LA FORMA DELLE NUVOLE Conversazione con Simone Massi a

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LA FORMA DELLE NUVOLE Conversazione con Simone Massi a
LA FORMA DELLE NUVOLE
Conversazione con Simone Massi
a cura di Bruno Di Marino e Simone Isola
Il tuo stile è molto personale ed è oramai diventato un tratto distintivo di ogni lavoro. Quando hai iniziato a realizzare i primi lavori e come
sei giunto ad elaborare la tua tecnica espressiva? Quali sono stati i fondamentali passaggi intermedi?
Io disegno da sempre, ho cominciato a fare cinema d’animazione
a scuola, nel 1993. Per molti anni non mi è interessato avere uno stile,
cioè non mi andava di approfondirne uno, mi sembrava da un lato di
stare fermo e dall’altro di perdere qualcosa di importante che oggi
chiamo ricerca. Una ricerca che era innanzitutto narrativa e volevo
che i disegni si adeguassero sempre alle storie (che a quel tempo erano
molto diverse fra loro). Cioè sono sempre partito dalla storia, mai dal
disegno. Ho escluso tutte le tecniche a base d’acqua perché in animazione sono poco pratiche (i fogli a contatto con la pittura si imbarcano e a fare i dettagli col pennellino si diventa matti) e mi sono concentrato su quel che rimaneva: matita, grafite, carboncini, pastelli,
gessetti, china, ecc. Nel 2000 ho cominciato a lavorare a un corto sulla
Resistenza, Tengo la posizione; per quel tipo di storia avevo bisogno
di un segno nervoso, spezzato, con un chiaroscuro sporco e fatto di
linee incrociate. In pratica volevo che la matita simulasse l’incisione.
Da lì in poi ho avuto la sensazione di essere sulla strada giusta sia per
quel che riguardava le storie sia per il segno; penso che entrambi
cominciavano ad essere personali, insomma miei. Anche Io so chi sono
(2004) è realizzato con la matita e il segno a incrociare.
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CONVERSAZIONE CON SIMONE MASSI
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Quando è avvenuta una svolta dal punto di vista dello stile e della
tecnica?
Nel 2004. Avevo una storia molto forte, La memoria dei cani, che
non si accontentava della matita e mi imponeva qualcosa che davvero
fosse simile all’incisione. Mi sono messo a cercare a testa bassa e a
furia di prove ho trovato: pastelli a olio stesi su carta e poi graffiati
con la puntasecca. Oggi in animazione questa tecnica è riconosciuta
come mia eppure… proprio di recente ho notato che il tratto è diverso
e i disegni del 2004 non riesco più a farli. È un segno buono: vuol dire
che la mano è cambiata, significa che sta ancora cercando. In conclusione lo stile grafico ha sicuramente subito un’evoluzione, i primi
anni li ho spesi cercando il segno giusto e quelli successivi cercando
di mantenerlo e se possibile di perfezionarlo. Grosso modo è successa
la stessa cosa anche a livello narrativo visto che nei primi lavori avevo
avuto sì delle intuizioni, ma c’era molta casualità e avventatezza, mentre adesso è tutto più sentito e ragionato.
La stessa scelta di vivere dove sei nato, a Pergola, credo sia molto
significativa. Ma a volte non ti senti troppo isolato dal mondo (professionale, innanzitutto)?
Ho scelto di rimanere nel mio paese perché qui ho la mia famiglia
e i miei amici, i ricordi e i posti che mi sono cari. Non sono cose di
poco conto perché per me la vita viene prima del lavoro. L’isolamento
è pesato tanto negli anni passati poi ha cominciato gradatamente a
perdere di importanza tanto che oggi, ad essere sinceri, è un carico
che nemmeno mi sento sulle spalle.
Sei sempre stato parsimonioso con il colore, anche se negli ultimi
anni lo hai cominciato ad usare…
Ho sempre sognato e pensato in bianco e nero, mi riesce più facile
disegnare così. Il colore l’ho tentato timidamente e senza troppa convinzione, mi è sempre parso una cosa da ricchi. Ci ho provato, ho cercato di dare alle mie storie un vestito migliore ma non ci si trovavano
e allora le ho rimesse nei vestiti di sempre.
Da quasi tutti i tuoi film emerge il fortissimo rapporto con le radici
contadine, con la terra, con un mondo a cui sei legato ma che purtroppo
è stato massacrato dall’industrializzazione. Da cosa nasce l’esigenza di
raccontarlo?
Io sono un operaio figlio e fratello di operai, muratori, minatori e
contadini. Sono un operaio che per una serie di coincidenze è riuscito
a fuggire la fabbrica e a entrare in un ambiente non suo. Il cinema di
animazione per me è una possibilità di parola: nel momento in cui
salgo sul piccolo palcoscenico mi conviene dire quello che so, parlare
di quello che sono e che penso. Non mi perdonerei il contrario, anche
perché al termine del mio intervento ridiscendo quei quattro gradini
e torno in basso che è il posto da dove vengo e dove voglio stare. Ecco,
la terra, la civiltà contadina, le bestie sono tutto quello che so, quello
che di più importante ho da dire.
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I tuoi film hanno partecipato a centinaia di festival e hanno ricevuto
riconoscimenti anche importanti. Cosa ti ha dato – sia professionalmente che umanamente – questo riscontro con persone di altri paesi, di
altre culture?
È stato importante perché mi ha fatto crescere, in tutti i sensi. Come
dicevo l’animazione per me è facoltà di parola, la libertà di poter dire
qualcosa: vedere che le mie piccole storie riescono ad arrivare a persone
di paesi e culture tanto lontane tocca profondamente e dà sicurezza.
Molti dei tuoi lavori sono stati associati al flusso di coscienza: piani
sequenza con combinazioni che avanzano incessanti, porte che si aprono
e nuovi spazi pronti da vivere, non si sa se con piacere o dolore. Come
realizzi questo percorso? Lo strutturi prima o mentre realizzi i disegni?
Faccio entrambe le cose ma la prima non funziona, la seconda sì.
Cioè io cerco di immaginarmi il piano sequenza e la metamorfosi
anche in fase di storyboard perché ormai ragiono in questa maniera,
con l’immagine transitoria e pronta a diventare qualcos’altro, ma sono
idee forzate che finisco sempre con l’abbandonare. Mentre animo
invece, sono costretto a sovrapporre i disegni e a guardarli in trasparenza: cerco in quel groviglio di linee e trovo sempre un suggerimento,
una forma intermedia alla quale non avevo pensato, insomma l’idea.
Somiglia a un gioco, quello dell’indovinare la forma nella nuvola o
nel muro ma io questo gioco lo faccio da quando ero un bambino e
a dir la verità ero bravo e non mi ha mai stancato.
Credo che la sigla della mostra del cinema di Venezia ti abbia dato
una visibilità internazionale ancora maggiore di quella che avevi. Come
nasce l’idea della sigla?
Ho cercato delle immagini e poi le ho disposte per terra cercando
un ordine, immaginando come si potevano legare insieme. Questo è
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il mio normale metodo di lavoro, l’unica differenza è che in questo
caso le immagini non potevano essere soltanto mie perché la sigla
doveva essere un omaggio al cinema.
Se ti offrissero la possibilità di realizzare una serie televisiva, naturalmente con l’intervento di altri collaboratori, ma senza alterare la tua
poetica e il tuo stile, accetteresti oppure comunque un “format” del
genere, pur dando maggior diffusione al tuo lavoro, finirebbe per snaturarlo?
Al momento non so rispondere a questa domanda. Per rispondere
bene dovrei prendere del tempo e pensare.
Parliamo della tua attività di illustratore. Come nascono questi
lavori e che tipo di rapporto instauri con la committenza (autori dei testi
ed editori)?
È un lavoro saltuario che conosco poco o niente. In genere gli editori che mi contattano sanno di me e della mia scarsissima propensione al dialogo e al compromesso: mi mandano il testo e dei suggerimenti per le tavole, consapevoli che lavoro solo in bianco e nero con
pastelli a olio e puntesecche.
Ti capita di trasferire al cinema idee utilizzate nelle illustrazioni di
libri e viceversa?
Mai capitato. È una possibilità che ho escluso all’incirca vent’anni
fa, quando al solo pensiero mi è venuta una gran tristezza.
Hai partecipato a diverse mostre esponendo i disegni realizzati per i
film e le tavole illustrate o anche altre tue opere?
Rarissimamente è successo ma mi sto adoperando per non farlo
succedere più.
Puoi parlarmi del tuo rapporto con il mondo delle arti visive?
È praticamente nullo. Vivo senza televisione, non vado al cinema
né a mostre o videoinstallazioni, mi ha stancato viaggiare e parlare di
animazione e conoscere persone del mondo del cinema. Quello che
sto cercando per mia fortuna è a un tiro di schioppo.
Su cosa stai lavorando attualmente?
Sto finendo di montare l’animazione nuova e ho appena cominciato a lavorare al prossimo film di Stefano Savona, un documentario
che contiene un gran numero di sequenze animate.
In Italia si può sopravvivere con l’animazione, soprattutto con quella
di carattere sperimentale?
In Italia no, davvero non si riesce a sopravvivere facendo l’animazione poetica o sperimentale. A me è stato detto il primo giorno di
scuola – e con grande franchezza – da un insegnante di Rovigo molto
in gamba; diciassette anni dopo mi è stato ripetuto dal più grande
intellettuale italiano vivente: in Italia l’animazione d’autore non si può
fare. Sono il primo ad ammettere che è vero, ma ogni volta che me lo
sento dire mi ribolle il sangue e mi vien voglia di prenderlo per il cravattino. E infatti faccio animazione ormai da vent’anni, un po’ per il
gioco di indovinare le forme nascoste e un po’ per far dispetto a
Andrea Guaraldo e Goffredo Fofi.
Hai mai pensato di realizzare un lungometraggio?
È un’idea che ho rifiutato per anni perché ho sempre pensato che
il cortometraggio fosse la soluzione ideale per raccontare le mie piccole storie. Negli ultimi tempi ho capito che invece sono un’unica storia e che tutti i miei film possono essere messi gli uni accanto agli altri
come faccio con le immagini quando cerco una storia. Se ho ragione
si tratta di pensare le sequenze come fossero singole immagini e poi
di trovare l’ordine giusto. Immagino ci saranno delle difficoltà ma
anche persone, collaboratori, disposti ad aiutarmi. Comunque sì –
secondo questa prospettiva – ho pensato di realizzare un lungometraggio.
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