N. 29 - Società Italiana di Studi Araldici

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N. 29 - Società Italiana di Studi Araldici
N. 29 – Anno XVIII – Marzo 2012 – Pubblicazione riservata ai soli Soci
Attività della S.I.S.A.
Il 18 febbraio ha avuto luogo il Consiglio Direttivo della
S.I.S.A, erano presenti oltre al Presidente, i due vice
Presidenti Giachino e Bettoja, ed i Consiglieri Malaguzzi,
Antonielli d’Oulx, Pruiti, Garvey, Gamaleri Calleri Gamondi,
Di Bartolo, Chiastellaro.
I presedente ha ricapitolato gli eventi di maggior interesse
dell’anno trascorso ed ha fatto il punto sulla situazione del
Notiziario e del sito internet della Società Per il Notiziario,
come per gli Atti sarebbe forse auspicabile una maggiore
produzione relativa all’araldica, attualmente infatti quasi tutti i
testi riguardano argomenti di storia ed a volte con scarsi
richiami all’araldica. Nella sezione studi del sito tale squilibrio
è meno evidente per la collaborazione di Federico Bona. Il
Consiglio tuttavia ha mostrato di gradire l’attuale situazione e
di non ritenere siano necessarie particolari azioni per
modificare l’attuale stato di cose.
Con soddisfazione il Consiglio ha preso atto del discreto
successo del sito internet , che ha avuto oltre 32000 visitatori.
Si è registrato un certo calo nelle richieste di chiarimenti e
approfondimenti anche per la posizione di costante rifiuto a
dar seguito a richieste di ricerche genealogiche per conto di
terzi, chiarendo che ciò non rientra fra i compiti statuali della
società.
Il Consiglio ha poi deciso di indire la prossima assemblea
generale entro la prima quindicina di maggio, essa avrà luogo
presso il Museo del Risorgimento di Torino ed al termine dell’
assemblea avrà luogo visita guidata al Museo, al termine del
quale si potrà consumare un colazione presso un locale nella
vicina Galleria S. Federico. Onere da definire attorno ai 23-25
Euro. Ai soci sarà comunque inviata la comunicazione di rito
con tutte le dovute precisazioni.
Pel quanto ha tratto al XXX convivio esso avrà luogo nel
mese di ottobre, sono state avanzate proposte per un suo
svolgimento a Genova, Superga, Biella e Torino. I Consiglieri
proponenti le diverse sedi si impegnano a presentare in sede di
assemblea le relative proposte dettagliando, sedi e costi. La
decisione definitiva è rimandata all’assemblea.
Per quanto ha tratto al bilancio il residuo attivo al 31.12 2011
era di Euro 4615,85. In proposito si ricorda che lo scorso anno
in sede di assemblea generale venne deciso che la quota
sociale a partire dal 2012 sarebbe stata di Euro 50. Si sarà
pertanto grati ai soci che vogliono mettersi in regola con la
quota di ricordare tale particolare.
In sede di assemblea generale è stato dato mandato ai
consiglieri Malaguzzi e Antonielli d’Oulx in merito allo
sviluppo di possibili iniziative editoriali.
MDB
ARALDICA NAVALE MILITARE ITALIANA
(Regia Marina 1861-1946)
A differenza dei vari Corpi dell'Esercito, il naviglio della
nostra Regia Marina, alla quale limitiamo queste note, non
godette mai di concessioni o riconoscimenti ufficiali in tema
di stemmi, insegne, imprese o motti, attribuiti alle singole
unita navali: per la precisione, gli stemmi propriamente detti
furono sempre rarissimi (tra i quali peraltro, già in uso nel
1939 per felice disposizione dell’Ammiraglio Cavagnari
Sottosegretario della Marina, lo scudo con l’inquarto delle
quattro Repubbliche Marinare, per la Forza Armata nel suo
complesso) ed essi furono quasi sempre collegati al nome di
un personaggio storico blasonato o di un Corpo Militare,
ricordati con l'intitolazione del relativo bastimento.
Un esempio in proposito è quello della corazzata CONTE DI
CAVOUR varata nel 1915 e messa fuori combattimento nel
1940, la quale fu anche nave di bandiera (cioè ammiraglia)
della nostra Squadra Navale, così come oggi lo è la nostra
attuale, modernissima portaerei che dovette tuttavia
sopportare, poco prima del varo, per ordine superiore
dell’ultimo momento, la cancellazione della dicitura “Conte
di” già predisposta sul coronamento di poppa, mantenendo
unicamente il toponimo Cavour, perché la Repubblica Italiana
non riconoscerebbe neppure i titoli nobiliari di personaggi
storici del passato…!
Furono i motti quindi a costituire la quasi esclusiva
connotazione araldica delle nostre Regie Navi (cioè Navi
Militari) e la situazione continua anche oggi con l’aggiunta
dell’ormai immancabile “CREST” per ogni unità, del tutto
sconosciuto fino al secondo dopoguerra.
Pertanto l’assegnazione o spesso la pura e semplice
assunzione di un motto per una nave, costituiva un fatto quasi
privato e si sostanziava unicamente in un atto burocratico
interno della Marina, senza alcuna pubblicità giuridica
ufficiale.
A volte i motti venivano scelti dag1i stessi comandanti delle
singole unità, ma fu solo a partire dal 1890 circa che l’uso si
diffuse veramente e comunque molte navi non ebbero mai un
proprio motto mentre, spesso, questo veniva assegnato
collettivamente, identico, per unità della medesima serie
costruttiva: selezioneremo ora, qui di seguito, alcuni esempi di
motti di navi particolarmente significativi, con qualche notizia
legata anche e soprattutto al ricordo di eventi militari, spesso
assai dolorosi, facenti parte oggi del patrimonio d’onore della
nostra Marina Militare.
Il primissimo motto di cui si ha idonea documentazione è
proprio quello che maggiormente caratterizzò la Regia Marina
nella sua interezza: PER LA PATRIA E PER IL RE, usato
dalla Regia Fregata VITTORIO EMANUELE, varata nel
1856, adibita in ultimo a Nave Scuola. Il motto medesimo fu
poi comune ad altre navi ed istituti di istruzione, come la
stessa Nave Scuola Amerigo Vespucci tuttora in servizio e
soprattutto la Regia Accademia Navale di Livorno, nel cui
cortile generazioni intere di Allievi, dal 1882 (anno di
fondazione) al 1946, poterono fortificarsi spiritualmente alla
lettura di quelle emblematiche parole, riportate a grandi lettere
sul frontone interno dell’edificio.
Nel Piemonte pre-unitario, il motto di cui sopra sembra che
fosse già stato presente tra le unità navali ed esso denota
altresì una evidente assonanza con quello della Marina
Francese di «ancien règime», POUR LE ROI, L’HONNEUR
ET LA PATRIE, di cui l’ultima parte e tuttora usata dalla
MARINE NATIONALE francese la quale, non a caso, ama
tuttora fregiarsi informalmente dell'appellativo “La Royale”!
Dopo il VITTORIO EMANUELE (notiamo, per inciso, come
nel gergo “militare marittimo” il nominativo a se stante di
ogni nave è generalmente espresso al maschile,
indipendentemente che si tratti di fregata o portaerei, piuttosto
che di incrociatore o caccia torpediniere, poiché tutte le navi
sono parte del maschilissimo «naviglio militare»), la Regia
Fregata corazzata MARIA PIA, varata nel 1863 è il
bastimento militare italiano accreditato con il secondo più
antico motto: ITALIAM VEHIS (Tu porti l’Italia), alludente
alla partenza per il Portogallo della figlia di Re Vittorio
Emanuele II, al cui nome la nave era intitolata, andata sposa al
sovrano lusitano Dom Luis I.
Continuando in ordine alfabetico, possiamo ricordare i motti
delle seguenti Regie Navi:
• GIOVANNI ACERBI (Torpediniera, 1917-1941) “In Hostes
Acerbus” (aggressivo contro i nemici) motto dettato ne1 1925
da1 Barone Giacomo Acerbo, vice presidente della Camera
dei Deputati, mutuando per il motto stesso quello araldico
della propria famig1ia, peraltro solo omonima di quella
dell’eroe risorgimentale a cui 1a nave era intitolata, nave persa
poi durante 1a seconda guerra mondiale nel 1941 a Massaua,
per offesa aerea;
• ARTIGLIERE (Cacciatorpediniere, 1938-1940) “Sempre e
Ovunque”, motto identico a quello storico dell’Arma di
Artiglieria fin dal 1849. Fu la seconda nave di tal nome ed
affondò a levante di Malta i1 12/10/1940 dopo impari
combattimento notturno contro incrociatori inglesi, insieme a
gran parte dell’equipaggio ed al proprio Comandante Capo
Squadriglia Capitano di Vascello Carlo MARGOTTINI,
Medaglia d’Oro al Valor Militare. Il bastimento usò l’arma
propria dell’Artig1ieria;
• CARLO ALBERTO (incrociatore corazzato, 1898-1920) “Je
atans mon astre” (attendendo la mia stella) derivato da uno
storico motto del Conte Verde, Amedeo VI di Savoia, ripreso
dal Re Carlo Alberto. Fu su tale incrociatore che Guglielmo
Marconi installò con successo il primo apparecchio
sperimentale di radio-telegrafia da lui inventato;
• CONTE DI CAVOUR (Corazzata, 1915-1943) “A nessuno
secondo”. La grande nave, interamente rimodernata ne1 1933,
ospitò tra l’a1tro nel 1938, il Führer germanico Adolf Hitler
per la grandiosa rivista navale in suo onore nel golfo di
Napoli. La corazzata partecipò nel lug1io 1940 alla battag1ia
di Punta Stilo, ma fu messa successivamente fuori
combattimento dall’audace «raid» aereo notturno compiuto
dagli inglesi sulla base nava1e di Taranto l’11 novembre
1940. Il Cavour fu anche una delle poche navi che fin
dall’entrata in Squadra godette di uno stemma, quello per
l’appunto della famig1ia dei marchesi e conti BENSO di
2
Cavour, blasonato «d’argento a1 capo di rosso a 3 conchiglie
d’oro ordinate in fascia». Invece, i1 motto dello stesso stemma
originario GOTT WILL RECHT (Dio vuole la giustizia) era
stato sostituito con il sopra riportato motto del bastimento,
identico curiosamente a quello del Reggimento “Lancieri di
Vercelli (26°)”;
• BENEDETTO BRIN (corazzata, 1901-1915) “Par ingenio
virtus”. Intitolata al grande progettista navale e Ministro della
Marina omonimo, questa corazzata ebbe vita breve, terminata
presto tragicamente. Dopo aver preso parte alla guerra di Libia
negli anni 1911-1912 affondò all'inizio della prima guerra
mondiale, il 27 settembre 1915, nel porto di Brindisi, per
esplosione della “Santa Barbara” causata da sabotaggio
austro-ungarico. Vi perì la maggior parte dell’equipaggio
insieme a1 Contrammirag1io Comandante la Sesta Divisione
Navale barone Ernesto RUBIN de CERVIN;
• DANTE ALIGHIERI (corazzata, 1913-1928) “Con l’animo
che vince ogni battaglia”. Motto, identico a quello dei Lancieri
di Firenze (9°), tratto dai versi dell’INFERNO del sommo
poeta, distinse la prima corazzata monocalibro italiana (cioè
con armamento principale di identico calibro, disposto in più
torri, facilitante così anche la direzione del tiro). La prima
assoluta a livello mondiale era stata, con tali caratteristiche, la
corazzata inglese “Dreadnought” che identifica per molto
tempo, con il proprio nome, il tipo di nave in questione per
tutte le Marine Militari dell’epoca. La Dante Alighieri fu tra
l’altro una delle rare eccezioni di appellativo al femminile
piuttosto che al maschile, nel gergo militare-marittimo
tradizionale. Essa operò attivamente in Adriatico durante la
prima guerra mondiale e fu anche brillantemente quanto
burlescamente “cantata”, con ogni ufficiale individualmente
su di essa imbarcato, nel divertentissimo «A poppavia del
Jack» (quest’ultimo è la bandierina alzata sull’estrema prua,
per una nave ormeggiata o ancorata), poema satirico tuttora
ben ricordato in Marina, imitante alla perfezione lo stile
dantesco ed iniziante significatamente: DANTIS ALIGHERI
DRAEDNOTIS INCIPIT ORATIO! Autore anche delle
argutissime caricature individuali e disegni vari ne era stato
nel 1926 l’allora popolarissimo Tenente di Vascello Giorgio
CICOGNA, considerato per i tanti suoi talenti naturali un
genio in continua ascesa, privato purtroppo della vita, appena
trentenne, mentre sperimentava un primissimo prototipo di
motore a reazione, da lui inventato come collaboratore del
Generale del Genio Navale RABBENO, preminente
personalità tecnica del tempo e responsabile delle ricerche a
scopi militari-marittimi;
• ARMANDO DIAZ (incrociatore, 1933-1941) “Con fede
incrollabile e tenace valore”. Motto tratto dal Bollettino della
Vittoria del 1918, firmato dall’allora Comandante in Capo del
Regio Esercito al quale la nave era intitolata. L’incrociatore,
dopo un’intensa attività operativa all’inizio della guerra in
Mediterraneo, venne affondato il 25 febbraio 1941 al largo
della Tunisia dal sommergibile inglese UPRIGHT in soli sei
minuti, con gravissime perdite umane tra le quali quasi
l’intero Stato Maggiore della Nave, incluso il Comandante
Capitano di Vascello Francesco MAZZOLA ed il Comandante
in seconda Capitano di Fregata barone Mainardo de NARDIS
di PRATA. Il relitto del DIAZ e stato ultimamente localizzato,
fotografato e degnamente onorato in mare dalla Marina;
• ANDREA DORIA (corazzata, 1916-1956) “Altius Tendam”
(Sempre più in alto). Versione leggermente modificata del
motto araldico della grande famiglia genovese alla quale lo
storico ammiraglio apparteneva. L’autentico “Altiora peto” si
sarebbe in verità troppo prestato ai consueti lazzi degli
equipaggi della Squadra Navale… i quali peraltro seppero
accontentarsi con la burlesca traduzione del motto stesso in
“ALZA LE TENDE”! Il Doria fu anche esso una
“Dreadnought” ovvero, come già detto, corazzata monocalibro
e si fregia sempre dello stesso stemma del grande ammiraglio
genovese “Spaccato d’oro e d’argento all’aquila sul tutto di
nero, membrata, imbeccata e coronata di rosso”.
• GIULIO CESARE (corazzata, 1914-1948) “Caesar Adest”
(Cesare è presente). La nave, rientrante pure essa nella
categoria «Dreadnought» ebbe un’intesa vita operativa, sia in
pace che durante le due guerre mondiali. Nel corso del
secondo conflitto fu pure nave di bandiera della Squadra
Navale e partecipò alla battaglia di Punta Stilo nel luglio 1940.
Il suo motto fu sovente oggetto di celia da parte degli
equipaggi delle altre corazzate, con battute tipo: “CESARE ad
EST e DORIA ad OVEST” cioè meglio tenersi alla larga…
Purtroppo proprio alla larga essa termina la propria vita
militare italiana, in quanta fu consegnata all’Unione Sovietica
in conto danni di guerra previsti dalle clausole armistiziali
dell’ultimo conflitto.
• GRECALE (cacciatorpediniere, 1934-1964) “Io sto in
ascolto se rechi il vento clamor di battaglia”. Motto tratto da
un sonetto d’Annunziano per una nave particolarmente
fortunata, in quanta unica superstite della sua «classe»
costruttiva dopo le gravi perdite navali di tale tipo di navig1io,
durante 1a seconda guerra mondiale in Mediterraneo. Il motto
di cui sopra fu uno dei casi di assegnazione collettiva in
quanta il medesimo fu comune agli a1tri cacciatorpediniere
gemelli e cioè il MAESTRALE, il LIBECCIO, e lo
SCIROCCO, tutti persi nel corso del conflitto, con l’evento
singo1armente tragico dell’u1tima suddetta unità, andata a
picco i1 23 marzo 1942, ne1 corso della battaglia della 2ª
Sirte, per immane forza di mare in burrasca, con le macchine
immobilizzate per avaria. Si salvarono solo due marinai, su un
equipaggio di circa 200 uomini comandato da1 Capitano di
Fregata Francesco DELL’ANNO, già decorato in precedenza
di Medaglia d'Oro a1 Valor Militare;
• LANCIERE (cacciatorpediniere, 1939-1942) “Con il cuore
oltre l’ostacolo”. Motto proprio dell’Arma di Cavalleria. La
nave ebbe il consueto intensissimo impiego di scorta convogli
con la Libia e di operazioni tattiche con la Squadra Nava1e. Il
22/3/1942 l’unità partecipò attivamente alla 2ª battaglia della
Sirte ma sulla rotta di rientro nelle ore notturne fra i1 22 ed i1
23 affondò per l’eccezionale burrasca che coinvo1se anche lo
SCIROCCO ed il GRECALE (unico bastimento superstite di
quella formazione). Perì quasi tutto l’equipaggio con il proprio
Comandante Capitano di Fregata Costanzo CASANA;
• LEONARDO DA VINCI (corazzata, 1914-1916) “Non si
volta chi a stelle è fiso”. Derivante da un pensiero di Leonardo
che si trova tra i suoi scritti. La ancora nuovissima
“Dreadnought” si capovolse a Taranto i1 21 giugno 1916 in
seguito a rovinosa esplosione dovuta a sabotaggio austroungarico. Vi perì gran parte dell’equipaggio, insieme al
Comandante della nave Capitano di Vascello marchese
Ga1eazzo SOMMI PICENARDI;
• M.A.S. e MOTOSILURANTI (1915-1946) “Memento
audere semper” (Rammenta di sempre osare). Motto dettato
collettivamente da Gabriele d’Annunzio, per tutto il navig1io
silurante “sottilissimo” frutto della geniale intuizione del
futuro Grande Ammirag1io conte Paolo Thaon di Revel quale
Capo di Stato Maggiore della Regia Marina durante 1ª guerra
mondiale. In realtà il “Vate” aveva parafrasato poeticamente
la sigla ufficiale di “Motoscafo Anti Sommergibile”! La festa
della Marina Militare cade ufficia1mente i1 10 giugno di ogni
anno proprio in ricordo della prodezza del Comandante Luigi
RIZZO che affondò con i1 proprio MAS la corazzata
austroungarica SANTO STEFANO il 10 giugno 1918;
• RAIMONDO MONTECUCCOLI (incrociatore 1935-1963)
“Centum Oculi”. Motto riferito alle eccezionali qualità di
visione strategica e tattica del grande condottiero seicentesco
che vinse con le armate imperiali austriache tutte le battaglie
dell’epoca, da lui combattute. Il Montecuccoli fu sempre
popolarissimo tra i marinai, sia per le brillanti crociere
oltremare dell’anteguerra, sia per i successi durante il conflitto
in Mediterraneo, sia soprattutto per la fortuna che sempre
arrise alla nave in ogni circostanza. Insieme all’altro
incrociatore EUGENIO di SAVOIA riportò al comando
dell’Ammiraglio DA ZARA la brillante vittoria navale di
Pantelleria il 15/6/1942. Fu in quell’occasione che una
scheggia del tiro nemico trapasso il quadrato ufficiali, forando
a1 termine della traiettoria proprio la prima vocale della
seconda parola del motto riportato sul grande ritratto di
Raimondo Montecucco1i, esposto nel quadrato medesimo. II
motto così mutilato si tramutò quindi da allora, per tutti i
marinai della flotta, nella tipica espressione indicante
grandissima fortuna avuta, grazie a “CENTUM…”! Il
Montecuccoli usa lo stemma del grande generale di cui
portava il nome “inquartato da filetto di nero: nel 1° e 4° d’oro
all’aquila bicipite coronata di nero; nel 2° e 3 ° d’oro
all’aquila bicipite coronata di nero poggiante su 3 colline di
verde”;
• MONZAMBANO (Torpediniera, 1924-1951) “Alla Vittoria
ed all’Onor San Guida”. Bellissimo motto mutuato dal
Reggimento Cavalleggeri Guide (19°) che nel fatto d’armi di
Monzambano, durante la battaglia di Custoza del 1866, si
distinse particolarmente, garantendo alle armi italiane un
brillante successo locale in quel ciclo operativo peraltro
sfortunato per noi nel suo complesso. La Torpediniera effettuò
durante la guerra ben 167 servizi di scorta ed una quarantina
di missioni varie essendosi distinta particolarmente 1’8/9/1943
con l’abbattimento di due velivoli attaccanti tedeschi;
• FRANCESCO NULLO (cacciatorpediniere, 1925-1940) “Se
combatto di notte il cor m’e duce ed il nome dell’eroe mi da’
la luce”. Motto assegnato da Gabriele d’Annunzio alla prima
unità di tal nome (1915-1921), quando vi imbarcò durante la
prima guerra mondiale per una missione notturna. Quanto al
secondo NULLO qui ricordato e che ereditò lo stesso motto, si
ricordava nella vecchia Marina l’intimazione severissima ed
allo stesso tempo acidamente scherzosa, segnalata
dall’Ammiraglio Ildebrando GOIRAN, Medaglia d’Oro al
Valor Militare della prima guerra mondiale, durante un ciclo
addestrativo notturno di un Gruppo Navale da lui comandato
nel 1926 circa, al poco stimato Comandante dello stesso
NULLO «Spenga subito quella luce a poppavia per questa
manovra di guerra con navi oscurate, oppure esca
immediatamente di formazione…». Ben rude maniera invero
per liberarsi con sicurezza di un bastimento mal comandato,
utilizzando proprio “il nome dell'eroe” riportato sul
coronamento di poppa! Il NULLO fu poi affondato in Mar
Rosso, all’inizio della seconda guerra mondiale, nel corso di
un attacco notturno ad un convoglio inglese e vi perse
gloriosamente la vita anche il Comandante Capitano di
Corvetta Costantino BORSINI con la sua ordinanza marinaio
Vincenzo CIARAVOLO, rifiutatisi entrambi di porsi in salvo
ed entrambi decorati di Medaglia d’Oro al Valor Militare “alla
memoria”;
• TRENTO (Incrociatore, 1929-1942) “Nomen Neptunus dedit
dabo Neptuno gloriam” (Nettuno mi diede il nome, a Nettuno
3
darò la gloria). Ben strano motto all’apparenza, per indicare la
città redenta pochi anni prima del varo della nave, ma subito
comprensibile se si pensa al tridente, simbolo di Nettuno dal
quale derivano il nome di Trento e l’aggettivo geografico
«tridentino». L’incrociatore intensamente impiegato in
Mediterraneo durante la guerra, affondò il 15 Giugno 1942 per
siluramento da parte del sommergibile inglese UMBRA
portando con sé gran parte dell’equipaggio con il suo
Comandante Capitano di Vascello Stanislao ESPOSITO ed il
Comandante in 2° Capitano di Fregata marchese Carlo
CACHERANO d’OSASCO. Tra i pochi superstiti si salvò il
Cappellano Militare della Divisione Navale a cui apparteneva
il Trento, Tenente Cappellano Nicola BONOMO, chiamato
affettuosamente Don “Nicolino” per la sua non alta statura
fisica, accoppiata alla sua elevatissima statura morale che lo
resero popolare ovunque nella vecchia Marina, presso la quale
continuò poi il servizio a lungo;
• UGOLINO VNALDI (Cacciatorpediniere, 1930-1943) “Con
la prora diritta a gloria e a morte”. Trattasi di un verso poetico
de «La notte di Caprera» di Gabriele d’Annunzio, per un
riaccostamento ideale tra Garibaldi ed il grande navigatore
genovese del XIII secolo, scomparso nell’ultima sua
navigazione verso l’Estremo Oriente. Il cacciatorpediniere fu
impiegato intensamente durante la guerra come tutto il
naviglio sottile silurante e terminò con onore la propria attività
per l’affondamento il 10/09/1943 ad opera di soverchianti
forze aeree tedesche nelle acque tra la Sardegna e la Corsica.
Perirono molti membri dell’equipaggio con il Comandante in
2° Capitano di Corvetta marchese Alessandro CAVRIANI,
Medaglia d’Oro al Valor Militare “alla memoria”;
• NICOLO’ ZENO (Cacciatorpediniere, 1930-1943) “Più
oltre”. Assai suggestivo nella sua lapidarietà, questa motto era
stato tratto anche esso dalla copiosa messe poetica del “Vate
immaginifico” e precisamente dalla «Canzone di Umberto
Cagni» con la quale d’Annunzio recita: “...E Tu dicevi a Te
«Più oltre». L’Oceano era un baratro di rotte isole. E Tu dicevi
a Te «Più oltre». Sparivano i due solchi in un tumulto
raggiante informe, immenso. E Tu «Più oltre»...” Anche in
questa caso appare l’accostamento ideale del poeta, tra il
grande navigatore veneziano del XIV secolo di cui la nave
portava il nome ed il brillante ufficiale di Marina piemontese,
futuro Ammiraglio di «prima schiera», accomunati entrambi a
distanza di secoli, l’uno dall’altro, nell’esplorazione e scoperta
dell'Estremo Nord della Terra.
Ma non solo le navi di superficie godettero, sia pure non
sempre, di un proprio motto, in quanta pure la componente
sottomarina ebbe la sua parte in materia e ne ricordiamo qui di
seguito pochi casi:
• A 5 (Sommergibile tascabile, 1917-1919) “Vel parvus vale”
(Benché piccolo valgo). In effetti fu un piccolissimo battello,
senza alcuna storia particolare come unità sperimentale,
durante solo tre anni della prima guerra mondiale, ad aver
usato tale motto emblematico;
• F 16 (Sommergibile costiero, 1917-1928) “Honny soit qui
mal y pense” (Vituperio a chi pensa male). Curiosissimo
motto derivato scherzosamente, per questo altro modesto
battello, addirittura dal principale Ordine Cavalleresco
britannico, quello della Giarrettiera. Il motto stesso fu imposto
dal primo Comandante dell’F 16 per contestare le pepate celie
marinaresche degli altri equipaggi, attribuenti gli eventuali
successi futuri del sommergibile al suo fatidico numero
identificativo, il quale secondo gli sberleffi dei «lazzari»
napoletani e sinonimo di quella parte del corpo umano
4
attribuente tradizionalmente sfacciata, quanta spesso
immeritata, fortuna al titolare della parte corporea in causa!;
• GLAUCO (Sommergibile oceanico, 1935-1941) “Gloria
Audaciae Omes” (La gloria è compagna dell’audacia).
Acrostico del nome del battello, il secondo di tal nome nella
Regia Marina, formata con le prime due lettere di ciascuna
parola. Il sommergibile fu affondato in Atlantico al largo di
Gibilterra il 27/06/1941 dopo violentissimo combattimento in
superficie durante il quale cadde il Sottotenente di Vascello
Carlo MARENCO dei conti di MORIONDO, Medaglia d’Oro
al Valor Militare “alla memoria”;
• DOMENICO MILLELIRE (1928-1946) “Per Dio, per il Re
vincere o morire”. Motto scritto originariamente su un labaro
improvvisato dai difensori de La Maddalena in Sardegna,
quando respinsero, sotto la guida del nocchiere Domenico
Millelire della Regia Marina Sarda, l’attacco dei francesi
rivoluzionari il 22/0211793. Il sommergibile dopo aver
partecipato alla guerra civile di Spagna in appoggio alle forze
armate nazionaliste del generale Franco, non venne
praticamente impiegato durante la successiva guerra mondiale
perche ormai obsoleto e venne posto in disarmo nel 1941.
Con questa ultimo motto assai simile a quello riportato in
apertura, termina il presente modesto «excursus» araldiconavale, basato sulle varie fonti dell’Ufficio Storico della
Marina, tra le quali una specifica sull’argomento, oltre ad
essere pure basato sui ricordi personali appresi dal sottoscritto
fin dall’infanzia, dai cinque strettissimi congiunti Ufficiali
della Regia Marina, tutti in comando di unità operative
durante la guerra in Mediterraneo: tra queste ultime non
possedeva oltre a tutto alcun motto o insegna particolare il
Regio Sommergibile TEMBIEN che qui comunque
ricordiamo, persosi il 02/08/1941 con tutto l’equipaggio ed il
suo Comandante Capitano di Corvetta Guido GOZZI, uno
degli strettissimi congiunti sopra citati!
Gustavo di Gropello
Ci scusiamo con l’autore dell’articolo di cui sopra il cui
nome avrebbe dovuto essere inserito fra coloro che
intervennero al XXIX Convivio e che non è stato invece
citato per mera distrazione e che qui si trascrive.
Messa e Conferenza dell’Ordine Teutonico a Torino
A cura del nostro consocio Francesco Zito, il 3 dicembre
scorso si è celebrata a Torino, sul modello dei periodici “Konveniat” dell’Ordine Teutonico, per volontà e grazia del Gran
Maestro l’Abate Mitrato Bruno Platter e del Balivo del Baliato
ad Tiberim (Roma) Dott. Stefano Zauli, una Messa seguita da
una conferenza sulla storia dell’Ordine Teutonico. Evento, che
si crede sia il primo del genere per la città sabauda. La S.
Messa e la conferenza hanno avuto luogo presso la Sala
Cateriniana della Chiesa di San Domenico, officiante Padre
Giovanni Bertolino, Priore della Comunità di San Domenico.
Relatore d’eccezione è stato uno dei due Familiari piemontesi,
il Conte Franz zu Stolberg-Stolberg, ultimo Commendatore di
Baviera. Una cinquantina i convenuti: numero notevole,
tenuto conto della forma scelta per la partecipazione (ad
invito) e del vincolo dettato dall’ampiezza della Sala
Cateriniana. Tra i soci SISA presenti ricordiamo Gustavo di
Gropello, Roberto Nasi ed Andrew Martin Garvey
(quest’ultimi due visibili nella fotografia con l’oratore e
Francesco Zito).
Il successo della manifestazione oltre che per la partecipazione, lo hanno decretato i presenti mostrando grande interesse per i temi trattati e formulando numerose richieste di
prosecuzione dell’iniziativa. La scelta del Gran Maestro e del
Balivo è volta ad ampliare la conoscenza dell’Ordine nell’
Italia del Nord-Ovest. Il Balivo ha individuato quale referente
sul territorio proprio il nostro consocio Dott. Francesco Zito, il
quale periodicamente organizzerà analoghe occasioni sia per
chi voglia liberamente parteciparVi, sia per chi voglia iniziare
un percorso di avvicinamento all’Ordine. Per maggiori informazioni consigliamo i consoci di contattare Francesco Zito
direttamente all’indirizzo [email protected]. Qui di seguito sono
delle breve note storiche sull’Ordine Teutonico a cura di
Francesco Zito e di Andrew Martin Garvey. (AMG)
L’Ordine Teutonico: brevi note storiche
L’origine dell’Ordine Teutonico si fa risalire al 1099 con la
nascita a Gerusalemme di un piccolo ospedale per la cura dei
pellegrini tedeschi posto sotto la protezione della Vergine
Maria, il quale prese il nome di Ospedale di Santa Maria dei
Teutonici di Gerusalemme (il nome in latino è: Ordo Fratrum
Domus Hospitalis Sanctae Mariae Teutonicorum in Jerusalem
o Ordo Teutonicus, e in tedesco Orden der Brüder vom
Deutschen Haus St. Mariens in Jerusalem o Deutscher
Orden).
Nel 1143 Papa Celestino II poneva l’Ospedale fondato a
Gerusalemme prima del 1070 e dal 1137 riorganizzato su base
militare, sotto l'autorità dell'Ordine degli Ospedalieri di San
Giovanni,
Nel 1187 Saladino conquistò Gerusalemme ed i fratelli
dell'Ospedale di Santa Maria si trasferirono lungo la costa,
ancora sotto controllo cristiano.
Con la terza crociata (papa Clemente III) Federico Barbarossa
assediò Acri, e a metà del 1190 (data di nascita ufficiale dell’
Ordine), alcuni mercanti tedeschi costruirono un ospedale da
campo, che prese anch’esso il nome di Santa Maria dei
Tedeschi di Gerusalemme. Federico di Svevia accordò subito
protezione all'ospedale, che dopo la conquista di Acri fu
trasferito all'interno delle mura. Da quel momento il piccolo
ospedale iniziò un percorso di emancipazione dagli
Ospedalieri.
Nel 1193, come già avvenuto per gli Ospedalieri ed i
Templari, l’Ordine fu militarizzato in quanto il Re Guido di
Lusignano vendette ai teutonici un quartiere della città d’Acri,
affidando loro il compito di difendere una fortificazione.
Nel 1196 Celestino III con una bolla sancì l'esistenza
dell'Ordine di Santa Maria dei Tedeschi, comunità religiosa
sottoposta alla regola di Sant’Agostino sottomessa alla Santa
Sede.
Nel 1198 Innocenzo III assoggettava l’Ordine alla regola degli
Ospedalieri per quel che concerne l'attività caritativa e dei
Templari per quella militare.
Frate Heinrich Walpot fu eletto il primo della serie dei 65
Gran Maestri dell’Ordine Teutonico.
Dal 1197 l’Ordine si stabilì a Palermo, al seguito di Enrico VI
Hohenstaufen, Imperatore della Casa di Svevia dal 1190 e Re
di Sicilia dal 1194, fondando la precettoria della Magione,
fino al 1492, anno in cui l’ultimo precettore la consegnò al
Cardinale Rodrigo Borgia, poi papa Alessandro VI, concludendo la storia dei Teutonici in Sicilia.
Numerose commende nacquero in Europa all’inizio del 1200,
soprattutto nei territori di lingua tedesca. Molto antica è quella
sorta a Bolzano nel 1200.
Nel 1214, il Gran Maestro veniva nominato con i suoi
successori membro di diritto della corte imperiale, con la
facoltà di alloggiarvi con il seguito.
Papa Onorio III nel 1216 confermò ed estese i privilegi
dell'Ordine: esenzione totale dalle decime, facoltà di costruire
chiese e oratori sui propri possedimenti e di essere giudicato
ed eventualmente scomunicato solo dal Papa.
Nel 1226, con la Bolla d'oro di Rimini, l'Imperatore Federico
concesse al Gran Maestro e ai suoi successori il titolo di
Principe dell'Impero, con facoltà di creare uno stato vassallo
nei territori conquistati. Da questo momento, l’Ordine cominciò ad assumere le caratteristiche e le prerogative della sovranità.
Intanto, nel 1211 Andrea II, re d'Ungheria, aveva invitato i
Teutonici a colonizzare la Transilvania. In base al decreto
reale l'Ordine riceveva in proprietà libera e perpetua un territorio di circa 1500 Km², con una totale autonomia politica, giudiziaria ed economica ed un'ampia autonomia in campo ecclesiastico.
Nel 1225-1226 il Duca polacco Corrado di Mazovia chiese
all’Ordine di venirgli in soccorso contro le incursioni delle
popolazioni pagane, promettendo un vasto territorio e la possibilità di insediarsi in quelli conquistati. I prussiani erano
infatti impermeabili al cattolicesimo e continuavano ad
infestare la Mazovia, retta dal Duca Corrado, che aveva tentato la via pacifica per l'evangelizzazione. Nel marzo 1231 con
il trattato di Rubenicht si giunse ad un accordo anche con la
Prussia, che rinunciò ad ogni pretesa sui possedimenti del
Kulmerland e cedette un terzo della Prussia all'Ordine. Nel
1236 i Teutonici controllavano ormai tutto il Kulmerland, la
Pomerania e la Pogesania.
Il Gran Maestro Hermann von Salza (1209–1239)
Il metodo seguito negli anni seguenti fu sempre lo stesso:
dopo aver sconfitto i pagani, si chiedeva la loro sottomissione
e la conversione; si edificava nel territorio conquistato una
fortezza, attorno alla quale si sviluppava una città ove affluivano i coloni tedeschi che si univano alla popolazione locale.
Nel 1236 i cavalieri Portaspada per decreto di Papa Gregorio
IX, vennero incorporati, insieme ai loro beni nei Teutonici.
5
I Prussiani si ribellarono, e gran parte delle fortezze dell'
Ordine cadde nelle mani dei ribelli. Il Papa lanciò allora una
crociata, e si combatté fino al 24 novembre 1248. Nel 1249 fu
stipulato il trattato di Christburg, che riguardava la condizione
delle popolazioni sottomesse, a patto che si fossero convertite.
L'Ordine riconosceva ai sudditi prussiani la libertà personale,
il diritto di acquistare, vendere e lasciare in eredità agli eredi
diretti le proprietà; il diritto di stare in giudizio, di contrarre
matrimonio, di entrare a far parte del clero e dell'Ordine Teutonico, a patto d'essere d'antica nobiltà. Dovevano rinunciare
tassativamente alle usanze pagane, e cioè: poligamia, cremazione dei morti, sacrifici umani, culto degli idoli, e osservare
la disciplina ecclesiastica in materia di festività e di battesimo.
Dovevano pagare le decime all'Ordine, e prestare determinati
servizi di natura militare.
L’Ordine aveva ormai consolidato, così, la propria natura di
soggetto sovrano e le proprie caratteristiche para-statuali, precorrendo, in termini assai più complessi e strutturati, quello
che sarebbe stato, poi, il modello seguito dall’Ordine di Malta.
Dalla seconda metà del XIII secolo il cattolicesimo declinò
rapidamente e ripresero le razzie ai danni dei Cavalieri Teutonici. Nel 1320 il Granduca Gedimanas lanciò un'offensiva in
grande stile contro i possedimenti dell'Ordine Teutonico, e riportò importanti vittorie. I pagani riconquistarono molti territori, arrivando fin sotto Riga, dopo aver distrutto tutte le chiese e i monasteri, e massacrato sistematicamente preti e fedeli.
Nel 1338 l'Ordine inflisse una pesante sconfitta ai Lituani
nella piana di Dablawken. Nel 1343, la guerra riprese, con
incursioni lituane in Livonia, Sambia e Samogizia.
Nel 1346, il Re di Danimarca, Valdemaro IV, vendette all'Ordine tutti i possedimenti danesi nell'Estonia.
Si formò così uno dei regni più potenti della storia del medioevo.
Nel 1348, una spedizione contro la Lituania, i Cavalieri
ebbero la meglio e nel 1349 fecero migliaia di prigionieri che
venivano battezzati e subito liberati.
Sul fare del quindicesimo secolo l'Ordine Teutonico era diviso
in nove province. Di esse due erano dette “di combattimento”
ed erano quelle di Prussia e Livonia, perché il dispositivo militare era permanente. Le altre erano “di pace” ed erano quelle
di Germania, Austria, Boemia, Ungheria e Pomerania.
Per reggere un dominio così vasto i monaci-cavalieri
disponevano di un ordinamento normativo molto complesso,
basato su leggi e consuetudini.
S.E.Rev.ma l'Abate Generale Bruno Platter
65° Gran Maestro
Alla testa dell'Ordine era il “Magister Generalis” (Hochmeister), eletto a vita dal capitolo elettorale (Wahlkapitel) che
si formava in parte per elezione ed in parte per cooptazione.
L'insieme dei fratelli designava un “commendatore del voto”
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(Wahlkomtur) il quale sceglieva un fratello, e così via fino a
formare il numero 13, a ricordare il collegio apostolico
presieduto da Gesù Cristo. Al momento dell'elezione il Commendatore del voto pronunciava a voce alta il nome del candidato; gli altri elettori potevano accettare quella designazione
oppure opporvisi. Questa prassi rimase in vigore fino al 1500.
La tradizione voleva che dei tredici elettori, otto fossero
Fratelli-Cavalieri, quattro rappresentanti dei fratelli non-cavalieri e uno solo fosse fratello-prete. Il Gran Maestro era coadiuvato da cinque Grandi Ufficiali: il Gran Commendatore
(Grosskomtur), braccio destro del Gran Maestro; dal Maresciallo (Marschall), responsabile militare dell'Ordine; dall'Addetto ai Tessuti (Trapier), responsabile dell'apparato logistico
dell'Ordine; dall'Ospitaliere (Spittler), al quale spettava la cura
del settore caritativo, e infine dal Tesoriere (Tressler), che
gestiva la parte economica.
A capo delle province vi era un Gran Commendatore (Grosskomtur) detto pure Landmeister, mentre nella provincia tedesca il Maestro provinciale aveva il titolo di Maestro Tedesco
(Deutchmeister o Magister Germaniæ).
Le province erano, a loro volta, divise in baliati, formati da
commende, cellula di base della suddivisione amministrativa
dell'Ordine. Tutti i Commendatori e i gran dignitari si riunivano in un Capitolo generale, che rappresentava il supremo
or-gano legislativo e poteva anche fungere da suprema corte di
giustizia. Il Capitolo poteva ratificare o meno le decisioni del
Gran Maestro; aveva un supremo potere d'ispezione ed inoltre
la facoltà, in base ad un precisa procedura, di deporre il gran
Maestro. Ciò avvenne solo due volte nella storia dell’Ordine:
nel 1293 e nel 1413.
Una struttura in tutto simile a quella dell’Ordine dei Cavalieri
di Malta, che è rimasta sostanzialmente immutata sino ai
nostri giorni.
I fratelli erano suddivisi in varie categorie. I Fratelli-Cavalieri
(Ritterbrüder) rappresentavano l'élite militare dell'Ordine. Di
origine nobile, dipendevano solo dall'autorità del Gran Maestro o dei suoi rappresentanti, e dovevano essere sudditi o vassalli del Sacro Romano Impero (non necessariamente tedeschi). Si diveniva Fratelli-Cavalieri al termine di una cerimonia strutturata sul rito della cavalleria civile. Prima però il
postulante doveva rispondere a dieci domande: se apparteneva
ad un altro ordine; se era sposato; se aveva malattie nascoste;
se aveva debiti; se era un servo; se era pronto a combattere in
Palestina o in qualsiasi altra parte; se era pronto a prendersi
cura dei malati; a svolgere qualsiasi lavoro sapesse fare,
qualora richiesto; ad obbedire alla regola. Il novizio, dopo
aver trascorso una notte di veglia ed essersi confessato, ascoltava la messa solenne, durante la quale si comunicava; il Gran
Maestro o un suo rappresentante procedeva poi all'investitura,
con il colpo di piatto della spada sulla spalla. Questa solenne
cerimonia avveniva di solito nelle grandi festività: Natale,
Pasqua, Pentecoste e nella solennità di Santa Elisabetta d'Ungheria, patrona dei Teutonici. Solo i Fratelli-Cavalieri potevano indossare il mantello bianco ornato sulla spalla sinistra da
una croce nera. A questa categoria di membri, dopo la riforma
di inizio ‘900, nessuno è stato più ammesso.
Sopravvive, invece, quella dei cosiddetti “Mariani” o “Familiari”, non necessariamente nobili ma di rilevante e conclamata posizione sociale, istituita nel 1871, i quali, vengono aggregati all’Ordine secondo un rituale che ricalca in tutto l’investitura degli antichi cavalieri teutonici, costituendo nel loro
insieme una società di fedeli disciplinata dal diritto pubblico
canonico, assai simile ai terz’ordini.
Sopravvive, del pari, la categoria dei cavalieri onorari, creata
nel 1886, oggi annessa a quella dei familiari, della quale costituisce l’élite, l’ammissione alla quale è concessa in casi assolutamente eccezionali.
La categoria dei Fratelli-Cavalieri sopravvive, invece, con requisiti rigorosissimi di nobiltà, nel ramo protestante dell’Ordine nel Baliaggio di Utrecht, passato alla riforma dopo la soppressione dell’Ordine, ad opera di Napoleone, nel 1809.
Nell’Ordine cattolico dopo i Cavalieri seguivano per importanza i Fratelli-Preti, cui spettava l'assolvimento del servizio
religioso, il compito di evangelizzare i territori conquistati, di
svolgere una missione educativa anche verso gli altri fratelli, e
di assicurare i conforti spirituali ai malati che frequentavano i
circa sessanta ospedali che l'Ordine possedeva nel 1400.
Questa categoria di membri sopravvive nell’odierna struttura
dell’Ordine Teutonico e ne ha assunto in pieno il governo al
quale partecipano, entro alcuni limiti, anche i “Familiares”.
L'ultima categoria era quella dei Laienbrüder, i Fratelli-Laici,
che svolgevano le mansioni più umili (come quelle d'agricoltore, giardiniere, maniscalco, sellaio ecc.) e provenivano da
famiglie non nobili. Erano anche detti “semi-fratelli”, Halfbrüder, oppure “uomini dal mantello grigio”, Graumäntler, anche
se erano sottoposti in tutto alle regole dell'Ordine. Questa categoria oggi non esiste più né nel ramo cattolico, né in quello
protestante, anche se, per quanto riguarda quello cattolico, ad
essi possono essere assimilati gli odierni oblati, categoria presente anche in altri ordini religiosi.
Presente nell’Ordine Teutonico oggi (come nella tradizione
medievale) anche il ramo femminile delle sorelle, il quale, a
differenza di quanto accade in altri ordini religiosi, è parte
integrante dell’unico Ordine ed ha come proprio superiore lo
stesso Gran Maestro Teutonico.
Nelle due province di combattimento, Prussia e Livonia, al
momento della sua massima espansione, l'Ordine disponeva di
circa tremila cavalieri nella prima, e di cinquecento nella
seconda. I cavalieri avevano l'ordine tassativo di risiedere in
una delle 60 fortezze costruite tra Prussia e Livonia. La vita
dei fratelli si conformava alle regole monastiche dell'Ordine
ed era severa.
L'abbigliamento : si componeva di biancheria di lino, di una
specie di tunica di lana con cappuccio, e, per i cavalieri, del
mantello bianco. In inverno si era autorizzati a portare una
cappa di pelle di capra o di montone oltre ai guanti.
I cavalieri erano anche monaci. Una parte della giornata era,
quindi, dedicata alla preghiera la quale, tra servizio diurno e
notturno, occupava circa cinque ore al giorno. I doveri religiosi erano assolti anche durante le campagne militari.
Nel 1344, il Gran Maestro König ottenne dalla Santa Sede
l'autorizzazione ad iniziare la prima messa quand'era ancora
buio, per consentire ai cavalieri di mettersi in marcia prima del
levar del sole derogando in ciò dalla regola che voleva il momento della consacrazione coincidente con lo spuntar dell'
alba.
Al campo, la tenda del maestro o del maresciallo diveniva la
chiesa dell'esercito e l'ufficio era recitato su un altare portatile
messo in modo tale che le guardie potessero sentire.
I Cavalieri Teutonici si comunicavano sette volte all'anno. I
giorni di digiuno erano 120, e si dividevano in digiuni detti
'della Chiesa' (vigilie delle feste principali e Quaresima) e
quelli particolari dell'Ordine, che andavano dal 14 settembre
all'Avvento e dall'Epifania al Mercoledì delle Ceneri. In questi
giorni di digiuno si pranzava una sola volta al giorno, nel
primo caso alle tredici e trenta, nel secondo alle sedici.
Soltanto il Venerdì santo il digiuno era completo a pane ed
acqua. Il cibo era eguale indistintamente per tutti. I fratelli
dormivano completamente vestiti con gli stivali, ma senza
mantello, in una vasta camerata non riscaldata. Dovevano
osservare il silenzio durante i pasti, nel dormitorio, in latrina e
durante le marce; potevano intagliare il legno o giocare a
scacchi, ma erano proibiti i giuochi che comportassero l'uso
del denaro. Non potevano far mostra del proprio blasone,
partecipare a tornei o cacciare se non il lupo, la lince e l'orso,
ma senza l'aiuto di cani da caccia. Potevano coltivare la barba,
ma i capelli dovevano essere corti e ordinati.
Molta parte del tempo era ovviamente dedicata agli esercizi
militari, alle parate, all'addestramento, alle marce, sempre in
silenzio. L'armamento era quello di un qualsiasi cavaliere dell'
epoca.
Le spedizioni si svolgevano di solito in inverno, quando
ghiacciava; ma, in qualsiasi stagione e con qualsiasi tempo, il
cavaliere era pronto alla guerra.
I monaci-soldati non dimenticarono mai lo scopo principale
della loro missione era l'evangelizzazione, così, tra il 1280 e il
1350, in circa un'ottantina d'anni, vennero costruite nei territori della Prussia e della Livonia settecentotrentacinque
chiese.
Il culto dominante era quello riservato alla Madre di Dio,
patrona speciale dei Cavalieri Teutonici, della diocesi di Riga,
della Prussia e della Livonia. La vita militare era strettamente
legata alla devozione mariana; la “reysa” [spedizione] invernale iniziava il 2 febbraio, giorno della Purificazione della
Madonna; quella estiva il giorno dell'Assunzione, 15 agosto, o
l'8 settembre, festività della Natività di Maria.
All'inizio del quindicesimo secolo i Teutonici esercitavano la
sovranità su una popolazione di oltre due milioni di persone,
raggruppata in 19.000 villaggi, 55 città dotate di mura e 48
fortezze, di gran lunga superiore a quella governata
dall’Ordine di San Giovanni a Rodi o a Malta. Tuttavia l'Ordine aveva dei nemici potenti che lo portarono
all’annientamento come stato sovrano e questa è un’altra
storia.
Francesco Zito e Andrew Martin Garvey
Vittorio Amedeo di Seyssel marchese d’Aix , di
La Serraz e di Sommariva del Bosco, barone di
Meillonnas
Sfogliando le carte d’archivio per una di quelle inutili ricerche
storiche che mi tengono occupato, questa volta relativa agli
anni 40 del Settecento, nel giro di poche pagine mi sono tante
volte capitati sotto gli occhi il cognome di Seyssel e il
predicato marchese d’Aix che mi è venuta la curiosità di saper
qualcosa di più dei personaggi cui si riferivano. Il primo
legato alla figura di due personaggi caduti in combattimento
nel 1744 l’uno a Pietralonga e l’altro a Cuneo, e sia il primo
che il secondo relativo a Vittorio Amedeo di Seyssel marchese
d’Aix Gran Mastro d’artiglieria del Regno di Sardegna dal
1736 e nel 1743 e 1744 comandante del Corpo d’Armata cui
era affidata la difesa della Val Varaita e poi primo consigliere
di Carlo Emanuele III nella battaglia della Madonna
dell’Olmo il 30 settembre del 1744. Considerato che del tutto
7
vuota era la casella relativa agli articoli per il 29° numero di
Sul Tutto ho pensato di riordinare in una sorta di modesto
articolo una sintesi delle risultanze di questa mia ricerca,
anche perché trovo che in quest’orgia di ricordi sul periodo
risorgimentale che caratterizza questo periodo, non tutti degni
di essere menzionati ed alcuni dei quali che poco o nulla
hanno a che vedere con la verità storica, non è male tornare a
parlare di onesti e coraggiosi personaggi.
Innanzi tutto vi è da dire che gli uomini cui mi riferiscono
appartenevano a due diversi rami dei Seyssel che, nei secoli, si
suddivisero, a quanto scrisse lo storico della famiglia nel suo
lavoro dato alle stampe all’inizio del 1900, in ben 19 rami.
A quello relativo ai Signori d’Aubilly e la Charnaz,
appartenne il Luigi Amedeo de Seyssel caduto in combattimento il 15 ottobre del 1744 durante una sortita della guarnigione nei pressi di Cuneo, quando ormai Francesi e Spagnoli
stavano levando l’assedio alla piazza. Era un giovane di appena 18 anni, già paggio del re di Sardegna e alfiere nel reggimento Fucilieri, si era distinto nel corso delle campagne del
1743 nella Contea di Nizza e in Val Varaita, poi col primo
battaglione del suo reggimento era stato inviato a far parte della guarnigione cui era affidata la difesa della piaz-za di Cuneo.
Il barone Leutrun comunicò direttamente l’evento al sovrano.
Gli altri due personaggi appartenevano invece al ramo più prestigioso della famiglia quello dei Signori di Serraz, marchesi
di Aix e Sommariva, i cui membri ricoprirono incarichi di
altissimo rilievo nel ducato di Savoia e nel regno di Sardegna
quando i Savoia assursero al titolo regio.
Arma Seyssel : Grembiato d’oro e d’azzurro
Supporti: due grifoni d’oro – Cimiero: un grifone d’oro
Motti: FRANC ET LÉAL – FORTITER QUOD PIE
Arma in uso a tutte le branche della famiglia ad eccezione della
Seyssel-La Chambre divenuta La Chambre Seyssel
Prima di proseguire vale però la pena di ricordare da chi essi
discendevano, risalendo almeno al nonno ed al padre del primo di questi personaggi:
- Bertrand (1554-1619), barone di La Serraz e di Châteaulard
en Bauges, segneur de la Tour de Luyrin de Chignin et de la
maion fort de Blonay, prese parte a tutte le guerre che si
svolsero durante il regno di Carlo Emanuele I contro la Fran8
cia, distinguendosi per coraggio e capacità in moltissime
occasioni guadagnandosi la riconoscenza del suo sovrano che
lo creò cavaliere dell’Ordine della Santissima Annunziata il 2
febbraio 1618;
Sigismondo (1617-1692), primo marchese di La Serraz,
marchese d’Aix e di Chatillon, barone di Meillonnas, fedele a
Maria Cristina durante il difficile periodo della sua reggenza,
caratterizzato dall’ostilità degli altri principi della Casa ducale
e della Spagna, dall’ingerenza francese negli affari dello stato,
che servì ancora i Savoia sotto Carlo Emanuele II e poi nella
reggenza di Maria Giovanna Battista e che il 24 febbraio 1678
venne ricompensato per tutti i servigi resi alla Casa ducale con
il conferimento dell’ onorificenza di Cavaliere dell’ Ordine
della Santissima Annunziata.
Venendo ora al Vittorio Amedeo marchese d’Aix ritrovato fra
queste carte, questi non era per me personaggio del tutto uno
sconosciuto, lo avevo, si fa per dire, già incontrato nel
modesto studio relativo al comportamento della nobiltà
sabauda durante la guerra di successione di Spagna -edito in
occasione del trecentesimo anniversario dell’assedio di
Torino-, quando nel marzo del 1705 fece, da capitano del
reggimento di Savoia, un disperato tentativo di portare
soccorso alla fortezza di Verrua durante il quale venne fatto
prigioniero per essere poi rilasciato poco dopo, in uno dei
frequenti scambi di prigionieri che contraddistinguevano i
rapporti fra avversari a quel tempo. Lo avevo poi ritrovato, col
grado di maggiore all’assedio di Torino, durante il quale, il 27
agosto 1706 venne gravemente ferito. Nel 1709, promosso
colonnello, ebbe il comando del reggimento di Savoia e nel
1723 fu promosso generale di Battaglia (l’equivalente del
generale di Brigata), ma nel 1723 cambiò mestiere, lasciò
infatti quello delle armi per la diplomazia essendo stato
nominato inviato straordinario presso la Corte di Londra e in
tale incarico rimase sino al 1730, quando venne sostituito da
Giuseppe Ossorio. Rientrato in patria assisté al complicato e
discusso passaggio di poteri fra Vittorio Amedeo II e Carlo
Emanuele III, ma tale cambiamento non ebbe alcun effetto
sulla sua carriera. Infatti malgrado fosse ancora in carica a
Londra ed in vista del suo rientro in patria, il 29 ottobre del
1729, venne nominato capitano della 1^ compagnia delle
Guardie del Corpo del sovrano, reparto costituito tutto da
savoiardi che conservava l’antica denominazione di
Gentiluomini arcieri e poco dopo essere rientrato; nel 1731,
era promosso maresciallo di campo e nominato Governatore
della Cittadella di Torino; nel 1732, lasciava il comando delle
Guardie del Corpo; nel corso della guerra di successione di
Polonia, nel 1734, venne nominato prima Governatore di
Cremona poi di Milano.
Inoltre, forse a riconoscimento del compiacimento del sovrano
oltre che per la sua attività in campo militare e diplomatico,
anche per l’attaccamento che dimostrava alla corona tutta la
sua famiglia, sua moglie Enrichetta del Pozzo della Cisterna
era dama d’onore della regina, a quanto dice il Manno il 19
marzo 1733 venne infeudato di Sommariva Bosco ed il 23
ottobre gli fu concesso il titolo di marchese con quel titolo.
Nelle Patenti Controllo Finanze dell’Archivio di Stato di
Torino invece la data dell’infeudazione col marchesato è del
17 settembre 1733.
Val la pena fare a questo punto fare una piccola interruzione
all’arida descrizione di questo cursus honorum e chiedersi
perché mai lo storico che scrisse la storia della famiglia
Seyssel , il conte Marc de Seyssel-Cressieu, che pure consultò
un incredibile numero di documenti e che quindi doveva
conoscere bene la carriera di questo Vittorio Amedeo abbia
scritto «Quando ebbe raggiunto la maggiore età il duca di
Savoia lo nominò capitano della prima compagnia dei
gentiluomini arcieri della Guardie del Corpo di S.A.R.» Frase
che in sé contiene più di un errore, perché non si può dire di
un cinquantenne «Des qu’il eut atteint l’age d’homme» e la
S.A.R. sopra citata era il sovrano stesso, con questo quasi a
voler dimenticare che Vittorio Amedeo II era re dal 1712. Il
fatto è che nell’interpretare o riportare i documenti o fece
molti errori a volte assai grossolani, come ad esempio di
scrivere che la marchesa di San Sebastiano era l’amante di
Carlo Emanuele III.
Nel 1736, il nostro venne chiamato al prestigioso incarico di
Gran Mastro dell’artiglieria, a riconoscimento del suo
comportamento durante la guerra di successione di Polonia e
particolarmente nelle battaglie di Parma e Guastalla ove si
distinse particolarmente e il 19 marzo 1737, terzo consecutivamente della sua famiglia, ricevette il Collare di cavaliere
della Santissima Annunziata.
Quando nel 1742 la guerra di successione d’Austria interessò
anche l’Italia, il nostro partecipò col sovrano alla campagna in
Emilia e Romagna agli assedi di Modena e di Mirandola, e
quindi fra il settembre ed il dicembre di quello stesso alla
campagna per riconquistare la Savoia, invasa dall’Infante
Filippo di Spagna. L’obiettivo della riconquista fu in gran
parte ottenuto, poi sia le condizioni ambientali avverse, sia la
difficoltà di alimentazione di un esercito, se non grande
comunque abbastanza numeroso, cui si dovevano far giungere
i rifornimenti dal Piemonte, dato che la regione non era in
grado di fornire il necessario per la sopravvivenza dell’armata,
consigliarono il sovrano a sgomberare la Savoia e così anche
Vittorio Amedeo rientrò nei quartieri d’inverno a Torino.
L’anno dopo, nel luglio del 1743, venne inviato a comandare
il corpo d’armata della Valle Varaita in previsione dell’attacco
che il generale Las Minas, al comando della poderosa armata
spagnola, coadiuvata da un consistente contingente francese
stava tentando in quella zona per da lì entrare nel cuore del
Piemonte. L’attacco si sviluppò sia lungo la valle con primo
obiettivo Casteldelfino sia contro le alture di Pietralonga e la
valle del Bellino. Dopo due giorni di aspri combattimenti i
Galloispani, come allora erano chiamati, vennero respinti ed
obbligati a risalire per il Colle dell’Agnello lasciando dietro di
loro artiglierie e un gran numero di equipaggiamenti. Anche
per i meriti conquistati per l’azione difensiva dell’anno prima
nel gennaio del 1744, fu promosso luogotenente generale.
Nel 1744 comandava ancora le truppe in Val Varaita dove i
Francesi svilupparono un’azione sussidiaria ma assai violenta
a quella principale, per la Valle Stura, con la quale volevano
tentare di entrare in Piemonte. I combattimenti furono però
durissimi e si svolsero sia nella zona di Chianale e Ponte
Chianale sia contro la ridotta di Pietralonga, numerosissime
furono le perdite da ambo le parti, fra gli altri da parte
francese lo stesso comandante del corpo d’armata attaccante,
il balio di Givrii, e da parte piemontese il brigadiere du
Verger e come si dirà fra poco il figlio primogenito del nostro.
La partita si concluse però con un nulla di fatto perché se i
Piemontesi si ritirarono su Sampeyre allo stesso modo i
Francesi presero la strada di casa, anche perché col grosso
delle loro forze stavano scendendo per la Valle Stura e l’aver
trattenuto a lungo il nemico dove veniva fatto lo sforzo meno
intenso era già un successo. Partecipò poi, alla fine di
settembre di quell’anno alla battaglia della Madonna
dell’Olmo combattendo a fianco di Carlo Emanuele III, e
quindi dopo l’abbandono da parte dei Galloispani dell’assedio
di Cuneo e al rientro del Re a Torino, rimase al comando delle
truppe sul campo. Fu ancora accanto al sovrano nel 1745,
sostituendolo ogni volta che doveva rientrare a Torino nella
prima fase della campagna del 1746.
Nel 1749 venne nominato Governatore della città di Torino e
qualche anno dopo si ritirò a Chambery ove mori il 16
febbraio 1754.
L’ultimo dei personaggi emersi dalle carte è stato Francesco
Giuseppe di Seyssel, il figlio primogenito del Vittorio
Amedeo di cui sopra. Egli si era arruolato giovanissimo nel
reggimento provinciale dello Chablais, nel 1739 promosso
capitano era passato al più prestigioso reggimento di Savoia,
che insieme a quello delle Guardie costituiva la punta di lancia
dell’esercito sabaudo. All’inizio del conflitto Carlo Emanuele
III lo aveva voluto come uno dei suoi aiutanti di campo e
questi lo aveva seguito nel corso della campagna sia
nell’Emilia sia in Savoia e nel luglio del 1743 era con il
sovrano nel Quartier Generale a Casteldelfino. L’anno dopo
sempre in Val Varaita era ancora al seguito del re. Qui in
previsione dell’attacco francese Carlo Emanuele III aveva
affidato il comando della ridotta di Pietralonga, posizione
difensiva fondamentale dello schieramento piemontese al
brigadier generale du Verger, comandante del reggimento di
Savoia accanto al quale, per seguire meglio gli eventi della
lotta aveva posto il capitano Francesco Giuseppe di Seyssel.
Il 18 luglio, protetti da una fitta nebbia mossero all’attacco
della ridotta presidiata dai savoiardi e giunsero sino alla
palizzata che difendeva la ridotta, vennero respinti ma dopo
un’iniziale ritirata, conseguente alla ferita a morte del
comandante francese, quasi con uno scatto d’orgoglio, i due
reggimenti francesi coinvolti nell’azione tornarono
spontaneamente all’attacco della ridotta riuscendo a superrare
i parapetti delle difese ed a penetrare ove erano schierati i
cannoni, nella feroce mischia che ne seguì caddero uno dopo
l’altro il du Verger (ferito a morte spirò un paio di ore dopo)
ed il suo sostituto il cavaliere di Castagnole. Fu allora che il
capitano de Seyssel schierato a fondo valle presso la Torre di
Ponte, sciabola alla mano accorse con i rincalzi per respingere
il nemico, riconquistare le artiglierie, raggiunse il posto ove
era caduto il suo superiore, prese il comando dei superstiti e
nel corso del combattimento battendosi contro i granatieri
francesi che tentavano di superare la palizzata della ridotta
cadde sul campo colpito a morte. Lo pianse il sovrano, che
perse uno dei suoi più brillanti e coraggiosi aiutanti di campo,
che accorse anch’egli sul luogo dello scontro e non ebbe che
parole di elogio per il comportamento di quei soldati ed
ufficiali, fra questi ultimi non ve ne era nessuno che non fosse
ferito
Con questo concludo questo insieme di appunti. Anche in
questo caso non posso però fare a meno di notare come i
Savoiardi che tanto diedero alla storia del Piemonte, e nelle
cosiddette I e II guerra d’Indipendenza non ne abbiano
ricevuto in cambio che l’oblio, infatti chi si ricorda più di
loro?
Alberico Lo Faso di Serradifalco
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IN MEMORIA
Il 12 aprile 2002, dieci anni fa, si spegneva ad Acireale
Pasquale Catanoso Genoese, per tutti gli amici, il caro Lillo.
Il suo nome è, sì, ben noto a gran parte di quanti si applichino
allo studio.delle dinamiche dei ceti dirigenti del Mezzogiorno,
ma ciò si deve principalmente alla sua generosità, assoluta e
disinteressata, pronta a porre a disposizione di tanti storici e
cultori delle nostre tematiche i frutti delle sue assidue ricerche
e il vasto materiale archivistico e bibliografico, da lui raccolto
e organizzato nel corso dell’intera esistenza, piuttosto che
dalla pubblicazione di propri scritti. La moglie, Milena
Mirone Musmeci, e i figli, Basilio e Isabella, custodiscono
gelosamente, assieme alla importante biblioteca e al ricco
archivio, non pochi inediti e molti lavori in fase di avanzato
completamento. Il più corposo dei primi è certamente l’opera
sulle famiglie nobili di Reggio Calabria, cui attese fino a
quando lo stato di salute glielo consentì. Videro le stampe
soltanto due corposi saggi, “Cavalieri gerosolimitani di
Reggio e del Reggino fino al 1968” (in “Historica”, n. 4 del
1969), “Brevi note sulla nobiltà in Reggio di Calabria ed in
Sicilia” (edizione fuori commercio, senza luogo, né data, ma
‘Acireale,1986’), nonché un discreto numero di articoli
apparsi su vari periodici (tra i quali la “Rivista Araldica”, che
gli era particolarmente cara da anni lontani), aventi a oggetto
prevalentemente temi di storia reggina e messinese
(confraternite nobili, stemma civico di Reggio). La sua ridotta
‘prolificità’ deve ascriversi alla sua autentica modestia e a una
sua ritrosia spontanea, che erano accompagnate dallo
scrupolo, tradotto in fermo proposito, di non dare spazio a
notizie altamente probabili, riportate da autori anche di fama,
che non fossero puntualmente documentate. Estremamente
attaccato alla sua città natale, Reggio di Calabria, fu capace,
integerrimo e intransigente amministratore della cosa
pubblica. Fece parte della Famiglia Pontificia in qualità di
Cameriere Segreto di Spada e Cappa (mutato, in anni a noi
vicini, in Gentiluomo di S.S.) sotto sei Papi, a partire da Pio
XII, fu cavaliere Gran Croce del S.M. Ordine Costantiniano di
San Giorgio e membro della sua Real Deputazione, fece parte
del C.N.I. e particolarmente attivo nella Commissione
araldico-genealogica delle province Napolitane ed è meglio
tacere dei tanti onori e ordini, di cui fu fregiato, ma che non
sollecitò, perché – se fosse ancora tra noi – non sarebbe
lontano dall’adontarsene.
Era nato da antico ceppo, appartenente alla nobiltà del
reggino, ma originario di Sicilia, un ramo del quale era stato
ascritto alla mastra nobile di Messina. Il re Umberto II, al
quale era molto devoto, volle riconoscergli il diritto alla
successione nel titolo di barone, per successione dalla famiglia
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materna Genoese, e quindi concedergli quello di barone di
Votano.
arma CATANOSO-GENOESE
Malgrado ci separassero undici anni, eravamo uniti da
un’amicizia che preesisteva a noi, in quanto lr nostre famiglie
erano amiche da sempre e c’era, in più, qualche remota
parentela comune. Essa era stata rafforzata da un’esperienza
scoutistica, alla quale seguì uno scambio mai interrotto,
fondato sulla passione per la storia. Gli devo l’interesse per i
nostri studi, che seppe destare con letture formative e
stimolanti conversazioni. E’ ulteriore ragione di gratitudine,
dato che mi tiene non cattiva compagnia con l’avanzare degli
anni. Grazie a lui incontrai Giovanni Maresca di
Serracapriola, Ferdinando Acton di Leporano, Falcone
Lucifero, Rocco Cavallo Marincola, Achille di Lorenzo,
Giovanni Celoro Parascandolo, solo per citare qualche nome
di personaggi che padroneggiarono le discipline araldicogenealogiche e che hanno tutti la caratteristica comune di non
essere, purtroppo, più tra noi.
Spero di potere presentare presto, riveduta e corretta, una
fatica cui attendemmo assieme per diversi mesi nel 1966,
rimasta interrotta a causa un mio trasferimento, intitolata
“Armerista delle famiglie nobili della città di Reggio
Calabria”, della quale fortunatamente posseggo ancora il
manoscritto. Varrà a onorare la sua memoria e, sia pure assai
parzialmente, ad adempiere a una sua richiesta, reiteratami
alcuni mesi prima della scomparsa: quella di curare la
pubblicazione del suo importante lavoro sulla nobiltà reggina,
di cui ho detto sopra. Dubito fortemente di essere all’altezza di
un simile compito, la Sicilia è lontana e gli anni ci sono, tutti.
L’ultima volta che ci sentimmo a telefono, dopo avermi
chiesto notizie di me e dei miei, lui aggiunse: “Io, beh, sono
ancora qui”. E ancora è rimasto qui, nel ricordo commosso e
affettuoso di ognuno dei suoi amici.
Angelo Scordo
Note sulla successione siciliana
Argomento assai complesso quello della successione nei titoli
e nei feudi in tutte le regioni d’Italia ed ancora maggiore in
Sicilia per le particolari norme da cui venne regolata. I titoli
potevano poggiarsi su un bene o avere una esistenza giuridica
separata da un bene e quando non poggiati su feudi erano detti
onorari, pur se soggetti, senza alcuna differenza dai primi, al
pagamento delle tasse, al giuramento di fedeltà e omaggio.
Per quanto ha tratto ai titoli legati ad un bene, questo poteva
essere della natura più varia, un feudo, una foresta, una terra
non ancora abitata, un piccolo fondo rustico, un censo feudale,
un’entrata fiscale, una salina, una tonnara, un ufficio pubblico
che desse proventi. Poteva anche accadere che un feudo o la
terra appartenesse ad una famiglia e il titolo ad un’altra, in
questo caso spesso il predicato cambiava denominazione, cioè
si commutava.
Quanto alla commerciabilità dei titoli, vale a dire alla possibilità di essere suscettibili di donazione, locazione, cessione
temporanea ad estranei alla famiglia sin dal periodo normanno, con la costituzione Scire volumus del 1130 questa era
legata alla volontà del sovrano. Stessa posizione assunse l’Imperatore Federico II che con successive disposizioni vietò in
modo tassativo le possibilità di cessione e stabilì che i feudi
originali non potessero essere diminuiti in parte né permutati
senza speciale consenso del re e poi ancora proibì alienazioni
e permute dei feudi e delle cose soggette a servizio militare,
non solo per i contratti tra i vivi ma anche per testamenti e altre forme di ultime volontà. Successivamente nel periodo
aragonese queste limitazioni vennero a diminuire.
Quello è però ciò che più particolarmente riguarda queste brevi note sono le norme successorie, che nei secoli subirono
numerose varianti e delle quali qui si vuole solo mettere in
evidenza alcune della caratteristiche di maggior rilievo.
È innanzi tutto da premettere che prima delle disposizioni dettate da Federico II erano vigenti nel campo del diritto comune
la legge romana, longobarda e franca. Infatti sia i Longobardi
sia i Normanni, sia gli Svevi avevano mantenuto le leggi dei
vinti, ritenendo, per assicurare la pace sociale, che esse, di
volta in volta, andassero ad applicarsi ai discendenti delle diverse popolazioni che si erano avvicendate. Da ricordare inoltre che sino all’inizio del periodo svevo in tutte le Due Sicilie
il diritto comune col quale viveva la maggior parte della popolazione nobile era il Longobardo, mentre il ceto popolare seguiva il diritto romano, solo i discendenti dei Normanni seguivano il diritto franco.
Riguardo la successione, per il diritto dei Longobardi, il feudo
era divisibile ed in esso succedevano tutti i figli maschi, escluse le femmine, ciò non per un inferiorità della femmina rispetto al maschio ma in quanto il feudo era un’istituzione prettamente militare, e allora si riteneva che solo il sesso maschile
fosse atto a portare le armi. Solo quando nella concessione del
feudo era chiaramente espressa la volontà del sovrano, con al
formula «ut in eo succedant fœminae sicut masculi», che anche le femmine potevano esserne investite, cioè che in mancanza di maschi venisse investita una donna.
Per il diritto dei Franchi il feudo era invece indivisibile, la
successione avveniva attraverso il maschio primogenito, mentre per i figli cadetti e le donne erano previsti appannaggi o
doti di paraggio.
Federico II con due successive costituzioni «Ut de successionibus» e «In aliquibus» ammise nel suo regno, sia per i seguaci del diritto longobardo sia per quelli del franco, la successione femminile, secondo l’ordine di primogenitura e in presenza di donne nubili e sposate che avessero ricevuto la dote,
era data preferenza alle prime. La successione femminile non
era però ammessa se nella concessione d’investitura veniva
precisato che il feudo era esclusivamente mascolino con la
formula «masculi succedant exclusis fœmnis».
Anche se la cosa presentò a volte interpretazioni differenti, per
le norme che i vari sovrani emanarono, spesso per soddisfare
esigenze del momento od accontentare qualche favorito, è da
ricordare che la successione si intendeva dovesse avvenire a
favore di un discendente legittimo. Ragione per cui i figli naturali non potevano succedere, né li rendeva atti a succedere la
successiva legittimazione anche per rescriptum regis, perché
come afferma Carlo Mistruzzi di Fresinga nel suo trattato sul
diritto nobiliare, l’incapacità a succedere si determinava dalla
nascita, cioè i legittimati nascevano incapaci di succedere. Ta-
le interpretazione non trova però conferma nelle disposizioni
di Carlo I d’Angiò che introdusse nelle concessioni la frase
«tibi et hæredibus ex corpore discendentibus», mentre la trova
in quelle dei re Aragonesi Federico III e Giovanni I che stabilivano che in caso di mancanza di legittimi eredi succedessero
familiari collaterali. Da parte sua Alfonso il Magnifico sia
Carlo V non accennano più ad eredi legittimi e naturali. In
tempi più recenti è ancora da ricordare, a suffragio di quanto
dice il Mistruzzi, il dispaccio del 1844 di re Ferdinando II col
quale si disponeva che non dovessero partecipare alla nobiltà
dei loro maggiori i figli legittimati per mera grazia sovrana.
La morale dei tempi, aspetti di mero interesse ed il modo di
sentire e di vivere dei tempi fecero sì che la successione dei
beni fosse fatta in modo che il patrimonio restasse in famiglia, da qui le nozze combinate fra cugini primi se non fra una
nipote ed uno zio, e comunque sempre con l’ esclusione dei figli naturali, legittimati o non che fossero, delle figlie degli
ascendenti e dei collaterali, dei figli nati da matrimoni celebrati con donne di ceto inferiore. Successivamente sia con
l’abolizione della feudalità sia per il cambio dei costumi e
l’introduzioni di leggi che regolavano in modo uniforme la
materia mentre all’eredità dei beni venivano chiamati tutti i
discendenti legittimi, legittimati o non, all’eredità del titolo,
divenuto ormai una sorta di onorifico orpello, si rimase legati
alle norme feudali.
Diverse sono comunque le interpretazioni riguardanti l’aspetto
della successione dei beni. Nei «Libri feudorum» ad esempio
si disponeva che nelle successione dei feudi potessero essere
ammessi i figli naturali legittimati dopo un susseguente matrimonio, in base a tale norma l’interpretazione corrente in Sicilia fu quella di ritenere esclusi dalle successioni solo quanti
fossero stati legittimati dopo la morte del padre.
In Sicilia a fondamento della successione femminile furono le
norme dettate da Federico II, che davano sì la preferenza agli
eredi di sesso maschile con l’obbligo di maritare le sorelle e le
eventuali zie paterne «secundum paragium», vale a dire con
persone di pari livello per nascita e condizione, ma prevedeva
che in mancanza di elementi si sesso maschile alla successione
potessero essere ammesse le donne. Rimaneva ammessa la
successione dei collaterali in mancanza di discendenti diretti,
si ammettevano cioè i fratelli e le sorelle nubili (erano escluse
quelle sposate e dotate) ed i nipoti, sempre che il feudo fosse
stato trasmesso da un comune bisavolo nel caso di un feudo
antico e limitando la successione collaterale ai soli fratelli o
alla sorella nel caso di feudi di nuova concessione.
Si nota inoltre che da Federico II sino all’Imperatore Carlo V
appare nel diritto successorio siciliano una prevalenza del diritto longobardo che si ritrova nelle molte investiture concesse
dai diversi sovrani a qualunque dinastia appartenessero. Carlo
V invertì la tendenza e stabilì che in mancanza di apposita
formula nel diploma di concessione del titolo e del feudo
questa si intendesse fatta iure Francorum.
Molto citata per la importanza ed i riflessi che ebbe è la Costituzione dell’aragonese re Giacomo, che stabiliva una serie di
importanti norme a modifica e chiarimento di quelle emanate
dai suoi predecessori:
-tanto in un feudo antico che in uno moderno, morto il barone
senza lasciare discendenti diretti, questo sarebbe passato al
fratello a ai figli di esso sino al trinipote; -la figlia nubile,
anche quando le sposate non fossero state dotate, era preferita
nella successione, in caso la successione dovesse avvenire in
presenza di sole figlie sposate, la preferenza era data a quella
di maggiore di età. L’aspetto di maggior rilievo che venne
affrontato e che fu causa di accese discussioni fra gli esperti
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siciliani di diritto feuda- le per gli interessi in gioco fu il
capitolo «Si aliquem» che la-sciava spazio a diverse
interpretazioni riguardo al problema se si dovesse dare la
preferenza nella successione alla linea o al grado.
L’interpretazione prima fu a favore del grado poi cam-biò
indirizzo e la giurisprudenza si espresse a favore della linea. In
sostanza la soluzione adottata fu quella di conside- rare nella
successione primo geniale l’esistenza di tre linee: quella del
possessore, quella del primogenito nella successio- ne degli
ascendenti e quella di un trasversale nella linea dei collaterali.
Qualora quindi due concorrenti alla successione
con
primogenitura si trovassero in diverse linee era preferito
quello che si trovava nella linea del primogenito, se si trovavano nella stessa linea veniva preferito quello di grado più prossimo e nello stesso grado era preferito il maschio alla femmina, se entrambi erano nella stessa linea, nello stesso grado e
nello stesso sesso era preferito il maschio alla femmina o a
parità di sesso il più anziano.
Considerata a questo punto la complessità dei problemi che
sorsero nell’interpretazione delle norme e per i cavilli dei giurisperiti si ritiene sia meglio passare ad alcuni aspetti che
caratterizzarono orme dettate nel periodo spagnolo, intendendo per esso quello da Carlo V a Carlo II di Spagna.
Un provvedimento che mise fine ai bisticci familiari fu quello
che stabilì che nella successione feudale i figli ed i nipoti del
primogenito fossero da preferirsi al figlio secondo o terzogenito, anche qualora durante la vita dell’avo avessero avuto il
possesso del feudo. Questo anche secondo l’interpretazione
della norma che dava la precedenza alla linea sul grado di parentela.
Nel periodo borbonico, oltre alla conferma della successione
sino al sesto grado, di rilievo la prammatica che pose fine all’
uso di confondere in un unico fedecommesso titolo e feudo,
con l’abuso da parte dei baroni di trasmettere i loro feudi in
forma di legati ai propri discendenti senza tener conto delle
norme successorie e di estendere il fedecommesso ai titoli nobiliari, prerogativa quest’ultima di esclusiva del sovrano.
Si potrebbe ovviamente proseguire ancora trattando delle
infinite questioni giuridiche connesse fra le quali ebbe particolare rilevanza quella della successione ascendente, della
quale si fa grazia allo sfortunato lettore, ammesso che a questo
punto ve ne sia rimasto qualcuno.
Di maggiore interesse invece ricordare che proprio la successione per via femminile abbia consentito in Sicilia il mantenimento di un gran numero di titoli, pur in presenza dell’
estinzione delle famiglie cui erano stati inizialmente concessi,
in alcuni casi realizzando un concentramento di questi in alcune casate e in altri casi facendoli pervenire a famiglie di estrazione borghese, e sovente con numerosi passaggi da una famiglia e l’altra. Gli esempi più eclatanti di accentramento dei
titoli pervenuti ad una casata per via femminile sono quelli
delle famiglie Alliata e Lanza.
Gli Alliata oltre il titolo di principe di Villafranca, concesso
loro nel 1609, godono, fra gli altri, per successione femminile
di quelli di principe di Valguarnera (concesso ai Valguarnera
nel 1624 e passato loro nel 1887), principe di Montereale
(concesso ai La Grua nel 1685 e passato loro nel 1784), principe di Trecastagne (concesso nel 1685 ai di Giovanni e passato loro nel 1804), principe di Ucria (concesso nel 1670 ai
Pagano e passato loro nel 1784), principe di Castrorao (concesso ai Di Giovanni nel 1632 e passato loro nel 1779), di
principe di Buccheri (concesso ai Morra nel 1627 e passato loro nel 1710), di principe di Gravina (concesso nel 1644 a Girolamo Gravina e passato loro nel 1866), di principe di Gangi
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(concesso nel 1629 ai Ventimiglia e passato loro nel 1864),
di duca di Saponara (concesso nel 1682 ai Di Giovanni e
passato loro nel 1775), tralasciando a questo punto l’esame di
un titolo di marchese, di nove di barone e molte signorie.
Quanto ai Lanza, rifacendosi solo al ramo primogenito, troviamo otto titoli di principe, due di duca, quattro di marchese
e quattro di conte, tralasciando le numerose baronie e signorie.
Di questi i Lanza furono i primi titolari solo di uno di principe
(Trabia, concesso loro nel 1605) e di uno di conte (Mussomeli
nel 1523). Gli altri pervennero in tempi diversi per via femminile, limitando l’esame a soli titoli di principe nel primo decennio dell’Ottocento vennero investiti di quello di Butera
(concesso nel 1563 ai Santapau), di S. Stefano di Mistretta (in
origine concesso ai di Napoli nel 1639) nel 1675, di quello di
Pietraperzia (concesso nel 1564 ai Barresi), di Campofiorito
(concesso nel 1660 ai Reggio), della Catena (concesso ai Reggio nel 1681); di Scalea (concesso alla fami- glia napoletana
degli Spinelli), di Scordia (concesso nel 1626 ai Branciforte).
Da notare ancora che, cambiati i tempi, i feudatari non dovevano più scendere di persona sul campo di battaglia a fianco
del proprio sovrano, quindi le donne oltre a succedere nei titoli e feudi vennero a riceverne la prima investitura.
Di seguito alcuni esempi relativi, per brevità, al solo titolo di
principe: Felicia Orioles Moncada nel 1656 venne investita
del titolo onorifico di principe di Castelforte; ad Elisabetta
Morso nel 1627 fu concesso titolo di principe di Belmonte con
relativo feudo; a Ninfa Groppo Mancuso nel 1664 fu concesso
il titolo di principe sul feudo di Belmontino nome che fu poi
commutato in Fitalia; a Teresa Lascari venne concesso sul cognome il titolo di principe nel 1688; a Giuseppa La Grua nel
1685 quello di principe di Castelbianco sui propri beni allodiali; ad Antonia de Liermo il titolo onorifico di principe di
Santa Rosalia nel 1670; a Margherita Orioles quello di principe di Roccapalumba nel 1630.
Si potrebbe ovviamente continuare ancora ma penso che perseverare sarebbe diabolico. A questo punto sarebbe interessante che qualche esperto di diritto nobiliare o feudale accennas se a situazioni relative ad altra regione.
ALFS
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