LICEO SCIENTIFICO G.MARCONI prof.ssa
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LA GIUSTIZIA: DA LEGGE MORALE A ISTITUZIONE SOCIALE LICEO SCIENTIFICO G.MARCONI prof.ssa ANTONELLA GEDDA La partecipazione al progetto proposto dalla SFI è organizzata sull'approfondimento della critica della ragion pratica in riferimento al dibattito riguardante la giustizia. Giustizia come desiderio, giustizia come ragione, giustizia come necessità, giustizia come istituzione. Non possiamo disgiungere il dibattito sulla giustizia dall'affermarsi di un concetto di eguaglianza ed equità sociale che presuppone / consegue un sistema politico che si ponga come garante dei diritti costituzionali in un sistema democratico. La riflessione kantiana sulla giustizia ha avuto, nel Novecento, una ricaduta importantissima. La necessità di leggi a garanzia dell'uguaglianza dei cittadini e, nello stesso tempo la loro insufficienza, è il tema 1 del dibattito filosofico- politico che ritroviamo in J. Rawls, Adorno, Habermas, Arendt e Weil , trova i suoi prolegomeni in alcune opere di Kant1 Il problema di Kant è se vi siano azioni che abbiano come fondamento, come vera causa, come motivo primario, la ragione in quanto tale, oppure se ogni azione, anche razionalmente progettata, abbia infine come motivo determinante una spinta, un impulso naturale, un desiderio, insomma uno stimolo immediato, non veramente fondato sulla ragione come tale, sulla ragione pura. L’alternativa è chiara: se non si dà una ragione pura pratica, ma solo una ragione pratica in generale, essa non farà che regolare – per quel che può – istinti, desideri, pulsioni, e gli uomini saranno infine animali capaci di calcolare meglio degli altri; e Kant ritiene che resterebbero tali anche se fossero in grado di pensare un essere infinito che fosse il vero autore delle loro azioni. Se, invece, si dà una ragione pura pratica, allora gli esseri umani sono effettivamente liberi, integralmente responsabili delle loro azioni. In nessun caso, però, questa libertà implica il controllo sulla natura e la creazione ex nihilo di qualcosa. Il problema è, dunque, quello di comprendere se la ragione operi semplicemente per affinare o giustificare a posteriori un fondamento che resta, nella sua radice, irriflesso e naturale, oppure se la ragione possa costituire come tale (come ragione pura) il vero fondamento delle azioni dell’essere che le possiede, l’«essere razionale». Il motivo che sta alla base della Critica della ragion pratica è la persuasione che esista, scolpita nell’uomo, una legge morale a priori valida per tutti e per sempre. In altri termini, come nella Critica della ragion pura Kant muoveva dall’idea dell’esistenza di conoscenze scientifiche universali e necessarie, nella Critica della ragion pratica muove dall’analoga certezza dell’esistenza di una legge morale assoluta, legge che la filosofia non ha il compito di “dedurre”, né tanto meno di “inventare”, ma unicamente di “constatare” il fatto della sua esistenza. Dai passi che seguiranno si comprende come per Kant non ci siano dubbi sull’esistenza di qualcosa come una legge morale assoluta o incondizionata. Infatti, dal suo punto di vista, o la morale è un’illusione, in quanto l’essere umano agisce in virtù delle sole inclinazioni naturali, oppure, se esiste, risulta per forza incondizionata, presupponendo una ragion pratica «pura», cioè capace di liberarsi dalle inclinazioni sensibili e di guidare la condotta in modo stabile. Di conseguenza la tesi dell’assolutezza o incondizionatezza della morale implica, per Kant, due concetti di fondo strettamente legati fra loro: la libertà dell’agire e la validità universale e necessaria della legge.(cfr Rawls, Una teoria della giustizia) Infatti, essendo incondizionata, la morale comporta la capacità umana di autodeterminarsi al di là delle sollecitazioni istintuali, facendo sì che la libertà si configuri come il primo presupposto della vita morale. Il fatto che la ragion pura pratica sia incondizionata e assoluta – e quindi non abbia bisogno di essere criticata, ma solo illustrata nelle sue strutture e funzioni – non significa, tuttavia, che essa sia priva di limiti; infatti, come vedremo, la morale, secondo Kant, risulta profondamente segnata dalla finitudine dell’uomo e necessita di essere salvaguardata dal 2 fanatismo, ossia dalla presunzione di identificarsi con l’attività di un essere infinito. (cfr Locke e Voltaire) La ragione morale è propria sempre ad un essere pensante finito e quindi condizionato dall’esperienza. La natura sensibile dell’uomo, anche nel caso della ragione morale, non cesserà mai di fare la sua parte e obbliga la legge morale ad assumere la forma del dovere. Su questo e altri passaggi successivi si inserisce la necessità della giustizia come criterio che sovraintenda la volontà dell'uomo e come conseguenze all'imperativo categorico. Del resto, se la volontà dell’uomo fosse già in se stessa necessariamente d’accordo con la legge della ragione, questa legge non varrebbe per lui come un comando e non gli imporrebbe la costrizione del dovere. Il principio stesso della morale implica un limite pratico, costituito dalle inclinazioni sensibili, e perciò la finitudine di chi deve realizzarla Tutto ciò significa che la moralità non è la razionalità necessaria di un essere infinito che si identifica con la ragione, ma la razionalità possibile di un essere che può assumere, e non assumere, la ragione come guida della sua condotta. Con questo non dobbiamo erroneamente dedurre che l'Etica costituisca per Kant il limite al “peccato” o al “male” di matrice agostiniana;la sua risulta essere una visione dell'agire completamente spogliata da fini escatologici e fortemente centrata sul binomio razionalità/sensibilità. Se l'uomo fosse pura sensibilità la morale non avrebbe ragion d'essere così come se fosse solo razionalità I. L’uso teoretico della ragione si occupava di oggetti della mera facoltà di conoscere: e una critica della ragione in relazione a quest’uso riguardava propriamente solo la pura facoltà di conoscere ed era mossa dalla preoccupazione fondata sulla constatazione che essa facilmente si vada a smarrire oltre i suoi limiti tra oggetti irraggiungibili o tra concetti contraddittori. Ben diversamente stanno le cose con l’uso pratico della ragione; nel quale la ragione si occupa di fondamenti determinanti della volontà cioè di una facoltà di produrre oggetti corrispondenti alle rappresentazioni oppure di determinare se stessa ossia la sua causalità alla loro effettuazione (sia o non sia bastante a ciò il potere fisico). Poiché la ragione può almeno qui riuscire alla determinazione della volontà e in tanto ha sempre realtà oggettiva in quanto ha riguardo soltanto dal volere. Sorge cosí la prima questione: se la ragion pura basti per sé sola alla determinazione della volontà o se essa ne possa essere un fondamento determinante solo come empiricamente condizionata. Or qui interviene un concetto della causalità giustificato dalla critica della ragion pura ma non capace di alcuna esposizione empirica cioè quello della libertà: e se noi a questo punto possiamo presentare prove adeguate per dimostrare che questa proprietà appartiene di fatto alla volontà umana (e così pure alla volontà di ogni essere razionale) con ciò non solo viene assodato che la ragion pura può esser pratica ma altresí che essa sola e non quella empiricamente limitata è incondizionatamente pratica. Kant Critica della ragion pratica Introduzione 3 _____________________________________________________________ II. Essi partono tutti dal principio fondamentale della moralità che non è un postulato ma una legge mediante la quale la ragione determina mediatamente la volontà. E la volontà appunto perché essa è cosí determinata come volontà pura esige queste condizioni necessarie dell’osservanza del suo precetto. Questi postulati non sono dogmi teoretici ma presupposti di intento necessariamente pratico non ampliano dunque la conoscenza speculativa ma attribuiscono realtà oggettiva alle idee della ragione speculativa in genere (mediante la loro relazione alla prassi) e le giustificano quali concetti di cui essa altrimenti non si potrebbe permettere di sostenere anche solo la possibilità. Questi postulati sono quelli dell’immortalità della libertà considerata in senso positivo (come la causalità propria di un’essenza in quanto questa appartiene al mondo intelligibile) e dell’esistenza di Dio. Il primo deriva dalla condizione praticamente necessaria di una durata in proporzione della compiutezza dell’adempimento della legge morale; il secondo dal necessario presupposto dell’indipendenza dal mondo sensibile e dalla facoltà di determinazione del proprio volere secondo la legge di un mondo intelligibile cioè quella della libertà; la terza dalla necessità della condizione per un tal mondo intelligibile perché sia il Sommo Bene mediante il presupposto del Sommo Bene indipendente cioè dell’esistenza di Dio. L’intento necessario verso il Sommo Bene mediante il rispetto per la legge morale e il presupposto che ne deriva della realtà oggettiva di quello guida pertanto mediante postulati della ragion pratica a concetti che la ragione speculativa poteva presentare come problemi ma non risolvere. [...] Ora viene però in tal modo effettivamente ampliata la nostra conoscenza mediante la ragion pura pratica ed è immanente in questa ciò che per la speculativa era trascendente? Certamente ma solo nell’aspetto pratico. Perché noi per tal via non conosciamo invero né la natura della nostra anima né il mondo intelligibile né l’essenza suprema quanto a ciò che essi sono in sé stessi; bensí ne abbiamo solo riuniti i concetti del concetto pratico del Sommo Bene come l’oggetto della nostra volontà e del tutto a priori mediante la ragion pura però soltanto per mezzo della legge morale e anche semplicemente in relazione a questa in rapporto all’oggetto che essa impone. Ma come sia possibile anche soltanto la libertà e come questa specie di causalità sia da rappresentarsi teoreticamente e positivamente per tal via non si intravede bensí soltanto viene postulato mediante la legge morale e in rapporto a questa che ve ne sia una. Cosí è anche per le altre idee della cui possibilità nessun intelletto umano riuscirà mai a trovare il fondamento ma per le quali nessuna sofistica potrà mai strappare dalla persuasione anche dell’uomo piú comune che esse siano concetti veri. Kant Critica della ragion pratica capp. III VI GUIDA PER UN'ALISI DEL TESTO Cosa intende Kant per “uso pratico della ragione”? 4 Che rapporto sussiste tra “volontà” e “ragione” Quale valore assume il termine libertà nella Critica della Ragion Pratica”? Quale valore assegnare alla “ legge morale”? Da chi sono determinati i valori morali? ____________________________________________________ SECONDO PERCORSO Abbiamo visto affacciarsi il concetto di volontà, che in Kant è fondamentale. La volontà è la facoltà che caratterizza gli esseri razionali e rappresenta la capacità di agire secondo la rappresentazione delle leggi, ovvero secondo dei principi relativi alla ragion pratica. I principi pratici, a loro volta, sono regole generali che disciplinano la nostra volontà. Un principio pratico è una regola generale che sottintende una serie di azioni possibili, dunque di regole subordinate. Un principio pratico potrebbe regole indispensabili al vivere umano come ad esempio delle regole pratiche e di buon senso. I principi pratici non coincidono con i principi morali ed hanno valore indicativo e non prescrittivo. Kant distingue i principi pratici in massime e imperativi. La massima è una prescrizione di valore puramente soggettivo, cioè valida esclusivamente per l’individuo che la fa propria. Questo significa che i principi pratici possono avere anche contenuti immorali oltre che morali. E' molto importante soffermarsi su questo passaggio perchè tali principi, assunti da qualsiasi soggetto come regole proprie ne determinano l'autonomia. I principi oggettivi sono invece «leggi», cioè principi la cui condizione venga considerata valida per tutti gli esseri razionali, ossia per tutti gli esseri dotati di ragione. Come affermerà più tardi nella “ Fondazione sulla Metafisica dei costumi”gli imperativi sono le regole pratiche oggettive, che contrastano con le inclinazioni; essi hanno perciò validità solo per quegli esseri la cui volontà non sia «assolutamente buona», quegli esseri razionali finiti, la cui volontà può avere (e anzi di preferenza ha) come fondamento di determinazione stimoli sensibili. La distinzione dei principi pratici in soggettivi e oggettivi è di fondamentale importanza e va compresa correttamente. Le massime sono, per Kant, il principio generale in cui si esprime la regola dell’azione adottata dal soggetto. I soggetti agiscono sempre e comunque adottando una massima, perché, ovviamente, agiscono sempre in quanto soggetti (per questo l’imperativo categorico ha la forma di una massima). Se però tutte le regole pratiche fossero solo massime, non si potrebbe in alcun caso parlare di dovere, perché la massima ha appunto come sua caratteristica quella di esprimere la motivazione propria del soggetto, e in questo non vi è possibile costrizione. Tutti gli imperativi, invece, contenendo un nesso oggettivo, costringono il soggetto a confrontare la sua massima con questo nesso. Lo costringono, in altre parole, a distinguere tra soggettivo e oggettivo, e dunque ad adeguare la sua personale motivazione (negandola o correggendola) a una connessione oggettiva. Ci 5 stiamo dunque avvicinando al cuore del problema ovvero alla definizione del concetto di GIUSTIZIA in Kant. Leggiamo attentamente i due brani che seguono Kant Critica della ragion pratica Conclusione Due cose riempiono l’animo di ammirazione e venerazione sempre nuova e crescente quanto piú spesso e piú a lungo la riflessione si occupa di esse: il cielo stellato sopra di me e la legge morale in me. Queste due cose io non ho bisogno di cercarle e semplicemente supporle come se fossero avvolte nell’oscurità o fossero nel trascendente fuori del mio orizzonte; io le vedo davanti a me e le connetto immediatamente con la coscienza della mia esistenza. La prima comincia dal posto che io occupo nel mondo sensibile esterno ed estende la connessione in cui mi trovo a una grandezza interminabile con mondi e mondi e sistemi di sistemi; e poi ancora ai tempi illimitati del loro movimento periodico del loro principio e della loro durata. La seconda comincia dal mio io indivisibile dalla mia personalità e mi rappresenta in un mondo che ha la vera infinitezza ma che solo l’intelletto può penetrare e con cui (ma perciò anche in pari tempo con tutti quei mondi visibili) io mi riconosco in una connessione non come là semplicemente accidentale ma universale e necessaria. Il primo spettacolo di una quantità innumerevole di mondi annulla affatto la mia importanza di creatura animale che deve restituire al pianeta (un semplice punto nell’Universo) la materia della quale si formò dopo essere stata provvista per breve tempo (e non si sa come) della forza vitale. Il secondo invece eleva infinitamente il mio valore come [valore] di una intelligenza mediante la mia personalità in cui la legge morale mi manifesta una vita indipendente dall’animalità e anche dall’intero mondo sensibile almeno per quanto si può riferire dalla determinazione conforme ai fini della mia esistenza mediante questa legge: la quale determinazione non è ristretta alle condizioni e ai limiti di questa vita ma si estende all’infinito _______________________________________________________________________________ Il diritto internazionale deve fondarsi su un federalismo di liberi Stati I popoli in quanto Stati possono essere giudicati come singoli uomini che si fanno reciprocamente ingiustizia già solo per il fatto di essere l’uno vicino all’altro nel loro stato di natura (ossia nell’indipendenza da leggi esterne); e ciascuno di essi può e deve esigere dall’altro di entrare con lui in una costituzione simile a quella civile nella quale a ciascuno sia garantito il suo diritto. Questo costituirebbe una federazione di popoli che tuttavia non dovrebbe essere uno Stato di popoli. Questa sarebbe una contraddizione perché ogni Stato ha dentro di sé il rapporto di un superiore (il legislatore) con un inferiore (che obbedisce il popolo cioè); molti popoli però in uno Stato farebbero solamente un popolo che (dato che noi qui dobbiamo valutare i reciproci diritti dei popoli in quanto devono costituire esattamente Stati differenti e non fondersi in uno Stato) contraddice la premessa. Ora cosí come noi consideriamo con profondo disprezzo l’attaccamento dei selvaggi alla 6 loro sfrenata libertà che consiste nell’essere continuamente in lotta tra loro invece che sottoporsi a una costrizione legale stabilita da loro stessi e a preferire quindi una libertà folle a una libertà ragionevole e la giudichiamo come una rozzezza una brutalità e una degradazione animalesca dell’umanità verrebbe spontaneo di pensare che i popoli civili (ognuno dei quali riunito a sé in uno Stato) dovrebbero affrettarsi per uscire al piú presto possibile da una condizione cosí abbietta al contrario invece ogni Stato ripone la sua maestà (infatti la maestà popolare è un’espressione senza senso) proprio nel fatto di non essere soggetto a nessuna costrizione legale e lo splendore del suo capo supremo sta nel fatto che senza che egli si esponga a nessun pericolo sotto il suo comando stanno molte migliaia di uomini che sono costretti a sacrificare la loro vita per una cosa che non li riguarda e la differenza tra i selvaggi dell’Europa e quelli americani consiste principalmente in questo: in America molte tribú sono state interamente divorate dai loro nemici, gli europei invece sanno utilizzare meglio i loro sconfitti che mangiarli e preferiscono accrescere attraverso di loro il numero dei loro sudditi e quindi anche la quantità degli strumenti da utilizzare per guerre ancora piú grandi […]. D’altra parte per gli Stati non può valere secondo il diritto internazionale proprio ciò che vale secondo il diritto naturale per gli uomini che sono nello stato della mancanza di leggi cioè “il dovere di uscire da questo stato” (poiché essi come Stati hanno già al loro interno una costituzione legale e quindi sfuggono alla costrizione degli altri Stati che secondo le loro idee del diritto volessero portarli sotto una costituzione giuridica allargata); nondimeno la ragione dall’alto del trono del supremo potere che dà le leggi morali condanna assolutamente la guerra come procedimento giuridico e fa invece dello stato di pace un dovere immediato che però senza un patto reciproco tra gli Stati non può essere fondato o garantito: cosí deve necessariamente esserci una federazione di tipo particolare che si può chiamare federazione di pace (foedus pacificum) che si differenzierebbe dal trattato di pace (pactum pacis) per il fatto che questo cerca di porre fine semplicemente a una guerra quella invece a tutte le guerre per sempre. Questa federazione non si propone la costruzione di una potenza politica ma semplicemente la conservazione e la garanzia della libertà di uno Stato preso a sé e contemporaneamente degli altri Stati federati senza che questi si sottomettano (come gli individui nello stato di natura) a leggi pubbliche e alla costrizione da esse esercitata. Non è cosa impossibile immaginarci la realizzabilità (la realtà oggettiva) di questa idea di federazione che si deve estendere progressivamente a tutti gli Stati e che conduce cosí alla pace perpetua. Kant , La pace perpetua _____________________________________________________________ GUIDA ALLA LETTURA Dove comincia la Legge Morale? Che cosa manifesta la legge morale? Quale significato assume il termine “ingiustizia”? Da che cosa è determinata la “libertà ragionevole”? Che cosa vale per il diritto internazionale? Quale rapporto tra “legge morale” e “federazione di pace”? (max 20 righe) 7 John Rawls John Rawls nasce a Baltimora, nel Maryland, il 21 febbraio del 1921. Ha studiato a Princeton e ad Oxford. Nel 1962 si è trasferito definitivamente ad Harvard, dove ha insegnato avendo come collega il suo principale avversario teorico, ovvero il filosofo liberista Robert Nozick. Ha pubblicato numerosi saggi di dottrina politica e di teoria etica, tra cui: Giustizia come equità [Fairness] (1958); Il senso della giustizia (1963); Giustizia retributiva (1967); Costruttivismo kantiano nella teoria morale (1980); Unità sociale e beni primari (1982). La sua opera fondamentale è A Theory of Justice, del 1971 (Una teoria della giustizia), che ha suscitato un ampio dibattito, ponendosi come uno dei testi chiave del neocontrattualismo e segnando il ritorno della riflessione etica di stampo analitico a questioni di etica normativa. Muore nel 2002 L’idea dominante di Rawls è che “la giustizia è il primo requisito delle istituzioni sociali, così come la verità lo è dei sistemi di pensiero”. Una teoria, per quanto semplice ed elegante, deve essere abbandonata o modificata se non è vera. Allo stesso modo, leggi e istituzioni, non importa quanto efficienti e ben congegnate, devono essere riformate o abolite se sono ingiuste.” E’ l’idea enunciata nella prima pagina di Una teoria della giustizia. Con questa opera si affermò un nuovo paradigma teorico che divenne il quadro di riferimento comune nel dominio della filosofia politica contemporanea. L’opera di Rawls risulta rigorosamente filosofica, purché si assuma che il compito della filosofia consiste nell’esame accurato degli argomenti per approdare attraverso una ricerca sofisticata all’individuazione del miglior percorso; che la filosofia sia un’impresa intellettuale aperta alle obiezioni e alle critiche di chiunque, impegnata a fornire di fronte ad un uditorio globale e globalizzato le ragioni che giustificano la scelta intrapresa. L’interesse normativo della teoria di Rawls per “il primo requisito delle istituzioni sociali”, per la giustizia come valore indipendente e non negoziabile, ne faceva una voce rilevante e critica nella sfera pubblica. A suo modo Rawls perseguiva lo stesso obiettivo che era stato il sogno della filosofia americana dell’epoca del new deal, di Dewey in particolare: far entrare la filosofia nel discorso pubblico e trova in Habermas il filosofo europeo che meglio saprà interpretare/ confutare in parte il suo pensiero Sul contenuto normativo della teoria della giustizia è importante segnalare i seguenti punti: Il primo riguarda la propensione egualitaria della teoria, nel senso che una società giusta richiede che le disuguaglianze tra i suoi membri devono essere giustificate e non possono essere accettate come un fatto banalmente scontato.. Prendere sul serio il contenuto normativo della teoria della giustizia implica una giustificazione filosofico- sociale per chi difende una disuguaglianza tra i membri della società piuttosto che per coloro che richiedono l’eguaglianza distributiva. E’ questo il senso del secondo principio di giustizia (il cosiddetto principio di differenza) secondo cui l’ordine sociale non deve determinare e garantire le prospettive più attraenti di quelli che stanno meglio, a meno che ciò non vada anche a vantaggio dei meno fortunati. Sussiste in ogni caso un vincolo fondamentale liberale al perseguimento del maggior beneficio dei meno avvantaggiati (il cosiddetto maximin): esso è costituito dal valore prioritario della libertà individuale. In una società giusta ogni persona ha un eguale diritto ad uno schema di eguali libertà fondamentali che sia compatibile con uno schema simile per tutti. Il principio di libertà è prioritario rispetto a quello di differenza perché la libertà può essere limitata soltanto nell’interesse della libertà. Il secondo aspetto della teoria di Rawls su cui è opportuno soffermarsi riguarda la soluzione adottata per risolvere i problemi che il pluralismo pone alla stabilità politica nelle società contemporanee. Come è possibile una società ospitale che garantisca la pacifica ed ordinata convivenza di individui e gruppi che hanno concezioni del bene e stili di vita differenti, talvolta profondamente differenti? La soluzione del problema consiste nell’affermare la separazione fra la prospettiva privata (del bene) di ciascun individuo e la prospettiva pubblica (del giusto) della cittadinanza. Alla prospettiva privata del bene possiamo accedere quando affrontiamo le scelte che riguardano le domande ultime sulla nostra vita (ad esempio di carattere religioso o filosofico); alla prospettiva del giusto dobbiamo accedere invece quando affrontiamo questioni di interesse pubblico (ad esempio la risoluzione dei dilemmi della bioetica contemporanea o le questioni che riguardano la politica dell’istruzione). Questa è la celebre tesi di Rawls della separazione del giusto (right) dal bene (good) e della priorità del primo sul secondo, come dice una formula che è ormai ampiamente utilizzata nell’ambito della filosofia politica. In altre parole, la politica ha il compito di definire i principi che sono in grado di regolare una società giusta ma non quello di promuovere i modelli di vita dei cittadini. Ciò implica che le istituzioni pubbliche soddisfino il criterio di neutralità rispetto alle diverse concezioni del bene, cioè siano imparziali rispetto ad esse. I principi si cui si fondano le istituzioni di una società giusta devono essere giustificati pubblicamente in maniera indipendente dalle dottrine comprensive del bene cui aderiscono privatamente i cittadini. _______________________________________________________ IL RUOLO DELLA GIUSTIZIA La giustizia è il primo requisito delle istituzioni sociali, così come la verità lo è dei sistemi di pensiero. Una teoria, per quanto semplice ed elegante, deve essere abbandonata o modificata se non è vera. Allo stesso modo, leggi e istituzioni, non importa quanto efficienti e ben congegnate, devono essere riformate o abolite se sono ingiuste. Ogni persona possiede un'inviolabilità fondata sulla giustizia su cui neppure il benessere della società nel suo complesso può prevalere. Per questa ragione la giustizia nega che la perdita della libertà per qualcuno possa essere giustificata da maggiori benefici goduti da altri. Non permette che i sacrifici imposti a pochi vengano controbilanciati da maggiori benefici goduti da molti. Di conseguenza, in una società giusta sono date per scontate eguali libertà di cittadinanza; i diritti garantiti dalla giustizia non possono essere oggetto né della contrattazione politica, né del calcolo degli interessi sociali. L'unico motivo che ci permette di conservare una teoria erronea è la mancanza di una teoria migliore, analogamente, un'ingiustizia è tollerabile solo quando è necessaria per evitarne una ancora maggiore. Poiché la verità e la giustizia sono le virtù principali delle attività umane, esse non possono essere soggette a compromessi. (J. Rawls, Una teoria della giustizia, pagg.21/22) Ritengo di fondamentale importanza soffermarsi sulle frasi evidenziate in neretto che esprimono i seguenti fondamentali concetti: l'inviolabilità dei diritti della persona tale inviolabilità è fondata sulla giustizia nessun sistema di leggi per quanto efficace, può essere mantenuto se fondato sull'ingiustizia Occorre quindi definire l'oggetto della giustizia. Leggiamo il brano qui di seguito riportato L'OGGETTO DELLA GIUSTIZIA Secondo noi l'oggetto principale della giustizia è la struttura fondamentale della società, o più esattamente il modo in cui le maggiori istituzioni sociali distribuiscono i doveri e i diritti fondamentali e determinano la suddivisione dei benefici della cooperazione sociale. Chiamo con il termine di maggiori istituzioni la costituzione politica e i principali assetti economici e sociali. Così la tutela giuridica della libertà di pensiero e di coscienza, il mercato concorrenziale, la proprietà privata dei mezzi di produzione e la famiglia monogamica sono tutti esempi di istituzioni maggiori.....Il senso specifico che Aristotele dà alla giustizia, e da cui derivano buona parte delle formulazioni più note, è quello di astenersi dalla pleonexìa , cioè dall'ottenere per sé vantaggi appropriandosi di ciò che appartiene ad un altro, i suoi beni, le sue ricompense, le sue cariche e simili, o dal negare a una persona ciò che le è dovuto, il mantenimento di una promessa, il pagamento di un debito, il tributo di un giusto rispetto e così via. (Una teoria della giustizia, pag 24/ 27) Stabilito l'oggetto della giustizia ci apprestiamo ad affrontare un nodo fondamentale nel pensiero di Rawls ossia il vantaggio/svantaggio nel perpetrare l’ineguaglianza economico-sociale, Si delinea quindi, un concetto di giustizia che deve essere il più possibile legato ad una possibile equità tra le classi piuttosto che ad un utile per pochi. L'IDEA PRINCIPALE DELLA TEORIA DELLA GIUSTIZIA Affermo invece che le persone nella situazione iniziale sceglierebbero due principi piuttosto differenti: il primo richiede l'eguaglianza nell'assegnazione dei diritti e dei doveri fondamentali, il secondo sostiene che le ineguaglianze economiche e sociali, come quelle di ricchezza e di potere, sono giuste soltanto se producono benefici compensativi per ciascuno, e in particolare per i membri meno avvantaggiati della società. Questi principi escludono la possibilità di di giustificare le istituzioni in base al fatto che i sacrifici di alcuni sono compensati da un maggior bene aggregato. Il fatto che alcuni abbiano meno affinchè altri prosperino può essere utile, ma non è giusto. Invece i maggiori benefici ottenuti da pochi non costituiscono un'ingiustizia, a condizione che anche la situazione delle persone meno fortunate migliori in questo modo. Intuitivamente, poiché il benessere di ciascuno dipende da uno schema di cooperazione al di fuori del quale nessuno può condurre una vita soddisfacente, la divisione dei vantaggi deve essere tale da favorire la cooperazione volontaria di ogni partecipante, inclusi i meno privilegiati tra essi. Ma ci si può aspettare ciò solo se vengono proposte condizioni ragionevoli. I due principi citati sembrano un equo accordo sulla base del quale coloro che sono meglio dotati, o maggiormente fortunati riguardo alla posizione sociale, cose che non possiamo dire di meritare, possono attendersi una cooperazione volontaria da parte di altri, nel caso in cui qualche forma di collaborazione praticabile è condizione necessaria per il benessere generale. Una volta deciso di ricercare una concezione della giustizia che annulli la casualità delle doti naturali e la contingenza delle condizioni sociali come fattori rilevanti per la ricerca di vantaggi economici e politici , ci indirizziamo verso questi principi. Essi rappresentano ciò che si ottiene lasciano da parte quegli aspetti del mondo sociale che, da un punto di vista morale, appaiono arbitrari. [John Rawls Una teoria della giustizia, Feltrinelli, p. 30] GUIDA ALLA LETTURA Definisci che cosa sia la pleonexìa in Aristotele e il motivo per cui Rawls si attiene a questa indicazione di comportamento. Eguaglianza nell’assegnazione dei diritti e ineguaglianza delle condizioni socio- economiche dei cittadini. Possono coesistere questi due opposti termini in una società giusta? Perché? Quale condizione di giustizia viene ipotizzata da Rawls? ________________________________________________________________ Affrontiamo ora che cosa è la giustizia politica in un sistema di partecipazione democratica basato su principi costituzionali di eguale libertà di tutti i cittadini. L’applicazione della giustizia non può prescindere dalla tutela delle libertà individuali e politiche. Tali libertà richiedono un impegno partecipativo al processo costituzionale che stabilisce le leggi. Tali leggi devono essere osservate da tutti e corrispondono all’IO noumenico kantiano che si concretizza in IO collettivo. Si delinea inoltre, la differenza tra eguaglianza ed equità. Una giustizia equa non può trovare terreno di realizzazione in una situazione iniziale di ineguaglianza. E’ necessario quindi che ogni persona sia equamente rappresentata a livello di rappresentanza costituzionale. LA GIUSTIZIA POLITICA E LA COSTITUZIONE Vorrei ora considerare la giustizia politica, cioè la giustizia della costituzione, e abbozzare il significato della eguale libertà per questa parte della struttura fondamentale. La giustizia politica ha due aspetti , che nascono dal fatto che una costituzione giusta è un caso di giustizia procedurale imperfetta(1). In primo luogo, la costituzione deve essere una procedura giusta che soddisfa i requisiti dell’eguale libertà; e, per secondo, essa deve essere strutturata in modo che, di tutti gli assetti giusti praticabili, rappresenti il risultato più probabile di ogni altro in un sistema legislativo giusto ed efficace(2). La giustizia della costituzione deve essere valutata sotto entrambi questi aspetti, alla luce di ciò che permettono le circostanze e sulla base di valutazioni espresse dal punto di vista dell’assemblea costituente Il principio dell’eguale libertà, quando è applicato alla procedura politica definita dalla costituzione, verrà chiamato col nome di principio della( eguale) partecipazione. Esso richiede che tutti i cittadini devono possedere un eguale diritto di partecipare e di determinare il risultato del processo costituzionale che stabilisce le leggi che essi debbono osservare. La giustizia come equità parte dall’idea che , dove principi comuni sono necessari, e vantaggiosi per tutti, essi devono essere delineati dal punto di vista di una situazione iniziale di eguaglianza opportunamente definita, in cui ogni persona è equamente rappresentata.Il principio di partecipazione applica questa idea della posizione originaria alla costituzione in quanto sistema di grado più alto di norme sociali per produrre norme. Solo se lo stato deve esercitare un’autorità suprema e coercitiva su un certo territorio, e se deve così influenzare in modo permanente le aspettative di vita degli uomini, allora il processo costituzionale dovrebbe conservare l’eguale rappresentatività della posizione originaria, nella misura in cui ciò è possibile. Assumo per ora che una democrazia costituzionale può essere strutturata in modo da soddisfare il principio di partecipazione. Ma è necessario sapere con maggiore esattezza ciò che questo principio richiede in circostanze favorevoli, quando viene considerato, per così dire, al limite. Questi requisiti, naturalmente, sono ben noti, e comprendono ciò che Constant chiamava la libertà degli antichi in contrasto con quella dei moderni. Tuttavia, vale la pena di vedere in che modo queste libertà cadono sotto il principio di partecipazione . Discuterò nel prossimo paragrafo le modifiche che è necessario apportare in vista delle condizioni esistenti, e il ragionamento che è alla loro base . Possiamo iniziare ricordando certi elementi di un regime costituzionale. In primo luogo, l’autorità di determinare le politiche sociali fondamentali appartiene a un corpo rappresentativo scelto per un periodo di tempo limitato dall’elettorato, e in ultima istanza responsabile verso di esso. Questo corpo rappresentativo non ha solo una capacità consultiva. Esso è un’assemblea legislativa con il potere di fare leggi , e non soltanto un forum di delegati dei vari settori della società al quale l’esecutivo spiega le proprie azioni, e attraverso cui apprende i mutamenti dell’opinione pubblica. Neanche i partiti politici sono semplici gruppi di interesse che sollecitano il governo per propri fini; al contrario, per ottenere a conquistare posti di potere, essi devono proporre una qualche concezione del bene pubblico(3). Ovviamente, la costituzione può circoscrivere la legislazione sotto vari aspetti: e le norme costituzionali definiscono le sue azioni in quanto corpo parlamentare . Ma, a tempo debito, una stabile maggioranza dell’elettorato è in grado di raggiungere i suoi scopi, se necessario per mezzo di un emendamento costituzionale. (Una teoria della giustizia pagg.191-193) GUIDA ALLA LETTURA Quale argomento affronta Rawls nel brano appena affrontato? Può esistere equità giuridica senza uguaglianza? Quale principio deve soddisfare una democrazia costituzionale? INTERPRETAZIONE KANTIANA DELLA GIUSTIZIA COME EQUITA' Il desiderio di agire con giustizia, quando è inteso in modo appropriato, deriva parzialmente dal desiderio di esprimere con maggior pienezza ciò che siamo o possiamo essere, e cioè esseri razionali liberi e eguali, dotati della libertà di scelta. …Coloro che considerano la dottrina morale di Kant come una dottrina di norma e sanzione la fraintendono gravemente. Lo scopo principale di Kant è di approfondire e giustificare l’idea di Rousseau che libertà è agire in accordo con la legge che noi stessi ci diamo. E ciò conduce non tanto a una moralità di comando austero, quanto a un’etica del mutuo rispetto e della stima di sé. La posizione originaria può essere quindi vista come un’interpretazione procedurale della concezione kantiana dell’autonomia e dell’imperativo categorico. I principi regolativi del regno dei fini sono quelli che verrebbero scelti in questa posizione, e la descrizione di questa situazione ci mette in grado di spiegare il senso in cui agire in base a questi principi esprime la nostra natura di persone razionali libere ed eguali. Queste nozioni non sono più puramente trascendenti e prive di relazioni spiegabili con la condotta umana, perché la concezione procedurale della posizione originaria ci permette di stabilire questi legami.(2). È vero che mi sono allontanato in diversi punti dalla tesi kantiana. Non li discuterò adesso, ma di essi occorre sottolinearne due. Ho assunto che la scelta di una persona in quanto io noumenico sia collettiva(1). Il significato dell’essere l’io eguale è che i principi scelti devono essere accettabili anche per gli altri io. Poiché tutti sono similmente liberi e razionali, ciascuno deve avere un uguale peso nell’adozione dei principi pubblici della comunità etica. Ciò significa che , in quanto io noumenico, ciascuno deve acconsentire a questi principi In secondo luogo, ho sinora assunto che le parti sanno di essere soggette alle condizioni della vita umana. Trovandosi nelle circostanze di giustizia, esse sono situate nel mondo insieme ad altri uomini, che si trovano ugualmente di fronte alle limitazioni della scarsità moderata e delle pretese conflittuali. La libertà umana va regolata da principi scelti alla luce di queste restrizioni naturali. Perciò la giustizia come equità è una teoria della giustizia umana e, tra le sue premesse, si trovano i fatti elementari riguardanti le persone ed il loro posto nella natura. La libertà di pure intelligenze non soggette a queste restrizioni, e la libertà di dio, sono al di fuori dell’ambito della teoria. (Una teoria della giustizia, pp.219-220) GUIDA ALLA LETTURA Perché la dottrina morale di Kant non è una dottrina di norma e sanzione? Come definiresti la “giustizia come equità”? Esprimi in un max di 20 righe i punti di continuità e discontinuità tra Kant e Rawls