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Il libro
Lealtà e tradimento, errori e seconde possibilità. Quando una vita va in pezzi, a volte si possono ricomporre i cocci. Fino a formare una nuova, scintillante figura...
Di scelte giuste, nella vita, Lucy Marinn ne ha collezionate ben poche, soprattutto in fatto di fidanzati. L’ultimo, Kevin, l’ha lasciata confessandole il peggiore dei
tradimenti: con la sorella minore di lei, Alice. Doppiamente tradita, Lucy abbandona l’incantata cittadina di Friday Harbor, nello Stato di Washington, un luogo dove
tutti si conoscono, e cerca rifugio nella solitaria isola di San Juan, il posto ideale per rimanere sola con i suoi pensieri e il suo dolore. Quello che Lucy non ha previsto
è di conoscere un affascinante vinicoltore locale, Sam Nolan, che è in realtà un amico di Kevin incaricato di “distrarla” un po’. E quello che Sam invece non ha
previsto è di innamorarsi perdutamente di lei.
L’autore
Lisa Kleypas, laureata in Scienze politiche, ha pubblicato il suo primo romanzo a soli ventun anni. Eletta Miss Massachusetts, si è dedicata alla carriera letteraria: i
suoi romanzi d’amore sono pubblicati in quattordici lingue e le sono valsi numerosi premi.

di Lisa Kleypas
o L’amante di Lady Sophia
o Come finiscono le favole
o Il diavolo ha gli occhi azzurri
o Una piccola magia
o Sognando te
o Sugar Daddy
LISA KLEYPAS
UNA PICCOLA MAGIA
Traduzione di Alessandra Sora
Una piccola magia
A Jennifer Enderlin,
con un grazie per l’intuito,
la pazienza e l’incoraggiamento;
sei un dono che non do mai per scontato.
Con affetto per sempre,
L.K.
1
Quando Lucy Marinn aveva sette anni, accaddero tre cose: la sua sorellina Alice si ammalò, le fu assegnato il suo primo progetto per la fiera della scienza, e scoprì
che la magia esisteva davvero. Per essere più precisi, scoprì di avere il potere di fare cose magiche. E per il resto della vita, Lucy avrebbe custodito la certezza che la
distanza tra l’ordinario e lo straordinario non era altro che un passo, un respiro, un battito del cuore.
Questo, però, non era il tipo di certezza che rendeva le persone audaci e coraggiose. O, per lo meno, non nel caso di Lucy. La rendeva cauta. Misteriosa. Perché
possedere un potere magico, e in particolare un potere che non potevi controllare, significava essere diversi. E persino una bambina di sette anni capiva che non era
consigliabile trovarsi dalla parte sbagliata della linea che divide i diversi dai normali. Bisognava appartenere. Il problema era che, per quanto si potesse mantenere
un segreto, il fatto stesso di averne uno bastava a separarti da tutti gli altri.
Non seppe mai con certezza perché la magia arrivò, quando lo fece, quale successione di eventi condusse alla sua prima comparsa, ma pensò che fosse cominciato
tutto la mattina in cui Alice si era svegliata con il collo rigido, la febbre e delle macchie rosse sulla pelle. Appena la mamma di Lucy l’aveva vista, aveva gridato al
papà di chiamare il dottore.
Spaventata dal trambusto per casa, Lucy si era seduta su una sedia della cucina in camicia da notte, il cuore che batteva forte mentre guardava suo padre sbattere il
ricevitore del telefono con tanta fretta che questo era rimbalzato fuori dalla sua base di plastica.
«Trovati le scarpe, Lucy. In fretta.» La voce di suo padre, di solito così calma, si era incrinata sull’ultima sillaba. Aveva la faccia bianca come un teschio.
«Che cosa succede?»
«La mamma e io portiamo Alice in ospedale.»
«Vengo anch’io?»
«Tu per oggi stai con la signora Geiszler.»
Al nome della vicina, che gridava sempre quando Lucy andava in bici sul prato davanti a casa, aveva protestato: «Non voglio. Mi fa paura».
«Non adesso, Lucy.» L’aveva guardata in modo tale che a Lucy le parole erano morte in gola.
Erano andati alla macchina e la mamma era salita dietro, tenendo Alice come se fosse una neonata. I suoni che emetteva Alice erano così impressionanti che Lucy si
era coperta le orecchie con le mani. Si era appiattita contro la portiera cercando di occupare meno spazio possibile, la plastica umida del sedile che si appiccicava
alle gambe. Dopo averla fatta scendere dalla signora Geiszler, i genitori erano filati via a una velocità tale che gli pneumatici del minivan avevano lasciato delle
strisce nere sul vialetto.
La faccia della signora Geiszler era corrugata come una saracinesca, mentre diceva a Lucy di non toccare nulla. La casa era piena di oggetti antichi. Il gradevole
sentore di muffa dei vecchi libri e il pungente profumo di limone della cera per mobili aleggiavano nell’aria. Era silenziosa come una chiesa, niente televisione in
sottofondo, niente musica, voci, squilli di telefono.
Seduta immobile sul divano di broccato, Lucy era rimasta a fissare il servizio da tè che era stato disposto con cura meticolosa sul tavolino. Il servizio era di un
meraviglioso tipo di vetro che Lucy non aveva mai visto prima. Ogni tazza e piattino rifulgevano di una luminescenza policroma, il vetro decorato a fitti ghirigori e
fiori dorati. Ipnotizzata da come cambiavano i colori a seconda dell’angolazione da cui li osservava, Lucy si era inginocchiata sul pavimento, inclinando la testa da
una parte e dall’altra.
La signora Geiszler, in piedi nel vano della porta, era scoppiata in una risatina che le aveva ricordato lo scricchiolio dei cubetti di ghiaccio quando ci versava sopra
dell’acqua. «È vetro d’arte» aveva detto. «Fatto in Cecoslovacchia. Appartiene alla mia famiglia da cent’anni.»
«Come fanno a metterci dentro l’arcobaleno?» aveva chiesto Lucy con voce sommessa.
«Sciolgono metallo e colore nel vetro fuso.»
Lucy era stata colpita da quella rivelazione. «Come si fonde il vetro?»
Ma la signora Geiszler era stufa di parlare. «I bambini fanno troppe domande» aveva detto, ed era tornata in cucina.
Lucy aveva imparato ben presto la parola che definiva ciò che non andava nella sua sorellina di cinque anni. Meningite. Significava che Alice sarebbe tornata a casa
debole e stanca e che Lucy doveva fare la brava e aiutare a occuparsi di lei e non fare disastri. Significava anche che Lucy non doveva litigare con Alice o agitarla in
alcun modo. «Non adesso» era la frase che i suoi genitori le dicevano più spesso.
La lunga, tranquilla estate rappresentò un traumatico abbandono della consueta routine, fatta di appuntamenti di gioco, campeggi e sgangherati baracchini di
limonata. La malattia di Alice era diventata il baricentro attorno al quale orbitavano ansiosamente gli altri membri della famiglia, come pianeti instabili. Nelle
settimane dopo il ritorno dall’ospedale, pile di nuovi giocattoli e libri si accumularono nella sua stanza. Le era permesso correre attorno al tavolo durante i pasti e
non era tenuta a dire “per piacere” o “grazie”. Alice non si accontentava di avere la fetta di torta più grossa o di poter restare alzata più degli altri bambini. Non
esisteva il troppo, per una ragazzina che aveva già troppo.
I Marinn vivevano nel quartiere Ballard di Seattle, originariamente popolato da scandinavi che lavoravano nel settore della pesca e dell’inscatolamento industriale
del salmone. Nonostante la percentuale di scandinavi fosse calata via via che Ballard si espandeva e si sviluppava, i segni della loro eredità culturale erano ancora
abbondanti. La mamma di Lucy cucinava con ricette tramandate dai suoi antenati scandinavi... il gravlax, salmone affumicato a freddo e marinato con sale, zucchero
e aneto... l’arrosto di maiale ripieno di prugne allo zenzero... o i krumkake, dolci al cardamomo arrotolati in coni perfetti attorno al manico dei cucchiai di legno.
Lucy adorava aiutare la mamma in cucina, specialmente perché Alice non era interessata e non si intrometteva mai.
Mentre l’estate scolorava in un autunno frizzante, e la scuola cominciava, la situazione in casa non dava segni di cambiamento. Alice era guarita, eppure sembrava
ancora che la famiglia funzionasse con le stesse regole della sua malattia: non agitarla. Lasciarle fare tutto quello che voleva.
Quando Lucy si lamentò, la madre la rimproverò con un’asprezza che non aveva mai usato prima.
«Vergognati di essere gelosa. Tua sorella è quasi morta. Ha sofferto in modo terribile. Tu sei molto, molto fortunata a non aver passato quello che ha passato lei.»
Il senso di colpa si irradiò da Lucy per giorni, rinnovandosi ciclicamente come una febbre persistente. Finché la mamma non le aveva parlato così, Lucy non era
riuscita a identificare la fastidiosa sensazione che tendeva le sue viscere come corde di violino. Ma era gelosia. Sebbene non sapesse come liberarsene, sapeva di
non dover dire nemmeno una parola al riguardo.
Nel frattempo, tutto ciò che Lucy poteva fare era aspettare che le cose tornassero come prima. Però, non avvenne mai. E anche se la mamma diceva di amarle
entrambe egualmente, seppur in modi diversi, Lucy pensava che il modo in cui amava Alice era qualcosa di più.
Lucy adorava sua madre, che inventava sempre passatempi interessanti nelle giornate di pioggia e sopportava di buon grado che lei volesse giocare con i vestiti e le
scarpe con il tacco alto del suo guardaroba. L’affetto giocoso di sua madre, però, sembrava avvolto attorno a un misterioso nocciolo di tristezza. Ogni tanto Lucy
entrava in una stanza e la trovava a guardare con occhi vacui un punto fisso sul muro, un’espressione smarrita sul viso.
Certe mattine, Lucy entrava in punta di piedi nella stanza dei genitori e si infilava nel letto di fianco alla mamma; restavano raggomitolate l’una contro l’altra finché
il freddo dei piedini nudi di Lucy non si era dissolto nel tepore delle coperte. Il papà si innervosiva, quando si rendeva conto che Lucy era nel letto con loro, e
borbottava che avrebbe dovuto tornarsene nella sua stanza. «Solo un momentino» mormorava la mamma, le braccia protettive strette attorno a Lucy. «Mi piace
cominciare la giornata così.» E Lucy si rintanava più profondamente nel suo corpo.
C’erano ripercussioni, però, se Lucy mancava di compiacere la mamma. Se arrivava a casa con una nota perché era stata beccata a chiacchierare in classe o perché
aveva preso un brutto voto in matematica, oppure se non si esercitava a sufficienza al pianoforte, la mamma diventava fredda e serrava le labbra. Lucy non capiva
mai perché sembrava che lei dovesse guadagnarsi qualcosa che ad Alice era concessa gratuitamente. Dopo la sua malattia quasi mortale, Alice venne assecondata in
tutto e viziata. Aveva delle maniere orribili, interrompeva le conversazioni, si trastullava con il cibo a tavola, strappava le cose di mano alle altre persone, e tutto
questo veniva ignorato.
Una sera in cui i Marinn avevano programmato di uscire lasciando le bambine con la babysitter, Alice pianse e strillò finché non annullarono la prenotazione al
ristorante e restarono a casa per accontentarla. Si fecero portare una pizza e la mangiarono in cucina, entrambi con addosso i vestiti eleganti che si erano messi per
uscire. I gioielli della mamma brillavano e producevano bagliori di luce riflessa sul soffitto. Alice afferrò un pezzo di pizza e andò pigramente in soggiorno a guardare
i cartoni in tv. Lucy prese il suo piatto e fece per seguirla.
«Lucy,» disse la mamma «non alzarti da tavola finché non hai finito di mangiare.»
«Ma Alice sta mangiando in soggiorno.»
«Lei è troppo piccola per capire.»
A sorpresa, il papà si unì alla conversazione. «Ha solo due anni meno di Lucy. E se ben ricordo, a Lucy non abbiamo mai permesso di andarsene in giro durante i
pasti.»
«Alice non ha ancora ripreso i chili che ha perso durante la meningite» rispose la mamma bruscamente. «Lucy, torna a tavola.»
L’ingiustizia della situazione strinse la gola di Lucy come una morsa. Riportò il piatto a tavola il più lentamente possibile, chiedendosi se il padre sarebbe intervenuto
in sua difesa. Ma lui aveva scrollato la testa ed era rimasto zitto.
«Deliziosa» disse la mamma vivacemente, affondando i denti nella pizza come fosse una rara delizia. «Ne avevo proprio voglia. Non mi andava di uscire. È così bello
starsene comodi a casa propria.»
Il papà non rispose. Metodicamente finì la sua pizza, portò il piatto vuoto al lavello e andò in cerca del telefono.
«La maestra ha detto di darvi questo» disse Lucy, tendendo un pezzo di carta alla madre.
«Non adesso, Lucy, sto cucinando.» Cherise Marinn tagliava il sedano sul tagliere, il coltello che riduceva i gambi in tanti piccoli pezzi a forma di U. Mentre Lucy
aspettava con pazienza, la madre le lanciò un’occhiata e sospirò. «Dimmi che cos’è, tesoro.»
«Le istruzioni per la fiera della scienza delle seconde. Abbiamo due settimane per prepararla.»
Arrivata alla fine del gambo di sedano, la madre di Lucy appoggiò il coltello e allungò la mano verso il foglio. Le belle sopracciglia si avvicinarono mentre leggeva.
«Ha l’aria di essere un progetto che richiede molto tempo. Sono tenuti a partecipare tutti gli alunni?»
Lucy fece cenno di sì.
La madre scosse la testa. «Vorrei che le tue maestre sapessero quanto tempo chiedono ai genitori per queste attività.»
«Tu non devi fare niente, mamma. Dovrei essere io a fare il lavoro.»
«Qualcuno dovrà portarti al negozio di bricolage a comprare il pieghevole a tre ante e gli altri materiali. E naturalmente tenerti d’occhio mentre fai gli esperimenti, e
aiutarti a ripetere la presentazione.»
Il papà di Lucy entrò in cucina, con la solita aria stanca che aveva alla fine di una lunga giornata. Phillip Marinn era così preso dal suo incarico di docente di
astronomia all’università di Washington e dal suo secondo lavoro di consulente per la NASA che a casa sembrava passarci per caso, più che abitarci. Le sere in cui
tornava in tempo per la cena finiva sempre per parlare al telefono con i colleghi mentre la moglie e le figlie mangiavano senza di lui. I nomi degli amichetti delle
bambine, delle maestre e degli istruttori di calcio, nonché il programma dettagliato delle loro giornate, gli erano del tutto sconosciuti. Ecco perché Lucy si stupì
tanto alle parole della mamma.
«Lucy ha bisogno di aiuto per un progetto di scienze. Io mi sono appena offerta di dare una mano per le festicciole all’asilo di Alice. Ho parecchio da fare.» Gli porse
il foglio e andò a rovesciare il sedano tagliuzzato in una pentola di brodo che bolliva sul fornello.
«Buon Dio.» Lui lesse velocemente la nota con aria preoccupata. «Io non ho tempo.»
«Dovrai trovarlo» disse la mamma.
«E se la facessi aiutare da uno dei miei studenti?» suggerì. «Potrei farla passare per un’attività che dà diritto a dei crediti aggiuntivi.»
La mamma si accigliò. «Phillip. L’idea di appioppare tua figlia a uno studente universitario...»
«Era uno scherzo» si affrettò a dire lui, sebbene Lucy non ne fosse così sicura.
«Quindi sei d’accordo? Farai questa cosa con Lucy?»
«Non ho scelta, a quanto pare.»
«Questa esperienza rafforzerà il vostro legame.»
Lui rivolse a Lucy uno sguardo rassegnato. «Abbiamo bisogno di rafforzare il nostro legame?»
«Sì, papà.»
«Molto bene. Hai deciso che tipo di esperimento vuoi fare?»
«Sarà una relazione» disse Lucy. «Sul vetro.»
«Cosa ne dici di un progetto sullo spazio? Potremmo fare un modello del sistema solare, o descrivere la formazione delle stelle...»
«No, papà. Deve essere sul vetro.»
«Perché?»
«Perché sì.» Lucy era affascinata dal vetro. Tutte le mattine a colazione osservava meravigliata il materiale luminoso di cui era fatto il suo bicchiere di succo. Con
quanta perfezione conteneva il liquido limpido, quanto facilmente trasmetteva il caldo, il freddo, le vibrazioni.
Il papà la portò in biblioteca e diede un’occhiata ai libri per adulti sul vetro e sulla fabbricazione del vetro, perché, disse, quelli per bambini non erano abbastanza
dettagliati. Lucy imparò che quando una sostanza è composta di molecole disposte come mattoni impilati l’uno vicino all’altro, non ci puoi vedere attraverso. Ma se
una sostanza è composta di molecole disposte senza un ordine preciso, come nel caso dell’acqua, dello zucchero fuso o del vetro, la luce trova una via per infilarsi
negli spazi che le separano.
«Dimmi, Lucy,» le chiese il padre mentre incollavano un diagramma sul cartellone pieghevole «il vetro è un liquido o un solido?»
«È un liquido che si comporta come un solido.»
«Sei una bambina molto intelligente. Pensi che diventerai una scienziata come me, da grande?»
Lei scosse la testa.
«Che cosa vuoi fare?»
«L’artista del vetro.» Ultimamente, Lucy aveva cominciato a sognare di creare oggetti con il vetro. Nel sonno vedeva la luce baluginare e rifrangersi attraverso
finestre colorate come caramelle... vetro che vorticava e si avvolgeva a spirale su se stesso, assumendo la forma di esotiche creature marine, uccelli, fiori.
Il padre la osservò, turbato. «Sono ben pochi quelli che possono mantenersi facendo gli artisti. Solo quelli famosi guadagnano.»
«Allora sarò famosa» disse lei allegramente, colorando le lettere del suo pieghevole.
Durante il weekend, il papà la portò a visitare una bottega artigiana specializzata nella lavorazione del vetro soffiato, dove un uomo con la barba rossa le illustrò le
tecniche basilari del mestiere. Ipnotizzata, Lucy lo guardava, standogli appiccicata quanto suo padre le permetteva di fare. Dopo aver fuso la sabbia in una fornace
ad alta temperatura, l’uomo infilava all’interno un lungo bastone di metallo e raccoglieva una grossa goccia di vetro sciolto, rossa e incandescente. L’aria era
impregnata dall’odore di metallo caldo, sudore, inchiostro essiccato e residui inceneriti della carta di giornale bagnata che nel laboratorio usavano per modellare il
vetro.
A ogni successiva raccolta di vetro, l’artigiano aumentava la dimensione del fiammeggiante bolo arancione, senza mai smettere di ruotarlo, riscaldandolo spesso.
Aggiungeva sul bastone uno strato di fritta blu, o polvere ceramica, e lo rotolava su un tavolo di ferro per distribuire uniformemente il colore.
Lucy guardava con gli occhi spalancati. Voleva imparare tutto di quel misterioso processo, ogni modo possibile di tagliare, fondere, colorare e modellare il vetro.
Nulla le era mai sembrato più importante o necessario da sapere.
Prima di lasciare il laboratorio, il papà le comprò un ornamento di vetro soffiato che assomigliava a una mongolfiera, dipinto a strisce scintillanti nei colori
dell’arcobaleno. Era appeso a un piccolo supporto di filo d’ottone. Lucy avrebbe sempre ricordato quel giorno come il più bello di tutta la sua infanzia.
Una settimana dopo, quando Lucy arrivò a casa dall’allenamento di calcio, il calare della sera aveva tinto il cielo di viola, e uno strato di nubi lo velava come la patina
argentata su una prugna. Con le gambe irrigidite dai parastinchi di plastica sotto i calzettoni, Lucy andò nella sua camera e vide che l’abat-jour sul comodino era
accesa. C’era Alice, lì, che aveva qualcosa in mano.
Lucy si accigliò. Avevano detto ad Alice, più di una volta, che non poteva entrare nella sua camera senza permesso. Il fatto che la camera di Lucy fosse proibita, però,
la rendeva estremamente desiderabile agli occhi di Alice. Lucy aveva sospettato che ci si fosse già intrufolata altre volte quando aveva notato che i suoi animali di
peluche e le sue bambole non erano al solito posto.
Quando Lucy sbottò in un’esclamazione di sorpresa, Alice si girò di scatto e quello che aveva in mano cadde sul pavimento. Il conseguente rumore di qualcosa che
andava in frantumi le fece sobbalzare entrambe. Un’espressione colpevole si dipinse sul visetto di Alice.
Lucy fissava senza parlare i cocci scintillanti sul pavimento di legno. Era l’ornamento di vetro soffiato che le aveva comprato papà. «Perché sei qui?» chiese con
rabbia incredula. «È la mia camera. Quello era mio. Vai via!»
Alice scoppiò a piangere, ferma tra i pezzi di vetro sparsi attorno a lei.
Allertata dal rumore, la mamma si precipitò nella stanza. «Alice!» Corse avanti e la sollevò dal pavimento, allontanandola dai vetri rotti. «Piccola, ti sei fatta male?
Che cos’è successo?»
«Lucy mi ha spaventata.»
«Ha rotto la mia pallina di vetro» disse Lucy infuriata. «È entrata nella mia stanza senza chiedere il permesso e l’ha rotta.»
La mamma teneva in braccio Alice, accarezzandole i capelli. «La cosa importante è che nessuno si sia fatto male.»
«La cosa importante è che lei ha rotto una cosa che era mia!»
La madre la guardò, esasperata e addolorata. «Era solo curiosa. È stato un incidente, Lucy.»
Lucy rivolse uno sguardo truce alla sorellina. «Ti odio. Non entrare più qui o ti stacco la testa.»
La minaccia scatenò un altro diluvio di lacrime da parte di Alice, mentre il volto della mamma si rabbuiava. «Smettila, Lucy. Dovresti essere più gentile con tua
sorella, specialmente dopo che è stata ammalata.»
«Non è più ammalata» disse Lucy, ma le sue parole si persero tra i violenti singhiozzi di Alice.
«Adesso mi occupo di tua sorella» disse la madre. «Poi torno e tolgo di mezzo questi vetri. Non toccare niente, quelle schegge sono taglienti come rasoi. Per l’amor
di Dio, Lucy, ti comprerò un’altra pallina!»
«Non sarà la stessa» disse Lucy con voce piatta, ma la madre aveva già portato Alice fuori dalla stanza.
Lucy si inginocchiò davanti ai frantumi di vetro, che rilucevano sul pavimento con la tenue iridescenza di bolle di sapone. Si rannicchiò e tirò su con il naso, e fissò
l’ornamento rotto finché non le si offuscò la vista. L’emozione la riempì tutta, finché le parve che dovesse fuoriuscire dalla sua pelle ed espandersi nell’aria... furia,
dolore e uno smanioso, lancinante, disperato desiderio d’amore.
Sul pavimento, dentro la debole chiazza di luce proiettata dall’abat-jour, si risvegliarono dei piccoli punti luminosi. Ingoiando le lacrime, Lucy si strinse le braccia
attorno al corpo ed emise un sospiro tremante. Batté le palpebre, mentre quel brillio si sollevava da terra e turbinava attorno a lei. Sbalordita, si asciugò gli occhi
con le mani e osservò il girotondo di luci. Finalmente capì cos’erano.
Lucciole.
Magia prodotta apposta per lei.
Ogni coccio di vetro si era trasformato in una scintilla di vita. Lentamente, il corteo danzante di lucciole prese la via della finestra aperta e scivolò fuori nella notte.
Quando la mamma tornò, qualche minuto dopo, Lucy era andata a sedersi sull’orlo del letto e fissava la finestra.
«Che cos’è successo ai vetri?» chiese la mamma.
«Se ne sono andati» disse Lucy con aria assente.
Era il suo segreto, la sua magia. Lucy non sapeva da dove fosse venuta. Sapeva solo che avrebbe trovato gli spazi di cui aveva bisogno, che avrebbe preso vita dentro
di essi, come i fiori che crescono tra le fessure dei pavimenti rotti.
«Ti avevo detto di non toccarli. Avresti potuto tagliarti le dita.»
«Mi spiace, mamma.» Lucy prese il libro sul comodino. Lo aprì su una pagina a caso e la fissò senza vederla.
Sentì la mamma sospirare. «Lucy, devi essere più paziente con tua sorella.»
«Lo so.»
«È ancora fragile, dopo quello che ha passato.»
Lucy tenne lo sguardo fisso sul libro che aveva in mano e aspettò in ostinato silenzio che la mamma uscisse dalla camera.
Dopo una cena arrangiata, con le sole chiacchiere di Alice a rompere il silenzio, Lucy aiutò a sparecchiare. La sua mente era piena di pensieri. Le era sembrato che le
sue emozioni avessero assunto una forza tale da poter imprimere una nuova forma al vetro. Pensava che il vetro, forse, aveva cercato di dirle qualcosa.
Andò nello studio del papà, dove lui stava digitando un numero al telefono. Non gli piaceva essere disturbato mentre lavorava, ma lei doveva chiedergli una cosa.
«Papà» disse esitante.
Capì che l’interruzione l’aveva infastidito dal modo in cui irrigidì le spalle. Ma la sua voce era dolce, mentre appoggiava il ricevitore e diceva: «Sì, Lucy?».
«Che cosa vuole dire quando vedi una lucciola?»
«Temo che non ne vedrai, di lucciole, nello Stato di Washington. Non arrivano così a nord.»
«Ma che cosa vogliono dire?»
«Simbolicamente, intendi?» Ci pensò un attimo. «La lucciola è un insetto insignificante, di giorno. Se non sapessi cos’è, penseresti che non è niente di speciale. Ma
di notte la lucciola brilla grazie a una propria fonte di luce. L’oscurità tira fuori il suo dono più bello.» Sorrise all’espressione rapita di Lucy. «È uno straordinario
talento per una creaturina d’aspetto così banale, no?»
Da lì in poi, la magia era arrivata per Lucy ogni volta che ne aveva avuto bisogno. E, in certi casi, quando meno la desiderava.
2
«La fiducia è un problema, per me» aveva detto Lucy a Kevin una volta, poco dopo che si erano conosciuti.
Lui l’aveva abbracciata bisbigliando: «Con me no, non lo è».
Dopo due anni che viveva con Kevin Pearson, Lucy non riusciva ancora a credere alla propria fortuna. Lui era tutto quello che avrebbe potuto desiderare, un uomo
che comprendeva il valore dei piccoli gesti, come piantare i suoi fiori preferiti nel giardino davanti a casa, o chiamarla nel bel mezzo della giornata senza un motivo
preciso. Era socievole e spesso la trascinava fuori dal suo studio per portarla a una festa o a una cena tra amici.
L’ossessivo attaccamento di Lucy al lavoro aveva creato problemi, nelle precedenti relazioni. La sua produzione spaziava dai mosaici, alle lampade, ai piccoli oggetti
d’arredo, ma più di tutto amava le vetrate artistiche. Lucy non aveva mai trovato un uomo che l’affascinasse nemmeno la metà del suo mestiere e, di conseguenza,
aveva sempre avuto risultati di gran lunga migliori come artista che non come fidanzata. Kevin aveva rotto gli schemi. Le aveva insegnato la sensualità, e la fiducia, e
insieme avevano condiviso momenti in cui Lucy si era sentita più vicina a lui che a qualunque altra persona avesse mai conosciuto. Tuttavia, era sopravvissuta una
piccola ma incolmabile distanza, che impediva a entrambi di conoscere appieno e nel profondo le verità dell’altro.
La fresca brezza d’aprile si infilò nella finestra semiaperta del garage convertito a studio. Il laboratorio di Lucy era pieno di strumenti del mestiere: un tavolo
retroilluminato per il taglio e il disegno, una stazione di saldatura, classificatori per le lastre di vetro, un forno. Fuori, a fare da insegna, c’era un allegro mosaico di
vetro che raffigurava una silhouette di donna seduta su un’antiquata altalena, con la volta celeste sullo sfondo. Sotto, le paroleDONDOLA SU UNA STELLA, incise in
eleganti caratteri dorati.
I rumori della vicina Friday Harbor veleggiarono all’interno dello studio: i vivaci bisticci dei gabbiani, la sirena strombazzante di un traghetto in arrivo. Anche se San
Juan faceva parte dello Stato di Washington, sembrava in tutto e per tutto un altro mondo. Era protetta dall’effetto rainshadow delle Cascade Mountains, che
costituivano una naturale barriera contro la pioggia; così, anche quando Seattle era ammantata di grigiore e umidità, sull’isola splendeva il sole. La costa era orlata
di spiagge, l’interno lussureggiante di foreste di pini e abeti. In primavera e in autunno si distinguevano all’orizzonte i soffi di acqua vaporizzata dei pod di orche che
seguivano le rotte dei salmoni.
Lucy sistemò e risistemò con estrema cura i pezzi prima di premerli su un piano per tavolo ricoperto da un sottile strato di malta legante. Il mosaico era composto da
una miscellanea di vetri levigati dal mare, frammenti di porcellana, vetri di Murano, millefiori, tutti assemblati attorno a una spirale di vetro intagliato. Stava
preparando un regalo di compleanno per Kevin, un tavolino decorato con un motivo a spirale che lui aveva ammirato in uno dei suoi schizzi.
Intenta nel suo lavoro, Lucy si dimenticò del pranzo. A un certo punto del pomeriggio, Kevin bussò alla porta ed entrò.
«Ehi» disse Lucy con un sorriso, buttando un telo sul tavolo per impedirgli di vederlo. «Che cosa ci fai qui? Ti va di portarmi fuori a mangiare un panino? Muoio di
fame.»
Ma Kevin non rispose. Aveva il volto teso e sfuggiva il suo sguardo. «Dobbiamo parlare» disse.
«Di cosa?»
Lui esalò un respiro incerto. «Così non va bene, per me.»
Comprendendo dalla sua espressione che qualcosa andava male sul serio, Lucy si sentì gelare. «Che... che cosa non va bene per te?»
«Noi. Il nostro rapporto.»
Un’ondata di folle panico le svuotò la mente. Ci volle del tempo, perché tornasse a connettere. «... non è per te» stava dicendo Kevin. «Voglio dire, tu sei fantastica.
Spero che tu ci creda. Ma ultimamente non è abbastanza per me. No... “abbastanza” non è la parola giusta. Forse è che tu sei “troppo”, per me. È come se in questa
storia non restasse spazio per me, come se mi soffocasse. Ha senso quello che dico?»
Lo sguardo stordito di Lucy cadde sugli scarti di vetro sul tavolo da lavoro. Forse se si fosse concentrata su qualcos’altro, qualsiasi cosa che non fosse Kevin, forse lui
si sarebbe fermato.
«Voglio essere davvero, davvero chiaro su questo, così non farò la figura del cattivo. Nessuno qui deve fare la figura del cattivo. È solo che è estenuante, Luce,
doverti sempre rassicurare che io sono dentro questo rapporto quanto lo sei tu. Se tu ti mettessi nei miei panni per un minuto, capiresti perché ho bisogno di
prendermi una pausa da tutto questo. Da noi.»
«Tu non ti stai prendendo una pausa.» Lucy cercò affannosamente un tagliavetro e ne intinse la punta nell’olio. «Tu mi stai lasciando.» Non poteva crederci. Sentiva
le proprie parole, ma non poteva crederci. Usando un righello a L come guida, tirò una riga su pezzo di vetro, a malapena consapevole di quello che stava facendo.
«Vedi, è di questo che parlo. Il tono della tua voce. So che cosa stai pensando. Ti sei sempre preoccupata che io ti lasciassi, e adesso lo sto facendo, quindi tu pensi
di avere sempre avuto ragione. Ma non è così.» Kevin tacque, osservandola mentre afferrava il vetro con un paio di pinze apritaglio. Una presa esperta e il vetro si
divise di netto lungo la linea segnata. «Non sto dicendo che è colpa tua. Quello che sto dicendo, è che non è colpa mia.»
Lucy appoggiò il vetro e le pinze con esagerata meticolosità. Aveva la sensazione di precipitare, anche se era seduta, immobile. Era una sciocca, a sentirsi così
sbigottita? Quali segnali si era persa? Perché si era fatta sorprendere alle spalle?
«Dicevi di amarmi» disse, umiliata dal suono patetico della propria voce.
«Ti amavo davvero. Ti amo ancora. Ecco perché è così difficile per me. Sto male come te. Spero che tu lo capisca.»
«C’è un’altra?»
«Se anche ci fosse, non avrebbe nulla a che fare con il motivo per cui devo prendermi una pausa da noi.»
Lucy sentì se stessa parlare, con una voce che faceva pensare a un bordo strappato.
«Dici “prendermi una pausa” come se stessi uscendo per prenderti un caffè e una brioche. Ma non è una pausa. È per sempre.»
«Sapevo che ti saresti incazzata. Sapevo che c’era solo da perderci.»
«E come potrebbe essere diversamente?»
«Mi dispiace. Mi dispiace. Quante volte te lo devo dire? Non potrei sentirmi più dispiaciuto di così. Ho fatto il massimo e mi dispiace che per te non sia stato
abbastanza. No, so che non hai mai detto che non era abbastanza, ma io lo capivo. Perché nulla di quello che ho fatto è riuscito a vincere la tua insicurezza. E alla
fine ho dovuto affrontare il fatto che il rapporto per me non funzionava. E non è stato divertente, credimi. Se ti fa stare meglio, io mi sento una merda.»
Di fronte allo sguardo smarrito di Lucy, Kevin emise un breve sospiro. «Ascolta, c’è una cosa che devi sentirti dire da me prima di venirla a sapere da qualcun altro.
Quando mi sono reso conto che il nostro rapporto era in crisi, ho dovuto parlarne con qualcuno. Mi sono rivolto a... un’amica. E più tempo passavamo insieme, più
ci avvicinavamo. Non avevamo il potere di tenere questa cosa sotto controllo. È successo e basta.»
«Hai cominciato a vederti con un’altra? Prima di rompere con me?»
«Avevo già rotto con te, emotivamente. Solo che non te l’avevo ancora detto. Lo so, avrei dovuto gestirla diversamente. Il fatto è che devo prendere questa nuova
direzione. È la cosa migliore per entrambi. Ma quello che rende la situazione difficile per tutti, me compreso, è che la persona con cui sto adesso ti è molto... vicina.»
«Vicina? È una mia amica?»
«In effetti è... Alice.»
Lucy sentì la pelle pungere, come accade quando hai appena evitato una caduta ma senti ancora gli effetti della scarica di adrenalina. Non riuscì a proferire una sola
parola.
«Non voleva che accadesse. Non più di quanto lo volessi io» disse Kevin.
Lucy batté le palpebre e deglutì. «Che accadesse cosa? Tu... tu esci con mia sorella? Sei innamorato di lei?»
«Non era nei miei progetti.»
«Sei andato a letto con lei?»
Un silenzio colpevole rispose per lui.
«Vai via.»
«Va bene. Ma non voglio che tu dia a lei la colpa di...»
«Vai via, vai via!» Lucy aveva sentito abbastanza. Non era del tutto sicura di sapere che cosa avrebbe fatto dopo, ma non voleva che Kevin fosse lì quando l’avrebbe
fatto.
Lui si avvicinò alla porta dello studio. «Parleremo ancora più tardi, quando avrai avuto modo di pensarci sopra, okay? Perché io voglio che restiamo amici. Però il
fatto è, Luce... Alice si trasferirà qui abbastanza presto. Quindi, avrai bisogno di trovarti un posto.»
Lucy tacque. Attese, immobile come un mucchietto di cocci, per parecchi minuti dopo che lui se ne fu andato.
Si chiese con amarezza perché fosse così sorpresa. Lo schema non era mai cambiato. Alice aveva sempre ottenuto quello che voleva, preso quello che le serviva,
senza mai riservare un pensiero alle conseguenze. Ogni membro della famiglia Marinn metteva Alice davanti a tutto, Alice compresa. Sarebbe stato facile odiarla, se
non fosse stato che in certe occasioni Alice manifestava una mescolanza di fragilità e malinconia che sembrava riecheggiare la velata tristezza della loro mamma.
Lucy si era sempre trovata nella posizione di doversi occupare di Alice; di pagare per lei quando uscivano a cena, di anticiparle del denaro che non avrebbe più
rivisto, di prestarle abiti e scarpe che non le venivano mai restituiti.
Alice era intelligente e aveva una buona dialettica, ma era sempre stato difficile per lei portare a termine quello che cominciava. Cambiava spesso lavoro, lasciava i
progetti a metà, interrompeva le relazioni prima che potessero arrivare da qualche parte. Faceva una splendida prima impressione – carismatica, sexy e divertente –
ma non costruiva nulla con nessuno, apparentemente incapace di reggere alle prosaiche, quotidiane interazioni che sono il cemento di ogni rapporto.
Nell’ultimo anno e mezzo, Alice aveva lavorato nel reparto sceneggiatura di una soap opera trasmessa in fascia diurna. Non era mai capitato che conservasse tanto a
lungo un impiego. Viveva a Seattle, di tanto in tanto andava a New York per discutere con lo sceneggiatore capo degli sviluppi della storia. Lucy l’aveva presentata a
Kevin e in qualche occasione erano usciti insieme, ma Alice non aveva mai dimostrato un particolare interesse per lui. Stupidamente, Lucy non aveva mai sospettato
che l’abitudine a prendere in prestito le sue cose potesse estendersi fino a rubarle il ragazzo.
Come era cominciata la relazione tra Alice e Kevin? Chi aveva fatto il primo passo? Era stata Lucy, con il suo eccessivo bisogno d’affetto, ad allontanare Kevin da sé?
Se lui non aveva colpa, come aveva detto, allora la colpa doveva essere sua, no? Doveva essere per forza colpa di qualcuno.
Strizzò gli occhi chiusi per ricacciare indietro le lacrime.
Come poteva pensare a qualcosa che faceva così male? Cosa doveva farne di quei ricordi, sentimenti, bisogni che non avevano più una collocazione?
Barcollando, Lucy andò verso la sua bici vintage con cambio a tre velocità, appoggiata vicino alla porta. Era una Schwinn turchese d’epoca, con il cestino a fiori sul
manubrio. Prese il casco appeso a un gancio vicino alla porta e portò fuori la bici.
Un velo di foschia era sceso sul fresco pomeriggio primaverile e i boschi di abeti di Douglas perforavano uno strato di nubi leggero come schiuma. Lucy sentì la pelle
d’oca sulle braccia nude mentre un vento lieve le faceva penetrare il freddo umido sotto la maglietta. Pedalò senza direzione e senza meta, finché non sentì bruciare
i muscoli delle gambe e il petto dolorante. Si fermò su uno spiazzo al margine della strada, riconoscendo il sentiero che portava a una baia sulla costa occidentale
dell’isola. Spingendo la bici sul terreno impervio, arrivò a una barriera di ripide rocce di basalto rosso eroso dalle intemperie e colonne di puro calcare. Corvi e
gabbiani beccavano i resti della bassa marea sulla spiaggia sottostante.
La popolazione nativa dell’isola, una tribù di Coast Salish, un tempo pescava molluschi, ostriche e salmoni con reti tese lungo la scogliera. Credevano che
l’abbondanza di cibo nello stretto fosse il dono di una donna che in un tempo lontano si era sposata con il mare. Un giorno si era recata a nuotare e il mare aveva
assunto la forma di un bell’uomo giovane che si era innamorato di lei. Dopo che suo padre, con grande riluttanza, aveva autorizzato il matrimonio, la donna era
scomparsa con il proprio innamorato nel mare. Da allora il mare offriva, in segno di gratitudine, acque pescose agli isolani.
Quella storia era sempre piaciuta a Lucy, affascinata dall’idea di un amore così totalizzante che non ti importa di perdertici dentro. Di rinunciare a tutto in suo nome.
Però era un concetto romantico, che esisteva solo nell’arte, nella letteratura o nella musica. Non aveva nulla a che fare con la vita vera.
Per lo meno, non con la sua.
Dopo aver abbassato il cavalletto della bici, Lucy si tolse il casco e si avviò verso la spiaggia che si stendeva ai piedi delle rocce. Il terreno era composto di ciottoli e
chiazze irregolari di sabbia grigiastra, irta di detriti legnosi trasportati dalla corrente. Camminava piano, cercando di capire che cosa fare. Kevin voleva che andasse
via di casa. Aveva perso la sua casa, il suo compagno e sua sorella in un solo pomeriggio.
Le nuvole si abbassavano, soffocando quel che restava del giorno. In lontananza, una nube temporalesca riversava sull’oceano scrosci di pioggia che ondeggiavano
come veli di garza su una finestra. Un corvo si levò alto sull’acqua, le punte nere delle ali separate come dita piumate mentre cavalcava una corrente ascensionale e
si dirigeva verso l’entroterra. Lucy vide che il temporale avanzava nella sua direzione: doveva muoversi e trovare un riparo. Solo che le sembrava di non avere
nessun posto dove andare.
Attraverso una nebbiolina salata, vide un luccichio verde tra i ciottoli. Si chinò a raccoglierlo. Le bottiglie gettate in mare dai motoscafi d’altura a volte finivano
fracassate sulla costa, trasformate dalle onde e dalla sabbia in sassolini di vetro smerigliato.
Chiudendo la mano sul pezzo di vetro di mare, guardò lontano, verso l’acqua che sciabordava sulla costa come una spessa coperta di schiuma. L’oceano era di un
grigio livido, il colore del rimpianto e del risentimento, e della più profonda solitudine. Il lato peggiore dell’essere stata ingannata come lo era stata lei era che si
perde la fiducia in se stessi. Se il tuo giudizio ha fallito così grossolanamente, non sarai mai più pienamente certo di nulla.
Il suo pugno bruciava, una palla di fuoco. Nel percepire uno strano movimento guizzante che le solleticava il palmo, aprì istintivamente le dita. Il vetro di mare non
c’era più. Al suo posto c’era una farfalla, ferma sulla sua mano, con iridescenti ali azzurre ripiegate su se stesse. Restò solo un attimo prima di sollevarsi con un
palpito, volando via come un celestiale raggio d’azzurro in cerca di riparo.
Un cupo sorriso incurvò le labbra di Lucy.
Non aveva mai detto a nessuno che cosa poteva fare con il vetro. A volte, quando sperimentava emozioni potenti, un pezzo di vetro che aveva toccato si
trasformava in creature vive, o almeno in illusioni molto convincenti, sempre piccole, sempre transitorie. Lucy si era sforzata di capire come e perché succedesse,
finché non aveva letto una citazione di Einstein: “Si deve vivere come se tutto fosse un miracolo o come se nulla fosse un miracolo”. E allora aveva capito che poteva
chiamare il suo dono fenomeno di fisica molecolare o magia, perché entrambe le definizioni erano vere, e le parole comunque non contavano.
Il suo sorriso senza gioia svanì mentre guardava la farfalla sparire.
Una farfalla significava accettazione di ciascuna nuova fase della vita. Mantenere la fede mentre attorno a lei tutto cambiava.
“Non questa volta” pensò, odiando la propria capacità, l’isolamento che imponeva.
Con la coda dell’occhio vide un cane che avanzava sul bagnasciuga. Lo seguiva uno sconosciuto con i capelli scuri, il cui sguardo vigile si fissò su Lucy.
La sua vista la fece sentire subito a disagio. Aveva l’aspetto solido dell’uomo che lavorava all’aperto. E qualcosa in lui dava la sensazione che avesse conosciuto il lato
più duro della vita. In altre circostanze, Lucy forse avrebbe reagito diversamente, ma in quel momento non si preoccupò di essere sola con lui su quella spiaggia.
Si diresse verso il sentiero che riportava allo spiazzo sul ciglio della strada. Uno sguardo alle spalle le rivelò che l’uomo la stava seguendo. La cosa la rese nervosa.
Mentre accelerava il passo, la punta della scarpa da ginnastica incappò nel basalto eroso dal vento. Lei si sbilanciò in avanti e finì per terra, cadendo sulle mani.
Confusa, cercò di riprendersi. Nel tempo che impiegò a rimettersi in piedi, l’uomo l’aveva raggiunta. Si girò a fronteggiarlo, ansimando, i capelli castani scomposti
che le oscuravano in parte la visuale.
«Tranquilla» disse lui bruscamente.
Lucy scostò i capelli dagli occhi e lo guardò, cauta. I suoi occhi erano un’ombra turchese sulla faccia abbronzata. Era un tipo che faceva colpo, sexy, con un fascino
rude e scompigliato. Anche se non dimostrava più di trent’anni, il suo viso era segnato dalla maturità dell’uomo che aveva già fatto la sua parte nella vita.
«Lei mi stava seguendo» disse Lucy.
«Non la stavo seguendo. Capita che questo sia l’unico sentiero che porta sulla strada, e io vorrei tornare sul mio furgone prima che arrivi la tempesta. Quindi, se non
le spiace, o sale o si toglie di mezzo.»
Lucy rimase ferma sul lato e fece un gesto sarcastico come a dire “dopo di lei”. «Non sia mai che io la trattenga.»
Lo sguardo dello sconosciuto si spostò sulla sua mano, dove il sangue si era raccolto tra le pieghe delle dita. Un spigolo di roccia le aveva tagliato la parte superiore
del palmo quando era caduta. Lui corrugò la fronte. «Ho il kit del pronto soccorso sul furgone.»
«Non è niente» disse Lucy, anche se la ferita sanguinava copiosamente. Si asciugò il sangue che sgorgava sui jeans. «Sto bene.»
«Ci prema sopra l’altra mano» disse l’uomo. Irrigidì le labbra mentre la controllava. «Vengo su con lei.»
«Perché?»
«Nel caso cada di nuovo.»
«Non cadrò.»
«È ripido. E a quanto ho visto, lei non mi sembra perfettamente salda sulle gambe.»
Lucy fece una risatina incredula. «Lei è il più... Io... io non la conosco neanche.»
«Sam Nolan. Vivo a False Bay.» Tacque mentre un tuono minaccioso squarciava il cielo. «Muoviamoci.»
«Sulle sue capacità interpersonali ci sarebbe da lavorare» disse Lucy. Ma non obiettò mentre lui la accompagnava sul terreno impervio.
«Tieni il passo, Renfield» disse Sam al bulldog, che li seguiva con furiosi starnuti e sibili.
«Vive tutto l’anno sull’isola?»
«Sì. Nato e cresciuto qui. Lei?»
«Sono qui da un paio d’anni.» Aggiunse in tono cupo: «Ma mi trasferirò presto».
«Cambia lavoro?»
«No.» Sebbene Lucy fosse sempre cauta nel parlare della sua vita privata, un impulso temerario la spinse ad aggiungere: «Il mio ragazzo mi ha appena lasciata».
Sam la guardò rapidamente di sottecchi. «Oggi?»
«Un’ora fa.»
«Sicura che sia finita? Potrebbe essere solo un litigio.»
«Sicura» disse Lucy. «Mi ha tradita.»
«Allora è una liberazione.»
«Non prende le sue difese?» gli chiese Lucy cinicamente.
«Perché dovrei difendere un tipo così?»
«Perché è un uomo, e a quanto pare gli uomini non possono evitare di tradire. Siete fatti così. Un imperativo biologico.»
«È così un accidenti. Un uomo non tradisce. Se vuoi andare con un’altra, prima rompi. Senza eccezioni.» Continuavano a camminare sul sentiero. Gocce pesanti
cadevano a terra, sempre più fitte. «Ci siamo quasi» disse Sam. «La mano sanguina ancora?»
Con cautela, Lucy smise di premere con le dita e guardò la ferita bagnata. «Sta diminuendo.»
«Se non si ferma in fretta, potrebbe aver bisogno di un paio di punti.»
A queste parole Lucy inciampò e lui le prese il gomito per sorreggerla. Vedendo che era sbiancata, chiese: «Non le hanno mai dato dei punti?».
«No, e preferirei non cominciare adesso. Soffro di tripanofobia.»
«Che cos’è? Paura degli aghi?»
«Ah-ah. Pensa che sia sciocco, vero?»
Lui scosse la testa, le labbra incurvate da un lieve sorriso. «Io ho una fobia peggiore.»
«Qual è?»
«È un’informazione strettamente riservata.»
«Ragni?» tirò a indovinare. «Paura dell’altezza? Paura dei clown?»
Il suo sorriso si allargò e fu come un lampo breve e abbagliante. «Non ci è andata nemmeno vicina.»
Arrivarono allo spiazzo e lui le lasciò il gomito. Andò verso un malconcio pick up azzurro e cominciò a rovistare all’interno. Il bulldog entrò goffamente nel retro e si
sedette, controllando le operazioni attraverso la massa di pieghe e rughe del muso.
Lucy, in attesa a qualche passo di distanza, osservava Sam con discrezione. Sotto il cotone candido e un po’ liso della sua T-shirt si indovinava un corpo forte e
snello, e i jeans gli cadevano un po’ larghi sui fianchi. C’era qualcosa di particolare nell’aspetto degli uomini di quelle parti, una specie di rudezza connaturata. Il
Pacifico nordoccidentale era stato popolato da esploratori, pionieri e soldati che non sapevano mai quando sarebbe arrivata la nave con i rifornimenti. Erano
sopravvissuti con quello che potevano tirar fuori dall’oceano o dalle montagne. Solo un amalgama particolare di humour e durezza li aveva resi capaci di sopportare
la fame, il freddo, le malattie, gli attacchi nemici e i periodi di noia quasi mortale. Lo vedevi ancora nei loro discendenti, uomini che vivevano mettendo al primo
posto le regole della natura, al secondo quelle della società.
«Deve dirmelo» disse Lucy. «Non può buttare lì che ha una fobia peggiore della mia e poi lasciarmi a bocca asciutta.»
Lui tirò fuori una cassetta di plastica bianca con una croce rossa sopra. Prese una salviettina disinfettante e usò i denti per strappare la confezione. «Dia qua» disse.
Lei esitò prima di obbedire. La presa delicata della sua mano le trasmise una specie di scossa, risvegliando un’acuta consapevolezza della forza e del calore di quel
corpo maschile così vicino al suo. Lucy trattenne il fiato mentre guardava nei suoi intensi occhi azzurri. Alcuni uomini ce l’avevano, quel qualcosa di speciale che se
glielo permettevi ti mandava al tappeto.
«Brucerà» disse lui mentre cominciava a pulire la ferita con tocchi leggeri.
Il fiato le sibilò tra i denti perché il disinfettante bruciava davvero.
Lucy aspettò in silenzio, chiedendosi perché un estraneo si prendesse tutto quel disturbo per lei. Quando lui chinò la testa sulla sua mano, si ritrovò a fissare le
ciocche fitte dei suoi capelli, di un marrone così scuro e intenso da sembrare quasi nero.
«Non è messa male, tutto considerato» lo sentì mormorare.
«Parla della mano o della rottura con il mio fidanzato?»
«Della rottura. La maggior parte delle donne adesso sarebbe in lacrime.»
«Io sono ancora sotto shock. La prossima fase sarà piangere e mandare messaggi arrabbiati a tutti quelli che conosco. Poi ci sarà il momento in cui vorrò ridiscutere
tutta la storia finché gli amici non cominceranno a evitarmi.» Stava ciarlando a ruota libera, lo sapeva, ma le sembrava impossibile fermarsi. «Nell’ultima fase, mi
farò un taglio corto che non mi dona per niente e comprerò un sacco di scarpe costosissime che non metterò mai.»
«Per gli uomini è molto più semplice» disse Sam. «Ci limitiamo a bere litri di birra, a non raderci per qualche giorno e a comprare un elettrodomestico.»
«Vuol dire... come un tostapane?»
«No, uno che fa rumore. Come un soffia foglie o una motosega. È molto curativo.»
Quelle parole le strapparono un breve, riluttante sorriso.
Sentiva il bisogno di andare a casa e di riflettere sul fatto che la sua vita era completamente diversa da quando si era alzata quella mattina. Come sarebbe riuscita a
tornare nel nido che lei e Kevin avevano creato insieme? Non poteva sedersi al tavolo della cucina con la gamba traballante che entrambi avevano cercato di
aggiustare infinite volte, e ascoltare il ticchettio dell’orologio vintage a forma di gatto nero con la coda che faceva da pendolo, quello che le aveva regalato Kevin per
il suo venticinquesimo compleanno. La loro posateria era un guazzabuglio di coltelli, forchette e cucchiai spaiati che avevano comprato nei negozi di antiquariato.
Posate con nomi meravigliosi. Si beavano di scoprire nuovi tesori: una forchetta King Edward o un cucchiaio Waltz of Spring. Adesso ogni oggetto in quella casa era
diventato la testimonianza di un altro rapporto fallito. Come far fronte a quello schiacciante cumulo di prove?
Sam le applicò una compressa di garza adesiva. «Non penso che dovrà preoccuparsi dei punti» disse. «Non sanguina quasi più.» Le tenne la mano giusto un secondo
in più del necessario prima di lasciarla andare. «Come si chiama?»
Lucy scosse la testa, ancora con una persistente ombra di sorriso.
«Non prima che mi abbia confessato la sua fobia.»
Lui la guardò. La pioggia cadeva più rapida, adesso, una trama di goccioline che gli brillavano sulla pelle e appesantivano i suoi capelli scuri, scurendo e dividendo le
ciocche. «Burro d’arachidi» disse.
Fine dell'estratto Kindle.
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