Quel 25 aprile di 49 anni fa

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Quel 25 aprile di 49 anni fa
Quel 25 aprile di 49 anni fa - Massimo Fini
Non ne posso più delle opposte retoriche, antifasciste e fasciste, che ogni anno, e in particolare
in questo, si scatenano intorno al 25 aprile. Non ne posso più perché a sommar queste
retoriche sembrerebbe che l'Italia e gli italiani abbiano vissuto, cinquant'anni fa, chissà quale
epopea straordinaria ed eroica, anche se tragica e dilaniante. Non è così. Nel periodo 1940-45,
per la verità, e anche oltre, l'Italia e gli italiani (a parte le solite, rare, nobilissime eccezioni, su
cui poi si son gettati tutti i profittatori dell'una e dell' altra parte per farsi belli sulla pelle e sul
coraggio di pochi) hanno scritto alcune delle pagine più ignominiose della loro storia. Il 10
giugno del 1940 l'Italia entra in guerra a fianco dei tedeschi, contro Francia e Inghilterra. Nel
suo discorso tenuto il 25 aprile a Torino Norberto Bobbio, riprendendo un diffuso luogo comune,
ha affermato che si trattava di «una guerra imposta e ingiusta». Se fosse ingiusta non so (sono
diventato abbastanza vecchio per sapere che le guerre sono giuste o ingiuste a seconda di
come vanno a finire), certamente non fu imposta. Basterebbe riascoltare il discorso del 10
giugno di Mussolini, con quel terribile sottofondo sonoro della piazza che inneggia alla guerra
(«guerra, guerra!») prima ancora che il Duce l'abbia dichiarata, per rendersi conto che c'era ben
poco di imposto. Ma ammettiamo pure (anche se così non era) che, quel giorno, in piazzale
Venezia ci fossero solo truppe cammellate, agit prop, fanatici fascisti e che il resto del Paese
fosse contrario. Ebbene era proprio quello il momento di manifestare, di scioperare, di
boicottare, di darsi alla macchia e alla resistenza clandestina, di attaccare il Regime dall'interno
anche con la violenza, anche con il terrorismo, per rendere noto che c' erano perlomeno degli
italiani che non volevano la guerra e soprattutto non la volevano al fianco dei tedeschi In fondo
chi erano e che cosa fossero i nazisti lo si sapeva benissimo già allora (e comunque non se ne
sapeva certamente di più nell'autunno del '43 quando alcuni italiani cominciarono a ribellarsi ai
nazi, la conoscenza degli orrori dei lager viene dopo). Invece il 10 giugno del '40, e nei giorni
successivi, non scoppiò nemmeno un petardo. Perchè gli italiani, nella stragrande maggioranza,
erano in perfetta sintonia col ributtante cinismo di Mussolini che aveva dichiarato: «Ci bastano
poche centinaia di morti per sederci al tavolo della pace». Come iene e come sciacalli volevamo
gettarci sugli avanzi lasciati dall' esercito tedesco in quel momento vittorioso in tutta Europa.
Come iene e come sciacalli ci buttammo sulla Francia agonizzante. Come iene e come sciacalli
aggredimmo l' apparentemente inerme Grecia («spezzeremo le reni alla Grecia»). Ma avevamo
sbagliato i nostri calcoli. Non avevamo previsto che gli inglesi, popolo vero, avrebbero resistito
ad oltranza alle armate, ma anche alle lusinghe, di Hitler. Così Mussolini e uno Stato maggiore
di generali felloni, irresponsabili e criminali mandarono i nostri ufficiali e i nostri soldati, male
armati e peggio equipaggiati, allo sbaraglio nei Balcani, in Africa e, soprattutto, in Russia dove a
dar loro il colpo di grazia li aspettava, come se già non bastasse Stalin, un altro genere di iena,
tipicamente italiana, Palmiro Togliatti. Il 10 luglio del '43 gli Alleati sbarcano in Sicilia.
Nonostante le roboanti dichiarazioni di Mussolini («fermeremo gli americani sul bagnasciuga»),
l' isola è conquistata In due giorni. È stata la mafia ad aprire le porte agli invasori, con
conseguenze pesantissime che pagheremo in seguito e che paghiamo ancora oggi. La guerra è
perduta. Ma noi pensiamo di uscirne nel nostro solito modo furbesco, all'Italiana. Cacciato
Mussolini, il nuovo premier, il maresciallo Badoglio, un vecchio arnese corresponsabile della
disfatta di Caporetto e responsabile di avere usato armi chimiche in Etiopia (cosa che nemmeno
Hitler ha fatto nè farà mai), dichiara: «La guerra continua al fianco dell' alleato tedesco», Ma
intanto trattiamo di nascosto con gli angloamericani. L'8 settembre viene firmato l' armistizio. Il
Re, Badoglio, i generali (secondo una collaudata tradizione della classe dirigente italiana l'
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“armiamoci e partite” che inizia dalla prima guerra mondiale e arriva fino alle ignobili lettere che
Aldo Moro scrisse dal carcere delle Brigate rosse), fuggono da Roma e, in un pigia pigia
indecente e impudico, si imbarcano a Pescara sulla corvetta Baionetta per mettersi in salvo a
Brindisi. Non solo Roma (dove ci saranno alcuni episodi di commovente, ma disperata,
resistenza) è abbandonata in balia dei tedeschi, ma l' intero esercito italiano, senza ordini,
senza direttive, senza più capi, è lasciato allo sbando. È il “tutti a casa” con cui crediamo, in un
primo tempo, di cavarcela. Ma non sarà così. Perché avevamo pugnalato alle spalle l' alleato
tedesco. Quando si giudica il comportamento dei tedeschi in Italia noi non dovremmo
dimenticare, per onestà, che li abbiamo traditi nel momento in cui erano impegnati in una lotta,
sbagliata che fosse, per la vita e per la morte. Ciò non giustifica alcuni efferati eccidi (a
cominciare da Marzabotto) commessi, in spregio non solo delle pur crudeli leggi di guerra ma
anche del più elementare senso di umanità, dai reparti speciali delle SS e che hanno disonorato
l' esercito tedesco, Ma se ci riesce di fare uno sforzo di equanimità -capisco che è
estremamente difficile perché si tratta dimettersi anche nei panni altrui- noi dobbiamo
ammettere che, nel suo complesso, il comportamento dell' esercito tedesco in Italia, date le
circostanze, non fu così infame come viene unanimemente dipinto e che avrebbe potuto essere
anche peggiore. Per non far saltare i ponti storici di Firenze i tedeschi, in ritirata, hanno perso
decine di migliaia dei loro uomini. Con ciò, lo ripeto, non intendo giustificare in alcun modo
neanche un solo delitto commesso dalle SS in Italia, voglio solo dire che una qualche esca alla
ferocia tedesca, quando c'è stata, l'abbiamo data anche noi, col nostro comportamento
ambiguo, ondivago, opportunista, furbesco, prima alleati, nel momento della forza, poi avversari
quando la Germania era ormai in ginocchio. Anche se poi la vendetta tedesca si abbatté, come
sempre accade, su degli innocenti, su civili inermi. Quel che io rigetto è che, attraverso le
opposte retoriche, si finisce per considerare responsabile di ciò che è avvenuto in Europa, in
particolare in Italia, un unico demonio: Adolf Hitler. Qualche colpa l'abbiamo anche noi. Il 12
settembre, Otto Skorzeny e un asso dell' aviazione tedesca, il capitano Gerlach, "liberano"
Mussolini prigioniero al Gran Sasso. Portato a Monaco, al cospetto di Hitler, Mussolini accetta
di essere capo di uno Stato fantoccio, controllato dai tedeschi, la repubblica di Salò. In questo
modo Mussolini pone le basi per la guerra civile e si assume così l'enorme ed irrevocabile
responsabilità degli errori che ne seguiranno, compreso quello di cui egli stesso, a piazzale
Loreto, sarà vittima. Da questo momento alcuni italiani si danno alla macchia e alla lotta
partigiana per combattere il nazifascismo e per riscattare, armi in pugno, il plebiscitario
consenso che i loro connazionali, e , forse anche essi stessi, avevano dato al fascismo. Altri
italiani accorsero Invece sotto le bandiere di Salò per un proprio, diverso, e forse malinteso,
senso dell' onore. Entrambi cercavano un riscatto morale. Purtroppo a costoro, in tutti e due i
campi, si mescolarono altri personaggi che approfittarono di un conflitto senza regole, qual è
sempre una guerra civile, per appagare i propri istinti sadici, di violenza gratuita, di innata
volgarità.L' ho già scritto, e lo ripeto, la Resistenza, per chi vi ha partecipato con purezza di
intenti, è stata un importante riscatto morale. Ma ha ingenerato due pericolosi autoequivoci. Il
primo è che l'ltalia avesse vinto una guerra che aveva perso. Il secondo è che l'ltalia sia stata
liberata dal giogo nazifascista dagli italiani, mentre invece è stata liberata dalle truppe del
generale Eisenhower. Il 25 aprile del '45, quando gli Alleati sono ormai a pochi chilometri,
Milano insorge. Mussolini, come da regola, è scappato. Dopo tante belle parole («se avanzo
seguitemi, se indietreggio uccidetemi») Mussolini si farà i pescare in fuga travestito da soldato
tedesco. Sarà il partigiano “Pedro”, al secolo il conte fiorentino Pier Luigi Bellini delle Stelle (di
cui, non a caso, in questi giorni nessuno parla) a fermare con un' azione audacissima
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(disponeva di appena sette uomini) la colonna di trecento tedeschi in cui si erano nascosti il
capo del fascismo e il suo seguito. Pedro catturò Mussolini e i gerarchi e li trattò con la pietà
che sempre si deve, o si dovrebbe, ai vinti. Se la storia della Resistenza si fosse fermata lì
avrebbe chiuso in bellezza. Ma, naturalmente, poiché siamo italiani non poteva andare a finire
così. Da Milano arrivarono, con divise nuove di zecca, i partigiani del colonnello Valerio, alias il
ragioniere comunista Valter Audisio, che, sulla base di un mai chiarito ordine del Cln,
strapparono ai laceri partigiani di Pedro Mussolini, la Petacci, i gerarchi e li fucilarono. Giorgio
Bocca, per giustificare questo massacro indiscriminato, ha scritto sulla Repubblica (26/4) che
“le responsabilità dei gerarchi fascisti erano quelle di criminali di guerra”. Mi piacerebbe sapere
che criminale di guerra fosse Claretta Petacci. Mi piacerebbe sapere che criminale di guerra
fosse suo fratello, Marcello, al massimo un modesto profittatore di regime, come tanti altri. Mi
piacerebbe sapere che criminale di guerra fosse Nudi, l' autista di Mussolini. O il capitano
Calistri, il suo pilota personale. O Nicola Bombacci, uno dei fondatori del partito comunista, che,
in un empito romantico, si era unito, “in articulo mortis”, alla colonna degli sconfitti. Ma
nemmeno questa carneficina indiscriminata bastò alla Resistenza. I cadaveri furono portati a
piazzale Loreto e qui svillaneggiati, sputati, derisi. Delle donne pisciarono su questi cadaveri
che poi furono impiccati per i piedi sulla famosa pensilina. Ma o la cosa che a me,
personalmente, fa più orrore, più dello scempio compiuto dalla folla sui cadaveri, è la mano
cosiddetta pietosa che legò le gonne di della Petacci perché non le ricadessero oltre il ventre.
Perché in questo gesto ritrovo l'immonda ipocrisia italiana, l'eterna ipocrisia cattolica per cui si
può fare tutto, uccidere, massacrare, esporre dei cadaveri al ludibrio della folla, ma le gambe di
una donna, perdio, quelle devono rimanere pudicamente coperte. Giorgio Bocca, che nella sua Repubblica di Mussolini ha definito lo al scempio di piazzale Loreto “un atto rivoluzionario su
cui si farà dell' inutile moralismo” (pag. 336), si è indignato perché Giampiero Mughini, in una trasmissione di Italia 1, ha parlato invece di «bassa macelleria». Ma queste non sono parole di
Mughini, sono parole di Ferruccio Parri (che, se Bocca permette, ha qualche autorità in più
come combattente del nazifascismo e come resistente), il quale definì l' indegno spettacolo di
piazzale Loreto appunto una «macelleria messicana». E lo stesso Sandro Pertini disse, con voce strozzata, a Emilio Sereni, il rappresentante comunista del CIn: «Hai visto? L'insurrezione
è disonorata». In ogni caso non furono nè Parri, né Pertini, nè, tantomeno, Sereni, a por fine
allo scempio di piazzale Loreto. Fu un americano, il colonnello Charles Poletti, che ordinò ai
capi del CIn di sottrarre i cadaveri di Mussolini e degli altri alla furia della folla e di portarli all'
obitorio. Così la guerra italiana, cominciata con una vergogna, l' alleanza con i nazi, finiva con
una ignominia, il vilipendio dei cadaveri degli sconfitti. Io non sono contrario alle celebrazioni del
25 aprile. Ma non posso in alcun modo considerare questa data come una festa. La vorrei
piuttosto come un momento di raccoglimento in cui gli italiani rimeditino su se stessi, sulle
proprie responsabilità, sui propri errori ed orrori, sui propri opportunismi e, soprattutto, sulla
propria incommensurabile viltà, che il coraggio dei pochi, dei pochissimi, non riscatta. Anzi
aggrava.
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