marco saverio spolidoro - Ordine degli Avvocati di Milano

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MARCO SAVERIO SPOLIDORO
Professore ordinario di diritto industriale
nell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano
Le inibitorie nel diritto industriale e nel diritto d’autore
SOMMARIO: 1. Oggetto dell’inibitoria. 2. Ordine di ritiro dal commercio nella legge sul diritto
d’autore. 3. Conformità alla direttiva Enforcement della previsione nazionale del ritiro cautelare
dal commercio delle cose costituenti violazione del diritto di proprietà industriale. 4. Esclusione
dai circuiti commerciali. 5. Rapporto tra inibitoria e misure correttive. Graduazione delle misure
correttive. Cumulo tra inibitoria e ritiro dal commercio e tra ritiro dal commercio e distruzione 6.
Legittimazione passiva degli intermediari rispetto agli ordini di inibitoria e di ritiro dal commercio.
7. Identificazione degli intermediari legittimati passivamente rispetto agli ordini di inibitoria e di
ritiro dal commercio. 8. Formulazione dell’inibitoria. 9. Applicazione delle penalità per
l’inosservanza dell’inibitoria nel diritto d’autore. 10. Formulazione della comminatoria delle penalità. 11. Discrezionalità dell’Autorità giudiziaria nella concessione dell’inibitoria e della comminatoria delle penalità. 12. Pericolo di commissione, continuazione o ripetizione della violazione ed
inibitoria della violazione stessa. 13. Mancata attuazione dell’art. 12 della direttiva Enforcement.
14. Mancata attuazione dell’art. 9.5 della direttiva Enforcement.
1. Nel codice della proprietà industriale le norme che prevedono
l’inibitoria parlano di un’inibitoria “della fabbricazione, del commercio e dell’uso
delle cose costituenti violazione del diritto” di proprietà industriale. Tuttavia è
chiaro che l’estensione dell’inibitoria è determinata dalla portata sostanziale del
diritto violato. Perciò l’inibitoria dell’uso delle cose costituenti violazione del diritto può essere pronunciata solo se il diritto di proprietà industriale in questione
riserva al titolare la facoltà di impedire anche l’uso delle cose fabbricate o messe
in commercio in violazione del diritto stesso: per intendersi, in caso di violazione
di un brevetto d’invenzione, l’inibitoria riguarda anche l’uso delle cose che costituiscono contraffazione del diritto esclusivo (art. 66.2 c.p.i.); viceversa, in caso di
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violazione del marchio registrato, di regola non può essere inibito l’uso delle cose
che recano illecitamente il marchio neanche a chi le utilizzi nell’attività economica (art. 20.2 c.p.i.). D’altra parte, l’inibitoria può senz’altro riguardare
l’importazione nello Stato delle cose costituenti violazione del diritto di proprietà
industriale, anche se i redattori del codice hanno dimenticato di specificarlo. Dunque l’inibitoria va intesa, oggi come ieri, in generale come ordine di non iniziare,
di cessare, o di non riprendere la violazione di un determinato diritto di proprietà
industriale.
2. L’inibitoria viene oggi regolata, nel codice della proprietà industriale
nella stessa disposizione che contempla l’ordine, provvisorio o definitivo, di ritiro
dal commercio delle cose che costituiscono violazione del diritto di proprietà industriale. Di questi ordini di ritiro dal commercio non parlano invece le corrispondenti disposizioni in materia di diritto d’autore, anche se si può ritenere che la
possibilità di emanare questi ordini si ricavi implicitamente dalla previsione
dell’art. 158 l.d.a., nella parte in cui prevede che si possa ottenere la condanna
dell’autore della violazione a rimuovere lo stato di fatto da cui risulta la violazione. A tale lettura estensiva della disposizione dell’art. 158 si perviene considerando che l’ordine di ritiro dal commercio è misura “correttiva” obbligatoriamente
prevista dall’art. 10 della direttiva 2004/48 (“Enforcement”), insieme con l’ “esclusione dai circuiti commerciali”, in alternativa alla distruzione delle cose costituenti violazioni del diritto di proprietà industriale. Inoltre l’art. 159.2 l.d.a. (come
l’art. 124.3 c.p.i.) prevede la misura del ritiro temporaneo dal commercio: provvedimento peraltro non espressamente contemplato nella direttiva Enforcement.
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3. Occorre notare che la direttiva non prevede che le misure correttive siano emesse anche in fase cautelare (ed infatti l’art. 10 è compreso in una sezione
intitolata “Misure adottate a seguito di decisione sul merito”). Tuttavia non sembra che l’aver esteso gli ordini di ritiro dal commercio alla fase cautelare violi la
direttiva, posto che essa ammette che gli Stati membri applichino alla contraffazione “altre appropriate sanzioni” non previste dalla direttiva stessa (art. 16).
4. Pare anche che non dia problemi la mancata previsione della misura, di
cui parla l’art. 10 della direttiva, dell’esclusione dai circuiti commerciali, la cui
differenza rispetto alla distruzione o al ritiro dal commercio non è comunque molto chiara. Occorre segnalare che - secondo la relazione che accompagnava la proposta originaria della Commissione al Parlamento europeo - il ritiro delle merci
dai circuiti commerciali sarebbe una misura elaborata dalla giurisprudenza olandese; mentre l’esclusione dai circuiti commerciali costituirebbe attuazione
dell’art. 46 del trattato TRIPS e comporterebbe la “confisca” dei prodotti contraffatti, come prevede l’art. 87.2 della legge belga sul diritto d’autore del 30 giugno
1994.
In ogni caso, anche ammesso che la misura dell’esclusione sia un minus rispetto al ritiro dal commercio, essa può essere disposta indipendentemente dalla
sua mancata previsione, ai sensi della regola, introdotta in attuazione dell’art. 10.3
della direttiva, secondo cui nell’applicazione delle sanzioni civili si deve tener
conto della necessaria proporzione tra la gravità delle sanzioni e l’interesse dei
terzi (art. 124.6 c.p.i. e art. 159.7 l.d.a.).
5. Con qualche apprensione si deve constatare che il nostro legislatore
sembra avere inteso la direttiva nel senso che l’inibitoria e l’ordine di ritiro dal
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commercio siano misure sostanzialmente equivalenti o che comunque stanno sullo
stesso piano o che addirittura siano reciprocamente alternative. Non è così.
Nella direttiva l’ordine di ritiro e l’esclusione dai circuiti commerciali sono
misure correttive, come la distruzione delle cose costituenti violazione del diritto
di proprietà industriale, o del diritto d’autore, ovvero del diritto connesso. Questa
non è un’osservazione priva di conseguenze, perché, secondo quanto risulta
dall’art. 10.3 della direttiva, la necessità di “tener conto della necessità di proporzionalità tra la gravità della violazione e i mezzi di ricorso ordinati, nonché
dell’interesse dei terzi”, riguarda solo le misure correttive, non le “ingiunzioni”,
cioè l’inibitoria.
Posto che, almeno nel sistema della direttiva, il precetto dell’art. 10.3 non
riguarda l’inibitoria, il Giudice non dovrebbe poter graduare quest’ultima ad libitum. Viceversa, a mio avviso, l’Autorità giudiziaria (cui, fra le altre cose, è esplicitamente rivolta la disposizione dell’art. 124.6 c.p.i.) può senz’altro graduare le
misure correttive della distruzione e del ritiro dal commercio: e può farlo anche
d’ufficio, per esempio disponendo il ritiro temporaneo per il ricondizionamento
del prodotto ai sensi dell’art. 124.3 c.p.i., in luogo della distruzione richiesta
dall’attore. In materia di diritto d’autore si deve constatare che la graduabilità delle sanzioni è prevista dall’art. 159.7 l.d.a. per “la rimozione o la distruzione previste nell’art.158”, e non invece anche per l’inibitoria e le penalità, previste dall’art.
156 l.d.a..
Un’altra importante conseguenza del fatto che inibitoria e ritiro dal commercio sono misure non reciprocamente alternative è che esse possono essere cumulate tra di loro. Posto che l’ordine di ritiro dal commercio, come risulta dall’art.
124.1 e dall’art. 131.1 c.p.i., può essere rivolto nei confronti di chi sia proprietario
delle cose contraffatte o ne abbia comunque la disponibilità, la dottrina (Auteri)
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ha tuttavia osservato che “l’ordine di ritiro non aggiunge nulla, proprio nulla,
all’inibitoria e costituisce misura meno drastica della distruzione dei prodotti”.
Se così fosse, il cumulo di inibitoria e ritiro dal commercio sarebbe privo di utilità. Ma la conclusione sarebbe diversa se, come sembra preferibile, si ritenesse che
il ritiro dal commercio può comportare (se il provvedimento lo specifica) anche
l’obbligo di richiamare le merci che il contraffattore convocato in giudizio abbia
trasmesso ad intermediari appartenenti alla sua rete commerciale e nei confronti
dei quali egli abbia poteri di direzione e controllo. Un’interpretazione di questo tipo sembra autorizzata dalla legge attraverso la previsione della possibilità di ordinare il ritiro dal commercio nei confronti di chi, essendo passivamente legittimato
ed essendo in concreto parte del giudizio, abbia comunque la disponibilità delle
cose costituenti violazione dei diritti di proprietà industriale: il concetto di disponibilità sembra infatti abbastanza ampio e duttile per consentire una lettura estensiva della disposizione della legge, tale da non rendere inutile la nuova misura.
Ci si può chiedere se ritiro dal commercio e distruzione siano reciprocamente alternativi, nel senso che non si possano cumulare in concreto le due misure. La non cumulabilità delle misure correttive in esame sembrerebbe presupposta
dal tenore testuale della direttiva. Tuttavia non si vede l’ostacolo pratico ad ammettere che il giudice, nei limiti in cui sia rispettata l’esigenza di proporzione tra
gravità della violazione e della sanzione (nonché di tutela dei terzi) possa disporre
che la merce ritirata sia anche distrutta, anziché essere soltanto estromessa dai canali commerciali.
6. Il primo comma dell’art. 124 c.p.i. prevede che gli ordini di inibitoria e
di ritiro dal commercio possano essere emessi anche contro ogni intermediario
“che sia parte del giudizio ed i cui servizi siano utilizzati per violare un diritto di
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proprietà industriale”. La disposizione dell’art. 131.1 c.p.i. è diversa. Essa prevede che “inibitoria e ritiro dal commercio possono essere chiesti sugli stessi presupposti [applicabili per il caso in cui siano richiesti contro chi ne sia proprietario
o ne abbia comunque la disponibilità] anche contro ogni soggetto i cui servizi siano utilizzati per violare un diritto di proprietà industriale”.
Ci si può chiedere, dunque, se l’inibitoria ed il ritiro dal commercio possano essere pronunciati, in sede cautelare, nei confronti di intermediari che non partecipano (o non parteciperanno, in caso di pronuncia inaudita altera parte) al procedimento cautelare. A prima vista sembrerebbe un’ipotesi da escludere. In questo
senso si esprime anche Auteri, che giustamente rileva che “se il legislatore avesse
voluto assegnare alla misura efficacia anche nei confronti di terzi, avrebbe dovuto derogare espressamente ai principi del nostro ordinamento processuale (e in
particolare all’art. 111 c.p.c.) , approntando anche gli strumenti per dare esecuzione all’ordine del giudice”.
Tuttavia non si può dimenticare che almeno il ritiro cautelare dal commercio equivale, in pratica, al sequestro cautelare di “tutti gli oggetti costituenti violazione” del diritto di proprietà industriale o del diritto d’autore. In questi casi l’art.
130.4 c.p.i. e l’art. 162.6 l.d.a. consentono l’attuazione del provvedimento anche
su oggetti appartenenti a terzi “non identificati nel ricorso, purché si tratti di oggetti prodotti, importati, esportati o messi in commercio dalla parte nei cui confronti siano stati emessi i suddetti provvedimenti e purché tali oggetti non siano
adibiti ad uso personale”.
7. Se gli intermediari di cui parlano le norme appena esaminate sono
“commercianti” delle cose prodotte in violazione del diritto di proprietà industriale (cosa che del resto sembra presupposta dal fatto che si tratta di disporre contro
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di loro un’inibitoria del commercio o un ordine di ritiro dal commercio degli articoli costituenti contraffazione), la disposizione sembra priva di utilità. Infatti questi soggetti sono contraffattori come chi fabbrica le cose costituenti violazione del
diritto. Se poi si dice che deve trattarsi di terzi che partecipano, come legittimati
passivi, al processo (vedi sopra), davvero non si vede a che serva la specificazione
di cui stiamo discorrendo.
Auteri ha esattamente suggerito che le disposizioni della direttiva cui queste norme danno attuazione si riferiscono ai service providers che gli artt. 5.1 e
8.3 della direttiva 2001/29 (“sull’armonizzazione di taluni aspetti del diritto
d’autore e dei diritti connessi nella società dell’informazione”) e gli artt. 12, 13 e
14 della direttiva 2001/312 (“relativa a taluni aspetti giuridici dei servizi della
società dell’informazione nel mercato interno, con particolare riferimento al
commercio elettronico”) esentano a certe condizioni dalla responsabilità per i
danni, ma assoggettano ai provvedimenti d’inibitoria. Se così è, il concetto risulta
meglio espresso negli artt. 156 e 163.1 l.d.a., in cui si dice che l’inibitoria può essere pronunciata sia nei confronti dell’autore della violazione sia nei confronti “di
un intermediario i cui servizi siano utilizzati per tale violazione”.
Altri intermediari che, senza essere responsabili della violazione, possono
essere legittimati passivi dell’inibitoria sono probabilmente gli organizzatori di
fiere o di esposizioni nelle quali siano offerti prodotti o servizi che costituiscono
violazione di diritti di proprietà industriale ed intellettuale. Pare strano, ma non è
il caso di approfondire la questione in questa sede, che si possano emettere ordini
di inibitoria ed ancor più di ritiro dal commercio nei confronti di chi, per definizione, non è proprio iure, e non può neppure essere, responsabile della contraffazione, né fa commercio della merce asseritamente contraffatta.
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8. L’inibitoria definitiva ha (o dovrebbe avere) un effetto di accertamento:
in altre parole, ciò che costituisce oggetto d’inibitoria è, per definizione, un illecito. Infatti non si può vietare ciò che è lecito, almeno in uno Stato di diritto. Questo
principio è stato enucleato dalla dottrina (cioè da me stesso) venticinque anni fa.
Dopo di allora è stato affermato da alcune sentenze della Corte di Cassazione ed è
stato riaffermato anche da alcune sentenze di merito.
Le inibitorie provvisorie, come ogni provvedimento cautelare, hanno invece un’efficacia costitutiva. Tuttavia, l’ordine cautelare di cessare una determinata
condotta o di non reiterarla ha, all’interno della fase cautelare e fino a revoca, un
effetto di qualificazione della condotta; essa appunto si qualifica come vietata in
quanto (indipendentemente dall’esito del giudizio sul merito, che sarà idoneo a
dar vita al giudicato) forma oggetto di una pronuncia giudiziale di divieto.
L’importanza pratica dell’accertamento dell’illiceità di una condotta determinata (o del divieto cautelare) dipende dal modo in cui è formulata la definizione di ciò che è dichiarato illecito o forma oggetto della proibizione cautelare.
Infatti l’accertamento dell’illiceità di una determinata condotta (ad esempio
l’accertamento che l’uso del marchio “TAL DEI TALI”, da parte di Tizio, costituisce violazione del diritto di Caio, che lo ha registrato per primo) è utile nella
misura in cui rende superfluo un successivo giudizio avente il medesimo oggetto.
In particolare, il discorso acquista concretezza con riferimento
all’esecuzione dell’inibitoria e soprattutto con riferimento al caso in cui si discuta
della violazione della stessa e dell’applicazione delle penali previste dall’art.
124.2 c.p.i. e dall’art. 156.1 l.d.a.: in questi casi il giudice al quale si chiede di determinare l’ammontare concreto della penale (art. 124.7 c.p.i.) si pone la questione
se la parte nei cui confronti si chiede l’applicazione delle penali ha violato
l’ordine del giudice proseguendo o riprendendo l’attività illecita che gli è stata i-
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nibita, ovvero se si tratta dell’allegazione di una violazione “diversa” dello stesso
diritto (violazione che non può essere accertata nell’ambito dello speciale procedimento regolato dall’art. 124.7 c.p.i., ma richiede un nuovo processo di merito).
Ricordo che, secondo l’art. 124.7 c.p.i., “sulle contestazioni che sorgono
nell’eseguire le misure menzionate in questo articolo [comprese le penali di cui
stiamo discutendo] decide, con ordinanza non soggetta a gravame, sentite le parti, assunte informazioni sommarie, il giudice che ha emesso la sentenza recante le
misure suddette”.
Ciò premesso, per quanto possa sembrare (almeno in astratto) che
l’estensione dell’inibitoria sia tanto più ampia quanto più genericamente essa è
formulata, e che pertanto sia “conveniente” (per così dire) formulare l’inibitoria
nei termini più generici che sia possibile, è viceversa evidente che quanto più generica è la formulazione dell’inibitoria (vale a dire: quanto più essa si avvicina ad
un precetto “generale ed astratto”, com’è quello della legge), tanto più si rende
necessaria, in un successivo giudizio, una nuova valutazione della fattispecie. Non
a caso gli autori tedeschi, che sono i maggiori studiosi dell’inibitoria, osservano
che occorre una cura particolare nella determinazione del dispositivo
dell’inibitoria, in modo che non sia né troppo generico né troppo restrittivo.
Infatti una formulazione generica del divieto, come, ad esempio, “il Tribunale, definitivamente pronunciando, inibisce a Tizio la prosecuzione della contraffazione del marchio TAL DEI TALI”, non aggiunge assolutamente nulla alla
legge e richiederebbe al giudice, al quale venisse richiesto di applicare le penali o
di eseguire l’inibitoria, una completa revisione della fattispecie di merito.
Anche una definizione troppo angusta dell’inibitoria pone tuttavia gravi
problemi, aprendo la via all’elusione dell’ordine del giudice per mezzo di lievi
modifiche del proprio comportamento da parte del destinatario dell’ordine stesso.
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Dunque la buona qualità dell’inibitoria deve essere misurata sulla base della idoneità della formulazione del divieto a realizzare un giusto equilibrio fra specificità
e ragionevole ampiezza della formulazione dell’ordine definitivo o cautelare di
cessazione della violazione del diritto.
In pratica queste considerazioni di buon senso sono abbastanza difficili da
applicare, come sempre avviene quando ci si appella alla “teoria del giusto mezzo”. Quanto meno occorrerebbe che si formasse una prassi significativa ed autorevole, come quella che si è affermata in alcuni Stati europei, che permetta di disporre di un repertorio di formule adeguate alle diverse situazioni. In linea di massima si può auspicare che in primo luogo gli avvocati, nel formulare le proprie
conclusioni, e in secondo luogo i giudici, nel formulare i dispositivi dei loro provvedimenti, identifichino precisamente l’illecito da inibire, con riferimento alla fattispecie realmente venuta ad esistenza, estendendo l’ordine ai comportamenti che
si possono ritenere equivalenti a quello che è stato l’oggetto “immediato” del giudizio; e magari facendo qualche esemplificazione.
In questo modo al giudice cui si chiede l’esecuzione dell’inibitoria, o
l’applicazione delle penali, resta il compito di verificare se la condotta che gli viene denunciata sia o no violazione dell’inibitoria già pronunciata, ma non deve più
accertare se tale condotta - pur non dando luogo a violazione dell’inibitoria - costituisca pur sempre violazione del diritto.
9. Si è accennato al procedimento di applicazione delle penali e di esecuzione delle misure correttive (cioè delle misure del ritiro dal commercio, della eventuale esclusione dai circuiti commerciale e della distruzione delle cose costituenti violazione del diritto di proprietà industriale). Tale procedimento è previsto
dall’art. 124.7 c.p.i., ma la norma non ha corrispondenza nella disciplina del dirit-
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to d’autore. Chiaramente si tratta di una disarmonia priva di giustificazione. Tuttavia essa non può essere superata in via d’interpretazione, con la conseguenza
che, per la quantificazione concreta delle penalità previste a corredo dell’inibitoria
pronunciata dal giudice del merito ai sensi dell’art. 156 l.d.a., occorre instaurare
un nuovo processo di merito. Infatti la valutazione relativa alla violazione
dell’inibitoria non può certo essere rimessa all’ufficiale giudiziario, e la sentenza
che commina le penalità non è di per sé titolo esecutivo per la riscossione delle
penalità (lo dimostra il fatto che, per quantificare le penali in concreto applicabili,
l’art.124.7 prevede l’intervento di un’ordinanza non impugnabile dello stesso giudice che ha emesso la sentenza “recante le misure suddette”).
10. Anche per le inibitorie pronunciate in sede di giudizio cautelare la legge prevede che il giudice possa “fissare una somma dovuta per ogni violazione o
inosservanza successivamente constatata e per ogni giorno di ritardo
nell’esecuzione del provvedimento” (art. 131.2 c.p.i. e art.163.2 l.d.a.). In questi
casi la determinazione della misura concreta della penalità è rimessa al giudice
che ha pronunciato il divieto cautelare, ai sensi dell’art. 669-duodecies c.p.c., ovvero al giudice che pronuncia la sentenza di merito. Questo giudice, revocando
l’inibitoria, implicitamente revoca anche la comminatoria delle penali e, se queste
sono già state riscosse, ne ordina la restituzione a chi le ha pagate.
11. Particolare attenzione deve essere data anche alla formulazione della
comminatoria delle penali. La funzione di esse è infatti quella di scoraggiare la
commissione o la continuazione o la ripetizione delle violazioni, ma questo non
significa che le penalità possano essere astronomiche. Anche per le penali vale infatti il principio dettato dall’art. 124.6 c.p.i. per cui “nell’applicazione delle san-
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zioni l’Autorità giudiziaria tiene conto della necessaria proporzione tra la gravità
delle violazioni e le sanzioni, nonché dell’interesse dei terzi”.
In particolare la violazione di questa regola è una violazione di legge, denunciabile in cassazione superando ogni limite eventualmente derivante dalla discrezionalità che, come vedremo tra poco, si deve riconoscere al giudice del merito. Prima di affrontare questo aspetto, pare opportuno sottolineare che una cura
particolare deve essere data nello stabilire le penalità “per ogni futura violazione”.
Una formulazione generica comporta infatti il dubbio se la penalità debba essere
conteggiata per ogni articolo che, successivamente alla pronuncia d’inibitoria o di
una misura correttiva, sia rinvenuto in circolazione, oppure se la violazione
dell’ordine debba essere intesa in modo diverso. Senza escludere che in qualche
caso sia effettivamente giustificato conteggiare la penale in relazione ai singoli articoli contraffatti (pensiamo alla contraffazione di un brevetto che copre un impianto industriale), il più delle volte (per esempio pensiamo ai marchi dei prodotti
di largo consumo) calcolare le penalità in ragione degli articoli rinvenuti in commercio dopo la pronuncia d’inibitoria o di ritiro condurrebbe a penali mostruose.
In conclusione, sembra altamente necessario che avvocati e giudici “prendano sul serio” l’art. 124.7 c.p.i., anzitutto esercitando un cauto controllo ex ante
delle domande e dei dispositivi.
12. La legge e anche la direttiva sembrano rimettere al giudice la decisione
discrezionale relativa alla concessione o meno dell’inibitoria. Tuttavia non si riesce a comprendere con chiarezza come sia possibile che la sentenza che accerta la
violazione del diritto di proprietà industriale possa negare l’inibitoria della violazione stessa senza contemporaneamente negare l’esistenza del diritto. La vera
questione da risolvere, allora, è se l’inibitoria presupponga anche la dimostrazione
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del pericolo di commissione, continuazione o ripetizione della violazione, accertati i quali il giudice sarebbe tenuto a pronunciare l’ordine richiestogli, oppure se
questi presupposti sono in realtà inconsistenti. Sul punto tornerò tra poco.
Senz’altro discrezionale è la comminatoria delle penalità di mora (salvo
quanto si è appena detto circa l’applicazione dell’art. 124.6 c.p.i.). Tuttavia è da
segnalare la recente decisione della Corte di Giustizia dell’Unione Europea che, in
materia di marchio comunitario, ha stabilito che “l’art. 98.1 del regolamento
40794 CE del Consiglio sul marchio comunitario deve essere interpretato nel senso che un tribunale del marchio comunitario che ha emesso un’ordinanza che vieta al convenuto la prosecuzione degli atti di contraffazione di un marchio comunitario ha l’obbligo di adottare, tra le misure previste dalla legge nazionale, quelle
che sono idonee a garantire l’osservanza di tale divieto [nella specie si trattava
delle penalità per il ritardo nell’esecuzione dell’inibitoria o la ripetizione della
violazione] anche se tali misure non potrebbero, in virtù di tale legge, essere adottate in caso di contraffazione analoga di un marchio nazionale” (Corte di Giustizia 14 dicembre 2006, C-316/05, caso Nokia).
13. La questione se l’inibitoria presupponga o no un pericolo di commissione, continuazione o ripetizione della violazione va affrontata in modo diverso,
a seconda che si stia parlando di inibitoria cautelare oppure di inibitoria definitiva.
Prima di entrare nel merito, occorre sottolineare che la questione ha un
certo rilievo pratico in relazione ai casi in cui la parte contro la quale viene richiesta l’inibitoria allega e magari dimostra di aver cessato la violazione e si impegna
a non proseguirla. Se l’altra parte è d’accordo, la lite è verosimilmente transatta e
cessa la materia del contendere. Ma se il richiedente dell’inibitoria non si accontenta ed insiste perché sia emanato l’ordine del giudice, che accade?
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La giurisprudenza dà segnali contrastanti. Non di rado, soprattutto nei procedimenti cautelari, si sono registrati provvedimenti di rigetto, fortunatamente a
spese compensate, motivati con la carenza del periculum in mora. Dal punto di vista pratico, queste decisioni non convincono. Se il convenuto è sincero, che male
può subire se gli viene ordinato ciò che è pronto a fare spontaneamente?
L’impegno di non ripetere o di cessare la violazione può rilevare ai fini della graduazione delle misure correttive, ai sensi dell’art. 124.6 c.p.i., ma non per determinare il rigetto dell’inibitoria. Inoltre non di rado il convenuto è un persona giuridica, i cui organi dirigenti possono cambiare nel corso del tempo, con la conseguenza che le solenni dichiarazioni di Tizio, non rese vincolanti da un accordo o
da un dictum del giudice, possono essere disattese successivamente anche quando
Tizio è serio e sincero nel proclamare le sue intenzioni.
Fatta questa premessa sul piano degli interessi e dell’opportunità, osserviamo che, riguardo all’inibitoria definitiva, né la direttiva (art. 11) né le disposizioni nazionali testualmente richiedono il pericolo di commissione o ripetizione
dell’illecito. Certamente l’art. 156 l.d.a. dice che l’inibitoria definitiva può essere
richiesta da “chi ha ragione di temere la violazione di un diritto di utilizzazione
economica a lui spettante in virtù di questa legge oppure intende impedire la continuazione o la ripetizione di una violazione già avvenuta”, ma questa formula si
limita a descrivere la funzione dell’inibitoria e non fissa comunque le condizioni
alle quali la pronuncia è sottoposta. Lo dimostra anche il confronto con l’art. 124
c.p.i., che si limita a prevedere che “con la sentenza che accerta la violazione di
un diritto di proprietà industriale possono essere disposti l’inibitoria della fabbricazione, del commercio e dell’uso delle cose costituenti violazione del diritto, e
l’ordine definitivo di ritiro dal commercio delle medesime cose”.
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Al di là della formulazione letterale delle disposizioni, l’accertamento della violazione necessariamente vale come implicito ordine di non tenere più la
condotta illecita. Sarebbe paradossale che il giudice accertasse la violazione del
diritto e contestualmente dicesse che il convenuto puo’ continuare a violare il diritto. Il fatto che la pronuncia possa essere emessa dopo che il diritto è venuto meno per scadenza del suo termine di durata non contraddice quanto stiamo dicendo,
perché è del tutto ovvio che l’inibitoria incontra gli stessi limiti del diritto sostanziale per la cui tutela viene disposta.
Il tenore testuale delle norme che riguardano l’inibitoria cautelare è forse
più ambiguo. L’art. 131.1 c.p.i. dice infatti che “il titolare di un diritto di proprietà industriale può chiedere che sia disposta l’inibitoria di qualsiasi violazione
imminente del suo diritto e del proseguimento o della ripetizione delle violazioni
in atto”; l’art. 163.1 l.d.a. recita invece che “il titolare di un diritto di utilizzazione economica può chiedere che sia disposta l’inibitoria di qualsiasi attività, ivi
comprese quelle costituenti servizi prestati da intermediari, che costituisca violazione del diritto stesso secondo le norme del codice di procedura civile concernenti i procedimenti cautelari”; quanto all’art. 9.1 (a) della direttiva, si parla di
ingiunzione “volta a prevenire qualsiasi violazione imminente di un diritto di
proprietà intellettuale o a vietare (...) il proseguimento di asserite violazioni di tale diritto”.
A mio avviso, tuttavia, è probabilmente preferibile la tesi secondo cui non
è necessario dimostrare l’esistenza del periculum in mora: il che, in definitiva, è
quel che sostiene (con altre parole) la parte della giurisprudenza che afferma che il
requisito è in re ipsa allorché si discute della violazione della proprietà industriale
ed intellettuale, quanto meno quando l’illecito è ancora in atto.
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Certamente non è richiesta la prova che sia imminente un “danno irreparabile” (allegazione e dimostrazione viceversa necessaria per l’ottenimento di
provvedimenti di cui all’art. 700 c.p.c.).
Può avere interesse una sentenza recente della Corte di Giustizia (già citata) che, in tema di marchio comunitario, ha statuito che la “non evidenza” del rischio di una prosecuzione degli atti di contraffazione o della minaccia della contraffazione non costituisce, ai sensi dell’art. 98 del regolamento, un motivo particolare per rifiutare la concessione dell’inibitoria (Corte di Giustizia 14 dicembre
2006, C-316/05, caso Nokia).
13. Il D. Lgs. 16 marzo 2006, n. 140, non ha dato attuazione all’art. 12 della direttiva Enforcement, intitolato “misure alternative”, il cui testo recita: “Gli
Stati membri possono stabilire che nei casi adeguati e su richiesta del soggetto
cui potrebbero essere applicate le misure di cui alla presente sezione [dunque le
misure correttive del ritiro dal commercio o dell’esclusione dai canali commerciali oppure la distruzione delle cose costituenti contraffazione], l’Autorità giudiziaria competente può ordinare il pagamento alla parte lesa di un indennizzo pecuniario invece dell’applicazione delle misure di cui alla presente sezione, se tale
soggetto ha agito in modo non intenzionale e senza negligenza, se l’esecuzione di
tali misure gli causerebbe un danno sproporzionato e se l’indennizzo pecuniario
alla parte lesa sembra ragionevolmente soddisfacente”.
Pare del tutto condivisibile l’opinione della dottrina secondo la quale il legislatore italiano ha correttamente scelto di non dare attuazione a questo precetto
(che non è obbligatorio) in considerazione del fatto che, se l’art. 12 della direttiva
mira a temperare il rigore delle misure correttive, l’obiettivo è già stato raggiunto
in Italia dando attuazione agli ulteriori precetti secondo i quali la distruzione può
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essere disposta “se non vi si oppongono motivi particolari”, verosimilmente attinenti alla mancanza di colpa dell’autore della violazione, e secondo cui occorre
tenere conto della necessaria proporzione tra la gravità della sanzione e quella della violazione, nonché degli interessi dei terzi. Non si può poi dimenticare che, il
legislatore nazionale ha introdotto un ulteriore temperamento della distruzione,
stabilendo, al di fuori delle previsioni della direttiva, che il giudice possa disporre
con la sentenza che, “in luogo della distruzione e del ritiro definitivo dei prodotti
dal commercio, i prodotti siano modificati in modo tale da renderne legittima la
circolazione e l’utilizzazione” (art. 124.2, ultima frase, c.p.i.).
14. L’art. 9. 5 della direttiva Enforcement stabilisce che “gli Stati membri
assicurano che le misure provvisorie di cui ai paragrafi 1 e 2 [in pratica
l’inibitoria, il sequestro preventivo ed il sequestro conservativo] siano revocate o
cessino comunque di essere efficaci, su richiesta del convenuto, se l’attore non
promuove un’azione di merito dinanzi all’Autorità giudiziaria che ordina tali misure quando la legislazione dello Stato membro lo consente oppure, in assenza di
tale determinazione, entro un periodo che non deve superare 20 giorni lavorativi
o 31 giorni di calendario, qualora questi rappresentino un periodo più lungo”.
Una norma analoga è nel trattato TRIPS.
Il legislatore italiano del decreto legislativo di attuazione, che aveva appena riformato i procedimenti cautelari nel senso di ammettere in via generale la
stabilità dei provvedimenti cautelari anticipatori, si è trovato in imbarazzo.
Chiaramente la norma generale non è un sufficiente motivo per disattendere le indicazioni della direttiva, dato che questa detta una norma speciale e richiede espressamente che l’azione di merito sia iniziata dall’attore in contraffazione,
non dal convenuto. Malgrado ciò, il fascino della prospettiva di risparmiare tem-
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po, spese e fatica grazie alla stabilità dei provvedimenti cautelari ha indotto il legislatore italaino a cercare un compromesso. L’art. 131 c.p.i. è stato arricchito di
tre commi (1-bis, 1.ter e 1-quater), che pongono le premesse di un pasticcio interpretativo.
Occorre premettere che i primi due di questi nuovi commi costituiscono
l’attuazione (non del tutto fedele) della disposizione dell’art. 9.5 della direttiva: in
particolare il comma 1-bis prevede i termini entro cui “le parti” (ma la direttiva
dice “l’attore”) devono iniziare il giudizio di merito; il comma 1-ter precisa che il
termine è perentorio e che, se il giudizio di merito non è tempestivamente iniziato
da una di esse o se successivamente il processo si estingue, “il provvedimento
cautelare perde la sua efficacia”.
Poiché l’art. 131 si occupa dell’inibitoria e del ritiro (provvisorio) dal
commercio, sembrerebbe necessario ritenere che le disposizioni siano riferite proprio all’inibitoria ed al ritiro cautelare dal commercio. Tuttavia la disposizione parallela della legge sul diritto d’autore, cioè l’art. 162-bis l.d.a., segue le disposizioni relative a sequestro e descrizione, e precede quella dedicata all’inibitoria
cautelare. Il confronto con la legge sul diritto d’autore rende dunque credibile che
le disposizioni inserite nei commi 1-bis e 1-ter dell’art. 131 c.p.i. siano semplicemente “fuori posto” a causa di un’affrettata redazione della disposizione.
Infatti il comma 1-quater dell’art. 131 c.p.i. (ricalcando appunto l’art. 162bis. 4 l.d.a.) aggiunge che “le disposizioni del comma 1-ter non si applicano ai
provvedimenti di urgenza emessi ai sensi dell’art. 700 c.p.c. ed agli altri provvedimenti cautelari idonei ad anticipare gli effetti della sentenza di merito. In tali
casi ciascuna parte può iniziare il giudizio di merito”.
Il meno che si possa dire è che l’aggiunta finale è molto goffa: chi mai infatti potrebbe pensare che le parti – e segnatamente ciascuna di esse - non possano
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iniziare un procedimento di merito che faccia seguito all’emissione di provvedimento cautelare? E perché tale possibilità dovrebbe essere limitata alle sole ipotesi in cui sia pronunciato un provvedimento ai sensi dell’art. 700 c.p.c. o un’altra
misura anticipatoria?
A parte questa imperfezione formale, sorprendono il carattere del tutto
contraddittorio della disposizione e la sua difformità sia dalla disciplina della direttiva sia da quella del trattato TRIPS.
La contraddizione è dovuta probabilmente alla sciatteria della redazione
del decreto, sciatteria che ormai non fa più scandalo, essendo essa la regola e non
più l’eccezione. Il contrasto con la direttiva, invece, non potrebbe essere più evidente, nonostante il tentativo puramente cosmetico di fare finta di aver dato attuazione alla direttiva stessa. Non si deve dimenticare che l’art. 9.5 riguarda specificamente l’inibitoria cautelare, oltre al sequestro sui generis (volto ad impedire
l’ingresso e la circolazione nei circuiti commerciali delle cose costituenti violazione del diritto) ed al sequestro conservativo disposto “nei casi di violazioni
commesse su scala commerciale [violazioni che dovrebbero ricorrere, come spiega - in lingua ottentotta - il Considerando 14 della direttiva Enforcement, allorché
si tratti di “atti effettuati per ottenere vantaggi economici o commerciali diretti o
indiretti, con l’esclusione di norma degli atti effettuati dai consumatori finali in
buona fede (…) quando la parte lesa faccia valere l’esistenza di circostanze atte a
pregiudicare il pagamento del risarcimento”].
Ne segue che, mentre per i provvedimenti emessi ai sensi dell’art. 700
c.p.c. sul presupposto di un pericolo imminente ed irreparabile (da dimostrare di
volta in volta) è sicuro che valga il regime di stabilità introdotto anche in generale
dall’ultima riforma del processo civile, è legittimo dubitare che lo stesso valga per
le inibitorie cautelari tipiche previste dalla legge sul diritto d’autore e dal codice
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della proprietà industriale in attuazione della direttiva. Quest’ultima, infatti, è senza dubbio abbastanza particolareggiata e precisa, riguarda un rapporto del cittadino con l’Autorità (nella specie giudiziaria) di un Stato membro, e dovrebbe pertanto accedere al regime della c.d. diretta applicabilità negli ordinamenti nazionali.
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