Stampa saGràscia - Il Monello film
Transcript
Stampa saGràscia - Il Monello film
Rassegna stampa “saGràscia” di Bonifacio Angius (2011) E' un fioretto ma anche un viaggio a piedi per una Sardegna abitata da personaggi misteriosi: una bella ragazza enigmatica, il cugino Giovanni che non parla, gli amici che giocano a biglie e un gruppo di suonatori. Improvvisamente la Sardegna si trasforma in una terra magica abitata da creature surreali ma gentili dove la frutta cade all'improvviso da un lato del fotogramma e gli occhi delle persone parlano più di mille parole. L'esordio nel lungo di Angius è un collage di momenti emblematici visti dall'occhio di un bambino curioso. Non c'è trama strutturata ed è tutto in dialetto sardo. Ma allora come mai 'saGràscia' sembra così fluido e comprensibile? Magia di un esordiente che sa scegliere facce irresistibili, realizza una fotografia digitale che ha la pasta della miglior pellicola e ci dona 80 minuti di assolato, ma non desolato, entroterra sardo. Ottime musiche vivaci di Carlo Doneddu. Angius ha 29 anni. Che bravo. (Francesco Alò, 11 novembre 2011) E' un ''miracolo'' il film gratis 'Sagràscia'. Arriva in sala il film a bassissimo budget di Bonifacio Angius di Chiara Ugolini Tutto è iniziato con una fotografia conservata in casa. Un ragazzino immortalato sull'uscio di casa vestito da fraticello con la testa fasciata. ''Mio padre a 5 anni di fronte alla sua casa di Villanova Monteleone con l'abito francescano - racconta il regista Bonifacio Angius - perché, come il protagonista del film, era caduto dalle scale, aveva rischiato di morire e invece non si era fatto nulla. La sua nonna, donna molto devota, pensò di mandarlo in pellegrinaggio alla chiesa di Sant'Antonio per ringraziare il santo della grazia''. Da qui lo spunto e il titolo 'Sagràscia' (la grazia in sardo, appunto) per il debutto alla regia di Bonifacio Angius. Un film realizzato con un budget molto ridotto (autoprodotto con l'aiuto dell'Unione cineasti indipendenti), con attori e maestranze che hanno lavorato gratis e che l'11 novembre arriva nei cinema, una trentina di sale del circuito cineclub prima a Roma e poi nel resto d'Italia. Il regista, classe 1982, ha studiato a Firenze, Bologna, New York, Barcellona, ma per il suo primo lungometraggio ha scelto di tornare alla sua terra e grazie all'aiuto di amici e degli abitanti del paesino di Ploaghe è riuscito a portare a termine il film. E in linea con i costi ridotti, il film racconta una vicenda on the road, ma a piedi. Antonio accompagnato dal cugino Zuanne, "faccia di mucca" attraversa la campagna, fa molti incontri prima di arrivare a ringraziare il santo, come vuole la nonna, in un percorso di realismo magico dove il sogno si confonde con la realtà. "Quello che ci interessava era soprattutto l'atmosfera. Il nostro obiettivo era farsì che lo spettatore si sentisse immerso in questa storia e che desse la sua interpretazione alla trama che è tutto fuorché univoca''. E vista la riuscita del primo lungometraggio, viene subito voglia di fare una nuova esperienza. Il prossimo film avrà un taglio più contemporaneo, strettamente legato alla realtà presente. ''Sarà la storia di un giovane disoccupato in una cittadina di provincia della Sardegna. Un film che cerca di raccontare la mia generazione in questi tempi così difficili. Ma questa volta ho trovato un produttore''. (08-11-2011) R o a d mo v ie o n i ri co l u n g o u n a S a rd eg n a in ca n t a t a : u n eso rd io f o lg o ra n t e Antonio ha pochi anni e tante biglie. Sfuggito alla nonna e alla sua mania di ‘mondare' viso e peccato, Antonio scivola e sviene. Ma l'intervento provvidenziale del Santo che porta il suo nome lo restituisce alla vita e a quella nonna devota che lo ‘cuce' dentro un saio e lo invita a onorare la grazia ricevuta. Partito da casa alla volta della chiesa e di Sant'Antonio, accompagnato da un cugino povero di parole ma ingordo di meloni, il ragazzino intraprenderà un viaggio onirico affollato di uomini e animali, di portieri senza attaccanti e di piloti senza corsa, di cani più belli di cavalli e di mucche più belle di un uomo, di mele precipitate e di meloni lanciati, di sogni sognati e di vite ‘miracolate'. Esordio folgorante (e immaginativo) quello di Bonifacio Angius, viaggiatore incantato come il suo piccolo protagonista, errante tra le pieghe di un'isola. Chi conosce la Sardegna forse non la ritroverà nei luoghi del film di Angius e chi vorrà conoscerla usandolo come guida probabilmente quei posti non li troverà mai, perché Sagrascia coglie quella terra in uno stato di sospensione. La Sardegna in Sagrascia è un posto addormentato, un paese delle meraviglie frequentato da creature altrettanto meravigliose. Bambini, giganti, pastorelle, nonne, piloti, vagabondi, musici, cani, mucche, automobili, biglie popolano il cinema di Angius, un cinema naturale e innocente che sogna immagini vergini e assomiglia più al ritmo di una musica (le vivissime note di Carlo Doneddu) che ai passi di una spiegazione. Autoprodotto dall'autore con il sostegno dell'associazione Unione Cineasti Indipendenti, Sagrascia è una zattera pronta a lasciarsi andare fra le onde, un luogo di incerto confine fra il qui e l'altrove, un luogo di traffici da cui partono e arrivano personaggi, oggetti, animali, frutti caduti dal fuori campo nello spazio visivo e visibile. Girato nel sassarese, intorno al paese di Ploaghe, ‘assistito' da Sant'Antimo e ‘patrocinato' da Sant'Antonio Abate, l'opera prima di Angius è una carezza nostalgica a un mondo arcaico che parla sardo, italiano, catalano, esperanto, un abbraccio a paesaggi che gridano la loro bellezza al cielo più forte delle cicale. Partito da una foto in bianco e nero da un ricordo biografico, la caduta dalle scale di suo padre-bambino e il successivo pellegrinaggio per rendere grazie a Sant'Antonio, l'autore restituisce la fede nell'avventura del cinema, nella sua capacità di far pulsare l'essenza dello spazio o di rendere estrema l'esperienza senza estremi del tempo. Inutile parlare di trama con Sagrascia: c'è un soggetto scritto a otto mani e quattro cuori, c'è una sceneggiatura che ha stravolto quel soggetto, c'è una messa in scena che supera in senso dell'assurdo la stessa sceneggiatura. Perché Sagrascia è magnificamente incurante delle traiettorie prestabilite e volontariamente deciso a non rimettere logicamente tutti gli elementi al loro posto. Come il piccolo Antoneddu nemmeno noi sappiamo dove andiamo magari scalzi e magari a piedi, forse convergiamo verso un ‘tempio' per ringraziare della vita o per scoprire di non averla più una vita. Poca importa, a contare è la ricerca, quel flusso di energia che produce il filo della (nostra) storia e incrocia i fili delle (altre) storie. (Marzia Gandolfi) Recensione Sagràscia (2010) Sogno di un giorno di mezza estate a cura di Tiziana Morganti pubblicato il 09 novembre 2011 Tra la rinascita della così detta commedia e il sempre attuale dramma esistenziale con riferimenti ad una cronaca elevata a Storia, il percorso compiuto da Bonifacio Angius e dal suo Sagràscia rappresenta un atto di coraggio mosso dal più ardito spirito intellettuale unito ad una incoscienza artistica finalmente costruttiva. La strada verso la santità è lunga e ricca di deviazioni impreviste. Lo sa bene il piccolo Antonio che, sopravvissuto ad una caduta dalle scale, si prepara ad affrontare un pellegrinaggio alla chiesa del santo protettore per rendergli onore della presunta grazia ricevuta. Vestito di un saio e accompagnato dal cugino Giovanni, costantemente immerso nelle sue visioni campestri, l'inconsapevole miracolato attraversa le strade polverose di una Sardegna rurale per incrociare il suo cammino con i misteriosi abitanti di un universo immerso in una atmosfera inaspettatamente onirica. Così, dopo essere stato abbandonato in piena notte dal suo accompagnatore silenzioso, Antonio trova rifugio nel mondo visionario di Angela, creatura irreale plasmata dalla durezza della terra e dalla follia dei sogni, nascosto tra le spighe osserva i giochi di guerra di un gruppo di giovani guerrieri indiani e si lascia trasportare dalle sonorità nostalgicamente gitane di un gruppo di innocui vagabondi. Tutte immagini e profili sconosciuti che, dopo una breve apparizione, si dissolvono nella luce accecante di un mattino d'estate lasciando il ragazzo in compagnia della persistente incertezza che accomuna il cammino e la fine di ogni essere umano. Il miracolo di Sant'Antonio Esistono vari modi di muoversi nello spazio. Vi è quello che prevede una meta prefissata, da raggiungere per quante deviazioni si facciano; la fuga, nella quale solo il punto di partenza è conosciuto; lo spostamento circolare, teso a una continua e ineluttabile quadratura del cerchio. Tutte dinamiche ampiamente sfruttate nel corso della storia del cinema, spesso con risultati eccellenti: ciononostante Sagràscia, esordio alla regia del ventinovenne Bonifacio Angius, pur essendo in tutto e per tutto un road-movie non rientra in nessuna delle suddette sotto-categorie del genere. La storia del piccolo Antoneddu che dopo essere sopravvissuto a una brutta caduta dalle scale viene letteralmente spedito in pellegrinaggio alla chiesa di Sant'Antonio, per portare i suoi omaggi al divino protettore che gli ha riservato la grazia della vita, si sviluppa nella sua interezza attraverso un andirivieni caotico, apparentemente privo di una reale logica. Solo in apparenza, però, perché in realtà Angius fa sprofondare la sua opera prima in un'atmosfera onirica, nella quale spazio e tempo perdono le coordinate reali a favore di una fluttuazione visiva che sembra di quando in quando perseguire un senso anadiplotico, con gli elementi in scena che si accumulano per creare una sorta di concatenazione razionale: in realtà, a voler ragionare per figure retoriche, siamo più dalle parti dell'anfibologia, perché Angius dissemina Sagràscia di ambiguità sintattiche e logiche, lasciando interamente all'interpretazione dello spettatore quel che avviene sullo schermo. Difficile e ingiusto ridurre Sagràscia a un mero esercizio di stile, comunque, per quanto sia innegabile la volontà dell'autore di approfittare delle contingenze (auto)produttive per concedersi una libertà sperimentatrice che in contesti più irrigimentati difficilmente potrebbe vedere la luce: la deflagrante potenza immaginifica di cui è dotato il film ha il pregio di non assecondare mai divagazioni citazioniste, ma di spingersi sempre un passo più in là, con il coraggio (ma forse anche in minima parte l'inconsapevolezza) di non accontentarsi mai del già fruito, del già metabolizzato, del preesistente. Non è un film perfetto, Sagràscia, ma possiede anzi la spavalderia di mostrare fino in fondo tutti i propri difetti, ricordando al pubblico una verità troppo spesso dimenticata nell'affrontare le gravi problematiche che affliggono il cinema italiano contemporaneo: l'inesattezza, lo sbaglio, l'imprecisione non devono essere accolti necessariamente come l'insuccesso di una poetica. Perché a fronte di una pletora infinita – e interminabile gettando uno sguardo al futuro prossimo, visti i tristi figuri che tirano le redini della produzione cinematografica nazionale – di commedie e drammi inesorabilmente uguali a sé stessi, replicanti ottusi di una prammatica produttiva che non sa o non vuole uscire da uno schematismo fin troppo abusato, Angius trascina la sua creatura su territori liberi da preconcetti, in cui il cinema torna alla sua essenza primigenia, immagine in movimento in grado di suscitare emozione. Non concede alcun appiglio al pubblico, Sagràscia, e rappresenta una sfida non solo per il regista ma anche per la sempre più volitiva Distribuzione Indipendente, che l'ha inserito nel proprio (ricco) listino e lo fa uscire in sala in ben nove regioni. Sarebbe facile accusare il film di risultare troppo ostico e abbandonarlo così al proprio destino, ma la realtà è che è nessuna opera potrebbe sintetizzare l'idea di controcultura portata avanti da Giovanni Costantino, Alessandra Sciamanna e Daniele Silipo meglio di Sagràscia: un film dal budget miserrimo, portato a termine nel corso di tre lunghi anni, grazie alla dedizione e alla passione di un gruppo di ragazzi che, semplicemente, volevano provare a tradurre in immagini suggestioni personali, derivate in parte da memorie familiari e in parte da frammenti del cinema amato e studiato con attenzione. In effetti schegge di Pasolini, del surrealismo felliniano, dell'elemento magico di Jodorowski, perfino della destrutturazione sognante di Lynch è possibile rintracciarle, ma a far presa è un universo del tutto svincolato dall'abitudinario, in grado di sfruttare nel migliore dei modi gli splendidi panorami delle campagne nei dintorni di Ploaghe, piccolo comune del sassarese: un incidere che non procede mai in maniera piana, ma si avviluppa, torna su se stesso e accelera, per poi cambiare ritmo, modificandosi passo dopo passo senza mai perdere la propria coerenza. In un orizzonte produttivo che ha distorto a tal punto il senso del termine “indipendente” da legarlo in maniera esclusiva a dinamiche economiche o addirittura istituzionali, Sagràscia svolge il ruolo della bomba, squarciando i veli che coprivano gli occhi dei più: l'indipendenza non si può giudicare dallo stile, dal genere di appartenenza o dai soldi investiti, ma solo dall'approccio con cui si affronta la messa in scena. Il cinema italiano non è morto, e per accorgersene basta spostare lo sguardo dalla mediocrità imperante e cercare negli anfratti più nascosti, dove ancora si possono rintracciare film come Sagràscia, vitali, ironici, onirici e realistici allo stesso tempo. L'esordio di Bonifacio Angius per un'ora e un quarto – o poco meno – asservisce lo spettatore a sé, trascinandolo in un mondo magico e vecchio di millenni, eppure carico di spudorata freschezza: alla fine non si applaude solo l'eleganza della regia, la cura della fotografia o la naturale simpatia che sprigiona il cast, ma si stima e si applaude il concetto alle spalle dell'insieme. E non è cosa da poco. Raffaele Meale Colpiti da Sa Grascia: SASSARI. Una sala strapiena come alla prima in città di «Avatar» e di altri pochi kolossal hollywoodiani. Forse anche di più, con alcune persone costrette a restare in piedi. Oltre seicento spettatori hanno assistito martedì sera, al cinema Moderno di Sassari, all'anteprima in Sardegna di «Sa Grascia», il primo lungometraggio del regista sassarese Bonifacio Angius. La proiezione ha aperto in anticipo il Sardinia Film Festival (organizzato dal Cineclub locale) che si svolgerà in città dal 28 giugno al 2 luglio e ha fatto registrare un sorprendente, imprevisto afflusso di persone in sala. Certo - ma questo non toglie nulla alla bella serata - molti erano amici e parenti del cast tecnico e artistico che ha preso parte alla lavorazione del film. Lavorazione lunga, fare cinema è difficilissimo, che ha richiesto tre anni di lavorazione e ha coinvolto maestranze, tecnici, scrittori e musicisti tutti locali. Dalla sceneggiatura scritta dal regista ventinovenne in collaborazione Gianni Tetti, Stefano Deffenu e Marina Satta, alla colonna sonora del musicista e compositore Carlo Doneddu, agli attori (non professionisti) molti dei quali abitanti di Ploaghe dove il film è stato girato (soprattutto nelle campagne del paese). Come il piccolo protagonista, Giuseppe Mezzettieri, che nel film deve raggiungere la chiesa di sant'Antonio che gli ha fatto la grazia, "sa grascia", dopo una brutta caduta dalle scale. E il film racconta questo suo viaggio durante il quale incontra personaggi bizzarri. Un road movie surreale che, se non particolarmente originale come idea, trae forza soprattutto dall'ambientazione. Una Sardegna bruciata dal sole, con una notevole fotografia curata dallo stesso Bonifacio Angius che nella regia alterna a ottime riprese a campo lungo forse troppi primi piani. Come un po' eccessivo risulta l'uso della musica, comunque suggestiva come per esempio in un scena con protagonista una banda zingaresca che fa pensare a un film di Kusturica. Tra momenti di ilarità e di commozione, mescolando sogno e realtà, il film scivola bene nei suoi ottanta minuti. E poco importa se a fine visione alcune cose possono risultare poco chiare o avere diverse spiegazioni. Il cinema è spesso giustamente così. Ora il film interamente autoprodotto dall'autore, con il sostegno dell'associazione culturale U.C.I. (Unione Cineasti Indipendenti) - film che nei mesi precedenti a partecipato alla Mostra del cinema di San Paolo in Brasile - dopo la proiezione a Sassari dovrebbe girare in altre sale. Affrontare il problema di uscire, di aprirsi al pubblico, quello che faticano a fare film di questo genere. Magari non da grande pubblico, ma sicuramente meritevoli di più attenzione da parte delle case di distribuzione. «Con una distribuzione indipendente, attraverso la rete di cinema d'essai e di cineclub - spiega il regista - dovrebbe girare un po' tutta l'Italia». Nel frattempo Bonifacio Angius è già al lavoro per preparare il suo nuovo film che sarà girato a Sassari. Fabio Canessa In una Sardegna incontaminata, il piccolo Antoneddu, un bambino di dieci anni, s’incammina lungo le strade polverose e suggestive della campagna per raggiungere la chiesa di S. Antonio e ringraziare così il santo che gli ha salvato la vita. Ma il cammino gli riserva incontri inaspettati, dove sogno e realtà si fondono in un delicato ritratto di un mondo dal sapore antico. Il film non segue una trama lineare e strutturata, ma è piuttosto un tentativo di esprimere stati d’animo e raccontare brevi storie fatte di gesti e di sguardi intensi. Follia, delicatezza, violenza e generosità regnano sovrane nelle terre bruciate delle campagne sarde, impedendo allo spettatore di distinguere ciò che è reale dall’immaginazione del piccolo protagonista. La regia di Bonifacio Angius, qui al suo esordio in un lungometraggio, è estremamente curata e riesce a catturare perfettamente le atmosfere surreali del film, forse esitando un po’ troppo sui particolari della natura e sui volti degli attori. A impreziosire questa pellicola sono anche le toccanti musiche originali di Carlo Doneddu, che fanno da sfondo al film amalgamandosi alle immagini senza sbavature. Come quando Antoneddu resta a bocca aperta nell’ascoltare una musica di altri tempi suonata e cantata da alcuni gitani in un bosco. Sagràscia resta un film tecnicamente ben fatto e ricco di richiami estetici che guarda a maestri come Federico Fellini. Paolo Sinopoli Una ventata di aria fresca di Davide Cinfrignini Lungo le strade di una Sardegna “fuori dal tempo“, Antoneddu, banbino di dieci anni che dopo essere caduto dalle scale si è salvato miracolosamente , compie un lungo viaggio per recarsi in chiesa e ringraziare Sant’Antonio. Sagràscia è indubbiamente una ventata di aria fresca nel panorama cinematografico italiano, grazie al coraggio di un autore che dirige un’opera completamente autoriale, priva dalle restrizioni dovute a vincoli di mercato e intimamente voluta, necessaria, viva come dovrebbe essere ogni opera prima di un “vero” regista. Il film è infatti onestamente un prodotto difficilmente vendibile, un piccolo gioiello che si priva dei dettami della narrazione classica, dove lo spettatore non viene accompagnato per mano ma viene lasciato solo in un mondo logicamente incomprensibile, senza gli strumenti per poter dare alla vicenda una lettura razionale ed univoca. Il lungo viaggio del giovane Antoneddu avviene in un tempo dilatato in maniera spropositata e antirealistica e in non-luoghi governati da figure ancestrali, personaggi mitologici che nascono dalla terra e con essa dialogano attraverso lingue sospese dal/nel tempo. La trasfigurazione del reale permette a Bonifacio Angius di scrivere un lungometraggio con dei tratti autobiografici, senza però la necessità di soddisfare necessariamente il proprio ego, non volendo rivelare parti di sè stesso ma figure sfocate del suo stato mentale. Un film adatto ad un pubblico di “nicchia“, raccontato però attraverso un linguaggio universale. SaGràscia | Un esordio abbagliante, un road movie spirituale SaGràscia, la grazia. Di Sant’Antonio al piccolo Antoneddu. Sì, ma a ben vedere la vera grazia l’ha fatta Bonifacio Angius al cinema italiano. Perché il suo primo lungometraggio è un perla, o forse sarebbe meglio dire una biglia, unica e rara, lucente e magica, che apre una breccia di novità nel velo di Maya del cinema made in Italy da sempre ancorato a pellicole da “pranzo della domenica”, domestiche, tutte casa e chiesa. Angius ci porta in una terra di mezzo sconosciuta, mai vista, en plain air, in un mondo (non) parallelo, sulle tracce di un road movie spirituale, sui generis, che affascina e cattura. SaGràscia è segno di un cinema indipendente coraggioso, che si autoproduce con il bassissimo budget di 15 mila euro e diventa grande grazie a idee vere, belle, fuori dal coro. Il piccolo Antoneddu, caduto rovinosamente dalle scale per andare a giocare a biglie con i suoi amichetti, è vivo per miracolo. E deve raggiungere la chiesa di Sant’Antonio per lodare l’aureolato della grazia ricevuta. Con una candida fascia da piccolo karate kid e un saio extrasmall , inizia il suo pellegrinaggio in un mondo di sconfinate e polverose strade da Oklahoma e orti dei Getsemani costellati di alberi tentacolari, pastori che sembrano zingari (e viceversa) e traghettatori dell’asfalto con mezzi sgarrupati, secchi e gialli campi (elisi) di grano e tramonti senza tempo. Incappando in personaggi muti, canterini, sibillini, che ora ci sono, ora non ci sono più. “Sogno o son desto?” si chiede continuamente lo spettatore. Antoneddu è vivo o morto? E’ sogno o realtà, immaginazione o preghiera? Il giovane regista sardo riesce con polso fermo a tenere alto questo interrogativo per tutta la durata del film, fino a negarci una consolatoria risposta definitiva. E’ così che sin dai primi minuti veniamo catapultati in medias res in una suspense fatata, onirica, del non noto. Rinunciando quindi volontariamente ad una linea narrativa chiara e a dialoghi “quotidiani” (il film è parlato in sardo stretto e sono davvero poche le battute che capiamo), Angius (curatore factotum della fotografia, oltre che della regia, del soggetto e della sceneggiatura) punta tutto sull’immagine, sulla sensazione che essa è capace di suscitare senza ricorrere a tante parole. Dimostra inoltre di saper giocare con i generi. Due esempi: molto horror movie di gusto baltico il rigagnolo di sangue di Antoneddu steso sulle scale e marcatamente western (con tanto di rumore di serpente a sonagli fuoricampo) la scena ambientata sul campo di calcetto. Lo stesso montaggio, poi, gioca con le unità di tempo e luogo, passando senza preavviso dal reale all’immaginario (o trascendentale). In merito alla regia, Angius, seppur giovanissimo (29 anni), ha talento da vendere. La varietas domina fluida inquadratura dopo inquadratura. Potrebbe insegnare in una scuola di cinema. Il tutto è accompagnato quasi interrottamente da una colonna sonora empatica, zigana, di violino, chitarra e fisarmonica, che orchestra ritmi “diabolici” e briosi alla Paganini e Kusturica, pur lasciando spazio ad alcune brevi marcette da commedia all’italiana e ad alcune sinfonie di musica classica. Ma grande attenzione in presa diretta è rivolta anche a suoni e rumori ambientali: il brusio delle cicale, il soffio del vento tra le foglie degli alberi, il ticchettare secco delle biglie sul pavimento, il graffiante cigolio dello sportello dell’Ape. Un mondo surreale, arcaico e biblico, sulla terra e nell’aldilà allo stesso tempo, che si ciba dei volti giusti. Il piccolo Giuseppe Mezzettieri, 10 anni, è uno scugnizzo che non sbaglia uno sguardo. Da segnalare anche le prove della rugosa e pasoliniana Maria Sau nel ruolo della nonna, di Daniele Marrosu nei panni del felliniano Zuanne e della bella e imperscrutabile Francesca Niedda, che incarna Angela, a metà tra una giovanissima Madonna velata e una compita Maria Maddalena. Insomma, SaGràscia è un piccolo grande film da non perdere, che avvolge, scalda e conduce in un mondo da fiaba senza via d’uscita. E poco importa se, giunti ai titoli di coda, sentiamo di non aver compreso ogni sua sfaccettatura o ogni sua battuta. E’ il potere del cinema: non solo narrare, ma anche condurre in mondi non convenzionali. Ma in fin dei conti, la totale non comprensione delle cose è tipica di ogni sa gràscia ricevuta. Proprio come questa di Antoneddu e Bonifacio. Tommaso Tronconi Giovane regista sardo sfida la crisi Il film "Sagrascia" è autoprodotto: Non un'opera prima 'camera e cucina', schematica e narrativa, ma il surreale viaggio on the road di un bambino sulle strade estive e deserte dell'entroterra sardo, in un percorso di incontri, che guarda a modelli amati dal regista come Pasolini e Fellini. E' la strada scelta da Bonifacio Angius, per il suo debutto nel lungometraggio (è già autore di vari corti), Sagrascia, il film low budget e autoprodotto (15 mila euro per tre anni e mezzo di lavoro) in uscita l'11 novembre in 40 sale attraverso Distribuzione indipendente. Il film ha partecipato, fra l'altro, alla Mostra Internacional de Cinema de Sao Paulo in Brasile, "uno dei più importanti del Sudamerica, e abbiamo provato a proporlo anche ai grandi festival italiani, ma senza un produttore potente alle spalle non si fa molta strada" dice Angius. Il giovane cineasta, classe 1982, spiega che "sarebbe stato facile realizzare una storia schematica, ma volevamo provare su un genere che in Italia si fa poco". Anche perché, secondo Angius, il pubblico "oggi è abituato alle produzioni televisive e a storie tutte uguali, ma il cinema non è un quiz, in cui alla fine devi avere tutte le risposte, è bello anche provare a raccontare storie più aperte all'interpretazione". In Sagrascia, ispirato al regista da un avvenimento vissuto dal padre, è protagonista un bambino, Antoneddu, che dopo essere scampato a una brutta caduta, in una Sardegna estiva e deserta, si avvia da solo verso la chiesa di sant'Antonio, per ringraziarlo di averlo salvato, di avergli fatto la grazia (Sa Grascia). Durante il viaggio, che forse è un sogno, si alternano al suo fianco vari personaggi, dal cugino che finisce a mangiarsi un intero campo di meloni e cocomeri, alla misteriosa Angela. "Volevo raccontare l'inconsapevolezza, con cui spesso affrontiamo la nostra vita - conclude il regista - e la gioia di viverla appieno". Sa Grascia di Bonifacio Angius Dobbiamo rendere merito al marchio “Distribuzione indipendente”, se un altro film girato in Sardegna, potrà avere una discreta circolazione. Certo, nella maggior parte, si tratta di sale d’essai e spazi gestiti dalla vasta rete dei Circoli del Cinema in tutta Italia, ma che mettono insieme un pubblico motivato, appassionato, il quale può formare una comunità compatta di spettatori consapevoli e esigenti di film di qualità. Bonifacio Angius è un sicuro giovane talento. Se con “In s’aia” (2006) ci aveva convinto a metà, con “Sa Grascia” è riuscito a trovare la strada giusta sia nel versante della sceneggiatura sia in quello della struttura formale (ricordiamo come la bella fotografia sia firmata dallo stesso regista). Il grottesco, l’onirico, il favolistico, il surreale si addicono alla Sardegna (vedi le opere del primo Salvatore Mereu) ed è una chiave espressionistica, la quale permette di mostrare paesaggi sospesi nel tempo e nello spazio attraversati da personaggi fuori dagli stereotipi. In una casa “antica” -uno dei pochi interni del lungometraggio- un bambino vivace cade dalle scale. Il suo corpo giace su un gradino. Il sangue cola dalla testa, mentre le biglie, giocattoli prediletti dal piccolo, balzano di qua e di là. E’ l’inizio della storia? Viene data una ennesima possibilità di vita al ragazzino, mediante una “grazia” di Sant’Antonio? Può essere. E, dunque, inizia il pellegrinaggio, come da tradizione a piedi scalzi e vestito di un saio rudimentale, per ringraziare il santo. Non si tratta di un pellegrinaggio alla Deledda, ma di un breve percorso nel mondo del fantastico e del sogno. Il bambino è una piccola Alice nel paese delle meraviglie. Acuto e curioso, vede alternarsi vicino a sé compagni di strada bizzarri, che spariscono, ricompaiono, mutano, aiutano, ostacolano. La fiaba di una vita possibile metaforizzata da episodi surreali. Il cugino muto si mette il cravattino per assistere il bambino nell’itinerario religioso, subisce piccole angherie, sparisce, ma, poi, lo troviamo a letto, a dormire e, dunque, svegliatosi, come nelle coazioni a ripetere dei film buneliani, lo ritroviamo, di nuovo, nel cammino. La fanciulla-mamma-fata e strega viene dileggiata da un gruppo di monelli, come nella “Piccola Fadette” di George Sand; può sentirsi morta e trovare la felicità sulla macchina rossa di un bizzarro motociclista in cerca, forse, di un cane. In questo viaggio, profondamente kusturiciano, si può incontrare pure una orchestra gitana, che sottolinea la cinefilia del regista, ma pure la bella scelta delle musiche pensate per il film. Il simbolo fondamentale del film è la sfera (la biglia, la mela etc), è l’oggetto magico capace di permettere le più curiose avventure. Tutta la vita del bambino è legata a quella figura geometrica che si chiude, ma può essere trasparente ad indicare altri itinerari esistenziali. Angius, avendo ben presente, come si è detto, le opere di Bunel, di Kusturica, di Fellini tra gli altri, umilmente, ma con già ottima professionalità compone un racconto melanconico e fiabesco, utilizzando al meglio l’isola, la sua lingua, le facce splendide dei protagonisti. “Sa grascia”, comunque, è, secondo noi, capace di emozionare non solo gli spettatori sardi, perché non è esclusivamente un “film sardo”, ma un bel film. saGràscia: Antonio ha poco più di dieci anni e una passione per le biglie. Cercando di fuggire da una nonna pedante tra le pareti domestiche, scivola inavvertitamente per le scale rischiando la vita. Inconsapevole di essere stato miracolato, viene vestito da fraticello e inviato in pellegrinaggio verso la chiesa del Santo che gli ha salvato la vita, gli ha fatto “Sa Gràscia”. Tra musici, mucche, filastrocche, campi di melone e tiri in porta, il sogno e la realtà si mescolano in un girotondo di personaggi e suggestioni, sullo sfondo di una Sardegna magica e battuta dal sole, dove la dimensione del viaggio perde in folklore e acquista in intensità. Opera prima del promettente Bonifacio Angius, Sagràscia stravolge i canoni della narrazione, guarda altrove, spostando il tempo e il luogo dell’immagine in un posto indefinito, non geografico ma immaginario. Il posto dell’anima del piccolo protagonista è fatto di dettagli, di personaggi che non appartengono a nessun luogo e non hanno una storia, ma sono visceralmente legati al qui ed ora, in una realtà sospesa, onirica, tra campi larghi e canti popolari. Girato nel sassarese e realizzato in tre anni di lavorazione con un budget ridottissimo (meno di 20.000 euro), Sagràscia si avvale di un cast locale e competente che, sostenuto dalle suggestive note del compositore Carlo Doneddu, immerge lo spettatore in un road movie senza una logica prestabilita, volutamente non svelata e non ricercata, lasciandolo libero di vagare a piedi nella Sardegna incantata del piccolo Antoneddu. Esordio ambizioso ed abbagliante, Sagràscia ci (ri)porta in una dimensione arcaica, onirica, musicale, dove il tempo si ferma per lasciare spazio alle possibilità del Cinema. Chiara Napoleoni