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Commentary, 15 maggio 2015
CINA: FORZA E DEBOLEZZA
NEI RAPPORTI CON IL NUOVO SUD
GIAN PAOLO CALCHI NOVATI
L
©ISPI2015
a Cina esordì sulla scena internazionale, fuori
del circoscritto campo socialista, alla Conferenza di Bandung (aprile 1955). I cinque governi che decisero gli inviti non ebbero dubbi sulla Cina. Zhou En-lai condivideva con Nehru e Sukarno i
principi della coesistenza pacifica, i cosiddetti Pantja
Shila. Del resto, per il primo appuntamento della storia
fra i paesi africani e asiatici indipendenti non furono
fatte troppe distinzioni. Parteciparono alla pari, oltre ai
neutralisti, tanto i paesi comunisti quanto gli alleati
dell’Occidente e persino i membri della Nato e dei patti
disseminati in Medio Oriente e nel sud-est asiatico da
Foster Dulles, il segretario di Stato di Eisenhower.
Non era stato così alla Conferenza di Ginevra del 1954
sull’Indocina. La Cina vi fu ammessa ma la delegazione
degli Stati Uniti preferì non sottoscrivere il comunicato
finale per non mettere la propria firma sotto quella di
Zhou En-lai, che poteva sembrare un implicito riconoscimento della Repubblica popolare cinese, concedendo
solo d'impegnarsi a rispettarne il contenuto.
Nel 1955 non era ancora scoppiato il dissidio sino-sovietico. L’afro-asiatismo, e più in generale il ter-
zomondismo, sarebbe diventato ben presto uno dei motivi della rottura fra Mosca e Pechino. La Cina finì in tal
modo, suo malgrado, a dover contare soprattutto su
quella platea mobile e volubile di stati alla ricerca di una
promozione. La svolta avvenne quando Nixon, consigliato da Kissinger, pensò di utilizzare la Cina come un
cuneo per allargare le prospettive del duopolio o contrasto polarizzato Usa-Urss. Automaticamente, la Cina
divenne il terzo “grande”. Dal 1964 la Cina faceva parte
del club atomico.
A Bandung, la Cina cercò di far dimenticare di essere
una grande potenza. Si comportò con prudenza curando
di non suscitare fenomeni di rigetto ed evitando di sbilanciarsi troppo a favore del blocco che faceva capo
all’Urss. Nei suoi interventi, pubblici o riservati, il
primo ministro cinese Zhou En-lai esibì le sue non
comuni doti di statista e di diplomatico, facendo della
Conferenza di Bandung la vetrina di un paese che parteggiava per le rivendicazioni di un mondo appena
emancipato dalla colonizzazione e comunque povero e
subalterno. Rispondendo alle critiche e agli attacchi di
alcuni delegati, esortò tutti a cercare nella Conferenza
Gian Paolo Calchi Novati, Ispi e Università degli Studi di Pavia
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Le opinioni espresse sono strettamente personali e non riflettono necessariamente le posizioni dell’ISPI.
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non un’occasione per professare le proprie particolari
rimostranze – come la stessa Cina avrebbe potuto fare
per Formosa o per la mancata ammissione all’Onu – ma
un’occasione per rafforzare la reciproca collaborazione
politica, culturale ed economica.
Iraq e Turchia (tutti e tre prossimi membri del Patto di
Baghdad, la Turchia già membro del Patto Atlantico)
chiesero di correggere lo spirito dei Pantja Shila, che
introducevano un’idea di coesistenza pacifica che andava oltre i blocchi militari, sancendo il diritto
all’autodifesa esercitato singolarmente o collettivamente. L’integralismo neutralista del birmano U Nu fu
temperato dalla moderazione di Nehru d’accordo con
Zhou. Il primo ministro indiano riuscì a limare il principio dei patti multilaterali in modo da legittimare solo
gli accordi di difesa collettiva non volti a favorire gli
interessi particolari di una delle grandi potenze o a
esercitare pressioni su altri paesi.
Oggetto di accese polemiche fu il concetto di colonialismo, che era il sottofondo della Conferenza e della
solidarietà afro-asiatica. Il delegato di Ceylon (Sri
Lanka) propose una definizione di colonialismo che
includesse anche la politica di satellizzazione comunista. Una linea così dura parve ai più una provocazione.
Zhou En-lai disse che non avrebbe approvato il testo
così come era stato formulato. I delegati di Pakistan,
Iraq e Turchia ne approfittarono, sostenuti da Iran,
Giappone, Libano, Liberia, Filippine e Sudan, per proporre di condannare «tutti i tipi di colonialismo, incluse
le dottrine internazionali che ricorrono a metodi di forza, infiltrazione e sovversione». L’ovvia allusione
all’Unione Sovietica poteva mettere a disagio la Cina.
Alla fine, si arrivò ad approvare all’unanimità l’articolo
che condannava il colonialismo solo grazie all’artificio
diplomatico d'impiegare la dizione “manifestazioni del
colonialismo”, preferita dalla delegazione cinese
all’espressione “forme di colonialismo”.
Sono possibili dei paralleli fra l’afro-asiatismo di sessant’anni fa e il Sud-Sud su cui la Cina conta così tanto
oggi. Lo slogan più o meno sincero del win-win fa della
solidarietà del Sud globale contro gli abusi delle superpotenze, oggi forse si dovrebbe dire della superpotenza o del Neo-Impero, una politica che coinvolge direttamente la Cina come accadde a Bandung. A differenza della nebulosa di stati e, sullo sfondo, di movimenti che nella capitale indonesiana si facevano forti,
paradossalmente, della propria debolezza, c’è un Sud
che ruota attorno alla Cina con l’intenzione di approfittare della sua forza. Il Beijing Consensus è
l’alternativa liberatoria alle odiate condizionalità del
Washington Consensus. Nel frattempo, però, le responsabilità sono diventate più gravose e, al limite, più
preoccupanti perché il “campo della pace” sognato da
Nehru si è trasformato quasi senza soluzione di continuità nel “campo della guerra”.
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Un altro tema sensibile fu l’appartenenza a patti militari
bilaterali o multilaterali. Nehru si era battuto perché
l’area afro-asiatica si distinguesse politicamente e moralmente dai blocchi rifiutando ogni collaborazione alla
spirale della militarizzazione. Il suo timore era che
quando il mondo fosse stato diviso rigidamente in due
blocchi la guerra sarebbe diventata inevitabile. Pakistan,
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