Scaricalo e stampalo

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racconti
Ivano Bariani (Reggio Emilia, 1981) ha pubblicato
il romanzo 16 vitamine (minimum fax, 2005).
Nel 2004 ha fondato con Mattia Walker la rivista
“FaM - Frenulo a Mano” (www.FaMlibri.it).
Il suo secondo romanzo Il Precursore. Manuale
del supereroe scolastico uscirà a fine aprile per
Sironi. Fernandel ne pubblica in anteprima uno
dei capitoli iniziali.
genesi del
«precursore»
ivano bariani
P r e m e s s a:
Abbiamo tutti bisogno di gente che faccia le cose
per prima. Persone così non si incontrano tutti i giorni, ma la nostra esperienza ci dice che “loro” sono là
fuori, da qualche parte. Eroi, precursori. Uomini che
una volta erano nostri compagni di classe. Uno come
il “Precursore” sembra essere venuto al mondo proprio per questo motivo: essere una specie di prototipo generazionale. Il tizio grande e grosso con lo
sguardo bovino.
Il Precursore è un ragazzo che vive avanti di dieci
anni rispetto a quelli della sua età.
Quando tu fumi la prima sigaretta, il Precursore si
fa la prima canna. Quando tu arrivi alla prima canna,
il Precursore può comprarsi una marmitta truccata
coi soldi alzati vendendoti il fumo. Quando tu e i tuoi
compagni scoprite il porno, il Precursore sta già scopando. Se tu hai una morosa, quella come minimo è
una delle ex del Precursore (in realtà pensa spesso a
lui, ancora). Se il Precursore si annoia, sei tu quello
che ci rimette: non chiederti cosa può fare il
Precursore per te: chiediti piuttosto cosa puoi fare
tu per non essere pestato dal Precursore.
Erano quelli i tempi in cui Fornari e Revignoli potevano spiegare tutto. Li sentivi parlare e sembrava che
quei due avessero sempre pedalato: si giustificavano
pensando che la cosa avesse a che fare col rispetto nei
confronti del posto da cui venivano, e ogni volta che
infilavano il cancello della nostra scuola in piedi sui
pedali gli sembrava di dichiarare al mondo quello che
erano veramente, sudati anche il due di febbraio, con
circa trenta secondi di tempo per salire fino al nostro
piano prima dell’ultima campana.
Fornari entrò nell’atrio della scuola e guardò la
scala. In fondo al corridoio ce n’era un’altra, identica,
che portava dritto davanti alla porta della nostra
classe; di solito i professori usavano quella. Revignoli
lo raggiunse un secondo dopo. Disse che “la
Coniglia” non era in corridoio. Sapevano entrambi
che se prendevano la via più breve, rischiavano di
incontrarla lungo il percorso. Fornari e Revignoli si
buttarono allora su per i gradini della prima scala,
sperando di poter essere più veloci della Coniglia.
C’erano cose che non c’era bisogno di dire, e
c’erano cose che non c’era verso di ignorare, alla fine
degli anni Novanta. Se andavano di moda a zampa di
elefante, con le frange, stinti sulle cosce o schizzati di
finta vernice bianca, potevamo essere sicuri che i
pantaloni di Fornari e Revignoli sarebbero sempre
stati stretti in fondo, senza pendagli, consumati solo in
zona sellino e con un’unica permanente strisciata
nero morchia sulla caviglia destra.
Altri aspetti interessanti del loro abbigliamento
erano: non tenevano le chiavi appese al collo e non
avevano un etto abbondante di gel nei capelli. Primo,
perché le chiavi gli sarebbero rimbalzate addosso a
ogni buca, distruggendogli lo sterno. Secondo, perché
non avevano alcun bisogno di far sopravvivere la loro
pettinatura allo stress di indossare un casco – e poi
non sarebbe stato così piacevole correre a scuola
con quella cosa che azzerava la traspirazione della
testa e trasformava la loro faccia in una cascata di
sudore e gommina fusa.
Però, i loro capelli privi di effetto bagnato, i loro
mazzi di chiavi ridotti all’osso e quella chiazza di
sudore a forma di zaino (si allargava di un paio di
centimetri ogni mattina, quando consideravano la diffusione dei tascapane attorno a loro), ecco tutto
questo, per quanto se la raccontassero, non aveva
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ragioni economiche. I nostri non erano più gli anni
dei figli dei proletari contro i figli dei borghesi.
L’eredità ideologica, apolitica e post-industriale degli
Ottanta si presentava in tutta la sua franchezza nel
fatto che quei due non avevano il motorino: non perché i loro genitori non se lo potessero permettere,
anzi. Semplicemente non avevano alcuna intenzione
di comprarglielo. Quindi le biciclette.
Fornari e Revignoli ogni giorno partivano presto
da casa per arrivare tardi a scuola, si incontravano a
metà strada e pedalando come disperati potevano
fare l’appello con le targhe dei motorini. I nostri compagni li sorpassavano uno dopo l’altro lungo il viale,
bastava tenere il conto.
«Era la Graziabella quella là?», li sentivi urlare da
un marciapiedi all’altro (e a vederli correre ti chiedevi se non si erano già stancati del loro ruolo, se si
erano chiesti com’era meglio interpretarlo, come una
condanna o come una missione, e se si sarebbero
ricordati di quello stereotipo nato abusato che è l’essere giovani a posteriori) mentre si arrendevano
all’abolizione preventiva di ogni tipo di eroismo, ansimavano e schivavano una portiera oppure un tombino. Quando si rendevano conto che la scia della marmitta diventava una scia di profumo, allora sapevano
di non essersi sbagliati: era effettivamente lo scooter
della Graziabella.
Anche col Ciccione e il Curvo le cose erano facili. Dimensioni e forma aiutavano a riconoscerli da
lontano. Ma il bello doveva ancora venire. L’ultimo a
passare, almeno le mattine in cui trovava un buon
motivo per scendere dal letto, sarebbe stato
Giovanni. La sua moto, oltretutto, era anche l’ultima
cosa che volevi sentirti rombare alle spalle perché se
lui ti sorpassava era quello il segno che avevi fatto
veramente tardi.
Giovanni si faceva chiamare il Precursore. In cinque anni di scuola non l’avevamo mai visto arrivare
puntuale. Nonostante il soprannome che lui stesso si
era assegnato – nonostante vivesse effettivamente in
anticipo di circa dieci anni rispetto a tutti quelli della
nostra età – nonostante tutto questo il Precursore
era in ritardo di esattamente dieci minuti su un qualunque istante T di riferimento. Un giorno avremmo
capito come ci riusciva. Intanto potevamo abbeverarci alla fonte inesauribile delle leggende che lo circondavano: gettiti di materiale mitologico emanavano dal
Precursore descrivendo un arco narrativo che andava dalla Leggenda Numero Uno alla Leggenda
Definitiva.
La prima era stato il Precursore stesso a raccontarcela, forse il secondo o il terzo giorno di scuola.
Cominciava con la descrizione del suo metodo per
procacciarsi il porno. Il Precursore pagava un suo
amico maggiorenne per andare al posto suo dal giornalaio. Un giorno, l’amico maggiorenne era sparito
con la paghetta di una settimana del piccolo Giovanni
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e allora niente giornaletti zozzi per quel sabato. Se in
cuor nostro eravamo convinti di appartenere alla
generazione che aveva scoperto masturbazione e
supporti digitali durante la stessa fase ormonale, e
quindi non potevamo che considerare quella fregatura del Precursore come un effetto collaterale del suo
analfabetismo informatico, di contro dovevamo sentire il resto del racconto per realizzare che l’ala del
futuro batteva forte accanto al Precursore: lo spirito
dell’epoca aveva attraversato quel ragazzo come un
vento di promesse, facendo di lui un uomo in grado
di vivere avanti almeno dieci anni. Ai suoi occhi non
eravamo che poveri smanettoni.
Il Precursore aveva raccontato tutto al padre. Il
padre del Precursore aveva un’azienda che produceva componenti meccaniche per conto terzi; gli aveva
detto che non si pagano quelli con più anni di te per
fare qualcosa che tu ti vergogni di fare: per quello ci
sono i marocchini. Il Precursore allora aveva dato a
un marocchino metà dei soldi che dava da mesi al
suo amico maggiorenne e il marocchino si era fatto
trovare nello stesso posto alla stessa ora per i sabati
a venire, coi porno per lui.
Questo ti raccontava il Precursore, quando ancora nemmeno sapevi il suo cognome. E poiché in
prima superiore eravamo ancora in pochi a scambiarci floppy disk neri rigorosamente senza etichette,
erano parecchi quelli che ammutolivano davanti alla
Leggenda Numero Uno e poi seguivano l’esempio
del Precursore. Il marocchino, neanche a dirlo, capì
l’antifona: aprì un conto col giornalaio più vicino al
nostro liceo e cominciò a presentarsi una volta a settimana nel parco accanto all’ingresso, con la sua
borsa delle meraviglie a tracolla.
Ecco di che cosa avrebbero potuto liberarci i
responsabili dei programmi didattici se solo avessero
avuto un minimo di coraggio: un’ora al giorno di
laboratorio informatico e tutti noi non saremmo stati
costretti a confrontarci con lo sfruttamento della
manodopera non qualificata. Con un pacco da dieci
floppy disk avevi immagini porno anche per i tuoi figli,
ma se il computer neanche sapevi come accenderlo,
allora non ti restava che il marocchino.
Un giorno mi sono avvicinato e gliel’ho anche
chiesto. Lui ha chiuso la sua borsa – la sua giornata
lavorativa finiva quando iniziava la nostra scolastica –
e mi ha risposto che era di Nairobi, in Kenya. Non ho
mai voluto dirlo nemmeno a Fornari.
La Leggenda Definitiva, il Precursore non aveva
bisogno di raccontartela. Era una storia sbocciata in
estate e il primo giorno dell’ultimo anno di scuola la
conoscevano già tutti: il Precursore, patentato soltanto attorno ai diciannove ma automunito già allo scoccare della mezzanotte del suo diciottesimo compleanno, aveva parcheggiato in una stradina di campagna, aveva spento il motore e si era voltato verso la
sua ragazza di allora. Voleva concludere il sabato
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notte in bellezza. Qui le versioni si sprecano. C’è chi
sostiene che la ragazza fosse semplicemente stanca e
infreddolita, chi si lancia in descrizioni particolareggiate del repertorio alcolico ingerito da entrambi.
Come che sia, i due, pochi minuti dopo sono impegnati in una variante sbilenca e poco appagante di
sesso anale. Quindi, la battuta di lei: «Oddio, esci! Esci
ché… è un brutto momento». La leggenda vuole che
il Precursore, per una volta, abbia inaspettatamente
assecondato la volontà della ragazza. Risultato: pelvi
e sedili invasi da una versione alquanto liquida dei
prodotti intestinali di lei. Al che, il Precursore (lo
stesso uomo che non avrebbe avuto alcuna vergogna a confermare ogni passaggio della sequenza)
aveva cercato il finestrino per vomitare, ma lo aveva
trovato chiuso.
Il marocchino di Nairobi, quella volta, rifiutò
prima le 50, poi le 100 e infine le 200 mila lire che
il Precursore gli offrì per ripulire il tutto. Per quel
che ne so, o il Precursore s’è pulito la macchina da
solo o se n’è fatta comprare un’altra identica da
suo padre.
Questo era il Precursore. Uno che sottoscriveva
contratti di telefonia mobile che prevedessero la
ricarica del credito per ogni telefonata ricevuta e
poi spargeva il suo numero su tutti i giornali di
annunci economici che conosceva, sotto messaggi
tipo: «AAA regalo parecchia roba a prezzi stracciati.
Chiamatemi presto».
Egli era l’epopea di se stesso; per cercare di esserne all’altezza passava i pomeriggi a spostare pesi o
muovere palloni. Il risultato era una massa di carne
che dal primo banco creava un cono d’ombra nel
quale Revignoli e Fornari potevano eclissarsi anche
per cinque ore di fila. Il professore si sarebbe dovuto
alzare in piedi per vederli.
Le scuole superiori devono essere il primo luogo
in cui un professore si rende conto della propria ridicola corporeità: dovrebbe farsi rispettare da uomini
e donne fatti e finiti, ma ogni volta che alza la voce
davanti alla classe sta soltanto ribadendo che il suo
potere, lì dentro, è esclusivamente didattico, vagamente gerarchico, sicuramente non fisico.
Avevamo visto tutta quella pressione rovinare
anche i migliori esseri umani, perciò non c’era da stupirsi se in qualche stanzetta dimenticata del Ministero
della Pubblica Istruzione qualcuno aveva preso decisioni drastiche (e più in generale provava a mettere
toppe come poteva). Ogni volta che ci pensavi, intuivi il lavorio discreto di anni di studi, i primi risultati dei
test di laboratorio, il via vai di camici bianchi fra le
gabbie, i continui compromessi con sedicenti associazioni ambientaliste. Alla fine del processo venivamo
noi, stereotipi e prototipi insieme, anello di congiunzione tra lo studente e la cavia. La mia teoria era che
un giorno avrebbero parlato del nostro come del
primo istituto a sperimentare l’insegnamento animale.
La nostra prof di italiano e latino, per esempio. Se
arrivavi dopo l’ultima campana, la Coniglia ti lasciava
bussare almeno due volte prima di sussurrare
«Avanti» dalla parte giusta della porta.
Fornari arrivò in cima alla scala e quasi travolse il
bidello del nostro piano. Revignoli scivolò sull’ultimo
gradino e si appese alla sua schiena per non cadere.
Mentre tutti e due crollavano addosso al bidello,
Fornari vide la prof sbucare dall’altra scala, davanti
alla nostra classe.
Il bidello disse che non si correva sulle scale.
Revignoli e Fornari si raddrizzarono e in fondo al
corridoio la prof entrò in classe. Quando finalmente
ci arrivarono anche loro, la porta era stata chiusa da
forse cinque secondi.
Li sentimmo bussare, due volte. Poi lei disse
«Avanti» e si voltò a guardarli, Danilo Revignoli e il
suo compare Fornari, mentre ansimavano incorniciati a metà tra il corridoio e la classe. Alla fine, come
sempre, sbuffò un: «Sì?» e gli occhiali minuscoli che
aveva addosso le scivolarono in fondo al muso. Erano
quelli i momenti in cui ti accorgevi del naso a intermittenza, e dei baffi.
«Buongiorno. Possiamo entrare», non chiedevano
di solito i due.
«Ma prego», faceva la Coniglia tornando a guardare la classe.
Loro sfilavano fra i banchi troppo stretti e le
nostre facce ancora addormentate, la prof armeggiava con i suoi attrezzi minuscoli e sul registro di classe venivano regolarmente stampate altre due R
rosse, accanto ai loro nomi.
«Revignoli e Fornaciari», poteva quindi chiamare la
Coniglia, se ancora stavano spostando le loro sedie.
«Questo è il terzo ritardo in una settimana».
Oppure: «Fornaciari e Revignoli, vi è tanto difficile
essere qui in tempo per l’appello?»
Oppure: «Revignoli e Fornaciari, e alzarsi
prima la mattina?»
Illustrazione di Brunella Baldi
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In ogni caso, la risposta era sempre la stessa. La
battuta toccava a lui: «Fornari, prof».
«Fornari?»
«Già».
«Non credo sia un cognome».
«È come mi chiamo, prof».
«Sarà».
«E anche mio padre».
«Mai sentito prima. Sicuro che non è Fornaciari?»
Allora la maggior parte di noi sorrideva il suo
primo ghigno per quel giorno, e tutti insieme iniziavamo la mattinata. Il sacrificio è il più efficace dei riti.
Se poi ci metti che i riti piacciono a tutti e che nessuno può aver voglia di immolarsi ogni giorno, a
maggior ragione nessuno avrebbe voluto essere lui,
o Danilo. Ma comunque: tutti vogliono bene alle
consuetudini. Di solito Fornari e Revignoli durante
le lezioni giocavano a scacchi. Poi li sentivi confabulare di quello che non sapevano ma avrebbero voluto sapere, piuttosto che di quello che non gli interessava ma qualcuno voleva lo stesso insegnargli.
Guardavano fuori dalla finestra e si interrogavano
sul nome esatto di quei tetti triangolari sulle fabbriche. Sapevano che quel nome esisteva – potevano
Martino Ferro
Martino Ferro
Il primo che sorride
Einaudi, 164 pagine, 14,00 euro
Martino Ferro è fiorentino ma vive a Milano dove lavora
come autore televisivo e radiofonico. Con quest’opera prima
ha vinto il premio Calvino 2005. Per presentarlo ha scelto un
modo originale e credo più consono ai suoi interessi: performance, spettacoli di burattini, rappresentazioni teatrali.
La lettura mi prende: non capisco bene se la protagonista
più o meno undicenne, Nicòl, si rivelerà poi una lolita o che.
Con Nicòl entro in un mondo simbolico, dove si cercano risposte nei posti più disparati e si tenta d’interpretare il reale con le chiavi o i grimaldelli che si hanno a
disposizione. Nicòl ha tra le mani una corona di metallo
dorato trovata alla fermata dell’autobus: è un segno evidente che qualcosa di eccezionale sta per accadere, perché «ci sono cose che si sentono, e io questa cosa me la
sento, e se me la sento vuol dire che sarà così, altrimenti
non me la sentirei». Una neo-adolescente, una quotidianità forse un po’ fuori dalla norma (Nicòl vive con sua
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persino averlo già sentito – ma come fare a ritrovarlo?
Come immaginarselo che un giorno avrebbero imparato il cinismo e l’istinto a sbuffare con sufficienza a ogni
accenno di nostalgia? Danilo gli mangiava un alfiere,
Fornari cambiava argomento. Tutto questo, sempre sussurrando.
Secondo Fornari è giusto che la racconti io questa storia perché io sono incapace di qualunque
empatia. «Tu nella testa hai tutto un reper torio di
cazzate», dice Fornari, «Ma nessun materiale originale». Per dirlo in un altro modo: se voi trovate un
cadavere per strada, avete un cer to tipo di reazione. Vedete i vermi, sentite la puzza, la carne che si
sfalda. Magari, a un cer to punto, vomitate. Ma se
leggete un manuale di anatomia, vi guardate un
documentario sugli obitori, be’, è un altro paio di
maniche. Per me no. Io sembro sempre annoiarmi
uguale. Anche quando ero il primo ad alzare la
mano in classe, anche quando tutti mi conoscevano
semplicemente come “il Lecchìno”, anche allora
vestirmi da gladiatore o vedere Spartaco non faceva
nessuna differenza, per me, dice Fornari.
Gran bei tempi, ecco come li ricordiamo. Il Precursore
non aveva ancora ammazzato nessuno. n
sorella nella roulotte parcheggiata in giardino, mentre la
madre abita la casa e si barcamena tra i lavori più astrusi)
ma con cui si deve comunque fare i conti. Dentro la corona dorata c’è incisa una B: quali cose che iniziano per B
potrebbero accaderle oggi? Qualcosa di Bello, Buono, Ben
fatto? Qualcosa di Breve, Bizzarro e Bagnato come una
Burrasca? Qualcosa che ha che fare con una Bugia? Un
Ballo? Un Bacio?
La sua è un’avventura, un susseguirsi quasi frenetico di
momenti troppo pieni e di altri anche troppo vuoti, insonne nella roulotte, col mal di pancia, con le prime mestruazioni che passano quasi inosservate, con la certezza di essere affetta da un disturbo agli occhi che non le permette di
guardare l’orizzonte senza vertigini. Nicòl cammina a testa
bassa, si muove velocissima, intraprende cose proibite, è
impertinente, potrebbe cacciarsi in guai di cui è inconsapevole.Tremi un po’, pensi che ecco: ora alza lo sguardo e può
prenderle un capogiro, cadere, ferirsi ancora, o peggio.
Nicòl ha l’abitudine di tenere un diario mentale delle
cose appena accadute per non dimenticarle. È precisissima,
fino all’ultima sensazione. Assomiglia alle undicenni di oggi?
Quanto della bambina c’è in lei, quanto della donna o delle
bambine fin troppo precocemente donne? Nicòl cerca
qualcosa. In modo apparentemente sgangherato, a volte
divertente, a volte disarmante, a volte lasciando un turbamento, ma sempre seguendo una sua logica, forse stavolta
cerca un Bacio… Poco importa se per trovarlo seguirà
nottetempo un uomo fin dentro casa, se dovrà entrare in
un cinema a luci rosse, se inventerà una festa di compleanno per invitare un suo compagno di scuola e ricattarlo, se
fuggirà dal pronto soccorso, se le capiterà di trovare sua
sorella e il fidanzato di mamma in atteggiamenti fin troppo
intimi…
Alessandra Buschi