comunicato stampa - Skira Grandi Mostre

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comunicato stampa - Skira Grandi Mostre
Il volto del ’900. Da Matisse a Bacon
Capolavori dal Centre Pompidou
Milano, Palazzo Reale
dal 25 settembre 2013 al 9 febbraio 2014
Dal 25 settembre 2013 al 9 febbraio 2014 apre a Palazzo Reale di Milano, sotto
l’Alto Patronato del Presidente della Repubblica Italiana, la mostra Il volto del ’900.
Da Matisse a Bacon. Capolavori del Centre Pompidou, a cura di Jean-Michel
Bouhours, conservatore del Centre Pompidou di Parigi.
La mostra è promossa e prodotta dal Comune di Milano - Cultura, Palazzo Reale,
MondoMostre e Skira editore in collaborazione con il Musée National d’Art Moderne Centre Pompidou di Parigi, e presenta oltre ottanta straordinari ritratti e autoritratti,
capolavori assoluti di artisti celebri come Matisse, Bonnard, Modigliani, Magritte – il
cui celeberrimo Lo stupro con il volto-nudo femminile è l’immagine della rassegna –
Music, Suzanne Valadon, Maurice de Vlaminck, Severini, Bacon, Delaunay,
Brancusi, Julio Gonzalez, Derain, Max Ernst, Mirò, Léger, Adami, De Chirico,
Picasso, Giacometti, Dubuffet, Fautrier, Baselitz, Marquet, Tamara de Lempicka,
Kupka, Dufy, Masson, Max Beckmann, Juan Gris, autori di opere magistrali, spesso
mai esposte in Italia, di eccezionale qualità pittorica e artistica, che entrano a pieno titolo
nella rappresentazione dell’evoluzione del genere ritratto avvenuta nel corso del
Novecento.
La storia della rappresentazione della figura umana dall’antico impero egiziano ad oggi è
al tempo stesso lunga e complessa, e la selezione di opere provenienti dal Centre
Pompidou di Parigi, esposte nel piano nobile di Palazzo Reale, racconta, attraverso
una serie strepitosa di icone della pittura e scultura del XX secolo, un periodo
fondamentale per l’evoluzione del concetto stesso di ritratto e autoritratto, messo in
discussione e trasformato dai più celebri maestri dell’epoca, in seguito ai grandi
cambiamenti della società e alle tragedie della storia umana.
“Nella nostra società, invasa dalle immagini e spesso travolta dalla loro rapida caducità, è
importante, oltre che affascinante, poter riflettere sui nuovi significati che la
rappresentazione della figura umana ha acquisito nel corso del Novecento – ha
commentato l’assessore alla Cultura Filippo Del Corno. Il grande choc dell'avvento
della fotografia, infatti, ha prodotto nel secolo scorso un nuovo modo di rappresentare il
volto umano, provocando un potente fluire di originalita' creativa nelle opere di ritratto,
che sono diventate al tempo stesso più complesse e più libere, perché svincolate dalle
committenze e dalle esigenze di documentazione e celebrazione. Questa mostra ci offre
la straordinaria opportunità di comprendere questo percorso”.
Al contesto espositivo si unisce come sponsor il marchio Ramazzotti, icona di Milano dal
1815, attraverso un’installazione fotografica a tema “Sinfonia di una città che cambia”,
sulla scia della sua ultima campagna pubblicitaria “Posso offrirti una città?”
“L’invenzione della psicoanalisi, la negazione dell’individuo operata dai totalitarismi, la
distruzione dell’identità nei campi di sterminio nazisti, la diffusione della fotografia messa
a servizio della burocrazia per il riconoscimento delle persone (per esempio con le foto
d’identità), l’invasione dell’Io da parte di uno pseudo-immaginario collettivo creato dai
media: a questo contesto sociale – scrive il curatore della mostra Jean-Michel
Bouhours – occorre aggiungere il ruolo dell’arte, la spinta all’astrazione, la perdita del
soggetto nell’ideale collettivo delle avanguardie: tutto sembra concorrere all’idea
dell’arrivo di un mondo senza più volti.” E nonostante questo, “cresce all’epoca una sorta
di frenesia a farsi fare il ritratto, come – scrive ancora Bouhours – per far entrare se stessi
in una vertigine di ubiquità e di istantaneità dettate dai media contemporanei: l’immagine
della propria immagine si è imposta”.
Dopo la prima rivoluzione moderna rappresentata dai ritratti umanistici di Dürer, Van Eyck
o Frans Hals, dopo lo spartiacque dell’Impressionismo che pretende autonomia per il
pittore, l’artista moderno pratica il ritratto andando al di là dello scopo di illustrare il
modello, passando attraverso il soggetto per trovare il suo “Sé interiore” e le sue
personali intenzioni artistiche. Al tempo stesso, l’artista libera se stesso dai vincoli che
fino a quel periodo erano connaturati al ritratto, fissati dai committenti, che erano soliti
aspettarsi non soltanto un dipinto lusinghiero ma anche di essere visti in una certa
posizione sociale, grazie ad alcuni simboli attentamente codificati.
Ma vediamo la mostra in dettaglio nelle sue sette sezioni che non sono ordinate per
cronologia, ma per assonanze sul modo di trattare la figura umana da parte dei vari artisti.
1. I misteri dell’anima
Questo è il titolo usato dal regista tedesco G.W. Pabst nel 1926 per uno dei primi film che presero
la psicoanalisi come soggetto. Tra la teoria psicoanalitica, per cui i sogni sono visti come un
percorso nel nostro inconscio, e altre scienze o pseudo-scienze, come la fisiognomica, che
cercano i dati oggettivi della personalità nell’espressione o nella morfologia del volto, c’era,
all’inizio del Novecento, una certa convergenza nel tentativo di leggere quella che l’Uomo
considerava la parte oscura di se stesso. Due movimenti artistici, il Fauvismo e l’Espressionismo,
divennero gli echi della fragile soggettività individuale: i segni sotto gli occhi delle donne di
Chabaud o Kupka sembrano simbolizzare la loro oscurità, donne fatali o angeli caduti, presi come
nuovi idoli di un nuovo mondo urbano ed elettrico. La malinconia di Dédie, lo sguardo precario e
deforme di una pittura inflessibilmente realista, i lineamenti non definiti di Jacques Villon o André
Masson enfatizzano la magica presenza del mondo interiore del modello.
La mostra parte con opere importanti che colpiscono subito e ci immergono nella
nuova pittura di soggetto femminile di inizio secolo. Yvette o il vestito a quadri (19071908) di Auguste Elysée Chabaud, Rossetto (1908) di Frantisek Kupka, Odalisca in
pantaloni rossi (1921) di Henri Matisse, La camicetta rossa (1925) di Pierre Bonnard,
Ritratto di Dédie (1918) di Amedeo Modigliani sono potentissimi ritratti di donne che
rimangono nella memoria, per la loro forza espressiva e una intensa valenza
psicologica. Accanto, ritratti maschili anch’essi innovativi per la posizione del
soggetto, l’indefinitezza dei tratti o la postura come Ritratto d’André Rouveyre (1904)
di Albert Marquet, Ritratto di Fernand Fleuret (1907) di Emile Othon Friesz, Ritratto di un
francese (1933) di Max Beckmann, Il dottor Robert Le Masle (1930 circa) di Suzanne
Valadon.
2. Autoritratti
Leon Battista Alberti nel De Pictura pubblicato nel 1435, in cui descrive le origini della pittura,
scrisse di Narciso innamorato della propria immagine. L’artista diviene lo strumento, e usa un
riflesso per riprodurre la sua immagine allo specchio, tratto dopo tratto. In questa ricerca di se
stessi, che prende la forma di un incontro con la propria immagine, molti artisti affrontano il tema
con un ritratto introspettivo, sapendo che il Sé è indubbiamente il modello più complesso e più
resistente all’analisi. Beckmann usava dire: “Il Sé è il più grande segreto del mondo; credo nel mio
Sé Interiore, nella sua forma eterna e indistruttibile”. Questa difficoltà, caratteristica di una ricerca
introspettiva attraverso l’auto-rappresentazione legata alla questione del “doppio”, genera per
ciascuna opera un manifesto metafisico e pittorico. È il caso di Van Dongen e Pougny, entrambi
all’inizio della carriera, che fanno passare attraverso l’autorappresentazione una gestualità quasi
sportiva da futuro campione “pronto a battersi”.
Gli autoritratti esposti in questa sezione sono opere indimenticabili: da quello di
spalle muto e incombente di Kees Van Dongen (1895) a quello ieratico e ironico di
Maurice de Vlaminck (1911), da quello scomposto e futurista di Gino Severini (19121960) a quello “cubista” di Francis Bacon (1971), da quello cupo e severo di Robert
Delaunay (1909) a quello angoscioso di Zoran Music (1988), emerge fortemente la
ricerca degli artisti di scardinare il consueto ritratto per portare alla luce qualcosa di
pregnante della propria differente personalità.
3. Il volto alla prova del Formalismo
Un nuovo uomo? Un superuomo nietzschiano? Isolare il volto dal resto del corpo, semplificare la
morfologia umana per una forma con nessun tratto morfologico, allontana l’atto di scolpire
l’immagine dall’involucro esterno del modello. È un’affermazione di anti-mimica che si manifesta, in
Brancusi, da un concetto platonico di scultura come una Idea. Per i cubisti, è stato spesso evocato
il riferimento al primitivismo della maschera rituale o a espressioni antiche del volto, e i loro dipinti
hanno spesso causato il disgusto del pubblico che vedeva in essi un oltraggio all’essenza
profonda dell’essere umano, o persino li considerava blasfemi verso la parte umana che Dio ha
creato a sua immagine. La somiglianza, concetto per secoli connaturato al ritratto, viene
definitivamente rifiutata. In ogni caso, anche se siamo lontani dall’esercizio di copiare tratto dopo
tratto, il processo di analisi e sintesi della fisionomia del modello da parte dell’artista, non solo
permette di produrre nuovi canoni di bellezza della plasticità umana, ma consente anche una
espressività che talvolta tradisce una parte della personalità del modello.
Qui sfilano teste-scultura di particolare bellezza, dove il volto umano emerge da
forme decisamente insolite, ma di grande impatto visivo come Testa (1915) di
Jacques Lipchitz, Testa appuntita (1930 circa) di Julio Gonzalez, le due Maschera (dopo
il 1939) di André Derain, la scultura in bronzo Jeannette IV (1911) di Henri Matisse, la
splendida Musa addormentata (1910) di Constantin Brancusi, Testa e Testa di donna
(1914 e 1922) di Joseph Csáky, la terracotta Testa femminile (1920) di Henri Laurens. E
ancora, pitture dove la figura umana è scomposta, duplicata, smontata, come nel
Ritratto di Madame Heim (1926-1927) di Robert Delaunay, Contadino con ombrello
(1914) di Alberto Magnelli, Thorwaldsen (1980-1981) di Valerio Adami, Donne in un
interno (1922) di Fernand Léger, Il nastro blu (1910) di Frantisek Kupka, Il cappello a fiori
(1940) di Pablo Picasso.
4. Volti in sogno. Surrealismo
Secondo André Breton, il surreale permetteva di svelare il “vero volto della vita”.
C’è nei surrealisti una predilezione per i volti dei dementi o dei criminali: il volto di Germaine Berton
troneggiava al centro della galassia surrealista nel primo numero della rivista “La Revolution
surrealiste”. Questa fascinazione arriva sino agli sguardi allucinati – quello di Antonin Artaud sarà
senza alcun dubbio il più luminoso – ma anche per i volti in stato di estasi (Salvator Dalì, Le
phénomène de l’exstase). I volti sono quelli di stati d’animo secondari. I surrealisti sono
ugualmente affascinati dall’angoscia del potere pietrificante della Medusa, dallo sguardo seduttivo
delle donne fatali, da quello di Nadja descritto da Breton nel romanzo eponimo a quello di Gala
riprodotto nel frontespizio del libro La Femme visible. La questione del volto nella pittura surrealista
è legata a quella del desiderio e dei fantasmi che questo desiderio è capace di produrre. I volti
sono erotizzati e feticizzati. Dalì e Magritte riproducono il fenomeno del transfer nel lavoro del
sogno analizzato da Freud, sostituendo un sesso a una bocca (Dalì) o il viso intero a un corpo
nudo. Mirò e Ernst rappresentano delle teste alla Ubu. In Mirò, l’essre mostruoso è il luogo di uno
scateanamento della libido dove si mescolano eros e thanatos. Nel 1935, la questione del volto fu
argomento di disaccordo tra Breton e lo scultore Giacometti. Il ritorno al volto era sentito come un
tradimento tanto che Breton esclamò con incomprensione e disprezzo a proposito dei lavori recenti
dello scultore: “Una testa? Sappiamo bene che cosa sia una testa!”.
In questa sezione troviamo opere capitali dove l’interpretazione del volto prende le forme
più ardite come nel dipinto immagine della mostra Lo stupro (1945) di Magritte, di cui è
esposto anche l’enigmatico Ritratto di Georgette con bilboquet (1926), nelle due sculture
di Mirò Testa maschile (1935) e Personaggio (1970), nel bronzo L’imbecille (1961) di
Max Ernst, nel Ritratto di Roland Tual (1921-1922) di André Masson.
5. Caos e disordine, o l’impossibile permanenza dell’essere
I lavori di questa sezione condividono una pazza gioia per l’imperfezione, l’esatto opposto degli
standard di bellezza perfetta ereditati dal classicismo dell’Antica Grecia.
Sia Bacon che Giacometti producono figure sempre sul punto di rompersi, fatiscenti o
destrutturate. “Collasso dell’essere”, scriverà Jean Clair a proposito di Boeckl, fracasso del sé
interiore in Artaud, visione della morte che si invita in permanenza ma a volte più di altri, nell’arte
del ritratto. Nell’impressionante ritratto di Isaku Yanaihara di Giacometti, la miniaturizzazione della
testa, che pare essere collocata sullo sfondo dell’intero corpo, trasmette l’intero potere e
autorevolezza del modello: “Un piccolo ammasso di vita, pesante come un sassolino, pieno come
un uovo”, scriverà lo scrittore Jean Genet. La faccia universalmente umana di Giacometti è anche
l’espressione della battaglia senza senso della vita. La moltitudine di linee in Dubuffet, eseguite
come uno scarabocchio automatico che si fa telefonando, mostra un’agitazione di esseri non più
individualizzati.
Ed ecco infatti le figure rarefatte e scomposte, sintesi purissime della figura umana,
Diego (1954) e Isaku Yanaihara (1956) di Alberto Giacometti, Il guardiano (1972) di Jean
Dubuffet, Donna con cappello (1935) e Ritratto di donna (1938) di Pablo Picasso, Ralf III
(1965) di Georg Baselitz, Ritratto di Michel Leiris (1976) di Francis Bacon, tutti
capolavori dove gli artisti portano alle estreme conseguenze il dissolversi della
figura umana, al tempo stesso infondendovi la drammaticità e la finitezza del
vivere.
6. Dopo la fotografia
In contrasto con il progressivo sviluppo del ritratto accademico attraverso lunghe sedute, alla metà
dell’Ottocento la fotografia offrì il miracolo, ma forse anche la dittatura, dello scatto istantaneo.
Fare un ritratto significa ora rivelare il soggetto in un istante, dando una garanzia di naturalezza e
obiettività. Mentre la fotografia ha imitato e riprodotto le convenzioni della pittura, specialmente nel
campo del ritratto, la pittura ha seguito un sentiero identico ma simmetrico, adottando il principio di
posa con scatti istantanei e improvvisati (Cassandre, Baltus), con prospettive abbassate o
sommerse (Beckmann, Derain), affermando nello stesso tempo le qualità del dipingere, sia nei
materiali che nel soggetto (Marquet o Derain). La pittura del XX secolo ha superato la fotografia e
rifiutato il principio di obiettività a favore dell’affermazione di una situazione pittorica. Infine, la pop
art e la figurazione narrativa hanno abbandonato il principio del modello per la sua riproduzione
fotografica, inabissando la rappresentazione.
Questa sezione della mostra è un eccezionale colpo d’occhio su alcune opere di
grande perizia formale, dove gli artisti fanno a gara nel far emergere la personalità
del soggetto. Tra i più importanti dipinti ricordiamo: Ritratto di Erik Satie (1892-1893) di
Suzanne Valadon, Kizette al balcone (1927) di Tamara de Lempicka, Ritratto di
Francisco Iturrino (1914) di André Derain, Ritratto di Madame V.d.K. (1962) di Martial
Raysse, sino ai più recenti Stravinsky (1974) di Erro, e Arne (1999-2000) di Chuck
Close.
Qui si fanno anche vere scoperte, dipinti di autori meno conosciuti, ma di una
fortissima potenza espressiva, quali: Ritratto di Chaliapine (1921-1922) di Boris
Grigorieff, Ritratto di Maurice Ravel (1902) di Henri Manguin, Ritratto di Guynemer
(1922) di Roger de La Fresnaye, Ritratto della baronessa Gourgaud in mantiglia nera
(1923) di Marie Laurencin, Ritratto di Pierre Reverdy (1943) di Cassandre.
7. La disintegrazione del soggetto
Gli anni Sessanta, dove domina l’arte minimale, sono marcati da un riflusso del principio della
soggettività in arte, mentre al contrario i mass media (cinema, televisione, video, fotografia)
intensificano il principio inerente al ritratto, con una messa in scena. Il Sé sparisce a beneficio
dell’icona, dell’immagine. I film di Kurt Kren e Paul Sharits hanno in comune l’interesse per questa
questione di un secondo grado della rappresentazione. Kren ritorna sulla fisiognomica e altre
scienze dei volti con il testo del professor Léopold Szondi. Psico-patologista ungherese, Szondi
aveva definito un insieme di 48 teste rimarchevoli, censite secondo le otto psico-patologie che egli
aveva studiato. Kren ripruce cinematograficamente il lavoro selettivo, appropriativo della memoria
vis-à-vis dei volti. In Sharits, lo stesso volto declinato serialmente da una serie di gesti molto
semplici, di colori primari e di positivo/negativo, è il modo che ha trovato l’autore per rendere conto
del proprio stato psicologoico, utilizzando ritmi visivi spinti alle soglie della percezione.
I due film di Kren e Sharits chiudono il percorso della mostra con immagini inquietanti che
restano impresse nella memoria.
Una carrellata di volti, figure, posture di un’intensità straordinaria, attraverso la quale la
mostra raggiunge quindi lo scopo di raccontare l’evoluzione del genere ritratto nel XX
secolo, con capolavori assoluti di grandi maestri e opere di grandissimo livello di artisti
meno noti, che è un vero piacere scoprire e apprezzare.
Il catalogo dell’esposizione, edito da Skira, contiene il saggio del curatore Jean-Michel
Bouhours e un testo di Flaminio Gualdoni sul Novecento e le ragioni del ritratto.