Meco del Sacco - Istituto Superiore di Studi Medievali `Cecco d`Ascoli`

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Meco del Sacco - Istituto Superiore di Studi Medievali `Cecco d`Ascoli`
Meco del Sacco: Un processo per eresia tra Ascoli e
Avignone
In queste pagine non intendo riproporre le tormentate vicende personali e processuali dell'eretico
ascolano Domenico Savi, più noto con l'appellativo di Meco del Sacco «perché si copriva di sacco per
più dimostrare di aver rinunziato al mondo», ma mi riprometto di motivare la nascita del suo
movimento religioso e di ricercare le cause dei tre processi celebrati a suo carico dal tribunale
inquisitoriale della Marca. Come è noto, i due problemi sono tutt'ora al vaglio della critica storica, pur
dopo ricerche secolari.
Contenute in undici pergamene che vanno dal 1334 al 1346, le poche notizie biografiche di
Domenico Savi si riferiscono esclusivamente alle sue disavventure giudiziarie e lasciano nell'oscurità le
date di nascita e di morte, i componenti e lo status familiare, la formazione culturale, la condizione
professionale, il ruolo all'interno del sistema socio-politico cittadino di questo protagonista della vita
politico-religiosa ascolana della prima metà del Trecento. Peraltro, gli stessi documenti non ci offrono
il pur minimo aggancio per cogliere i presupposti dottrinali delle sue istituzioni punto. Né, sotto questo
profilo, ci aiutano i processi a suo carico, perché assoluzioni o condanne non indicano mai il motivo
che sta alla loro base. D'altra parte, le fonti narrative, tutte piuttosto tardive, non godono in generale di
grande reputazione per la labilità dei contenuti, il cumulo degli errori, non solo veniali, l'unilateralità
dei giudizi, lo scarso senso critico degli autori. Il primo ad apportare un concreto e fondamentale
progresso scientifico negli studi sul Savi nell'ultimo scorcio del Settecento fu l'agostiniano Luigi
Pastori, il quale rinvenne e pubblicò le undici pergamene appena menzionate che servirono a superare
le valutazioni negative à l'emporte-pièce degli storici precedenti e ad avviare il processo rivalutativo
della sua memoria, portato avanti negli ultimi tempi da Antonio De Santis, Sara Benedini, Mariano
d'Alatri.
Non volendo ripetere il déjà-dit, con il presente intervento mi prefiggo soprattutto di dare una giusta
angolatura al “caso Savi”, prospettando soluzioni plausibili a tre quesiti, che sono poi i perni attorno a
cui ruota l'intera vicenda umana di Domenico Savi e del suo movimento:
1. per quale motivo si formò ad Ascoli un gruppo consistente di penitenti nel terzo decennio del sec.
XIV?
2. come si giustifica l'atteggiamento ostile dei frati minori del convento di san Francesco e del clero
della pieve di santa Maria inter vineas nei confronto del Savi e delle sue iniziative ?
3. perché, al contrario, i frati eremitani di sant'Agostino gli assicurarono un appoggio costante e
incondizionato a tutti i livelli ?
Per rispondere al primo quesito è necessario considerare preliminarmente la situazione politica
ascolana al momento della comparsa del Savi e del suo movimento.
Anche se non è facile sbrogliare l'intrico degli avvenimenti per la frammentarietà delle fonti, è certo
che il primo Trecento fu uno dei periodi più violenti e carichi di tensione della storia ascolana per il
riacutizzarsi delle lotte di potere fra i milites, vale a dire i nobiles inurbati e appartenenti per lo più al
mondo feudale, e i populares, vale a dire i membri delle arti in generale e dei mercanti in particolare.
Nel 1318-19, il capopartito dei magnati, misere Joan(n)e de Veninbene, conquistò con un'azione
violenta il dominio assoluto della città, dando il via ad un'azione così repressiva e prevaricatoria nei
confronti dei popolari da divenire addirittura proverbiale. Giovanni XXII, Cecco d'Ascoli, gli statuti
ascolani del 1377 ricordano con esecrazione il governo di Giovanni di Vennimbene, «qui tribus annis
esculanis fuit cum crudelitate vel crudelitate maxima dominatus; postea expulsus, deinde fuit mortuus
extra terram». Maggiori dettagli su questo tiranno “crudelissimo” si leggono nella Vita di Sant'Emidio
dell'Appiani, il quale attinse forse a una fonte antica a noi sconosciuta:
«Un'oppressione miserabile [...] subirono gli Ascolani nel 1318 o pur 1319 sotto Giovanni Vennimbene
della Famiglia Dalmonte, Primario nella Città e capo dei Gibellini (sic), che fatti forti dell'assistenza de'
Gibellini della Provincia, introdotto con segretezza dentro le mura da' Cittadini del lor partito,
predominolla barbaramente per un triennio; nel finir del quale lasciò la vita con violenza chi a tanti
Guelfi della Città l'aveva tolta con ingiustizia».
Fu Giovanni XXII a porre fine alla signoria di Giovanni di Venimbene nel più vasto programma di
rilancio e di rafforzamento della parte guelfa nell'Italia centrale e di ricondurre alla fidelitas la città di
Ascoli tradizionalmente ribelle all'autorità pontificia. Infatti, nel 1322 – anno che segnò la fine del
dominio tirannico di Giovanni di Veninbene – il capitano generale delle milizie ecclesiastiche Pandolfo
I Malatesta chiese il pagamento di duemilasettecento fiorini d'oro per lo stipendio dei soldati che erano
stati impegnati in operazioni di guerra a Monte Fano, Montechiaro, Monte San Giusto, Montegranaro e
Ascoli.
Secondo il modo di comportarsi di quei tempi, durante e dopo il dispotico governo di Giovanni di
Vennimbene, le parti soccombenti subirono la confisca dei beni, la proscrizione, l'abbattimento delle
case e delle torri, le carceri e, non di rado, anche la pena capitale.
In questo travagliato contesto, di una città «ab insano numquam requieta tumultu», in cui una «gens
fera nil ullo tempore pacis habet», comparvero all'improvviso Domenico Savi e il suo movimento del
tutto laicale, il quale coinvolse un numero straordinario di uomini e donne. Le fonti narrative parlano
addirittura di diecimila adepti.
Anche se la cautela è d'obbligo per il silenzio delle fonti coeve e la totale mancanza di notizie sul
propositum di vita religiosa del Savi e di suoi seguaci, può ritenersi probabile l'interconnessione del
loro movimento con le lacerazioni prodotte dalle lotte civili nel tessuto sociale ascolano del secondoterzo decennio del Trecento.
A prescindere dalla sincronia dei due fenomeni, molti indizi rendono plausibile la simbiosi proposta:
il sostegno, mai venuto meno, dell'ordinario diocesano Rinaldo IV, che fu vescovo di Ascoli dal 1317
al 1344, al Savi e al suo movimento; le processioni attraverso i quartieri e i sestieri cittadini i quali –
come emerge chiaramente dallo Statuto di Ascoli del 1377 – costituivano le strutture portanti della vita
politica, amministrativa, militare e sociale del comune; la grande massa di proseliti, inspiegabile se
riferita a motivi esclusivamente religiosi, ma accettabile se rapportata al desiderio collettivo di risolvere
un problema angoscioso per l'intera comunità. Come emerge tra l'altro anche dall'Acerba di Francesco
Stabili, allora la “terra hesculana” aveva urgente bisogno di porre fine ai “tristi giorni di guerra” e di
restituire la pace sociale a quelle “gienti acerbe”, logorate dai continui e sanguinosi conflitti delle
fazioni. Nella Cronaca della città di Genova, Iacopo da Varazze (1228/1229-1298) ricorda che, ai suoi
tempi, «molte ostilità e molti conflitti a Genova e in altre città in tutta Italia furono ricomposti e
pacificati» proprio da movimenti popolari spontanei come quello del Savi.
Suscita qualche perplessità la posizione di alcuni studiosi, i quali hanno visto nel Savi e nei suoi
seguaci dei flagellanti. La connessione appare poco verosimile, perché fin dalla metà del sec. XIII è
documentata l'esistenza ad Ascoli di una compagnia di flagellanti: la «Congregazione della disciplina e
delle lodi di Dio onnipotente e della Beata Maria Vergine», detta volgarmente Confraternita della
Scopa, i cui membri avevano fondato nel cuore della città un ospedale per accogliere gli emarginati, i
pellegrini, i sofferenti, annettendovi pure un oratorio per manifestazioni liturgiche e spirituali. Per
conseguenza, se avessero dato vita ad un movimento di flagellanti, il Savi ed i suoi seguaci si
sarebbero posti su un piano concorrenziale con una confraternita affine, la quale per altro proprio nel
secondo e terzo decennio del sec. XIV vide incrementare fortemente il numero degli adepti, il prestigio
e il patrimonio grazie alla benevolenza dei pontefici e degli ordinari diocesani.
In conclusione, la genesi e il successo del movimento del Savi dovrebbero collegarsi alla difficile
situazione politica e sociale ascolana del secondo-terzo decennio del sec. XIV, ai contrasti di parte e al
desiderio di pace di uomini stanchi delle lotte fratricide, delle violenze private, dei lutti familiari.
L'opposizione dei minori conventuali di Ascoli.
Domenico Savi fu tre volte processato ad Ascoli e tre volte condannato in prima istanza come sospetto
di eresia, ma in appello venne sempre prosciolto previa assoluzione pontificia.
Nel ricorso contro la condanna irrogatagli dall'inquisitore hereticae pravitatis in Marchia Anconitana,
il francescano fra Giovanni da Monteleone, Domenico Savi dichiarò senza mezzi termini che la causa
principale dei suoi mali «fuerunt Guardianus et Fratres loci Ordinis Minorum Esculanensium odio et
invidia moti pro eo quod [suum] hospitale et [sua] Ecclesia erant magis quam ipsorum locus per fideles
Christi et Matris eius frequentata». Secondo il Savi, dunque, gli interventi inquisitoriali a suo carico
non furono originati da idee o comportamenti ereticali, ma solo dal livore dei minori conventuali di
Ascoli, i quali non tolleravano il fatto che i fedeli disertavano la loro chiesa per frequentare i centri
propulsivi e funzionali del suo movimento: l'oratorio annesso all' ospedale ascolano di porta Tufilla e la
cappella con un romitorio eretta sul monte Polesio per una comunità di Pinzocheri e di Pinzochere, che
intendevano ritirarsi dal mondo e vivere nella solitudine più aspra per dedicarsi alla meditazione e alla
preghiera. Si trattava, perciò, di contrasti fondati su motivi di concorrenza, di ruoli e di interessi
temporali (offerte dei fedeli, legati testamentari, celebrazioni di messe in suffragio, ecc.). E questo
avveniva proprio quando i minori del convento di san Francesco avevano bisogno di rilevanti somme
di denaro per portare a compimento la costruzione del loro tempio nel centro della città. Le accuse di
heretica pravitas rivolte a Domenico Savi vanno, dunque, inserite fra quelle azioni inquisitoriali,
intese «a reprimere non tanto l'eresia in senso strettamente teologico, quanto una serie di atti che, pur
avendo un rapporto stretto, ma spesso estrinseco con l'eresia, non sono solamente e precisamente
“eresia”; anche l'eretico è considerato tale più in rapporto alla sua attività esterna, che in rapporto alla
sua coscienza individuale». Anzi il “caso Savi” presenta tutti gli stigmi per assurgere a paradigma di
questa tipologia di processi, la quale esagera situazioni e comportamenti per pervenire ad una sentenza
già fissata in partenza: nel caso specifico lo scioglimento del movimento saviano e l'eliminazione delle
sue istituzioni. Chiamati a valutare sul piano teorico e pratico il modello di vita religiosa proposto da
Domenico Savi ai suoi seguaci, i giudici non si preoccuparono tanto di accertare l'ortodossia o
l'eterodossia delle idee dell'imputato, quanto piuttosto di smantellare le sue istituzioni (l'oratorioospedale di Ascoli e l'eremo di monte Polesio) con l'intento di ricomporre le forti tensioni prodottesi
all'interno della Chiesa ascolana per le invadenti iniziative del Savi, ma anche, con un ricorso
spregiudicato allo strumento inquisitoriale, di ribadire la posizione di preminenza dei frati minori nella
sfera religiosa cittadina, decisamente ridimensionata dalla forte attrattiva delle idee e delle azioni del
“concorrente”. In particolare, allorché trasformò la sua casa che sorgeva nei pressi di Porta Tufilla in un
ospedale con annesso oratorio pubblico, Domenico Savi aveva violato una prescrizione di Gregorio
IX del 1239, confermata da Alessandro IV sedici anno dopo, la quale vietava a chiunque l'erezione di
nuove chiese e la fondazione di nuovi conventi, monasteri o ospedali all'interno della cinta muraria di
Ascoli allo scopo di creare un'area di isolamento e di vantaggio ai seguaci di San Francesco. Non
sorprendono, perciò, le dure reazioni dei frati minori di fronte alle iniziative del Savi, né le pressioni
esercitate sui loro confratelli inquisitori per provocare l'abbattimento delle due strutture. Il
comportamento dei francescani diventa più comprensibile se si tiene conto del forte risentimento
provocato in loro dalla decisione di Giovanni XXII che, nel 1317, aveva concesso agli eremitani di
sant'Agostino la licenza di edificare la loro chiesa nel cuore di Ascoli, ignorando e di fatto annullando
il privilegio dei due papi anagnini.
Nel valutare la decisa reazione dei minori nei confronti del Savi e delle sue istituzioni occorre tenere
conto della loro comprensibile amarezza per la decisione di Giovanni XXII a favore degli eremitani di
sant'Agostino, la quale abrogava la speciale statuizione a loro vantaggio emanata da Gregorio IX e
Alessandro IV. Forse coglie nel segno il Catalini, quando afferma che «la presunta eresia di Meco,
forse, non fu che un pretesto di cattivo genere per far sì che la battaglia ardesse più aspra e feroce fra
l'ordine agostiniano e quello francescano, in Ascoli. Presi in mezzo a questa lotta, Meco e i suoi
Pinzoccheri andarono sballottati e pesti. Tutte le volte che i francescani non potettero raggiungere [...]
gli agostiniani sfogarono il loro livore contro il Savi e contro i suoi accoliti».
Anche se gli articoli accusatori formulati a suo carico si ritrovano esemplati nei vari ordines
inquisitoriali (ad esempio in quelli di Gui), Domenico Savi finì davanti all'inquisitore «adversus
hereticam pravitatem» quasi sicuramente per motivi di carattere disciplinare, avendo fondato un
ospedale con oratorio ed istituito un ordo eremiticus in un terreno di sua proprietà senza aver chiesto ed
ottenuto lo speciale permesso dalla sede apostolica ex cost. XXIII del concilio di Lione II.
Nonostante la fondatezza di questa accusa e la pena inflittagli in primo grado, Domenico Savi evitò le
specifiche conseguenze della condanna. Perché?
Prima di rispondere a questa domanda conviene terminare l'esame del secondo quesito, individuando
la causa della ferma opposizione pure da parte del clero di santa Maria inter vineas al Savi e all'oratorio
annesso all'ospedale di porta Tufilla.
E' indubbio che furono interessi temporali a muovere il pievano, i presbiteri e i chierici dell'antica
pieve urbana. Fino al 1258, vale a dire fino all'insediamento dei francescani in un'area posta nel suo
territorio, la parrocchia di santa Maria inter vineas era una delle più ricche della diocesi.
Ridimensionata dall'arrivo dei minori, l'affluenza dei fedeli e le loro offerte avevano subito un'ulteriore
decurtazione in seguito alla trasformazione in ospedale con annesso oratorio della casa del Savi, la
quale distava solo poche decine di metri dalla pieve. Contro questa lesiva intrusione, il pievano, i
presbiteri ed i chierici di santa Maria inter vineas ricorsero a mezzi sbrigativi: il 10 aprile 1340
assoldarono alcuni uomini, i quali misero a soqquadro l'ospedale e, nell'oratorio, demolirono l'altare,
saccheggiarono il tabernacolo, gettarono per terra e calpestarono le ostie consacrate. Se per i crimina
commessi nell'oratorio l'ordinario diocesano irrogò pene spirituali e temporali ai responsabili del
sacrilegio, per il saccheggio del complesso ospedaliero si istruì un procedimento penale per
danneggiamento davanti la curia maceratese, che si concluse con la condanna del clero di santa Maria
inter vineas.
I difensori del Savi: il vescovo Rinaldo IV e gli agostiniani.
In una breve nota conservata nell'Archivio Sgariglia, padre Luigi Pastori afferma che, «iterum
inquisitum et male multatus» dagli inquisitori francescani della Marca di Ancona, Domenico Savi non
scontò mai le pene inflittegli per l'appoggio incondizionato di Rinaldo IV. Di questo appoggio siamo
poco informati per la scarsezza dei documenti. Tuttavia nelle undici pergamene più volte menzionate
esistono molti indizi della benevolenza del presule nei confronti del Savi e del suo movimento
(benedizione della prima pietra della cappella del monte Polesio, indulgenza concessa ai visitatori,
ecc.).
Forse si deve alla condiscendenza di Rinaldo IV se, nonostante la violazione di precisi decreti
conciliari relativi all'istituzione di nuove famiglie religiose, il Savi evitò sempre pene spirituali e
corporali: il concilio di Vienne del 1311-12 aveva, infatti, disposto che nei processi e nelle condanne
ereticali vescovi ed inquisitori dovevano avere un atteggiamento convergente.
Intorno al terzo decennio del sec. XIV, pressato dagli eventi, il Savi si mise sotto la protezione degli
agostiniani, ai quali lo avvicinava un comune risentimento nei confronti dei francescani.
Nel 1255, gli eremitani di sant'Agostino erano stati costretti ad interrompere la costruzione della loro
chiesa all'interno della città per un perentorio veto di Alessandro IV, sollecitato dai frati minori di
Ascoli.
La situazione mutò nel 1317: sollecitato dal priore generale dell'ordine, il marchigiano Alessandro
Fassitelli, Giovanni XXII rimosse il veto del suo predecessore, autorizzando gli agostiniani di Ascoli a
costruire finalmente la loro chiesa entro la città. E' lecito supporre che proprio allora avvenne l'incontro
Savi-eremitani.
E' noto che, fra i delitti connessi all'eresia, venivano inclusi anche i casi di violazione di una
disposizione conciliare, in quanto attestava un atteggiamento di resistenza e di disobbedienza alla
potestà di magistero della Chiesa.
Perciò, allorché fu accusato di aver dato vita ad un movimento che non professava alcuna regola
approvata, il Savi sanò la situazione adottando una disposto della cost. 23 del concilio di Lione II, vale
a dire pose la sua istituzione sotto l'ordine “approvato” degli agostiniani. Quasi a sigillo di questo patto,
gli agostiniani incominciarono ad officiare l'oratorio dell'ospedale. Anzi, il 18 marzo 1334, il Savi
informò ufficialmente il vescovo Rinaldo di aver conferito il patronato del complesso ospedaliero e
della chiesa del monte Polesio a padre Pietro, priore degli eremitani ascolani, e ai suoi confratelli, i
quali lo stesso giorno comunicarono al presule del diritto acquisito.
In conclusione, più che entro i confini estremamente incerti dei movimenti ereticali del sec. XIV, il
“caso Salvi” va inquadrato in quella concorrenza ed in quegli intrighi messi in atto dai frati mendicanti
per impedire ad altri ordini di fondare un convento in una località, dove loro erano già entrati. L'azione
politica, religiosa e sociale dello stesso Savi e delle sue istituzioni soffrì non tanto per il sistema di vita
religiosa proposto e che pure poteva alimentare diffidenze e sospetti, quanto perché si trovò a recitare il
ruolo del vaso di terra cotta fra quelli ferrei dei francescani e degli agostiniani. Se le conseguenze non
furono tragiche dipese dal fatto che i secondi lo difesero sempre a tutti i livelli da Ascoli ad Avignone.