grado di
fondere gli aspetti culturali, artistici
ed enogastronomici del nostro territorio in un unico prodotto. Si tratta di
diversi percorsi che partono da Recanati e portano il turista alla scoperta
delle Marche. Ogni percorso ha la sua
peculiarità ma tutti sono un inno al
vivere slow, a godere quindi di una
vacanza appieno e senza fretta. In
aggiunta, Recanati si è dotata recentemente di una guida satellitare in
3d, un’applicazione che si può facilmente e gratuitamente scaricare da
internet e permette di scoprire la città
in un modo suggestivo anche nei luoghi meno conosciuti. Per passare agli
eventi, mi piace ricordare i due importanti appuntamenti fissi: AMANTICA e VILLA IN CANTO. Amantica è
una due giorni, in Luglio, all’insegna
del folklore e dell’organetto che anima il vecchio rione di Castelnuovo
coinvolgendo totalmente i suoi abitanti. VILLA IN CANTO si svilupperà
invece a cavallo tra Luglio ed Agosto
e consisterà in sei rappresentazioni liriche ambientate nello splendido scenario del museo di Villa Colloredo. Si
tratta di un format ormai conosciuto
e apprezzato a livello nazionale ed
internazionale. Questi sono solamente alcuni degli appuntamenti, la lista
è davvero lunga e sicuramente non
mancheranno i concerti , le mostre,
lo sport...quella che si prospetta è davvero una nuova ed interessante estate
recanatese”.
FOTO dall’alto:_Casa Leopardi e Chiesa S.Maria di
Montemorello_ Museo civico di Villa Colloredo Mels _
Teatro Persiani_ Porta San Filippo
LAVORO
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Associazione
Comune di
Porto Recanati
PORTORECANATESI
nel XIX e XX secolo
di Lino Palanca
La vita quotidiana dei portorecanatesi: ambiente,
case, scuole, strade, malattie, emigrazione, lavoro ed
altro: come poche centinaia di pescatori, artieri e
contadini sono diventati una Comunità .
300 pagine, 60 tra foto e cartoline
del Porto di ieri e di oggi.
Cartolibreria
GIUGGIOLONI - TORREGIANI
Via M.L. King
Porto Recanati
Edicola Luchetti
Via Boccalini
Porto Recanati
SPORT
Vai come vuoi: fa bene all’anima
di Pierluigi Ferramondo
Foto fornite da Gruppo AVIS - Montelupone
Il G.P. AVIS di Montelupone
LO SPORT CHE EDUCA E FORMA E FA CRESCERE IL SENTIMENTO DELLA
SOLIDARIETÀ. È LO SPIRITO CHE REGNA NEL GRUPPO PODISTICO AVIS DI
MONTELUPONE DOVE SI INSEGNA CHE NELL’ATTIVITÀ SPORTIVA, E NON
SOLO, SI POSSONO FARE GRANDI COSE CON POCO.
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SPORT
S
fogliamo le pagine più belle della storia del
nostro Gruppo Podistico Avis, sodalizio
sportivo e non solo, ribadendone con
forza i principi ispiratori: sport amatoriale,
turismo culturale, socialità e solidarietà. Lo slogan
della manifestazione annuale di Montelupone,
che si svolge nella terza domenica di luglio, è
molto significativo: Corri con noi e VAI COME
VUOI. Con i gemelli della Associazione Podistica
Interregionale denominata 5 M (dalla M di
Montelupone alle altre M: Maserà di Padova,
Marlia di Lucca, Monteforte d’Alpone (Verona)
e Mantova), abbiamo coniato la bella frase, ch’è
tutto un programma: Uniti nello sport, corriamo
per la vita, l’amicizia e la pace.
Correva l’anno 1980, quando il Gruppo Podistico
Montelupone, costituito nel 1977, dopo tre anni
di attiva partecipazione alle altrui manifestazioni
nelle Marche, al fine di entrare a pieno titolo
nel calendario del Comitato Regionale, decise
di organizzare a Montelupone la 1^ VAI COME
VUOI, podistica estiva non competitiva, a passo
libero, con vari percorsi più o meno lunghi a
seconda dell’età dei partecipanti. Fu il primo
lusinghiero successo, con ben 445 podisti. Ciò
galvanizzò gli organizzatori, che riproposero
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annualmente la manifestazione. Un crescendo
rossiniano negli anni successivi, con una media
di 900 presenze e alcune punte oltre i mille.
Dal 1990 al 1994 abbiamo vissuto alcune
esaltanti imprese sportive concretizzando,
di anno in anno, rapporti di gemellaggio con
prestigiose realtà sportive extra-regionali,
attraverso maxi-staffette di centinaia di km: 7/8
aprile 1990, Montelupone-Maserà di Padova
km. 360; 26/28 aprile 1991, MonteluponeMarlia di Lucca km. 380; 17/18 gennaio 1992,
Montelupone-Monteforte d’Alpone km. 342;
26/27 giugno 1993, Montelupone-Mantova km.
340. A coronamento dei predetti gemellaggi, fu
costituita l’Associazione Podistica Interregionale
5 M, di cui s’è detto, nell’ambito di una grande
manifestazione a carattere nazionale nella città di
Mantova, sede della FIASP (Federazione Italiana
Amatori Sport Popolari), alla quale siamo affiliati
dal 1990.
Le 5 M, nel maggio 1994, concretizzarono
uno straordinario gemellaggio europeo con
il Marathon Club di Monaco di Baviera, in
staffette, partendo ogni sodalizio dalla propria
località. Noi da Montelupone abbiamo percorso,
dal pomeriggio del 10 alla sera del 14 maggio,
SPORT
820 km. in condizioni climatiche ottimali,
attraversando strade provinciali e comunali,
i centri storici di Ancona, Pesaro, Rimini,
Ravenna, Ferrara, Verona, Trento, Bressanone,
Innsbruck, Rosenheim e Monaco, München).
Una esperienza e un’impresa sportiva a dir poco
esaltanti, un eccezionale pezzo di storia del
nostro Gruppo.
Un altro memorabile week-end di fine ottobre
2004: 315 km. di staffetta podistica per uno
storico gemellaggio, non solo sportivo, ma anche
istituzionale tra Montelupone e Montelupo
Fiorentino. Nella nota città della ceramica
toscana, accolti dalla Società di Atletica locale e
dalle Autorità cittadine, sindaco in testa, dopo la
immancabile manifestazione sportiva, si è svolta
una suggestiva cerimonia nella sala consiliare,
cementando un patto di amicizia tra le due
Amministrazioni Comunali.
Il nostro Gruppo ha stretto altri rapporti, con
scambi annuali in occasione dei propri eventi
sportivi, con altre Società e GG. Podistici di
varie località: Terni, Sarzana (SP), Terno d’Isola
(BG), Pontefelcino (PG), Badia Polesine (RO),
Marega di Bevilacqua (VR), Longare (VI),
Brescia, Ferrara, Villa Rosa (TE), Avis Milano,
Avis Imola. Collaborando con la Sezione Veterani
Sportivi di Potenza Picena- Montelupone,
negli anni 1985-’86, ad Arezzo, abbiamo
partecipato alla celebre staffetta a squadre di
50 km. (10x5 km.) denominata Intra Tevero et
Arno. Successivamente, nel 1988/’89 abbiamo
contribuito al successo della predetta Sezione
UNVS conquistatrice di un prestigioso alloro:
titolo di campione d’Italia nella manifestazione
aretina.
Una notazione relativa alla Marcia Atletica: su
imput del C. R. Marche abbiamo organizzato a
Montelupone, nell’ambito della VAI COME VUOI,
dal 1992 al 2001, una gara atletico-amatoriale
di Marcia Avis alla quale hanno partecipato
annualmente atleti di alcune Società marchigiane,
che coltivano tale particolare specialità sportiva.
La storia del nostro Sodalizio sportivo continua,
con passione e spirito di volontariato, per
quanto concerne la macchina organizzativa
dell’evento tradizionale di luglio. Siamo giunti
alla 33^ edizione della classica VAI COME
VUOI: domenica 15 luglio a Montelupone
parteciperanno tutte le Società extra-regionali
gemellate e 30 Gruppi Podistici delle Marche,
con un migliaio circa di partecipanti. Sarà un bel
raduno e una grande festa sportiva. E non solo.
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FARMACIA
COMUNALE
PIAZZA F.lli BRANCONDI, 48
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PORTO RECANATI (MC)
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DIETETICI
Farmacia Comunale
IL RUOLO INFORMATIVO DELLE FARMACIE
N
el contesto sanitario generale le farmacie
forniscono, oltre ai prodotti farmaceutici,
anche informazioni e servizi. A proposito
delle informazioni, da sempre il farmacista dà
consigli e suggerimenti in base alle sue competenze,
esprime il suo parere in merito all’appropriatezza dei
farmaci prescritti, e consiglia prodotti o novità utili
per curare piccole patologie o disturbi trattabili con
prodotti esenti da ricetta medica.
Vale la pena fare una panoramica su una serie di
sostanze presenti sul mercato che possono essere di
aiuto a prevenire problematiche relative alla nostra
salute, o a rendere i disturbi meno pesanti per il
nostro fisico già provato.
Partiamo da quelle sostanze note come integratori,
di cui non vanno troppo enfatizzati gli effetti
- la panacea per tutti mali non esiste - ma vanno
considerati per quello che sono, non certo sostitutivi
dei farmaci che, al bisogno, occorre assumere su
consiglio medico.
Una dieta variata può essere più che positiva per
mantenere uno stato di benessere generale, ma in
alcune condizioni una integrazione alimentare può
essere di aiuto.
E’ il caso ad esempio degli ormai famosi Omega3, di
cui sono stati verificati numerosi effetti benefici.
Uno degli ultimi, rilevato con una revisione
sistematica* pubblicata da una equipe italiana,
interessa le persone trattate con chemioterapia
antineoplastica. Gli Omega3, infatti, ridurrebbero
la tossicità nei tessuti sani, gli effetti collaterali, e
migliorerebbero la qualità della vita nel periodo di
terapia.
Un po’ più discusso è invece l’effetto sull’endotelio,
la struttura cellulare che protegge la parete interna
dei vasi sanguigni, dove gli effetti dell’Omega3
sembrano essere determinanti nel favorire una
protezione endoteliale la cui erosione (ipertensione,
diabete, ecc.) costituisce la principale causa di
formazione di placche aterosclerotiche e quindi di
possibile futura obliterazione arteriosa.
Gli antiossidanti in genere (sostanze deputate a
contrastare l’azione dei radicali liberi, scorie che
accumulandosi danneggiano i tessuti, compresa la
superficie interna dei vasi sanguigni e del cuore)
sono sostanze che possono essere assunte quale
integrazione ad una dieta variata ed essere di aiuto
in caso di rischio particolare di patologie da cui ci si
può difendere.
Ad esempio, la luteina, contenuta in elevate qualità
nel tuorlo d’uovo e negli spinaci, si concentra nell’area
centrale della retina (macula) proteggendola dai
raggi UV e prevenendo la degenerazione maculare
senile. Questa azione viene svolta anche dalla Vit. E,
Vit. C, Coenzima Q.
Nell’ambito degli antiossidanti rientra anche la soia,
da tempo ritenuta utile nel contrastare i sintomi della
menopausa, effetto ora sostenuto da numerosi studi
e revisioni sistematiche. L’effetto è quello di ridurre i
sintomi vasomotori e urogenitali.
Questa breve rassegna non può certamente essere
esaustiva, né tantomeno può essere esente da pareri
medici, indispensabili laddove i disturbi non siano
chiaramente inquadrati e possono lasciar supporre
la necessità di formulare una diagnosi precisa. I
farmaci, anche con i loro effetti collaterali, sono
spesso indispensabili nella risoluzione di problemi
dove il loro uso, nel bilancio costo-beneficio risulta
a favore di quest’ultimo.
Dott. Paolo Ambrosi Direttore Farmacia Comunale
S.p.A. Porto Recanati
Dott. Alberto Giattini Medico, membro C.d.A.
Farmacia Comunale S.p.A. Porto Recanati
* Revisioni sistematiche: sintesi di diversi articoli
scientifici indirizzati sullo stesso obiettivo, sono
universalmente considerate le fonti bibliografiche
più attendibili.
BIEFFE SRL
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