gramsci e la sardegna

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gramsci e la sardegna
Università degli Studi di Sassari
Dipartimento di Teorie e Ricerche dei Sistemi Culturali
Università degli Studi Roma Tre
Dipartimento di Filosofia
Associazione Culturale Su Kérku
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GRAMSCI E LA SARDEGNA
ATTI DEL CONVEGNO
CONSIDERAZIONI SU GRAMSCI
OSSI – 18 GIUGNO 2008
E
LA SARDEGNA NEGLI SCRITTI DI
ANTONIO GRAMSCI
SAGGIO CONCLUSIVO DEL PROGETTO DI RICERCA
a cura di
Pasquale Lubinu
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Il progetto di ricerca
La Sardegna negli scritti di Antonio Gramsci
è stato finanziato dalla
Fondazione Banco di Sardegna
Per il Convegno di Studi hanno dato il patrocinio:
Consiglio Regionale della Sardegna
Comune di Ossi
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INDICE
Prefazione
Parte prima
Atti del convegno Considerazioni su Gramsci
Saluto dell’On. Giacomo Spissu
Presidente del Consiglio Regionale della Sardegna
Saluto di Pasquale Lubinu
Sindaco del Comune di Ossi
Gramsci, la questione sarda e il valore della democrazia
Eugenio Orrù - Direttore dell’Istituto Gramsci della Sardegna
Gramsci, la democrazia e l’attualità politica.
Giancarlo Schirru - Università di Cassino
Democrazia e attualità del pensiero di Gramsci
Claudia Mancina – Università di Roma “La Sapienza”
Gramsci e Dewey: un dialogo possibile?
Chiara Meta - Università della Calabria
Partendo dai Quaderni: i linguaggi non-verbali
Derek Boothman - Università di Bologna
Dialogo tra Gramsci e una sua ombra,
Giorgio Baratta - Presidente International Gramsci Society – Italia
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Parte seconda
La Sardegna negli scritti di Antonio Gramsci
La Sardegna come biografia degli affetti
La Sardegna contadina come fucina degli ideali e dell’elaborazione politica
La Sardegna, il Partito degli operai e dei contadini
La Sardegna e la Quistione meridionale
Gramsci e la Sardegna del futuro
Appendice
Curiosità gramsciane
Lassa sa figu puzzone
Io stesso non ho nessuna razza
La gallina punica
A Torino manca la linea tramviaria n°13
Misurando il cranio dei sardi…
Bellu schesc'e dottori!
Il carro sardo a buoi
Gramsci fa il fascista sardo!
Tiu iscorza alluttu
Donna bisodia…
Sfuriata alla redazione de l’Unità
Un po’ di anticlericalismo per i contadini caduti nel misticismo
Testimonianze:
Un bozzetto di Filippo Figari
Gramsci che suona l’organetto
Fitness
Il maestro Arturo Toscanini suona per gli operai
Sulle opere di Grazia Deledda dava un giudizio feroce
Bibliografia
Immagini
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26 marzo 1927
Carissima Teresina,
Lascia che i tuoi bambini
succhino tutto il sardismo che vogliono
e si sviluppino spontaneamente
nell’ambiente naturale in cui sono nati:
ciò non sarà un impaccio per il loro avvenire,
tutt’altro.
Antonio
Presentazione
Antonio Gramsci è a tutti gli effetti un classico del pensiero politico del
Novecento, oltre che uno dei Padri della Patria ed un letterato che con i Quaderni
e le Lettere dal carcere ha universalizzato una vicenda umana e morale come solo
le grandi personalità della storia di ogni tempo hanno saputo fare.
Il presente volume consta di due parti e contiene, nella prima, gli Atti del
Convegno di studi Considerazioni su Gramsci, tenutosi ad Ossi il 18 giugno
2008, organizzato a cura della dott.ssa Alessandra Cherchi Presidente
dell’Associazione Culturale Su Kérku, che ha visto la collaborazione del
Dipartimento di Filosofia dell’Università degli Studi “Roma Tre”, della rivista
InSchibboleth, dell’International Gramsci Society, dell’Istituto Gramsci della
Sardegna, dell’Associazione Terra Gramsci ed il patrocinio della Presidenza del
Consiglio Regionale della Sardegna e del Comune di Ossi.
La seconda parte contiene il saggio La Sardegna negli scritti di Antonio Gramsci
che conclude un progetto di ricerca finanziato nel 2007 dalla Fondazione Banco
di Sardegna e coordinato dal Dipartimento di Teorie e Ricerche dei Sistemi
Culturali dell’Università di Sassari sotto la guida dei professori Mario Atzori,
oggi Preside della Facoltà, e Carmelo Meazza, cui ha collaborato l’Associazione
Culturale Su Kérku di Ossi, coordinata per la parte relativa alla ricerca dal
sottoscritto. Un ringraziamento speciale vada alla Fondazione Banco di Sardegna
sotto i cui auspici è stato possibile realizzare sia il progetto di ricerca che il
Convegno di studi.
Pasquale Lubinu
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PARTE PRIMA
ATTI DEL CONVEGNO
CONSIDERAZIONI SU GRAMSCI
OSSI, 18 GIUGNO 2008
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Presiede: On. Giacomo Spissu
Presidente del Consiglio Regionale della Sardegna
Buongiorno a tutti. Benvenuti a questa iniziativa intitolata Considerazioni su
Gramsci, ospitata dal Comune di Ossi, che ringrazio per aver voluto promuovere
una giornata intera di approfondimento sulla figura di Antonio Gramsci. Una
figura su cui molto si è detto, molto si è scritto.
Lo scorso anno, in occasione del settantesimo della morte di Antonio Gramsci,
abbiamo ufficialmente celebrato questa ricorrenza nel paese di Ghilarza, alla
presenza del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, associando a questa
ricorrenza la presentazione, da parte dell’Enciclopedia Italiana Treccani, della
prima raccolta italiana degli scritti di Antonio Gramsci.
Una figura straordinaria di intellettuale, prima che di militante politico, perché è
l’autore italiano più tradotto nel mondo, a conferma del fatto che i suoi studi
hanno una valenza non contingente, non soltanto legata alla sua vicenda storica di
militante politico, di capo del partito comunista in Italia, di carcerato del regime
fascista, il quale temeva più che la sua azione politica, probabilmente la sua
capacità intellettuale, la sua capacità di pensiero, in una fase della vita del paese e
della vita anche dell’organizzazione comunista internazionale, piuttosto confusa e
piuttosto difficile su cui lo stesso Gramsci rappresentava delle riserve che
naturalmente dal carcere era difficile assumessero una valenza di confronto
nell’internazionale comunista di cui lui stesso faceva parte.
Quindi una figura di sardo certamente, perché molte delle sue riflessioni sono
legate a questioni identitarie, culturali della Sardegna, che si ritrovano poi nel
pensiero successivo e su cui noi abbiamo fondato la nostra autonomia e su cui
fondiamo molte delle nostre riflessioni del rapporto con lo Stato anche in questa
vicenda politica contingente nella quale c’è un tentativo di ridisegnare un modello
statuale basato sulle Regioni con un federalismo che sconfina spesso in un
tentativo di ricostruire unità ed entità politiche che sono spesso estranee alla
tradizione, alla cultura e appunto alle questioni identitarie.
Penso che la giornata di oggi, con la presenza di autorevolissimi studiosi, darà un
ulteriore contributo in questa direzione e cedo senz’altro la parola al Sindaco, che
è il promotore ed il motore di questa iniziativa che rivolge un saluto e anche una
riflessione sulla figura di Antonio Gramsci. Prego Signor Sindaco.
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Saluto di Pasquale Lubinu
Sindaco del Comune di Ossi
Buongiorno a tutti. Anzitutto un benvenuto ai relatori, che siamo onorati oggi di
avere qui tra noi per una iniziativa dedicata ad Antonio Gramsci, una figura di
uomo politico e pensatore che sta acquistando sempre più una dimensione
universale nel pensiero politico e non solo.
Questa iniziativa è patrocinata dalla Fondazione Banco di Sardegna, organizzata
dall’Associazione Culturale Su Kérku, il Comune di Ossi ha solo dato il suo
supporto, e dai Dipartimenti di Filosofia dell’Università Roma Tre e
dell’Università di Sassari, dalla rivista InSchibboleth, dall’International Gramsci
Society, dall’Istituto Gramsci della Sardegna e dall’Associazione Terra Gramsci.
Antonio Gramsci certamente non è un pensatore facile, non nel senso che i suoi
scritti abbiano una difficoltà di comprensione, ma non è un pensatore facile,
fondamentalmente perché non è un pensatore sistematico cioè non esiste un libro
di Gramsci scritto e pubblicato da lui, che abbia un titolo e una precisa
indicazione editoriale, ma, per citare prof. Baratta: “Gramsci è autore di non libri,
lettere, articoli, documenti, note, appunti, i quali sono parti di un puzzle che
spetta ai suoi lettori comporre, montare e tradurre”, ed in effetti per chi si
avventura nello studio di Gramsci è proprio così. L’unità ed il filo conduttore del
pensiero di Gramsci, secondo autorevoli studiosi, può risiedere proprio nella
dimensione politica, ed in quest’ottica di lettura tutto il pensiero gramsciano, che
si tratti di una recensione su un libretto d’opera di Giuseppe Verdi, oppure di una
riflessione sul Risorgimento italiano, oppure ancora una lettera indirizzata agli
organismi del partito, tutti questi scritti rappresentano appunto un puzzle che può
essere agilmente ricomposto attorno alla dimensione politica.
Non bisogna poi dimenticare che le Lettere dal carcere sono un monumento della
lingua e della letteratura italiana e contribuiscono, come osserva Giuseppe Vacca,
alla diffusione della nostra lingua in 33 aree linguistiche ai quattro angoli del
mondo. Tutto ciò rende orgoglio non solo alla Sardegna ma anche all’Italia,
perché ovviamente è un veicolo attraverso cui si diffonde la lingua e la letteratura
italiana. Non è un caso che le lettere dal carcere, nel 1947 vinsero il Premio
Viareggio ossia un premio letterario. Una cosa che colpisce, che a me ha sempre
colpito, di Gramsci, è la lucidità e la capacità di analisi che lui riusciva ad avere
in tutte le situazioni, anche in quelle che lo coinvolgevano direttamente. Una
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persona che si trova incarcerata per lunghi anni e che riflette sulla sua condizione
di carcerato non è facile che riesca con freddezza e con distacco ad interpretare
quel blocco storico, quel blocco sociale che è al potere e lo condanna al carcere,
che incide in maniera così forte sulla sua carne, sulla sua pelle, sulla sua vita.
Gramsci riesce invece ad avere una distanza e una lucidità di analisi che sono
veramente sorprendenti e costituiscono uno dei tratti profondi della sua sardità.
Questa è una cosa che, leggendo le Lettere dal carcere, in effetti, si vede subito.
L’altro aspetto che colpisce di Gramsci è il fatto che lui non accomuna mai una
critica ad una posizione politica con una critica alla persona che porta quella
posizione politica. Una delle degenerazioni della politica spesso è la scorciatoia
secondo cui, per criticare una posizione politica portata avanti da una persona,
non ci si ferma ad analizzare la sua posizione ma direttamente si attacca la
persona portatrice dell’idea. Questo è un malcostume che sta distruggendo la
civiltà e la cultura della politica. Sappiamo che Gramsci ebbe uno scontro
durissimo con Amedeo Bordiga, di cui criticava in maniera serrata e feroce le
posizioni politiche, tuttavia nelle lettere si può leggere la stima che aveva verso
quel dirigente capace, perché in effetti Bordiga era un dirigente capace, aveva una
capacità organizzativa molto superiore ad alcuni collaboratori di Gramsci. Questo
è Gramsci, ossia, la critica ad una posizione politica non è mai la critica alla
persona che ne è portatrice. Questo è un insegnamento che la politica ed i partiti
dovrebbero recuperare.
Un concetto sul quale riflettere, e parlo anche da Sindaco, come colui che la
politica in un certo senso la vive, anche se è vero che in un comune non si fa
politica a livello di direzione generale, è quello di egemonia così come lo si trova
in Gramsci, non come interpretato dai socialdemocratici che lo consideravano un
concetto alieno alla democrazia. Il concetto di egemonia in Gramsci non va
contro la democrazia, questa è una delle battaglie che le ricerche gramsciane
hanno fatto. Basti pensare alla distinzione tra un gruppo dirigente e un gruppo
dominante. Il gruppo dominante, è chiaro, può essere anche un gruppo che porta
avanti la sua azione politica, con la forza militare; ed in questo senso è
sicuramente un gruppo dominante. Tuttavia se quel gruppo dominante vuol
diventare dirigente, c’è un elemento fondamentale che la sua azione deve avere: il
consenso; un consenso reale e non fasullo, con le piazze piene di persone costrette
a manifestare, non quelle folle che nella visione di Goebbels: “sono come un
pianoforte nelle mani del dittatore”. Quando l’egemonia va in crisi? Quando
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l’egemonia diventa solo dominio? Quando il gruppo dirigente diventa soltanto
gruppo dominante? Gramsci pensa e ragiona come un uomo dei suoi tempi,
pensava al biennio rosso, pensava ai primi anni dell’avvento del fascismo,
pensava che un gruppo subalterno può creare una sua egemonia alternativa, una
sua visione del mondo alternativa, una soluzione alternativa alle problematiche
storiche date, quale ad esempio l’analisi che Gramsci fa del Risorgimento
italiano, come di rivoluzione mancata, quell’idea per cui il Risorgimento in Italia
è stato una rivoluzione che non c’è stata, una rivoluzione senza un partito
giacobino, con tutte le sue contraddizioni: Garibaldi, che dà la terra ai contadini
da un lato e le truppe garibaldine che reprimono le rivolte antifeudali dall’altro.
Ritornando all’egemonia in Gramsci e riferendoci all’attualità vorrei lanciare
questo sasso nello stagno: che cosa è oggi la politica degli Stati Uniti nel mondo
se non una politica di egemonia? Oggettivamente oggi nella politica
internazionale c’è una egemonia degli Stati Uniti? Questa egemonia è dirigente o
dominante? Crea un consenso o si basa sul fatto compiuto? Oppure, per rimanere
in casa nostra, un partito come la Lega Nord, che in alcune importanti città
industriali del Nord alle elezioni dell’aprile scorso ha ottenuto il 50% dei voti, è
portatore di una egemonia? Riesce attorno ad alcune idee-chiave a creare un
consenso, un consenso reale? Questi due semplici esempi, seppure parziali,
assieme a tanti altri che si potrebbero fare, conducono direttamente alla domanda
sull’attualità di Gramsci. Per quale motivo molte delle sue analisi che si
riferiscono a un dato contesto storico possono essere strumenti concettuali
utilizzati in altri contesti? La risposta sta nel carattere di generalità e di
universalità in cui il pensiero gramsciano nasce e vive. Gramsci è studiato in
Brasile, in Inghilterra, in India, in Messico, in Giappone, tutti contesti culturali
diversissimi dall’Italia, eppure le analisi di Gramsci su tante questioni si
applicano, non meccanicamente, ad altri contesti anche i più lontani ed hanno dei
caratteri di universalità sicuramente importanti.
In effetti in Italia c’è anche quest’altro paradosso. Se volessimo citare alcune date
della fortuna letteraria di Gramsci, citeremmo il 1947, quando Gramsci vince il
premio Viareggio; il 1957, Togliatti che riunisce il Comitato Centrale per
discutere della politica culturale del PC su Gramsci, era il 27 aprile del 1957 in
occasione del 20mo della morte. L’avvertenza principale che dà Togliatti è quella
di non chiudere Gramsci in un recinto, cioè non farne soltanto il capo dei
comunisti italiani, che sarebbe riduttivo, egli è certamente una bandiera del
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partito comunista, però è anche molto di più. In effetti poi il seguito gli ha dato
ragione. Nel 1977 c’è il massimo di diffusione degli studi gramsciani, e poi il
paradosso italiano, che registra in Italia un rallentamento degli studi gramsciani e
contemporaneamente un crescente fiorire di studi e di interesse su Gramsci nel
mondo, che raggiungerà il massimo, come dimostrano i dati dell’Istituto Gramsci,
nel 1991 nel centenario della nascita. Gramsci è l’autore italiano più letto e
tradotto nel mondo; fino a qualche anno fa lo erano Dante Alighieri e Nicolò
Machiavelli; su Antonio Gramsci vi è una bibliografia vastissima e sterminata. In
Italia alla fine degli anni ’80, poco prima del crollo del muro di Berlino, la
riflessione su Gramsci si chiude in una piccola discussione provinciale,
basterebbe sfogliare la Rivista Mondo Operaio, mentre in tutto il resto del mondo
ormai Gramsci è un classico del pensiero politico, in Italia c’era un dibattito
angusto, senza respiro.
Concludo dicendo questo: credo che un fenomeno come il berlusconismo, ad
esempio, che è un fatto che sta dominando l’Italia negli ultimi 15 anni, possa
essere studiato coi concetti di Gramsci, i concetti di blocco sociale, di blocco
storico, di egemonia. La cosa che colpisce oggi è che nei partiti non c’è una
elaborazione culturale, cioè non c’è un’analisi, non c’è un largo respiro su tutte
queste cose. Qual’è il partito politico, oggi in Italia, che ha una capacità di analisi
profonda di tutte le dinamiche che ci sono in una democrazia, le dinamiche
sociali, le dinamiche economiche, tutte queste analisi dove sono? Dov’è
l’elaborazione culturale, l’elaborazione politica, l’analisi sociale? Tutto questo
oggi nei partiti non lo vediamo e credo che Gramsci può essere un punto di
riferimento fondamentale, perché mentre tanti marxisti di quella che Sartre
chiamava la scolastica del marxismo rimangono nella polvere degli scaffali,
Gramsci ha superato il ’900, perché è una mente aperta e universale, e soprattutto
rifiutava il dogmatismo, cosa che lo porterà nel 1926, basti pensare alla famosa
lettera del ’26 a Togliatti, pochi anni dopo la Rivoluzione d’Ottobre, a criticare,
ad analizzare le conseguenze di quella rivoluzione. Mentre gli altri marxisti
cadevano nel dogmatismo della rivoluzione che sarebbe avvenuta per forza,
meccanicamente, quasi fosse un treno che passa a un orario determinato, tale era
il marxismo positivista; mentre altri marxisti facevano analisi dove il dato
economico, sul rapporto struttura sovra-struttura, veniva meccanicamente
concepito, Gramsci era già prima di loro molto avanti. Quando teorizzerà
l’alleanza tra operai e contadini del Meridione d’Italia, c’era chi pensava nel ’2117
’22 che fosse possibile la rivoluzione in Italia solo operaia, e non aveva fatto i
conti con le masse contadine del sud, con la presenza del Vaticano, con tutta una
serie di questioni su cui Gramsci fa delle analisi della prim’ora. Credo che
Gramsci sia un pensatore attuale e questo è anche il motivo per cui, quando il
Dipartimento di Filosofia di Sassari ha individuato Ossi come sede del Convegno,
ci siamo attivati volentieri ed è il motivo per cui oggi sono contento di poter
sentire i nostri illustri ospiti, i nostri illustri relatori, parlare di questo grande
pensatore, sardo e universale.
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Gramsci, la questione sarda e il valore della democrazia
Eugenio Orrù*
La rilevante ed essenziale incidenza delle “radici” sarde nella formazione del
pensiero di Gramsci, della sua identità umana, politica e intellettuale rappresenta
ormai un dato incontestabile e acquisito da tutti, come dimostra la copiosissima
letteratura in proposito. A partire dal giudizio espresso, primo in assoluto, da un
suo quasi coetaneo, Piero Gobetti1, alle raffigurazioni degli anni Trenta di
Palmiro Togliatti2 e di Velio Spano3, alla pregevole biografia di Giuseppe Fiori e
al suo più recente “Gramsci, Togliatti, Stalin” e agli altri suoi scritti4, ai contributi
importanti di Renzo Laconi,5 Enrico Berlinguer6, Umberto Cardia7, Girolamo
Sotgiu8, Antonio Pigliaru9, Michelangelo Pira10, Guido Melis,11 fino al
*Direttore dell’Istituto Gramsci della Sardegna
1
Piero Gobetti, La rivoluzione liberale, Torino, Einaudi, 1964, p. 105
Palmiro Togliatti, Stato operaio, n. 5-6, maggio-giugno 1937, riportato in Togliatti, col titolo “Il
capo della classe operaia”, in Gramsci, Roma, Editori Riuniti, 1967, p. 32.
3
Velio Spano Gramsci e la Sardegna, l’unità operaia, New York, n. 38, p. 4. Gramsci sardo in
Gramsci, Parigi 1938, p.157. Il più grande italiano del secolo, Antonio Gramsci, in L’italiano di
Tunisi, 24-4-1938. Gli ultimi due scritti sono riportati da Antonello Mattone in Velio Spano, per
l’unità del popolo sardo, Cagliari, Edizioni della Torre 1978
4
Giuseppe Fiori, Vita di Antonio Gramsci, Bari, Laterza, 1966, in Gramsci vivo, a cura di Mimma
Paulesu Quercioli, prefazione, Milano, Feltrinelli 1977, Gramsci, Togliatti, Stalin, Laterza 1991,
Antonio Gramsci, vita attraverso le lettere, a cura di Giuseppe Fiori, Torino, Einaudi 1994.
5
Renzo Laconi Note per una indagine gramsciana, Rinascita sarda n. 2, 1957, p. 65 ora riportato in
Renzo Laconi, La Sardegna di ieri e di oggi a cura di Umberto Cardia, Cagliari, Edes, 1988, p. 345
6
Enrico Berlinguer, Classe operaia e questione meridionale, Rinascita sarda, n. 1 1958, p. 20.
Discorso a Cagliari per il 40° anniversario della morte di Gramsci, col titolo “Attualità del pensiero di
Antonio Gramsci”, in L’Unità, 28 aprile 1977, ripubblicato parzialmente da Nuova Rinascita sarda, n.
4, 1987, p. 57 e nel numero speciale per il centenario della nascita di A. Gramsci, 1991, p. 16.
7
Umberto Cardia, Gramsci e il Mezzogiorno, Rinascita, n. 36, 1966, p. 17; “Il sardismo rinnovatore
del primo capo del PCI”, Rinascita sarda, n. 9, 1966, p. 12; Sardismo e autonomia”, Rinascita sarda,
n. 14/15, p. 4, intervento in Gramsci e la cultura contemporanea, atti del convegno internazionale di
studi gramsciani tenuto a Cagliari il 23-27 aprile 1967, vol. 4, Roma Editori Riuniti, Istituto Gramsci,
1969, p. 546. Lo stato delle autonomie nel pensiero gramsciano, Nuova Rinascita sarda, n. 4, 1987, p.
11, Relazione in La questione meridionale, atti del convegno di studi, Cagliari 23-24 ottobre 1987,
pubblicazione del Consiglio Regionale della Sardegna, 1988, p. 165, La quercia e il vento, Cagliari
EUS, 1991, Gramsci e Lussu, Nuova Rinascita sarda numero speciale citato, 1991, p. 16
8
Girolamo Sotgiu, Gramsci sardo, Rinascita sarda n. 7, 1967, p. 3, Gramsci e il movimento operaio in
Sardegna in Gramsci e la cultura contemporanea, 1967 citato, Roma, Editori Riuniti, Istituto
Gramsci, 1969, vol. II, p. 147. Il mito della nazione sarda. Questione della lingua e separatismo
politico, Rinascita n. 26, 1975, p. 33, Gramsci e il sardismo, Archivio sardo del movimento operaio,
contadino e autonomistico, n. 4-5, p. 251. Intervento in La questione meridionale, atti del convegno
citato, Cagliari 1988, p.132. Leggere Gramsci nel mondo d’oggi, Nuova Rinascita Sarda, numero
speciale citato, 1991, p. 28.
2
19
recentissimo saggio di Fiamma Lussana12, tanto per ricordare i più significativi e
più noti, senza nulla togliere al valore degli apporti di tanti altri.
Il primo giudizio, che ho appena richiamato, di Piero Gobetti,13 è inequivoco,
emblematico, scolpito in un’immagine penetrante, del quale giudizio riprendo per
brevità solo le parole iniziali: “Pare venuto dalla campagna per dimenticare le sue
tradizioni, per sostituire l’eredità malata dell'anacronismo sardo con uno sforzo
chiuso e inesorabile verso la modernità del cittadino”. Ed ecco le parole di
Gramsci “Che cosa mi ha salvato dal diventare completamente un cencio
inamidato? L 'istinto della ribellione, che da bambino era contro i ricchi, perché
non potevo andare a studiare, io che avevo preso dieci in tutte le materie nelle
scuole elementari, mentre andavano il figlio del macellaio, del farmacista, del
negoziante di tessuti. Esso si allargò per tutti i ricchi che opprimevano i contadini
della Sardegna ed io pensavo allora che bisognava lottare per l'indipendenza
nazionale della regione: “Al mare i continentali”. Quante volte ho ripetuto queste
parole. Poi ho conosciuto la classe operaia di una città industriale e ho capito ciò
che realmente significavano le cose di Marx che avevo letto prima per curiosità
intellettuale14. L'autoritratto di Gramsci è significativo e riflette la ricchezza
intellettuale, la tensione grande di un uomo che, mentre vive ed esprime la
propria identità profonda, l'identità di sé e della propria terra, si libera dai lacci e
dai vincoli del chiuso provincialismo, esce dalla palude del primitivismo politico
e cerca e vede orizzonti vasti una nuova dimensione di civiltà, un superiore ordine
di principi e valori, per cimentarsi a costruire una società diversa, un’umanità più
alta; un mondo migliore per tutti. Questo cammino per Gramsci è visibile e
incontrovertibile. Dal ribellismo iniziale si inverano in dimensioni più alte le
ragioni della sardità ed egli salda le ragioni della fanciullezza e dell'adolescenza a
Ghilarza con le ragioni della giovanile maturità a Cagliari e poi a Torino. Dopo
9
Antonio Pigliaru, L’eredità di Gramsci e la cultura sarda in Gramsci e la cultura contemporanea,
atti del convegno citato, vol. I, p. 487.
10
Michelangelo Pira, Salvemini e il Partito Sardo d’Azione, Rinascita sarda n. 4, 1975, p. 211,
Discorso aperto, Rinascita sarda, n. 21, 1966, p. 4, Omines de Ghilarza, Rinascita sarda n. 16-17,
1967, p. 9.
11
Guido Melis, Antonio Gramsci e la questione sarda, Cagliari Edizioni della Torre, 1975
12
Fiamma Lussana, Gramsci e la Sardegna – Socialismo e socialsardismo dagli anni giovanili alla
grande guerra, Studi storici, n.3, luglio-settembre 2006, anno 47, p. 609-635, Roma, Carocci, 2006
13
Piero Gobetti, citato.
14
2000 pagine di Gramsci, vol. II, p. 33, lettera a Giulia, Vienna 6 marzo 1924 a cura di Giansiro
Ferrata e Niccolò Gallo, Milano, il Saggiatore, 1964, Cfr. anche Antonio Gramsci, Lettere 1908-1926,
a cura di Antonio A. Santucci, Torino, Einaudi, p. 271-273.
20
aver conosciuto non solo Marx, com'è noto, ma Gaetano Salvemini, Benedetto
Croce, Georges Sorel e vissuto le prime esperienze politiche e intellettuali a
Cagliari col fratello Gennaro, al Liceo Dettori con Raffa Garzìa e con i coetanei
nel circolo dal titolo significativo “I martiri del libero pensiero”, che ha come
riferimento fondamentale la figura di Giordano Bruno, dopo i morti di Buggerru
del 1904, dopo i moti del 1906 a Cagliari, ma anche a Villasalto e in tanti altri
centri, con la loro pesante sequenza di vite stroncate. La sua adesione nel 1913,
mentre si trova a Ghilarza, al gruppo di azione e propaganda antiprotezionistica,
promosso da Attilio Deffenu e Niccolò Fancello, conferma una maturazione
politica indiscutibile. Dirà Togliatti, nel discorso del 27 aprile del 1947 a Cagliari,
nel decennale della morte: “Debbo dire che il suo stato d'animo era allora, nei
primi anni della giovinezza, fieramente non soltanto sardo, ma, direi, sardista”15.
Ma dalla Sardegna Gramsci giunge a Torino già socialista. Lo dice lo stesso
Togliatti. Lo afferma il fratello Gennaro, ricordando gli anni trascorsi a Cagliari
da studente liceale. Anche se l'iscrizione al partito socialista avverrà più tardi a
Torino, dopo le elezioni del 1913. “Dalla critica della struttura della società sarda
- nota ancora Togliatti nel 1947 - egli arriva, attraverso il socialismo, alla critica
della struttura di tutta la società italiana e quindi all'indagine e alla scoperta di
quelle che dovranno essere le forze rinnovatrici dell'Isola e dell'Italia intera e del
modo come dovranno muoversi per operare questo rinnovamento”16. Questa
genesi della formazione politica e intellettuale di Gramsci è fondamentale. La sua
“strutturale” sardità, con la connessa visione socialista, già descritta da Togliatti,
è stata nel corso dei decenni ribadita da tutti i più prestigiosi studiosi, anche nei
più recenti contributi di analisi e di ricerca, con un interessante arricchimento
delle tante tematiche sottese, ad esempio con l’accostamento e la sottolineatura di
tutte le analogie presenti in realtà di subalternità e di sottosviluppo, come fu e in
parte è rimasta la Sardegna, realtà presenti oggi in tutti i “Sud” del mondo. Il che
aiuta ancora a spiegare anche l'attuale straordinario interesse al pensiero di
Gramsci in realtà come quella del Brasile e dell’India e persino del mondo arabo.
La sardità di Gramsci non è dunque un fatto epidermico di superficiale
reiterazione della memoria dell'infanzia e del mondo degli affetti familiari, e tanto
meno mero dato di tattica politica ma è fatto pienamente strutturale del pensiero e
15
L’Unità, 29 aprile 1947, Rinascita, n. 4 aprile 1947, p. 73, col titolo “Gramsci, la Sardegna,
l’Italia”, in P. Togliatti, Gramsci, a cura di Ernesto Ragionieri, Roma, Editori Riuniti, 1967, p. 50
16
Discorso citato, ibidem.
21
della propria identità politica, sostrato della sua visione socialista. Così altrettanto
la questione sarda si coniuga e si connette con la questione meridionale, come
questione di politica nazionale. Ecco questa affermazione del 1916: "Il
Mezzogiorno non ha bisogno di leggi speciali. Ha bisogno di una politica
generale, estera e interna, che sia ispirata al rispetto dei bisogni generali del
paese… Non basta costruire una strada o un bacino montano. Bisogna, prima di
tutto, che i futuri trattati commerciali non facciano chiudere i mercati ai
prodotti.”17 Quando scrive queste parole il giovane Gramsci ha 25 anni, ma ha già
ben chiara una visione generale di approccio ai grandi temi dello sviluppo
dell'Italia e delle conseguenti strategie da perseguire. Perciò non deve stupire e
tanto meno indurre a parlare di strumentalità il suo percorso di idee, di
orientamenti e di atti politici: penso alle grandi questioni dell'autonomismo, del
meridionalismo e del federalismo, tutte questioni presenti richiamate e studiate e
chiaramente leggibili nel pensiero e anche nel linguaggio di Gramsci. E' in questa
ottica che va valutato l'interesse per il congresso di Macomer del PSd'Az, del
1925, con la presenza di Ruggero Grieco ed è significativo e di grande valore, il
carteggio con Lussu, e ben si comprende il pensiero politico di Gramsci quando
scrive nel 1926 il saggio, rimasto incompiuto, sulla questione meridionale.18 E'
evidente, Gramsci, come chiunque, va letto senza forzature e sovrapposizioni, nel
suo specifico contesto storico. La questione sarda ha in Gramsci referenti e
coordinate che riconducono ad anni precisi: il ‘17 e la rivoluzione d'ottobre con la
sua sconvolgente e epica risonanza, il dopoguerra in Italia, in particolare gli anni
19-26, con l’avvento e l’affermazione del fascismo, la condizione della
democrazia e del socialismo con le sue divisioni e la nascita del PCd'It., la natura
del Partito Sardo d’Azione in quegli anni, l'esperienza del periodico e quotidiano
“L'Ordine Nuovo”, la teoria dei consigli, la questione meridionale in quel
contesto dei primi anni Venti e in rapporto al tradizionale meridionalismo.
Di Gramsci va inoltre tenuta presente la frequente frammentarietà degli scritti e
anche la problematicità del suo pensiero sia in connessione alle condizioni assai
ardue della lotta politica prima del carcere che alle pesantissime limitazioni della
costrizione carceraria. Ma la problematicità e la frammentarietà rendono il suo
discorso ancora più fecondo e persino “anticipatore” su tematiche che toccano
17
A. Gramsci, Sotto la mole, Torino, Einaudi, 1971, pag. 111.
A. Gramsci, La questione meridionale, introduzione di Franco De Felice e Valentino Parlato, Roma,
Editori Riuniti, 1972
18
22
istanze universali, che travalicano il proprio tempo e mantengono tuttora
straordinariamente possibile l’interlocuzione.
Vale perciò rivisitare il suo pensiero e tornare, anche se per fugaci cenni, su
alcuni temi fondamentali.
Della questione sarda Gramsci si occupa con costante e minuziosa attenzione.
Studia il banditismo19 - come testimonia Togliatti - visto come dato di criminalità,
ma anche come spia della vita sociale; studia il folklore20 come fenomeno da
"prendere sul serio" e non come “bizzarria”, che vale nell'analisi della storia e
della condizione delle classi subalterne, del cosiddetto senso comune e vale
nell’analisi generale della società, della cultura, della storia e della genesi delle
idee; affronta la questione della lingua come questione essenziale dell'identità:
valga la lettera del 1927 alla sorella Teresina allorché sollecita a far parlare il
sardo al nipote Franco e poi afferma: "intanto il sardo non è un dialetto, ma una
lingua a sé, quantunque non abbia una grande letteratura, ed è bene che i bambini
imparino più lingue, se è possibile. E proseguendo il discorso, dice alla sorella: Ti
raccomando…di lasciare che i tuoi bambini succhino tutto il sardismo che
vogliono e si sviluppino spontaneamente nell’ambiente naturale in cui sono nati;
ciò non sarà di impaccio per il loro avvenire, tutt'altro.21 Fondamentale è la sua
riflessione sulla questione meridionale. Gramsci la propone come questione
sociale e politica essenziale per la costruzione del nuovo Stato. Di tale questione
Gramsci indica delle specificità: la parziale coincidenza con la questione
contadina, la connessione con la questione vaticana, la territorialità, ovvero il
Mezzogiorno come parte sfruttata dal dominio capitalistico, come realtà storicosociale complessa nel quadro di una visione dell'Italia come complessa, appunto,
realtà pluralistica. Dato questo che costituisce ricchezza e non il contrario.
Gramsci vede il Sud articolato in tre distinte sezioni politico-territoriali:
Mezzogiorno, Sicilia e Sardegna. Questa visione è nel saggio del 26, ma il tema
ritorna nei Quaderni lo ritroviamo come semplice titolo all’argomento nove del
Quaderno 1 (8 febbraio 1929)22 con questa denominazione la “Quistione
19
Il Ponte, anno VII, n. 9-10, sett-ott 1951, p.1087, in P. Togliatti, Gramsci sardo e ancora in
Togliatti, Gramsci, cit. p.77
20
A. Gramsci, Quaderni del carcere, a cura di Valentino Gerratana, vol. III, Quaderno 27, p. 2314,
Torino Einaudi, 1975.
21
A. Gramsci, Lettere dal carcere, lettera alla sorella Teresina del 26 marzo 1927, p. 64, Torino,
Einaudi, 1965. Cfr anche lettera alla mamma del 27 giugno 1927, p. 99, ibidem.
22
A. Gramsci, Quaderni del carcere, già citati, vol. I, Quaderno 1, p. 5.
23
meridionale e la quistione delle isole” e ancora lo rileggiamo nel paragrafo 47 del
Quaderno 14 (1932- 1935)23 col riferimento al pensiero di Giustino Fortunato e di
Gaetano Salvemini, a Michele Amari e Vittorio Emanuele Orlando e col richiamo
della “quistione sarda" in rapporto alle “carte” di Arborea, curiosamente poste in
analogia col "simile tentativo boemo del 48". Significativa analogia e
inequivocabile indicazione della reale esistenza dietro la vicenda delle “carte” di
una "questione sarda" della cui esistenza mostrerà per primo chiara coscienza
Giovanni Battista Tuveri24 e nel Novecento riprenderà il tema, con lucida e acuta
analisi, l'indimenticato Renzo Laconi25. Ma l'intreccio complesso e direi assai
intricato di questione nazionale, questione meridionale, questione siciliana e
questione sarda si può rilevare con ampiezza e profondità di discorso nel
paragrafo 26 del Quaderno 19 (1934-35)26 ovvero il Quaderno sul Risorgimento
italiano, nel Quale si analizzano le strutture portanti della situazione italiana.
Elenco gli argomenti, le tematiche che Gramsci affronta: società civile-Stato,
popolazione urbana-popolazione rurale, questione operaia-questione contadina,
civiltà industriale, rapporto città-campagna, questione vaticana e, ancora, gli
intellettuali (intellettuali "paglietta" e “intellettuali tecnici”) e ancora, le “città del
silenzio” e, infine, i partiti: i moderati e il partito d’azione.
Tutto questo elenco valeva la pena di scorrere per dire dello spessore conoscitivo,
culturale e politico che sottende il discorso di Gramsci sulla Sardegna e sul
Partito Sardo d’Azione. Si pensi all'appello, sicuramente ispirato da Gramsci,
indirizzato il 25 settembre 1925 dall'Internazionale contadina al V congresso del
Partito Sardo d’Azione, citato, appello che si conclude con un “Evviva la
Repubblica Sarda degli operai e contadini nella Federazione soviettista
italiana”27.
Sarebbe curioso annullare l’idea dell'autonomia in Gramsci, idea che fu in
Giovanni Battista Tuveri nel 1867 e certamente fu in Gramsci. Si rifletta su
queste affermazioni del 1923: “….noi dobbiamo dare importanza alla questione
23
A. Gramsci, ibidem, vol. III, Quaderno. 14, paragrafo 47, pp.1704-1705.
G.B. Tuveri, cfr. art.. Initium sapientiae in La cronaca, settimanale cagliaritano, gennaio 1867.
R. Laconi, La Sardegna di ieri e di oggi, a cura di Umberto Cardia, Edes Cagliari, 1988, pp. 55-99.
26
A. Gramsci ibidem vol. III, Quaderno 19, paragrafo 26, pp. 2035- 2046, ma vale la lettura
dell'intero quaderno.
27
L’appello dell’Internazionale contadina fu pubblicato in Lo Stato operaio, n.2, 1927 ed è stato
riportato anche in Antonio Gramsci e la questione sarda, antologia a cura di Guido Melis, citato,
Cagliari, Edizione della Torre, 1975.
24
25
24
in cui il problema dei rapporti tra operai e contadini si pone non solo come un
problema territoriale, cioè come uno degli aspetti della questione nazionale.
Personalmente io credo che la parola d'ordine “governo operaio e contadino”
debba essere adattata in Italia così “Repubblica federale degli operai e dei
contadini”28. E' interessante osservare come Togliatti riprenda il discorso,
all'indomani della morte di Gramsci, nel 1937: “..II Partito comunista - egli scrive
su Lo Stato operaio di maggio-giugno - “per l'iniziativa di Gramsci, fa propria
una delle rivendicazioni fondamentali delle masse contadine del Mezzogiorno,
riconoscendo giusta la lotta delle popolazioni meridionali per un regime
autonomo di governo, che spezzi le catene che lo Stato ha fatto gravare su di loro.
Il problema del diritto - sottolineo – “di autodecisione delle minoranze nazionali,
il problema sardo, le questioni ardenti della vita del nostro paese trovano nella
propaganda e nella azione politica di Gramsci una risposta, una soluzione”.29 Le
sollecitazioni alla riflessione contenute negli scritti di Gramsci sono state e sono
presenti dappertutto nella formulazione di spunti teorici, di tesi e strategie
politiche, nella corrispondenza politica, nelle lettere ai familiari e perciò
abbisognano, certamente, di chiavi diverse di lettura. Ma tutte inducono al rigore
critico, e producono possibilità di interlocuzione feconda. Senza il bisogno di
forzature ovvero della sovrapposizione dei nostri orizzonti. E' indubitabile
l'orientamento di Gramsci, che il Togliatti ora citato rende esplicito e
inconfutabilmente chiaro. Proprio non sono necessarie forzature. Possiamo
definire, senza tema di smentite, “autonomistica”, “democratica”, nel senso più
pregnante del termine, la visione che Gramsci ha della società e dello Stato.
Richiamo qualche punto relativo alle sue riflessioni su “autogoverno” e
“burocrazia”. Si vedano, ad esempio. termini usati di “rettitudine”, “disinteresse”
oppure le espressioni “centralismo dell'alta burocrazia”. O altrimenti “istituzioni
affidate a una burocrazia controllata immediatamente dal basso” 30 e ancora
l'analisi, a proposito di argomenti di cultura, di statolatria, come lui dice “L'analisi
non sarebbe esatta se non si tenesse conto delle due forme in cui lo Stato si
presenta…. Cioè come società civile e come società politica, come 'autogoverno'
28
A. Gramsci, lettera da Mosca al Comitato esecutivo del PCd’It. del 12 settembre 1923, riportato da
Rivista storica del socialismo, n.18, gennaio-aprile 1963, p. 115.
29
Lo Stato operaio, n. 5-6, maggio-giugno 1937, riportato in Gramsci di P. Togliatti, citato p. 32, col
titolo “Il capo della classe operaia”.
30
A. Gramsci, Quaderni del carcere, vol. II, Quaderno 8, paragrafo 55, p. 974
25
e come “governo dei funzionari”…. e ancora la “statolatria deve essere criticata,
appunto perché si sviluppi e produca nuove forme di vita statale" anche non
dovute "al governo dei funzionari”. Notare: “far diventare - dice – ‘spontanea’ la
vita statale”,31 o ancora, è da rilevare la distinzione tra “centralismo burocratico”
e “centralismo democratico”- che ‘richiede’ - egli sottolinea - un'organica unità
tra teoria e pratica, tra ceti intellettuali e masse popolari, governanti e
governati”.32 Valgono particolarmente i puntigliosi distinguo nell'analisi dei
significati di società civile e società politica.
“Non si può creare un diritto costituzionale, del tipo tradizionale, ma solo un
sistema di principi che affermi come fine dello Stato la sua propria fine, il suo
proprio sparire”, cioè, conclude Gramsci - che parla di deperimento dello Stato,
riprendendo Marx “l’assorbimento della società politica nella società civile”.33
Ma sentite anche queste considerazioni, vergate a proposito della politica di
Napoleone III, Gramsci usa l'espressione “società regolata”. Che significa? “..in
questa società il partito dominante” – afferma – “non si confonde organicamente
col governo, ma è strumento per il passaggio dalla società civile-politica alla
società ‘regolata’, in quanto assorbe in sé ambedue, per superarle (non per
perpetuarne la contraddizione)”34 ecc, ma, attenzione, “l'unità storica di società
civile e società politica” deve essere intesa dialetticamente (nella dialettica reale e
non solo concettuale) e lo Stato è concepito come superabile dalla "società
regolata".35 L'accezione dell'aggettivo “regolata", avverte Gramsci, può
nascondere anche, però, una “concezione tipicamente reazionaria e repressiva”36.
E l'annotazione è inequivocabile. Tanto ho voluto richiamare per rilevare, se pur
ce ne fosse bisogno per qualcuno, il rigore e, direi, il puntiglio, degli approcci
tematici di Gramsci, ma soprattutto gli aspetti di contenuto. Se infatti
ripercorriamo tutte insieme le espressioni riportate e, se fosse possibile, tantissime
altre ancora, anche se non si tratta di lunghe dissertazioni, non vi può essere
dubbio alcuno nel giudizio sull'idea di Stato e di società e del percorso arduo e
difficile per la costruzione di una società superiore che Gramsci ipotizza.
Naturalmente, rifuggendo da pretese scoperte di anticipazioni non confortate dai
31
Ibidem, vol. II, Quaderno 8, 1931-1932, paragrafo 130, pp. 1020-1021.
Ibidem, vol. III, Quaderno 13, 1932-1934, paragrafo 37, p. 1635
33
Ibidem, vol. I, Quaderno 5, 1930-1932, paragrafo 127, p. 662
34
Ibidem, vol. II, Quaderno 6, 1930-1932, paragrafo 65, p. 734.
35
Ibidem, p. 734.
36
Ibidem, p. 693.
32
26
testi, senza forzature, è chiarissimo e incontrovertibile come Gramsci pensò a uno
Stato non centralistico, non autoritario, non oligarchico, ma a uno Stato
democratico. Bisogna in tutta la sua pregnanza usare questo aggettivo
“democratico” per significare Gramsci come pensatore della democrazia, non
solo del socialismo e del movimento operaio. Certo la strategia di Gramsci non va
disancorata dalla prospettiva che la presiede, di avanzata di un nuovo ordine
sociale e politico su scala nazionale e internazionale, non va disgiunta
dall’obiettivo, certo gradualisticamente inteso e vissuto, in tempi di ferro e di
fuoco, della costruzione del socialismo in Italia. In questo senso vanno
considerate tante questioni strutturali del pensiero gramsciano: la funzione
nazionale del proletariato, l'unità operai-contadini, la conquista delle masse
cattoliche, il ruolo nuovo degli intellettuali, di tutti coloro che siano disponibili
alla lotta contro il capitalismo, come sostiene a Lione. E vale la considerazione
per la questione del Mezzogiorno, per la questione sarda, per la questione
siciliana, per la questione delle autonomie e dell'autogoverno, per tutta la
ricchezza di significati che contengono le espressioni usate con gli aggettivi
federativo, federale, etc. Scaturisce dalle espressioni usate una visione
inequivocabile di Stato democratico (sottolineo) che deve costruire una società
superiore, socialista, uno Stato fondato sulla ricchezza, sottolineo, della pluralità,
delle differenze, delle autonomie. Uno Stato nel quale la democrazia è sostanza
del socialismo e il socialismo ha le sue insostituibili fondamenta nella
democrazia.
Il nucleo di questo pensiero forte di Gramsci deve essere oggi più che mai
recuperato. Ripeto senza bisogno di forzature. Con questo pensiero si può
interloquire, perché ha sponde robuste, che valgono per la questione
dell’autonomia sarda, per l’autogoverno, per la democrazia in Italia e nel mondo.
Ecco che cos’è l’autonomia. Lo sottolineava nel convegno internazionale del
gennaio 1991, promosso dall’Istituto Gramsci della Sardegna e dell’Istituto
Gramsci di Roma, anche l’indimenticabile Valentino Gerratana,37 insuperato
curatore dei Quaderni, con una argomentazione che traduco con queste parole:
autonomia è forma e sostanza di democrazia, autonomia é autogoverno, forma e
sostanza dell’egemonia, che non è dominio coercitivo, ma consenso ed esercizio
di autogoverno, autonomia è condizione essenziale dell’egemonia. Si può
37
AA.VV. Omaggio a Gramsci – Ed. Tema. Cagliari 1994
27
dissentire da questo pensiero? E’ inattuale questo pensiero o è fortemente vitale?
Appena trascorso il 70° anniversario della morte di Gramsci, dopo il fervore
delle molteplici iniziative svoltesi in Italia e nel mondo, sembra perciò più che
mai opportuno rivisitare il pensiero di questo fondamentale pensatore della
democrazia.
Penso ad alcune tematiche generali oggi all'attenzione, sento l’assillo di
problematiche sociali e questioni istituzionali sempre stringenti. Sono, come tanti,
indotto a riflettere sul tema della democrazia e delle forme che essa assume oggi,
sul tema della partecipazione, sulla presenza e sull'incidenza di quella che
chiamerei, con Rousseau, “volontà generale” e, con Gramsci, “volontà collettiva”.
Se vogliamo rispondere al presente, sul passato non possiamo tracciare un tratto
di penna. Tanto meno su uomini fondamentali come Gramsci dal cui pensiero non
si tratta di dedurre semplicistiche attualizzazioni, ma dalle cui riflessioni, certo, è
possibile trarre spunti, principi e valori che contano ancora.
Il tempo attuale è tempo di grandi processi di liberazione umana, di fondamentali
traguardi di civiltà conquistati, di grandi energie vitali e di crescenti speranze,
grazie alla scienza, alla cultura, alla democrazia che avanzano, ma è anche tempo
di quasi inestricabili contraddizioni, di antiche e intollerabili persistenze di
ingiustizie, di soprusi e di violenze che sembra mai debbano finire; tempo anche
di processi di affievolimento e quasi di consunzione di valori e di principi
essenziali, di deficit sensibili di democrazia persino nei cosiddetti Paesi civili e di
caduta sostanziale e anche rovinosa, in tante realtà, della qualità della vita.
Insomma, in questo “mondo grande e terribile”, possono ancora valere le ‘lenti’
di Gramsci. Si pensi, ad esempio alle sue riflessioni sulle tematiche del partito
moderno, della riforma intellettuale e morale, del ruolo degli intellettuali, della
condizione delle masse, della questione dell’egemonia, della democrazia, dello
Stato. Che cos'è il partito? “Il moderno principe, il mito-principe non può essere
una persona reale, un individuo concreto, può essere solo un organismo; un
elemento di società complesso nel quale abbia già inizio il concretarsi di una
volontà collettiva riconosciuta e affermatasi parzialmente nell'azione. Questo
organismo è già dato dallo sviluppo storico ed è il partito politico, la prima cellula
in cui si riassumono i germi di volontà collettiva che tendono a divenire
28
universali e totali”38.. Gramsci, come si sa, si richiama al Principe di Machiavelli
non solo in quanto testo teorico di scienza politica, ma in quanto discorso
storicamente concreto che ambisce e guarda al possibile processo di cambiamento
e di costruzione politico-civile. In questa ottica Gramsci guarda al suo presente e
in questa ottica è pertinente richiamarne il pensiero per le urgenze e le istanze
profonde dell’oggi. Infatti il concetto allora riproposto da Gramsci credo che ora
ci riguardi centralmente: un “moderno Principe” non può che essere il nuovo
soggetto collettivo, storicamente concreto e attuale e già affermatosi, il partito
politico. Quanto vale questo discorso oggi? Come tradurlo? Gramsci assegna al
partito, a questa espressione la più compiuta di volontà collettiva, un compito
altissimo sul piano politico, culturale, morale. Precisa Gramsci: “Il moderno
Principe deve e non può non essere il banditore e l’organizzatore di una riforma
intellettuale e morale, ciò che poi significa creare il terreno per un ulteriore
sviluppo della volontà collettiva nazionale popolare verso il compimento di una
forma superiore e totale di civiltà moderna”39.
Quanto vale la dimensione intellettuale dell'analisi e del giudizio contenuta in
queste parole? Non ci può sfuggire la condizione soggettiva e il contesto storico
nel quale Gramsci scrive: la costrizione carceraria, la pesante dittatura fascista,
l'assenza di immediate prospettive e possibilità di cambiamento. Ne possiamo
mettere in sordina la complessa e anche contraddittoria storia dei partiti
nell’ultimo Novecento e soprattutto nel più recente periodo. Però tante
sollecitazioni di Gramsci non ci possono lasciare insensibili, distratti e sordi.
Mentre oggi non c'è più neppure il “partito nuovo” di Togliatti, si sono dissolti i
partiti di massa. Mentre si discute di partito ‘leggero’, di una nuova forma della
politica, di una nuova forma di partito, di nuove regole, di nuove aggregazioni e
addirittura, di un unico partito capace di comprendere tutti i riformismi. E mentre
il vecchio muore, non c' è il nuovo. Così conosciamo il leaderismo, la ‘visibilità’,
la personalizzazione della politica in forme vecchie e nuove, le lobbies, i gruppi
di potere, anche questi in forme vecchie e nuove. Il quadro è assai complesso,
sempre più complesso e spesso si naviga a vista, si confondono i linguaggi, si
stemperano le idee, cala la partecipazione e anche la fiducia. Ma possiamo ben
dirlo, nelle forze migliori, che sono grande parte della nostra umanità, si sente
38
A. Gramsci. Quaderni del carcere, a cura di Valentino Gerratana, Einaudi, 1975, quaderno 13
(XXX) 1932-1934, vol. III, p. 1558, paragrafo 1.
39
Ibidem, p. 1560.
29
tanta energia vitale, tanta forza morale, e speranza. Per questo vale ricordare le
parole di Gramsci, pur in una situazione così mutata e complessa. “Può esserci egli si interroga - riforma culturale e cioè elevamento civile degli strati depressi
della società, senza una precedente riforma economica e un mutamento nella
posizione sociale e nel mondo economico? Perciò una riforma intellettuale e
morale non può non essere legata a un programma di riforma economica, anzi il
programma di riforma economica è appunto il modo concreto con cui si presenta
ogni riforma intellettuale e morale”.40 Questa saldatura, per Gramsci strutturale,
inscindibile, della dimensione intellettuale, morale, economica e sociale, può
ritenersi oggi un valore secondario, un non valore, un nesso, un diagramma
essenzialmente soggettivo, un dato del tutto appartenente al passato? O vale per il
presente? Penso alla società del dominio mediatico, alla telecrazia, penso alla
cosiddetta “società individualizzata” penso ai giganteschi problemi della
sopravvivenza, della convivenza e della cittadinanza, della pace e della guerra,
dell'ambiente, dentro scenari sempre più cosmopolitici, selvaggiamente
cosmopolitici. Schematicamente si può affermare esemplificando che l'umanità è
oggi chiamata a dare risposte di portata storica, epocale agli straordinari processi
della globalizzazione, alla realtà delle grandi aree regionali del mondo come
l'Europa, di Stati nazionali e plurinazionali, di soggettività di popoli, di etnie, di
culture, di religioni, di concezioni del mondo. Dall’elenco si intende che si tratta
di problemi complessi per i quali è difficile costruire risposte senza quella
saldatura intellettuale – morale – economica di cui parla Gramsci. Ad esempio,
come si può valutare la globalizzazione soltanto in termini di mercato e non
anche in termini di valori ideali, di principi politici e morali, di organizzazione
degli Stati? Possiamo affermare che siamo di fronte ad un nuovo
‘cosmopolitismo’ che reclama una aggiornata e robusta concezione del mondo,
valori forti e principi universali. Questo “nuovo cosmopolitismo”, perché la
globalizzazione diventi progresso, sviluppo, crescita di civiltà, domanda un
“nuovo ordine del mondo”, nuove regole, nuovi intellettuali. Esige soprattutto un
progresso generale di massa ai livelli più alti, per dirla con lo stesso Gramsci,
della cultura e della civiltà41..
Ecco allora che il moderno Principe di Gramsci, così come egli ha saputo
40
41
Ibidem, p. 1561.
Quaderno 11 (XVIII) 1932-33, vol. II, pp. 1382-1385- paragrafo 12.
30
recuperarlo dal ‘programma’ concreto di Machiavelli e così come lo propone per
il suo presente, sollecita a ricercare e costruire coordinate, operare per porre in
essere processi di crescita e di affermazione, della presenza della “volontà
collettiva” in tutti gli 'ambiti della complessa ‘tessitura’ dell'organizzazione della
vita dell'uomo del terzo millennio. Tale è la portata dei problemi, la cui soluzione
può essere trovata solo nella più alta espressione della politica, nella più alta
dimensione intellettuale e morale. Ecco allora la pregnanza concettuale della
metafora gramsciana: “II principe prende il posto, nelle coscienze, delle divinità,
dell'imperativo categorico, diventa la base di un laicismo moderno e di una
completa laicizzazione di tutta la vita e di tutti i rapporti di costume”42. Sottolineo
il concetto di laicismo: il partito deve diventare la base di un laicismo moderno,
un partito che non può vivere nell’aria rarefatta delle elites, di gruppi dirigenti
distaccati e distanti, al contrario, un partito che si deve fondare sull’adesione, sul
consenso, sulla partecipazione di massa e che ha idee, valori, principi, programmi
propri e che sa valutare - questo anche è laicismo - criticamente se stesso, far
valere le proprie ragioni e ascoltare anche le ragioni degli altri.
Su quanto già detto emerge con chiarezza l'idea del Principe, ovvero del partito
preconizzato da Gramsci e la necessaria ed essenziale riforma intellettuale e
morale capace di determinarne l’affermazione e di farne esercitare il ruolo
peculiare, altissimo, appunto intellettuale e morale, di costruttore di profondi
mutamenti economici e sociali nei rapporti tra le classi e nel potere politico. A
proposito di riforma intellettuale e morale e del suo carattere di massa che
Gramsci evoca è noto il richiamo43 alla riforma luterana, al calvinismo inglese, al
razionalismo settecentesco in Francia e, in negativo, alla rivoluzione passiva del
Risorgimento italiano.
Vale tale richiamo, indubitabilmente denso di significati, per il nostro presente,
per la costruzione di un futuro desiderabile per il terzo millennio?
Gli intellettuali. E' conosciuta l'attenzione particolare di Gramsci - attenzione
essenziale e strutturale del suo pensiero e della sua visione del mondo - alla
formazione e al ruolo dell'attività intellettuale. Questa attenzione riguarda le
specifiche tematiche dell’organizzazione della cultura e dell’attività intellettuale e
insieme costituisce aspetto fondamentale della sua concezione del mondo, della
42
43
Quaderno 13, citato, p. 1561.
Quaderno 4, 1930-32, vol. I, p. 515, paragrafo 75
31
sua teoria politica. I concetti di egemonia e di consenso non si capirebbero
altrimenti e risulterebbe incomprensibile la sua idea di società e di Stato. Qualche
spunto: “una massa umana non si ‘distingue’ e non diventa indipendente ‘per se’
senza organizzarsi (in senso lato) e non c' è organizzazione senza organizzatori e
dirigenti, cioè senza che l'aspetto teorico del nesso teoria-pratica si distingua
concretamente in uno strato di persone ‘specializzate’ nell’elaborazione
concettuale e filosofica. Ma questo percorso di creazione degli intellettuali è
lungo e difficile. ...Il processo di sviluppo è legato a una dialettica intellettualimassa; lo strato di intellettuali si sviluppa quantitativamente e qualitativamente,
ma ogni sbalzo verso una nuova ‘ampiezza’ e complessità è legato a un
movimento analogo della massa dei semplici”.44 E afferma più in là: “Perciò si
può dire che i partiti sono gli elaboratori delle nuove intellettualità ...cioè il
crogiuolo dell’unificazione di teoria e pratica intesa come processo storico
reale”.45 E' noto come Gramsci distingua tra intellettuali tradizionali, legati alle
attività tradizionali o alle funzioni amministrative dello Stato e gli intellettuali di
‘tipo nuovo’ legati allo sviluppo del capitalismo ovvero intellettuali ‘tecnici’ e
‘scientifici’. Per quanto questa distinzione possa ancora grandemente valere, il
punto che centralmente oggi più interessa mi sembra quello più generale del
rapporto teoria-pratica, intellettuali-masse, intellettuali – consenso - egemonia,
intellettuali – società - Stato. Giova a questo proposito, riportare questo corposo
passo di Gramsci: la filosofia della praxis non tende a mantenere i ‘semplici’
nella loro filosofia primitiva del senso comune, ma invece a condurli a una
concezione superiore della vita. Se afferma l’esigenza del contatto tra intellettuali
e semplici non è per limitare l’attività scientifica e per mantenere una unità al
basso livello delle masse, ma appunto per costruire un blocco intellettuale-morale
che renda politicamente possibile un progresso intellettuale di massa e non solo di
scarsi gruppi di intellettuali”46..
Da qui il ruolo dell’organizzazione della cultura, il ruolo della cultura, della
scienza, della scuola. Da qui il ruolo dei partiti. Tutti argomenti che Gramsci
affronta con profondità di analisi e di giudizio e che sollecitano la riflessione sul
presente. Sugli intellettuali: come si formano, si selezionano, come operano oggi,
chi sono, chi forma l’opinione pubblica e come; sulla cultura: che cosa essa
44
Quaderno 11 (XVIII), 1932-33, vol. II, 1386, paragrafo 12
Ibidem, p. 1387
46
Ibidem, pp. 1384-1385
45
32
rappresenta, che cosa è, come si esprime; sulla scuola: quale sia il suo stato oggi e
la sua incidenza formativa; sui partiti: quale ruolo, quale natura, quale democrazia
rappresentano ed esprimono, con quali regole e forme organizzative? Tutte queste
domande sono pressanti? Ad esse occorre rispondere. Pena la deriva verso
informi e sempre più imbarbarite manifestazioni di senso comune; pena il
crepuscolo delle idee, della dignità intellettuale e umana; pena la selvaggia
dissoluzione di qualunque forma organizzata di volontà collettiva e,
conseguentemente la rovinosa caduta nel nulla di qualunque espressione di quella
metafora così pregnante di significati e di valori del moderno principe, che, non a
torto, può ancora pretendere, certo in forme nuove, di esistere e operare.
Altrimenti nient'altro. Se non un secco, forse mortale, deficit di democrazia. Per
lunga e oscura durata. Ecco allora che riprendere il discorso gramsciano sul
consenso, sull’egemonia, sulla società ‘superiore’ da costruire è compito di lunga
lena, ma impellente e imprescindibile.
Vale richiamare pertanto le idee di Gramsci sulla scuola unitaria di base; sul
cittadino governante, sulle scuole specializzate, interfacce dello stesso problema,
specchio e misura - secondo Gramsci - della civiltà, della cultura e della
democrazia di un Paese, di uno Stato47.
E' pertinente più che mai richiamare il concetto di egemonia come consenso,
come democrazia, come direzione intellettuale e morale48. Scrive Gramsci: “Tra i
tanti significati di democrazia quello più realistico e concreto mi pare si possa
trarre in connessione col concetto di egemonia. Nel sistema egemonico esiste
democrazia tra il gruppo dirigente e i gruppi diretti, nella misura in cui (lo
sviluppo dell’economia e quindi) la legislazione (che esprime tale sviluppo)
favorisce il passaggio (molecolare) dai gruppi diretti al gruppo dirigente.”49 Ma a
quale Stato occorre pensare? Gramsci afferma, a proposito di Machiavelli e di
diritto penale: “..uno Stato ‘educatore’, in quanto appunto tende a creare un
nuovo tipo o livello di civiltà.”50
L 'attenzione ai temi richiamati può bastare per chiudere questo discorso e per
guardare al presente, rifuggendo dalle banali attualizzazioni del pensiero di
47
Quaderno 12 (XXIX), 1932, Voi. III, p.1517 - § I
Quaderno I (XVI), 1929-1930, vol. I, p.41, § 44 e Quaderno 19 (X), 1934-1935, vol. III, p. 20102011.
49
Quaderno 8 (XXXIII), 1931-1932, vol. II, p. 1056, § 191, 50.
50
Quaderno 8, (XXVIII), 1931-1932. vol. II, p. 978. § 62.
48
33
Gramsci, evitando schematiche sovrapposizioni, infondate equazioni. Tutto ciò
detto, il discorso di Gramsci resta vitale e vale “oltre il suo tempo”, appunto come
il pensiero di un classico, di un classico che non ci parla però nella condizione di
‘otium’ disinteressato, ma ci richiama a non essere indifferenti, ci sollecita a
scrutare con rigore il nostro presente, che tanto è mutato rispetto al suo, un
presente gravido di problemi, incerto, persino oscuro, ma anche ricco di tanta
fiducia e speranza. Occorrono buone lenti per leggerlo, interpretarlo e governarlo.
Le lenti di Gramsci ci possono aiutare, vale per tutti, per l’Italia, per il mondo. Il
pensiero di Gramsci può offrire oggi riferimenti fondamentali per governare il
presente, per costruire il futuro. Gramsci ci invita a guardare oltre la siepe dei
piccoli orizzonti, sollecita un nuovo pensiero, una nuova prospettiva di battaglia
politica e ideale, non è retorica. Basti pensare all'attuale lettura di Gramsci nel
mondo. Gramsci è diventato un punto di riferimento universale. Non solo per il
movimento operaio quale è stato storicamente, per la sinistra, ma per tutti.
Gramsci può essere, a ragione, definito forse come il più grande pensatore della
democrazia nell’età contemporanea.
34
Gramsci, la democrazia e l’attualità politica.
Giancarlo Schirru
L’occasione di questo convegno e la sua ispirazione in generale è stata come la
rottura di un tabù almeno per quanto mi riguarda. Mi ripropongo di affrontare
innanzitutto il tema del rapporto tra Gramsci e la democrazia; quindi la questione
dell’attualità politica oggi, del pensiero di Gramsci, ed infine di fare riferimento
al processo di costruzione del Partito Democratico.
Dico subito che tutte e tre queste questioni, almeno personalmente, hanno
rappresentato finora, visti i miei studi su Gramsci relativi a questioni
assolutamente particolari o filologiche o di ricostruzione, altrettanti tabù molto
forti che ho sentito in tutto il mio lavoro, sui quali non mi ero mai esercitato
prima. Quindi per questo necessito, almeno personalmente, ma credo possa essere
utile anche nella nostra riflessione, fare due premesse generali che mi sembrano
due ostacoli molto forti e a cui dobbiamo rispondere, se vogliamo accogliere le
tre sollecitazioni di cui sopra.
Primo problema: l’intero panorama, tattico e strategico, dentro cui Gramsci
immagina la sua politica, è l’ottobre sovietico, non esiste altra prospettiva per lui.
Questo vuol dire che, come tutti sappiamo, Gramsci soprattutto nel periodo del
carcere, non si è limitato soltanto a muovere delle critiche a questo o a quella
decisione particolare del gruppo dirigente dell’Unione Sovietica, ma ha mosso in
modo crescente, critiche radicali, anche alcune di sistema, rispetto al processo di
costruzione del socialismo in Urss. Però quello ha rappresentato certamente,
l’universo all’interno del quale Gramsci ha pensato alla sua azione politica. Ne
abbiamo una prova sufficientemente forte, quando nella parte finale della sua
vita, Gramsci sperava di riuscire a ottenere la liberazione dal carcere, e
immaginava, possiamo essere abbastanza certi credo, malgrado ci siano come
sappiamo dalla documentazione, prospettive diverse, di recarsi a Mosca, dopo la
liberazione. A Mosca con i quaderni, per fare lotta politica. Ora, questo intero
panorama non c’è più; non c’è più, non esiste più, dopo il ’91 l’esperienza
sovietica non esiste nella storia, e quindi potremmo dire che senso ha parlare di
autorità di un pensatore politico che si è pensato dentro una cosa che non c’è più?
Ora a questo tipo di problema potremmo dare una risposta con un argomento che
vale in analogia per altri pensatori: anche Machiavelli pensava la sua azione in
una dimensione storica che non esiste più, è un pensatore politico ma anche un
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attore politico, che pensava alla sua azione politica, dentro un contesto ben
definito che è quello della Repubblica fiorentina, prima, e delle prospettive della
Signoria medicea dopo. Noi comunque possiamo leggere Machiavelli come un
classico della politica importantissimo, malgrado, evidentemente i suoi progetti
politici incardinati sulla Repubblica di Firenze e sul destino della Famiglia
Medici, non abbiano più nessuna attualità storica. Potremmo fare lo stesso
discorso per altri classici del pensiero politico. Montesquieu, è un autore
incredibilmente interessante, attuale, importante, malgrado il suo progetto
politico, che forma tutti i suoi scritti, cioè quello della riforma costituzionale della
monarchia francese, non abbia più senso, visto che quella monarchia non esiste
più dal 1848.
Ora però è lo stesso Gramsci a metterci un po’ sull’avviso del fatto che una simile
operazione necessita sempre di alcune accortezze. Dice a un certo punto, proprio
a proposito di Machiavelli: “si è formata l’abitudine di considerare troppo il
Machiavelli come il politico in generale, come lo scienziato della politica attuale
in tutti i tempi”. Bisogna considerare maggiormente il Machiavelli, come
espressione necessaria del suo tempo e come strettamente legato alle condizioni e
alle esigenze del suo tempo, dalle lotte interne della Repubblica fiorentina e dalla
particolare struttura dello Stato, che non sapeva liberarsi dai residui comunali
municipali, cioè da una forma divenuta inceppante di feudalesimo; e ancora, dalle
lotte tra gli stati italiani per un equilibrio nell’ambito italiano, che era ostacolato
dall’esistenza del papato e dagli altri residui feudali, municipalistici della forma
statale cittadina e non territoriale. E ancora: alla lotta degli stati italiani più o
meno solidali per un equilibrio europeo, ossia dalle contraddizioni tra la necessità
di un equilibrio interno italiano e l’esigenza degli stati europei in lotta per
l’egemonia. Cioè, Gramsci dice: se noi vogliamo utilizzare il pensiero di
Machiavelli, dobbiamo per così dire, decifrarlo nelle sue necessità dentro il
contesto in cui è nato. Per questo, paradossalmente, se noi vogliamo decifrare il
pensiero di Gramsci, ci troviamo di fronte a un’operazione molto complessa cioè
quella di doverlo leggere necessariamente dentro il suo contesto e dentro i
riferimenti stretti, che sono molto precisi dei suoi scritti, tenendo però
contemporaneamente conto del fatto che quel contesto non ha più attualità.
Bisogna fare una operazione, direbbe Gramsci stesso, di filologia vivente del suo
pensiero politico che non è per niente semplice. Eppure a me sembra che è
l’unico modo con cui noi possiamo, fino in fondo, cogliere la ricchezza di questo
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lascito intellettuale. Faccio un solo esempio in proposito. È stata ricordata la
grande diffusione del pensiero di Gramsci al di fuori dell’Italia. Ovviamente,
questo vuol dire circolazione di scritti attraverso traduzioni che spesso sono
traduzioni di traduzioni, in contesti molto diversi dal nostro. Chiunque ha
poggiato gli occhi, anche su una sola pagina dei quaderni del carcere, in cui si
parla di padre Bresciani di Ciccotti, di Marinetti, di Bottai...: può chiedersi cosa
chi non sia un italiano può togliere fuori da quelle pagine? Ebbene invece le cose
non sono così perché uno degli esperimenti che trovo più riusciti di lettura di
Gramsci, malgrado anche quello abbia poi dei suoi limiti, che il mio amico
Marcus Green ha messo più volte in luce in alcuni suoi bei saggi, uno degli
esperimenti più interessanti è quello indiano: perché gli indiani, perché la scuola
di Calcutta ha avuto questa capacità di leggere le antologie inglesi di Gramsci con
grande freschezza, cogliendo il punto, con grande capacità. Ma praticamente in
India la tradizione del marxismo era molto forte quando è arrivato il testo di
Gramsci. Quindi gli appunti di Gramsci sulla questione contadina, non erano letti
così, letteralmente, ma venivano messi dentro una serie di scritti, che parte
ovviamente dal 18 Brumaio di Marx, gli scritti sulla storia francese del ’48 e
successivi di Marx stesso, poi gli scritti sulla questione contadina di Kautzky,
quelli sulla questione agraria di Lenin, le riflessioni della Luxemburg; il dibattito
interno al gruppo dirigente bolscevico dal ’23 in avanti, tra Zinoviev, Bucharin,
Stalin, sulla questione contadina, ebbene, facendo riferimento a questi scritti si
coglieva l’originalità della posizione di Gramsci. Ed è attraverso questa
operazione che gli intellettuali indiani, hanno scoperto il grande apporto, che nei
quaderni del carcere, si poteva dare del rapporto tra città e campagna.
Vengo a un secondo problema, sempre di tipo generale. Noi non possiamo
dimenticare, ricordava prima Eugenio Orrù, che alla fine degli anni ’70 il
concetto gramsciano di egemonia, fu sottoposto ad una dura requisitoria da parte
della cultura italiana. Si distinsero in particolare due posizioni, tra l’altro da parte
di due che forse sono alcuni dei maggiori lettori di Gramsci, sicuramente tra i più
acuti lettori di Gramsci, cioè il filosofo cattolico Del Noce e il filosofo socialista
Norberto Bobbio. Alla fine degli anni ’70, la stagione del compromesso storico
dell’eurocomunismo, il pensiero di Gramsci viene individuato come “perno
teorico” dell’incontro tra comunisti e cattolici, e della distinzione tra la teoria
politica del partito comunista italiano, e quella del movimento comunista
internazionale, imperniato sull’esperienza sovietica. Pertanto due intellettuali
37
impegnati contro l’esperienza del compromesso storico e contro l’euro
comunismo, Del Noce da una posizione cattolica conservatrice, e Bobbio da una
posizione di sinistra liberale contraria all’incontro con i cattolici, individuano in
Gramsci, il banco di prova delle culture politiche italiane in quella fase.
Ovviamente parlando di Del Noce e Bobbio non parliamo degli epigoni, come
giustamente osservava Orrù. Ci furono grandi rozzezze da parte di intellettuali,
che conoscevano Gramsci molto meno bene rispetto a Del Noce e a Bobbio. Del
Noce considerava, detto in sostanza, il nucleo della rivoluzione intellettuale e
morale, come un nucleo nichilistico, fondamentalmente, cioè la distruzione di
qualsiasi valore trascendente, che portava, fondamentalmente al primato assoluto
dell’azione e quindi a una concezione totalitaria della politica. Lo stesso Bobbio,
che pure aveva scritto su Gramsci già da tempo, non mancò di osservare un
residuo totalitario all’interno del concetto di egemonia. Diceva cioè che, il
problema non era semplicemente quello di una visione più annacquata, insomma,
e soffice della dittatura del proletariato, ma che nel concetto di egemonia è insita
un’idea del controllo del senso comune e degli orientamenti di massa da parte
degli organismi statali, che non è completamente compatibile, con la teoria
classica e moderna della democrazia.
Ora, a me sembra che la cultura comunista, sottovalutò radicalmente la portata di
queste critiche, anzi, per lungo tempo, la forza di queste due critiche mosse a
Gramsci, ha lavorato profondamente all’interno della comunità intellettuale
italiana e ha contribuito, per quanto il pensiero agisce sulla realtà, alla forte crisi
del PC degli anni ’80. Bisogna aspettare la seconda metà degli anni ’80, perché
all’interno della cultura del PC, prendano corpo delle risposte più adeguate,
rispetto a un certo atteggiamento sprezzante che si era verificato. Risposte
adeguate, che non poterono che ripartire da un ritorno molto forte ai testi, una
ripresa degli studi su Gramsci, dal punto di vista principalmente filologico e dalla
costruzione di rapporti tra intellettuali italiani e intellettuali stranieri, cioè la
necessità di leggere Gramsci al di fuori del contesto strettamente italiano, dentro
cui veniva discusso. Io credo che noi siamo ancora in questa fase, cioè in cui la
risposta a quanto scrissero a suo tempo Del Noce e Bobbio, certo c’è il Convegno
di Cagliari del ’97, che è stato un momento importantissimo da questo punto di
vista e poi man mano che verranno pubblicati gli atti dei convegni dello stesso
anno, vedremo una nuova capacità di studiare Gramsci, soprattutto in Italia. Io
sono certo, che Del Noce, malgrado sia acutissimo nel leggere Gramsci, non
38
colga il punto e che alla fine compia una forzatura, rispetto al testo di Gramsci. Il
nocciolo della teoria di Gramsci, malgrado lui chiami la sua filosofia una filosofia
della prassi, non è nel primato dell’azione, al contrario e di questo Gramsci tra
l’altro sempre di più nei quaderni di quanto sia pericoloso il primato
dell’intuizionismo del fare per il fare, dell’agire rispetto al pensare, della
riduzione della filosofia politica, della riduzione della filosofia a ideologia è un
tema che prende sempre più corpo all’interno dei Quaderni del carcere. Però
certo, la critica che Del Noce muoveva, è perfettamente adeguata invece a una
certa cultura della sinistra italiana, particolarmente viva tra l’altro negli anni ’70.
Forse voglio dire, non colpisce Gramsci quella freccia, ma colpiva un pezzo di
cultura di sinistra, con grande precisione.
E quindi, ha pesato ad esempio quando la scorsa settimana il Ministro Gelmini
alla settima commissione della Camera, in audizione sulla scuola, ha fatto una
lunga citazione, abbiamo saputo tutto dai giornali, dai Quaderni del carcere,
provocando quindi un dibattito, l’ennesimo, intorno alla figura di Gramsci, e non
è un caso che gli argomenti del dibattito rispecchiano esattamente quelli di
Bobbio e quelli di Del Noce, a dimostrazione che sono ancora comunque vive le
loro posizioni politiche, immediatamente ritirate fuori. Il quotidiano Il Giornale,
ha dedicato un paginone a Gramsci, con un articolo, devo dire, piuttosto rozzo,
insomma, e anche un po’ squinternato di Baget Bozzo, in cui comunque, si
riprendeva la tesi di Del Noce e dall’altra parte l’onorevole Cicchitto, del Popolo
delle Libertà, ritirava fuori, sulla stampa, un articolo, dicendo insomma: bene
Gramsci ma usiamo una egemonia temperata, ritirando fuori fondamentalmente la
vecchia tesi di Bobbio.
Fatti salvi questi due problemi possiamo ragionare invece dell’attualità politica di
Gramsci. Un’attualità, che secondo me, non è tanto nelle singole risposte che lui
dà a singoli problemi, forse una abitudine del vecchio gramscismo, che mi sembra
particolarmente data è quello di considerare i Quaderni del carcere come una
sorta di enciclopedia di summa, di tutte le soluzioni tattico strategiche, da dare a
qualsiasi situazione. Come un testo dentro un cui c’è la risposta a ogni problema.
Preferisco considerare i quaderni come un testo fortemente problematico, nel
quale hanno la loro maggiore ricchezza i problemi che si sollevano, e le domande
che si formulano, a cui Gramsci a volte dà risposte altre volte non risponde
oppure offre risposte diverse all’interno della sua riflessione. Ma le domande
gramsciane, credo che siano ancora molto attuali. Parto da un problema. Metto
39
proprio i piedi nel piatto, cioè costruzione del partito democratico e scenari della
democrazia italiana oggi. C’è a un certo punto una distinzione all’interno dei
quaderni tra problemi di grande politica e problemi di piccola politica. La grande
politica, dice Gramsci, comprende le questioni di determinate strutture organiche,
economico-sociali. La piccola politica le questioni parziali e quotidiane che si
pongono nell’interno di una struttura già stabilita per le lotte di preminenza, tra le
diverse frazioni di una stessa classe politica. È pertanto grande politica, il tentare
di escludere la grande politica, dall’ambito interno della vita statale e di ridurre
tutto a piccola politica. Giolitti abbassando il livello delle lotte interne, faceva
della grande politica, ma i suoi succubi erano oggetto di grande politica, ma
facevano essi della piccola politica. È invece da dilettanti, porre le questioni in
modo tale che ogni elemento di piccola politica, debba necessariamente diventare
questione di grande politica, di radicale riorganizzazione dello Stato. Gli stessi
termini si ripresentano nella politica internazionale. 1° la grande politica nelle
questioni che riguardano la struttura relativa dei singoli stati, nei confronti
reciproci; 2° la piccola politica, nelle questioni diplomatiche, che nascono
nell’interno di un equilibrio già costituito, che non tentano di superare l’equilibrio
stesso per creare i nuovi rapporti. Il Machiavelli esamina specialmente le
questioni di grande politica, creazione di nuovi stati, conservazione e difesa di
strutture organiche nel complesso, questione di dittatura e di egemonia su vasta
scala, cioè su tutta l’area statale. Ora, noi sappiamo benissimo che la figura di
Machiavelli in Gramsci è messa dentro una lettura a più livelli, Machiavelli e
Marx e anche il Machiavelli del proletariato, secondo una nota definizione di
Croce, quando Gramsci parla di Machiavelli, dal punto di vista normativo,
intende anche indicare qual è il suo oggetto di interesse. Non si occupa cioè di
gruppi dirigenti, ma lui, sé stesso, Gramsci, all’interno del carcere, si sta
occupando di questioni di grande politica, nel senso che qui è indicato. Ora, dal
momento che la creazione di un partito, che vuole essere un partito maggioritario,
afferma Gramsci, è problema assolutamente simile a quello della fondazione di
uno Stato, noi dovremmo porci i problemi di costruzione del partito democratico
in questa chiave, cioè quali sono le sue necessità profonde, di fronte allo scenario
internazionale. Qual è l’idea di nazione che quel partito propone, in quanto
fondativo di sé stesso. Bene, mi sembra che le questioni di grande politica, da
questo punto di vista, e lo dico come dire, aderendo perfettamente a questo
appunto, siano assenti. Dobbiamo saper discutere di queste cose,
40
indipendentemente dalla discussione sui gruppi dirigenti. Le questioni di grande
politica, sono state ancora ampiamente eluse nel processo di costruzione del
Partito Democratico, e quel partito non vivrà finché non verranno affrontate.
Sono state eluse perché, soprattutto nell’ultimo anno, il processo di costruzione
del Partito Democratico, da parte in particolar modo, delle culture politiche
provenienti dai DS, cioè dall’esperienza del post-comunismo italiano, bene,
quelle culture politiche hanno vissuto il processo di costruzione del PD, potrei
dire, come definitivo abbandono della cultura gramsciana all’interno del loro
orizzonte politico e culturale. Cioè, sono emerse tutte le altre culture
caratterizzanti la sinistra italiana, dall’operaismo di sinistra, fino al liberalismo
puro o un liberalismo vagamente socialista o il socialismo liberale, la cultura del
partito d’azione ecc., ma i problemi strettamente gramsciani, sono stati
completamente eclissati. Questo fatto ha una ragione, secondo me, di tipo
opportunistico. Si è creduto cioè, da parte del personale politico proveniente dai
DS, che assumere la guida del Partito Democratico, significasse non dare corpo a
un pluralismo interno organizzato, cioè strutturare componenti culturali diverse,
ciascuna con delle sue necessità profonde, rispetto al paese. Ma al contrario,
occupare una posizione generale e totale, rispetto cui sintetizzare tutte le
componenti del Partito Democratico. Quindi si è cercata una cultura della
democrazia senza aggettivi, una cultura che potesse comprendere al suo interno
tutte le altre meccanicamente. Per questo si è ripiegati, poi per lo più, su una
concezione della democrazia, che io trovo particolarmente arretrata; la riduzione
della democrazia, un insieme di norme positive, più o meno incardinate su un
patto costituzionale e quindi incarnatesi completamente all’interno delle
procedure formali di funzionamento dello Stato.
Quest’idea, che in Italia ha una sua tradizione, ovviamente, in parte si rifà anche
al pensiero di Bobbio, credo che abbia già compiuto la sua parabola negli
ambienti in cui si è formata: è fiorita, ed è finita in un cul de sac. I suoi maggiori
propugnatori infatti, dallo spiegarci che la democrazia non può avere alcun
contenuto, che è pura forma, un puro insieme di regole e queste regole devono
essere imposte con forza statale, finiscono poi per dirci che questa democrazia di
regole, alla fine è incredibilmente indifesa, debole, disarmata, attaccata da tutte le
parti, da fondamentalisti esterni, le nuove religioni, appunto, il fondamentalismo,
il terrorismo e così via, e da corrosione interna, da manipolatori, dalla televisione,
da aspiranti dittatori che proliferano all’interno della mancata osservanza stretta
41
di quelle regole e così via. Cioè, la democrazia, così intesa, non ha forza, non si
difende, è come Kelsen di fronte al nazismo, viene semplicemente spazzata via.
Ora, qual’è Montesquieu stesso, uno dei teorici della divisione dei poteri, delle
regole, del costituzionalismo, poneva però un problema fondamentale che è
quello che noi stiamo eludendo, lui diceva che: una società, una comunità non
può vivere di sole regole, anzi muore di sole regole, perché ciò che gli dà vita è la
virtù dei suoi cittadini, la capacità dei suoi cittadini di battersi per quella
comunità, di avere senso della comunità, di partecipare alla vita pubblica.
Ebbene, il problema che noi abbiamo davanti, è come si sostiene, si dà forza a
quella virtù, come la si diffonde, come si rende i cittadini i difensori della loro
democrazia. Io credo che da questo punto di vista il pensiero di Gramsci, ci può
ancora essere molto utile. Non vorrei fare tanti esempi, ma partire proprio dal
grado zero, veramente dal primo passo che Gramsci fa, affermando la sua
autonomia, un’analisi politica autonoma rispetto all’Italia, cioè lo scritto alla
questione meridionale del ’26. Ora, rispetto a una lunga tradizione della cultura
italiana, quella che è stata chiamata anche “l’ideologia italiana”, che vedeva nel
processo di risorgimento, fondamentalmente, il riallinearsi dell’Italia nell’alveo
delle grandi nazioni europee, e quindi il divenire l’Italia, per la prima volta e
finalmente, una nazione come le altre, in seno all’Europa. E pertanto, l’idea che
per quanto l’Italia non era esattamente come la Francia e l’Inghilterra, per quello
che mancava bisognava imporsi e stabilire volontaristicamente un modo di essere,
all’interno della nostra nazione, in linea con le grandi nazioni.
Ebbene, Gramsci compie un’analisi completamente diversa del Risorgimento,
come sappiamo, lo rubrica fin da subito a episodio di area marginale del
capitalismo europeo, e afferma che se vogliamo comprendere l’Italia, non
dobbiamo accettare in modo astratto il carattere normativo dello Stato moderno e
cercare di applicarlo nel nostro contesto, senza alcun adattamento, ma capire
invece, il modo con cui l’Italia ha partecipato al processo del suo essere in azione,
conservando alcuni differenziali al suo interno, che non sono superati e qualsiasi
politica che non ne tiene conto, è una politica astratta e non realistica. Gramsci
identificava tre differenziali importanti, tre questioni che caratterizzano la nazione
italiana: la questione meridionale, la questione cattolica e la questione degli
intellettuali. Ora, il processo di costruzione del Partito Democratico, ha
decisamente negato l’esistenza di queste tre questioni nell’ultimo anno. Se volete
potrei lungamente intrattenervi su questo problema. Si è detto fondamentalmente:
42
a) che l’Italia ormai, dopo il lungo processo di industrializzazione del dopoguerra
è ormai diventata una nazione come le altre e quindi non ha al suo interno una
fondamentale articolazione, si certo, ha dei territori differenziati socialmente ed
economicamente, ma il problema politico era l’ingresso all’interno delle grandi
aree industriali del nord, e la conquista dei centri urbani settentrionali. Questa è
stata la nostra strategia. Il Partito Democratico ha perso al sud, ha avuto uno
scacco fondamentale all’interno del Mezzogiorno, che costituisce il differenziale
vero, col Centro-destra. Ha ridotto la questione meridionale a questione
criminale, dicendo che è un problema di camorra e di mafia, che sono gli unici
due temi su cui ci si occupa del Mezzogiorno. Malgrado, devo dire, ci siano stati
sforzi enormi, ad esempio uno splendido documento di Nicola Rossi, intorno al
problema del Mezzogiorno, che tra l’altro, all’apertura della campagna elettorale,
figurava tra i punti centrali all’interno del programma i dodici punti iniziali, e
rispetto al quale, sapevamo benissimo che l’unica posta in gioco, all’interno di
queste elezioni erano alcune regioni marginali tutte al Mezzogiorno, è stata
sottovalutata clamorosamente, direi cancellata dall’orizzonte visuale, con
prospettive politiche tragiche.
b) Secondo problema questione cattolica: anche qui, all’interno del Partito
Democratico c’è stata, incredibilmente una sottovalutazione del problema,
cercando di risolvere il problema con alcune regolette di coesistenza tra laici e
cattolici, ma senza tematizzare nel profondo la difficoltà e la ricerca culturale che
impone un confronto tra cultura laica e cultura cattolica, che è una cosa
complicata, che può ancora far saltare il cantiere di questo partito, è uno dei rischi
più grandi che vive, dentro cui il pensiero di Gramsci ci può essere di grandissima
utilità. Il Partito Democratico ha avuto una emorragia di voti profondissima,
all’interno del settore cattolico, ha ridotto i suoi cattolici a indipendenti di sinistra,
incredibile, se si confronta, qualsiasi analisi dei flussi elettorali dimostra che il
voto cattolico è uno dei settori che ha penalizzato di più il Partito Democratico ed
è stato solo ricompensato dallo svuotamento della Sinistra Arcobaleno.
c) Terzo problema, quello degli intellettuali: qui, devo dire si potrebbe parlare
lungamente, si può anche apprezzare lo sforzo che è stato fatto della ricerca di
una cultura nazional-popolare. Io non so se Vincenzo Cerami, tanto per arrivare a
una questione di piccola politica, sia uno scrittore che può svolgere il ruolo di
responsabile cultura di un grande partito moderno, insomma, cioè di
organizzazione degli intellettuali, delle competenze, della loro messa in rete,
43
dell’affrontare i tanti problemi che qui stiamo descrivendo. Però, la vulgata del
paese del ceto medio riflessivo, in cui cioè ormai l’analfabetismo è scomparso per
effetto della scolarizzazione in cui l’opinione pubblica è un’opinione consapevole
fondamentalmente e che quindi si orienta con strumenti propri e esprime i propri
consensi sulla base delle proprie opinioni, credo che sia una visione irenica
dell’Italia, che vale per le grandi città e soprattutto per alcune grandi città del
centro nord e nemmeno come ha dimostrato il caso romano, queste città nella loro
interezza. L’Italia è ancora un paese in cui si vendono meno giornali d’Europa, in
cui si leggono meno giornali d’Europa, in cui il rapporto tra le masse e le
competenze, è ancora uno dei grandi problemi. Noi abbiamo quindi un problema
paradossalmente, sia sul fronte dell’alta cultura, sia sul fronte del senso comune e
questo deve diventare un tema di ricerca politica, di attività politica cioè come
selezionare le nostre culture politiche, come riuscire a cementare le grandi
opzioni di consenso e di opinione pubblica, intorno a opzioni riconoscibili. Non
mi soffermo poi troppo sul problema del partito, sulla retorica del partito liquido
che abbiamo ampiamente bevuto negli ultimi mesi e che si è scontrata poi con la
dura realtà. Me la cavo con una sola citazione: la concezione del Croce, della
politica passione, esclude i partiti perché non si può pensare a una passione
organizzata e permanente. La passione permanente è una condizione di orgasmo e
di spasimo, che determina inettitudine all’operare, esclude i partiti ed esclude
ogni piano d’azione concertato preventivamente. Tuttavia i partiti esistono e piani
d’azione vengono elaborati, applicati e spesso realizzati in misura notevolissima.
C’era dunque nella concezione del Croce un vizio. Né vale dire che se i partiti
esistono, ciò non ha grande importanza teorica, che al momento dell’azione, il
partito che opera non è la stessa cosa del partito che esisteva prima. In parte ciò
può essere vero, tuttavia tra i due partiti, le coincidenze sono tante, che in realtà si
può dire trattarsi dello stesso organismo. Ma la concezione per essere valida,
dovrebbe potersi applicare anche alla guerra e quindi spiegare il fatto degli
eserciti permanenti, delle accademie militari, dei corpi di ufficiali. Anche la
guerra in atto è passione, la più intensa e febbrile, è un momento della vita
politica, è la continuazione, in altre forme di una determinata politica. Bisogna
dunque spiegare come la passione possa diventare dovere morale e non dovere di
morale politica, ma di etica. Bene, credo che Gramsci possa ancora darci una
mano.
44
Democrazia e attualità del pensiero di Gramsci
Claudia Mancina
Io vorrei cominciare ricostruendo, molto rapidamente naturalmente, il modo in
cui Gramsci usa il concetto di democrazia per poi arrivare alle questioni di
attualità del pensiero di Gramsci.
Credo che se parliamo appunto di Gramsci e democrazia, ci dobbiamo anzitutto
porre una domanda, una domanda a cui non possiamo sfuggire: in che senso un
teorico marxista, uno dei capi della rivoluzione mondiale, rivoluzione europea
forse dovremmo dire meglio, un leninista, perché Gramsci era un leninista, in che
senso può essere appunto un pensatore della democrazia?
Per rispondere a questo interrogativo, vorrei porre due questioni diverse: da un
lato che cosa si intende per democrazia in Gramsci, e dall’altro, che cosa è il
marxismo di Gramsci, quali sono le caratteristiche del marxismo di Gramsci, qual
è quella curvatura particolarissima del marxismo di Gramsci che consente, tra
l’altro, al suo pensiero, di sopravvivere, unico, di tutta la letteratura marxista, a
parte Marx, che è un gigante che non scompare di certo, ma parlando del
marxismo come corrente del ’900, veramente possiamo dire che solo Gramsci
mantiene la vitalità, letto e studiato, ha ancora molte cose da insegnare. Ha una
vitalità anche per chi polemizza con Gramsci che evidentemente altri pensatori
marxisti non hanno, e sono praticamente scomparsi.
La questione di che cosa è la democrazia nel senso in cui ne parla Gramsci e nel
senso in cui ne possiamo parlare noi parlando di Gramsci. Mi pare di poter dire
che la democrazia non è per Gramsci una forma di governo, come di solito invece
è considerata dai politologi, dagli scienziati politici, non è una forma di governo,
ma una modalità di esercizio del potere politico. Prendendo una frase di Kant, che
è però in tutt’altro contesto potremmo dire: il modo fondato sulla costituzione, in
cui lo Stato fa uso dei suoi pieni poteri. Anche perché, non dobbiamo dimenticare
che Gramsci si esprime con freddezza e perfino con disprezzo nei confronti della
democrazia che chiama “astratta” o “parlamentarismo” e che sarebbe appunto la
democrazia come forma di governo, cioè quella che intendiamo oggi
normalmente, la democrazia parlamentare. Quindi, Gramsci si differenzia, sia
dall’uso classico della parola “democrazia”, che si riferisce a chi detiene gli uffici
pubblici, cioè uno, pochi o molti o tutti i cittadini (quindi monarchia, oligarchia,
democrazia), e si differenzia anche dall’uso contemporaneo nel quale appunto si
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intende la democrazia come una procedura di decisione o come un insieme di
procedure di decisione, principio di maggioranza ecc., oppure come un catalogo
di diritti di cittadinanza. Tutto questo non c’è in Gramsci. Tanto meno si tratta,
come nell’uso marxista del fondamento di classe del potere, come per esempio
nell’espressione “democrazia popolare”, molti qui ricorderanno che gli stati
dominati dai partiti comunisti, venivano, si autodefinivano “democrazie
popolari”, perché si intendeva col termine democrazia, il riferimento al
fondamento di classe del potere.
Anche questo non mi pare sia l’uso gramsciano. Gramsci definisce in un luogo la
democrazia, come “un regime politico che tende a far coincidere governanti e
governati” e specifica immediatamente, “nel senso del governo col consenso dei
governati” e per questo dico che non si differisce semplicemente al fondamento di
classe del potere. Governo col consenso dei governati. Quindi il punto che viene
qui posto è quello della legittimità del potere, un punto che, nella tradizione
contrattualista, da Locke a Rousseau a Rowls, viene risolto con il ricorso alla
metafora del contratto. Naturalmente questa soluzione non è utilizzata da Gramsci
perché Gramsci certamente non ha nessuna simpatia per il contrattualismo. La
soluzione che Gramsci cerca è appunto nel consenso, nell’idea di consenso. Il
potere è esercitato in modo legittimo quando è esercitato col consenso dei
governati e questa appunto è la democrazia.
Ma che significa “consenso”, se ne è già parlato; il termine di consenso è un
termine complesso, ma Gramsci non affronta tutta la discussione sul consenso che
potrebbe non essere autentico, potrebbe essere indotto, potrebbe essere forzato
ecc. Una discussione che per la verità è stata fatta soprattutto dopo i regimi
totalitari, questa discussione sul consenso al fascismo per esempio. Gramsci non
parla di consenso in questo senso, ma si riferisce appunto al rapporto strutturale di
legittimità del potere, di rapporto del potere con i governati e quindi, siamo nella
questione dell’egemonia e infatti, sempre in un altra nota, Gramsci associa
direttamente la democrazia con l’egemonia e dice: “tra i tanti significati di
democrazia, quello più realistico e concreto, mi pare si possa trarre in
connessione col concetto di egemonia. Nel sistema egemonico esiste democrazia
tra il gruppo dirigente e i gruppi diretti. Nella misura in cui lo sviluppo
dell’economia e quindi la legislazione che esprime tale sviluppo, favorisce il
passaggio molecolare (che si citava prima), dai gruppi diretti al gruppo dirigente”.
Quindi la democrazia si collega alla egemonia, dove l’egemonia è intesa come
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una teoria generale dello Stato e non semplicemente come una modalità strategica
di azione dei gruppi dominanti. E tra l’altro, ma su questo poi vorrei tornare più
avanti, secondo me non è un caso che Bobbio dalla sua acuta lettura di Gramsci,
sia passato dalla polemica contro Gramsci, perché Bobbio non capisce
l’egemonia, secondo me cioè Bobbio intende la società civile come uno spazio
puramente culturale, e non intende l’egemonia come una teoria dello Stato, ma
come una modalità di conduzione della politica, appunto una strategia delle classi
dominanti. Invece per Gramsci la teoria dell’egemonia è una teoria dello Stato,
cioè una teoria che ci dice che lo Stato non è soltanto gli apparati statali, ma è
qualcosa di più, appunto comprende la società civile. Quindi uno Stato, che per
dirla con Benedetto Fontana, non è soltanto forza e coercizione ma è anche
cultura, è anche way of life, cioè c’è insieme l’aspetto della forza e l’aspetto
appunto del consenso che per Gramsci vuol dire anche educazione, vuol dire
anche sapere, e quindi Stato più società civile. Naturalmente sto dando solo delle
etichette, non mi soffermo certamente sul tema dell’egemonia, non solo per
mancanza di tempo ma anche perché ampiamente conosciuto. Ho citato questa
tematica, semplicemente nella sua connessione, con l’uso del termine
“democrazia”. Vorrei dire però qualcosa di più, sempre sull’uso del termine
“democrazia”, che mi pare che si debba dire che questo termine, quindi questo
concetto di democrazia, è legato, nella riflessione di Gramsci, all’analisi della
storia del Risorgimento e del Partito d’Azione nel Risorgimento, cioè quello che
era il Partito Democratico appunto nel Risorgimento, e quindi è legato all’analisi,
piuttosto impietosa, che è stata ricordata prima, che Gramsci fa dei limiti
dell’azione del partito democratico del Risorgimento. Infatti, attraverso una lunga
analisi, Gramsci arriva a concludere che la ragione per cui il Risorgimento è stata
una rivoluzione passiva, e quindi una rivoluzione in parte mancata, sta nel fatto
che non è stata una rivoluzione democratica, una rivoluzione pienamente
democratica. In che senso? Nel senso appunto della definizione che abbiamo visto
prima, che non è riuscita a realizzare la saldatura piena tra gruppi dirigenti e
gruppi diretti e quindi, da un altro punto di vista (perché appunto è vero che è un
puzzle la ricerca di Gramsci), da un altro punto di vista possiamo dire non è
riuscita a saldare quelle faglie che erano presenti nella situazione italiana e che
illustra nel saggio sulla questione meridionale, ma insomma tanti altri luoghi.
Quindi, in Italia la borghesia italiana, nel fare il Risorgimento, non ha realizzato
la missione della borghesia europea, che invece la borghesia europea in molti
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casi, in particolare in Francia, perché sappiamo che c’è un’analisi comparata tra
Rivoluzione francese e Risorgimento, quella missione che la borghesia europea,
in particolare quella francese, ha invece realizzato, cioè la promozione delle classi
subalterne attraverso l’egemonia borghese. Gramsci addirittura enuclea una
specie di moto delle rivoluzioni borghesi, cioè tutto il genere umano sarà
borghese, la borghesia ha pensato di potere associare, attraverso la forma
democratica, tutto il genere umano a sé stessa. Naturalmente qui poi entra il
limite delle Rivoluzione borghese, però qui stiamo parlando di qualcosa di
diverso, cioè di una rivoluzione, quella italiana del Risorgimento, che non arriva
al limite della rivoluzione borghese, perché non arriva neanche al culmine, non
arriva a realizzare quello che la rivoluzione borghese ha realizzato.
Questa missione passava appunto, secondo Gramsci, attraverso l’alleanza tra città
e campagna, tra piccola borghesia urbana e contadini meridionali. Il fallimento su
questo punto dell’ala democratica del Risorgimento, determina la debolezza della
costruzione della nazione e quindi appunto il durare di queste faglie, di queste
spaccature attraverso il ’900. Questo, tra l’altro, altra cosa interessante, e questo
limite Gramsci lo indica anche come limite del Romanticismo in Italia, quindi di
un movimento che non è immediatamente politico anche se ha sia radici che esiti
politici, un movimento culturale e letterario, un limite talmente grosso quello del
Romanticismo in Italia e che Gramsci addirittura trova giustificata la domanda se
sia effettivamente esistito un Romanticismo italiano. Infatti Romanticismo
significa, sempre Gramsci, uno speciale rapporto o legame tra gli intellettuali e il
popolo, la nazione, cioè è un particolare riflesso della democrazia. Quindi ancora
una volta qui si sottolinea come la democrazia designa questo legame, designa
intanto la formazione, un’autentica e compiuta formazione della nazione, quella
che in Italia appunto non c’è stata, perché designa un legame tra dirigenti e diretti,
quindi anche un legame tra intellettuali e popolo. Il termine “democrazia”, nella
sua accezione positiva e non negativa che pure è presente nei quaderni una
accezione negativa al termine democrazia, ma nella sua accezione positiva, viene
dunque, mi pare di poter dire, dal contesto della rivoluzione borghese, cioè da
quel confronto tra Rivoluzione francese e Risorgimento che è l’ossatura della
storia dell’Unità nazionale in Italia per Gramsci. E lo stesso si potrebbe dire
anche per il concetto di egemonia, che indubbiamente trova la sua origine o
almeno una delle sue fonti principali, sempre nello stesso contesto, questo
apparentamento tra Rivoluzione francese e Risorgimento, l’altra fonte è il
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Machiavelli evidentemente. Tuttavia, mentre il concetto di egemonia si sviluppa
sino a diventare una vera e propria teoria politica, come dicevo prima una teoria
dello Stato in senso forte, non mi pare che si possa dire che c’è una teoria della
democrazia in Gramsci. Però tornerò su questo punto più avanti, ora vorrei
soffermarmi sulla connessione fra democrazia e opinione pubblica, che pure è un
aspetto molto importante e anche molto attuale se vogliamo. L’opinione pubblica,
dice una nota del quaderno 7, è strettamente connessa con l’egemonia politica e
cioè il punto di contatto fra la società civile e la società politica, tra il consenso e
la forza.
L’opinione pubblica, come oggi si intende è nata alla vigilia della caduta degli
stati assoluti, cioè nel periodo di lotta della nuova classe borghese, dell’egemonia
politica e per la conquista del potere, ancora una volta la rivoluzione borghese.
Dunque l’opinione pubblica nasce insieme alla società civile, è una connessione
habermasiana, da un certo punto di vista, quindi molto attuale e coincide con lo
spazio politico democratico. Esattamente in che senso? Non solo nel senso che il
concetto di opinione pubblica comporta evidentemente che ci sia libertà di
pensiero, libertà di stampa e libertà di critica, quindi c’è una connessione diretta
fra democrazia e opinione pubblica, da questo punto di vista. Ma opinione
pubblica per Gramsci è qualcosa di più, designa una realtà organizzata, cioè
l’opinione pubblica è il risultato di correnti organizzate e di conflitto di lotta tra le
correnti organizzate, nella cultura pubblica e nella cultura politica di un paese.
Infatti a un certo punto Gramsci polemizza con il luogo comune antidemocratico,
antidemocratico dal punto di vista conservatore, e dice che nel sistema
rappresentativo prevale il numero, che il sistema rappresentativo è solo un
problema di numeri e che nel sistema rappresentativo democratico, il peso
dell’opinione di ogni elettore è uguale, cioè il peso, questa critica addirittura
faceva perfino John Stuart Mill, cioè è una critica che è sempre stata fatta alla
democrazia da parte evidentemente conservatrice o aristocratica. Gramsci
polemizza con questa critica e dice una cosa che secondo me, tra l’altro molto
interessante, molto fine: i numeri danno una misura e un rapporto e niente più e
che cosa poi si misura? Si misura proprio l’efficacia e la capacità di espansione e
di persuasione delle opinioni di pochi, delle minoranze attive, delle élite, delle
avanguardie ecc. cioè la loro razionalità o storicità o funzionalità concreta. Quindi
nell’opinione pubblica, non si esprime l’eguaglianza anonima del cittadino
astratto; nell’opinione pubblica, si misurano attività delle élite (delle élite qui vuol
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dire dei partiti evidentemente, no? Gramsci riprende nella concezione delle élite
appunto nella chiave dei partiti, delle minoranze attive, come le chiama lui). Ciò
vuol dire che non è vero che il peso delle opinioni dei singoli sia esattamente
uguale, le idee e le opinioni non nascono spontaneamente nel cervello di ogni
singolo, hanno avuto un centro di formazione, di irradiazione, di diffusione, di
persuasione; un gruppo di uomini o anche una singola individualità che li ha
elaborate e presentate nella forma politica di attualità, quindi l’idea è che, dove
voglio arrivare con questo discorso? Al fatto che l’idea che la democrazia è una
democrazia organizzata, non è la democrazia puramente formale, procedurale,
che è quella che Gramsci definisce astratta e che critica, ma è una democrazia
organizzata, cioè una democrazia in cui il ruolo stesso dell’opinione pubblica,
dimostra che ci sono dei centri di irradiazione; lui dice, dei centri di elaborazione
e di irradiazione, che solo noi possiamo dire rapidamente i partiti, anche se
andrebbe ricordato che Gramsci quando parla di partiti, non si riferisce solo ai
partiti politici in senso stretto, ma anche a quelli che lui chiama partiti ideologici,
cioè culture dominanti.
A questo punto, un altro riferimento che va fatto, è quello alla fine analisi
gramsciana della struttura materiale dell’ideologia, che può essere effettivamente
letta come una analisi della formazione dell’opinione pubblica e quindi come un
pezzo significativo di un’analisi della democrazia. La struttura materiale
dell’ideologia, è costituita, lui dice, anzitutto dalla stampa in generale, case
editrici, giornali politici, riviste di ogni genere, periodici vari, fino ai bollettini
parrocchiali ma anche da tutto ciò che influisce o può influire sull’opinione
pubblica direttamente o indirettamente: le biblioteche, le scuole, i circoli, i club di
vario genere, fino all’architettura, alla disposizione delle vie e ai nomi di queste.
Naturalmente Gramsci non poteva pensare alla televisione e al cinema, ma è
evidente. E fatto sì che anche l’analisi di Croce come papa laico, come capo di
partito, rientra in questo ambito, nell’ambito appunto di un’analisi della struttura
dell’ideologia e dell’opinione pubblica. Per non parlare del complesso
ragionamento sul comprendere e sul sentire, e sui loro rapporti della funzione
degli intellettuali, cioè come sempre in Gramsci da ogni punto possiamo
raccogliere tutto il resto, cioè è una rete oltre che un puzzle è anche una rete, cioè
se prendiamo un filo da una parte viene tutto il resto. Non mi fermo su questo.
Voglio sottolineare che appunto non si tratta solo di una analisi delle
sovrastrutture, questa è stata una lettura appunto abbastanza forte negli anni ’70,
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ma credo sbagliata, non si tratta solo di una analisi delle sovrastrutture, ma si
tratta di una vasta e articolata analisi della società civile, intesa appunto come un
aspetto dello Stato, attraverso punti di riferimento, come l’opinione pubblica e la
struttura ideologica, che chiaramente sono propri di una società democratica e
non sono riscontrabili in società non democratiche, questo è il punto. Sono pezzi
di un’analisi della democrazia, perché solo in una democrazia c’è l’opinione
pubblica, c’è la struttura materiale dell’ideologia ecc. Confondere tutto questo col
controllo dello Stato sulla formazione delle opinioni è proprio un equivoco,
insomma, non è questo ciò di cui Gramsci sta parlando. Tutto ciò, questi
complessi e importanti e interessanti anche attuali pezzi di analisi della
democrazia, ci autorizzano a concludere che Gramsci è un teorico della
democrazia. Allora, anche qui un attimo prima di rispondere, vorrei rapidamente
trattare la mia seconda questione, quella che avevo indicato come seconda
questione e cioè il carattere particolare, se non anomalo, del marxismo di
Gramsci. È del tutto evidente, del resto appunto ampiamente sottolineato nella
sconfinata letteratura sul tema, che la teoria dell’egemonia, con il concetto di
società civile e la distinzione dello Stato in società civile e società politica,
determina una lettura del marxismo molto particolare, come risulta tra l’altro
dalla interpretazione assolutamente controintuitiva della prefazione di Marx del
’59. E come risulta naturalmente dalla critica al determinismo di Buckharin e in
genere delle concezioni deterministiche o fatalistiche del marxismo. Mi pare,
sempre molto rapidamente e schematicamente, che si possano indicare due punti
essenziali della particolarità che rendono particolare il marxismo di Gramsci: sul
piano politico, sul piano della teoria politica, quello che è il nucleo
dell’egemonia, cioè il passaggio dal momento economico corporativo al momento
egemonico e quindi l’idea che la classe egemone e la classe dominante, debba
andare oltre i suoi interessi di classe, questo chiaramente non è una lettura, come
dire, ovvia e banale del marxismo. E qui appunto viene spazzato via ogni residuo
di economicismo e si apre un orizzonte nuovo che appunto è l’orizzonte della
comprensione e della complessità delle società democratiche. Sul piano invece
più teoretico, la concezione della filosofia della prassi, anche nel modo in cui
l’articola Gramsci, configura un marxismo piuttosto anomalo, perché Gramsci
intende la filosofia della prassi come assolutamente opposta all’idea scientifica
del marxismo, cioè all’idea che il marxismo sia una dottrina scientifica della
realtà, della storia. Gramsci respinge l’idea di regolarità scientifica e quindi di
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dottrina scientifica, come un’idea fatalistica e deterministica e invece pensa che
l’essenza della teoria politica marxista, della filosofia della prassi sia nella
dimensione soggettiva della politica, quindi nella dimensione della volontà, nella
dimensione del progetto politico della progettazione (quello che poi lui chiama
previsione), dato il suo rapporto con alcune correnti filosofiche dell’epoca, in
particolare il pragmatismo. Quindi un marxismo molto particolare quello di
Gramsci, molto particolare, però non è che Gramsci è uscito dal marxismo, è
rimasto nel marxismo evidentemente, ha compiuto una sintesi molto originale che
qualcuno, ha presentato come una sintesi fra le due facce del marxismo, la faccia
utopistica e la faccia realistica. Ma, forse si può rappresentare anche in modo più
sottile e più complesso di così. Il punto a me sembra che Gramsci non ha tratto
tutte le conseguenze della teoria dell’egemonia, lo direi così, cioè non ha
sviluppato l’egemonia, fino a farne una consapevole versione autonoma del
marxismo e qui la questione è la differenza, a me pare che ci sia una differenza
senz’altro di elaborazione, ma anche proprio di livello teorico che c’è tra la sua
analisi della egemonia in occidente (lui usa questa espressione, occidente e
oriente), tra la sua analisi della politica e quindi dell’egemonia in Occidente e la
sua analisi di ciò che sta avvenendo in Oriente, dove per Oriente intendiamo
(come diceva prima Schirru), l’orizzonte dell’Ottobre sovietico, la rivoluzione
sovietica e la costruzione del primo stato socialista in Unione Sovietica. Ora qui
abbiamo un pugno di note, non moltissime note, però poi abbiamo le lettere, il
conflitto del ’26 con Togliatti, abbiamo alcuni riferimenti in cui Gramsci in
particolare nelle note dei quaderni, Gramsci riflette sulla costruzione dello Stato
del proletariato, del primo esperimento di Stato socialista. E qui usa concetti
come statolatria, fase dittatoriale, riprende quindi il concetto marxiano di dittatura
del proletariato e afferma che questa, evidentemente non può essere, come dire,
dal punto di vista teorico essere contento, fermarsi a questo. Afferma che si tratta
di una fase iniziale, di una fase che necessariamente lo Stato deve attraversare, in
oriente, perché in oriente appunto non c’era una società civile così complessa
come in occidente, come in Europa, e quindi la società civile deve essere costruita
dopo la presa del potere e dovendo essere costruita dopo la presa del potere,
richiede una fase dittatoriale, che derubricato negli altri concetti che abbiamo
visto, sarebbe come dire che è necessaria la dittatura del proletariato per costruire
la democrazia, una cosa un po’ complessa evidentemente. C’è una specie di
logica dei due tempi, secondo me sicuramente, in questa riflessione. La parte più
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interessante di questa riflessione, sta nel quaderno sull’americanismo, che come è
ben noto si riferisce all’Urss rapidamente e coattivamente industrializzata, non
meno che all’America capitalista, ci sono questi due riferimenti paralleli. In quel
quaderno ci sono cose interessantissime, dal punto di vista filosofico, dal punto di
vista politico, ci sono delle analisi della cultura americana estremamente
interessanti. Ma il discorso sull’Urss, anche in questo quaderno, come negli altri,
resta in verità a metà strada. Ora, prima Schirru diceva Gramsci se fosse uscito
dal carcere sarebbe andato a Mosca, non solo perché a Mosca c’era la sua
famiglia e Gramsci nel carcere, come sappiamo, aveva un grandissimo desiderio
di ricongiungersi con la famiglia, sarebbe andato a Mosca anche perché lì c’era il
Movimento Comunista Internazionale, la sede principale del Movimento
Comunista Internazionale, al quale Gramsci intendeva portare il suo contributo.
Credo che sia molto facile dire oggi che se Gramsci fosse veramente andato a
Mosca, nello spazio di un paio d’anni sarebbe finito in un gulag o alla lubjanka,
perché è molto presente in Gramsci, ed è evidente, fin dal ’26 per l’appunto, fin
dal conflitto con Togliatti, ma poi è evidente nelle note soprattutto dei quaderni,
una critica dello stalinismo, o di quello che lui chiama: parlamentarismo nero,
ecc. Questo c’è, ed è politicamente molto importante, io dubito però che abbia lo
stesso spessore teorico appunto, che ha la costruzione invece della teoria
dell’egemonia. Anzi, direi che nel tentativo di comprendere razionalmente quello
che sta avvenendo in Urss, Gramsci riprende appunto categorie marxiste che non
usa nella analisi dell’occidente, diciamo, riprendendo un suo termine. Quindi, c’è
una diversità di livello teorico fra l’analisi dell’Unione Sovietica e l’analisi
dell’egemonia, che porta Gramsci a parlare della possibilità di un
parlamentarismo diverso da quello borghese, di una democrazia diversa da quella
astratta borghese, proprio nei termini, quella stessa nota sul numero che leggevo
prima, dice: si può pensare a una rappresentatività, a una forma di
rappresentatività politica, diversa appunto da quella della democrazia borghese e
quindi suppongo che si debba pensare che stia pensando ai soviet, che è una
forma di rappresentatività diversa. Ora, intendiamoci, è del tutto comprensibile,
sarebbe sciocco rimproverare questo a Gramsci, è del tutto comprensibile che
Gramsci paghi il suo tributo alla critica marxista e leninista della democrazia, che
tra l’altro, negli anni ’20 e ’30, appariva effettivamente avere di fronte a sé un
grande avvenire; mentre la democrazia borghese, negli anni ’20 e ’30 appariva
parecchio in crisi, con i totalitarismi europei, e quindi, che paghi anche il suo
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tributo all’utopia di una via diversa e alternativa alla democrazia; una democrazia
non borghese, o come potremmo forse dire meglio oggi, non liberale. Appunto
questo non ci può sorprendere, semmai ci sorprende il resto, ci sorprende la
grandezza, l’acume, la libertà mentale e teorica di Gramsci nell’analizzare quello
che appunto chiama l’occidente e quindi le società democratiche. Questo è
straordinario per un marxista dei suoi tempi, e non solo dei suoi tempi, per
esempio mi pare che vada molto più avanti di Togliatti Gramsci, nella concezione
della democrazia, perché Togliatti, con la sua idea della democrazia progressiva,
certamente legato a Gramsci, c’è un forte legame con Gramsci, però l’aspetto
teorico è certamente più banale, insomma, l’idea di una evoluzione della
democrazia; mentre in Gramsci c’è una visione più articolata di quelle che sono le
strutture reali di una democrazia organizzata. Ecco, tuttavia riconoscere questa
grandezza di Gramsci, a mio parere, non vuol dire vedere i limiti del suo
pensiero, in relazione alla critica del marxismo, in relazione alla costruzione dello
Stato socialista. E se ciò è vero, ne deriva appunto secondo me la conclusione che
Gramsci può essere considerato un grande analista della società democratica, ma
io ritengo non un teorico della democrazia.
Che conclusioni ne possiamo trarre per l’attualità di Gramsci? Prima ne ha parlato
molto a lungo Schirru e io condivido molta parte di quello che ha detto, in
particolare la rilettura delle polemiche, dei conflitti interpretativi su Gramsci a
partire dagli anni ’70. La lettura di Gramsci è stato un banco di prova delle
culture politiche italiane, dagli anni ’70-’80. Io credo che questo sia verissimo, da
tutti e due i lati però, cioè c’è stato un attacco alla cultura comunista, che si è
appunto concretato in un attacco teorico a Gramsci, da parte di quei due filoni, lo
hai correttamente identificato, Del Noce e Bobbio. Dietro a Bobbio dobbiamo
mettere il partito socialista, il mondo operaio, tutta la polemica lì. Però, quello
che io vorrei sottolineare è che anche da parte comunista c’è stato questo uso di
Gramsci, a mio parere già nel ’77; prima è stato giustamente detto che il ’77 è
stato il culmine degli studi gramsciani, e poi dopo c’è stato una specie di declino
che qualcuno ha definito eclisse, addirittura. Invece poi dopo mi pare che ci sia
stato un aggiustamento, non c’è più quella frenesia, però non c’è nemmeno
un’eclisse, cioè c’è una consistente mole di studi gramsciani. Dunque il ’77 per
l’appunto, fu il culmine degli studi gramsciani (Convegno di Firenze), ma fu un
culmine molto intriso di sfruttamento politicistico di Gramsci, anche da parte del
partito comunista e da parte di quegli studiosi, peraltro straordinari studiosi di
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Gramsci, che furono appunto i protagonisti del Convegno di Firenze del ’77. Lì il
punto era, giustificare il compromesso storico, cioè si utilizzò Gramsci e si
utilizzò il concetto di rivoluzione passiva, che ha tutt’altro significato, per
giustificare il compromesso storico e per far questo si fece, tra l’altro, quello che
secondo me è ed era, lo dissi già allora, un errore interpretativo, perché la
rivoluzione passiva Gramsci dice chiaramente, la rivoluzione passiva non è un
programma, non può essere un programma e invece il compromesso storico
ovviamente era un programma e quindi si identificava il compromesso storico
con la rivoluzione passiva. Io credo che in questo agli intellettuali marxisti italiani
dell’epoca, va riconosciuta una responsabilità poi per le polemiche anche che ci
sono state, perché è chiaro che hanno legittimato in qualche modo le polemiche
che furono fatte contro Gramsci e contro il pensiero di Gramsci e quindi credo
che a un certo punto, come dire, il declino, ripeto, non credo che sia giusto parlare
di eclissi, ma il declino degli studi gramsciani successivi a questa specie di fuoco
d’artificio del ’77, sia stato anche giusto e sia servito anche a ridare il giusto
spazio a Gramsci. Perché Gramsci come è stato ricordato ha sempre avuto in odio
la sovrapposizione stretta di filosofia e politica e ha sempre evitato il politicismo.
Gramsci e questo è singolare, io credo che forse il fascino maggiore della figura
di Gramsci sta proprio in questo, che pur essendo un dirigente politico di
primissimo piano, più che non gli intellettuali politici che invece lo hanno
commentato in questo modo.
Nelle sue letture carcerarie Gramsci legge le riviste dell’epoca, in modo perfino
ossessivo, cioè legge le riviste dell’epoca, perché lui ha in mente appunto, in base
a quella teoria della struttura materiale dell’ideologia che citavo prima, lui ha in
mente che sia importantissimo fare una analisi, una rassegna, uno studio delle
riviste, lo studio delle riviste, uno dei capitoli principali dell’attività di Gramsci.
Quindi sarebbe facilissimo, per uno che sta lì, prigioniero del regime fascista, fare
una lettura puramente politicistica e non glielo potremmo nemmeno rimproverare,
chi più di lui sarebbe giustificato nel farlo e invece Gramsci non lo fa mai, ha
sempre in mente dei suoi percorsi teorici, che poi possono essere giusti o
sbagliati, ma ha dei suoi percorsi teorici e segue quelli nell’analisi della realtà
italiana, nell’analisi della filosofia, e non è un caso che appunto attacca Trotskij
anche se lui invece politicamente era stato vicino a Trotskij; attacca Buckharin
ma non per ragioni politiche, soltanto per ragioni filosofiche; non ha
assolutamente nessuna, è proprio questo l’avrebbe reso ovviamente esposto a seri
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pericoli se fosse invece, se avesse vissuto direttamente l’esperienza della Russia
stalinista. E in questo sta la sua differenza da Togliatti, che è stato anche lui un
grande intellettuale, però al contrario invece ha avuto la chiave politica come
dominante sulla chiave teorica. E infatti, la lettura che Togliatti da di Gramsci dal
’47 al ’57, poi ’58 nel primo dei grandi convegni gramsciani, è una lettura nei
fatti, ottima perché apre, dice appunto Gramsci non deve essere solo nostro, deve
essere di tutti. Però la motivazione di quella lettura, era tutta politica perché
Togliatti voleva costruire un partito, che per l’appunto non fosse solo il partito
della classe operai ma che fosse un partito nazionale.
Allora, quanto può essere attuale Gramsci? Io credo che Gramsci sia attualissimo,
però nella misura in cui rispettiamo questa distanza tra filosofia e politica, cioè
non vorrei che tornassimo ancora una volta a utilizzarlo, schiacciandolo troppo
sulla politica di oggi e sulle nostre posizioni politiche di oggi, che possono essere
sicuramente ispirate a Gramsci, così come possono essere ispirate a altri teorici,
ma appunto sempre tenendo le opportune distanze, così come le ha tenute lui. È
attuale l’analisi che Gramsci fa della cultura pubblica in Italia e delle grandi
questioni nazionali italiane; è ancora attuale, mi pareva che Giancarlo Schirru
pensi e ci abbia detto di si, che è attuale, addirittura la lettura della questione
meridionale. Io ho qualche perplessità su questo punto, cioè considero
importantissime le analisi di Gramsci su questo come su altri punti, ma non so se
possiamo direttamente tradurle nelle situazioni di oggi, perché la situazione di
oggi è molto diversa. È diverso il ruolo dei partiti, è diverso il carattere dei partiti,
è diverso il rapporto tra dimensione nazionale e dimensione internazionale.
Gramsci, anche in questo era un marxista molto anomalo, perché Gramsci aveva
un’idea sicuramente aveva l’idea della rivoluzione mondiale quindi l’idea di un
internazionalismo del movimento comunista, però nello stesso tempo ripete
sempre e lo mette anche in pratica, ma ripete sempre che l’analisi deve essere
nazionale, lui usa il termine ricognizione, la ricognizione del terreno nazionale.
Bisogna sempre partire dall’analisi del terreno nazionale e soltanto dopo si può
arrivare a una conclusione, a un esito internazionale. Questo forse oggi non è più
vero, nella stessa misura in cui era vero prima, non perché, certo bisogna sempre
partire dalla ricognizione del terreno nazionale, il punto è che oggi nel terreno
nazionale sono già compresi degli elementi di relazione internazionale che prima
non erano compresi, basti pensare all’Europa ecc. E questo è solo un caso. L’altro
caso, sul quale pure credo dovremmo essere molto prudenti, è il partito. Non
56
perché io condivida le teorizzazioni, che poi non sono neanche teorizzazioni, del
partito liquido, niente affatto; anche io penso che il partito deve essere strutturato
anche perché se non è strutturato non è democratico, e vorremmo un partito
democratico, tanto più se si chiama così, ma anche se non si chiamasse così.
Quindi, per carità, non è questo il punto, il punto è che, è vero che il rapporto tra
partito e opinione pubblica è diverso oggi da quello che era una volta; non può
non essere diverso, perché le forme di espressione dell’opinione pubblica sono
molto diverse da quelle che erano una volta. Cioè la società degli anni ’30 era già
una società di massa, come è ovvio, sappiamo che i totalitarismi sono stati
appunto un tentativo di risposta, un tentativo di controllo e di dominio espresso
sulla società di massa, ma questo processo della società di massa, ha continuato,
la società è sempre più di massa e quello che abbiamo di fronte è una democrazia
di massa, quello che viviamo è una democrazia di massa. Questi sono aspetti che
sono molto importanti e con cui un partito deve fare i conti, proprio se vuole
essere un partito organizzato. Io penso invece che il partito cosiddetto “liquido”
sia un partito che evade dal confronto con la società di massa, evade dal
confronto con quella che Gramsci chiamerebbe la spontaneità di alcuni elementi.
Ricordo una cosa molto bella del lontano, ’77 o ’78 di Luporini (che in questa
operazione di uso politico di Marx, fu un po’ più defilato), Luporini in quel
periodo disse alcune volte, che ciò che ci allontanava un po’ da Gramsci, che
rendeva insomma non così immediato il nostro rapporto con Gramsci, era il fatto
che Gramsci proponeva riforma intellettuale e morale come una attività da
condurre da parte dello Stato o del Partito; mentre lui diceva: il punto è che oggi
molti elementi di riforma intellettuale e morale sono già avvenuti, poi possono
non piacerci gli esiti, però sono già avvenuti e sono avvenuti nella spontaneità
della società civile. Io credo che questo sia un punto col quale dobbiamo fare i
conti, cioè l’evoluzione del costume, l’evoluzione della cultura, la moltiplicazione
e la diffusione dei mezzi di comunicazione di massa, sono aspetti che sono
avvenuti, noi non ci possiamo più proporre, per esempio, la diminuzione etica e
pedagogica dello Stato, che si proponeva Gramsci e che è del tutto, come dire,
coerente con la teoria dell’egemonia, quindi io non la vedo come un elemento
totalitario in Gramsci, ma sarebbe oggi un elemento totalitario, perché appunto la
riforma intellettuale e morale oggettiva, se fosse possibile chiamarla così, in gran
parte è già avvenuta, bella o brutta, per tanti aspetti brutta, però quello è, non
possiamo revocare ciò che è avvenuto in 70 anni o in 50, dopo alla fine dei regimi
57
totalitari e non possiamo quindi riprendere il discorso. Credo che sia più fedele a
Gramsci riprendere il discorso da qui e quindi vedere come il partito democratico,
e qui lo dico nel doppio senso della parola, un partito che si propone di muoversi
in quella direzione, nella Direzione democratica del rapporto democratico tra
dirigenti e diretti, un partito che pensa di muoversi in questa direzione, deve fare i
conti con una società che è molto diversa da quella di Gramsci e questa non è una
cosa su cui possiamo trovare delle scorciatoie.
58
Gramsci e Dewey: un dialogo possibile?
di Chiara Meta
Alla luce del confronto che si è scelto di svolgere, bisognerebbe evitare il rischio
di incorrere in facili semplificazioni ideologiche; il tema dell’intervento infatti
non vuole essere quello di operare indebite riduzioni tra due autori che rimangono
legati a tradizioni politiche e riferimenti culturali diversi e forse distanti, ciò non
toglie la possibilità di cogliere una sfida che consiste nella capacità di mettere in
campo un confronto tra due personalità, quelle di Gramsci e Dewey, che si
dimostrarono in grado di sollevare e stimolare una riflessione critica all’interno
delle proprie tradizioni culturali.
Si prenda ad esempio la valorizzazione del momento sovrastrutturale in Gramsci
e, quindi, in generale il tema dell’ideologia. Pur rimanendo legato alla tradizione
marxista, tale valorizzazione si prefiggeva di rivolgere una severa critica nei
confronti del riduzionismo marxista. Quest’ultimo, dogmaticamente ancorato ad
una spiegazione dei processi sociali e politici in termini unicamente di
monocausalità economica, era sostanzialmente il marxismo della vulgata secondo
internazionalista, che Gramsci aveva duramente combattuto nelle note carcerarie.
Tale riduzionismo, peraltro, fu come vedremo fortemente osteggiato anche dal
Dewey teorico ante-litteram di quella che Popper avrebbe poi chiamato la
“società aperta”. In particolare la critica del riduzionismo marxista da parte del
filosofo americano si basava sul concetto della coesione e inclusione, all’interno
della sfera politica, di una società civile di ascendenza hegeliana. Di qui la sua
denuncia di quanto fosse insufficiente la diffusa concezione di una democrazia
ridotta unicamente a tecnica di governo.
L’idea deweyana di democrazia, è piuttosto lontana dalla tradizione più
accreditata del liberalismo americano che si sarebbe in seguito identificata nella
formula di Schumpeter secondo cui la democrazia è una procedura istituzionale
funzionale alle decisioni politiche. Per Dewey si trattava di una visione numerica,
utilitaristica della democrazia, incompatibile con la sua necessaria vocazione
partecipativa. Soprattutto a partire dagli anni Venti del secolo scorso, definiti di
decadenza della democrazia, Dewey1 sostiene esservi una responsabilità diretta di
1
Cfr. J. Dewey, Comunità e potere,[1936] La nuova Italia, Firenze, 1971.
59
intellettuali e leader politici nella creazione di condizioni adatte a favorire la
crescita di un’opinione pubblica organizzata democraticamente. La critica
dell’individualismo economico proprietario era peraltro intimamente connessa ad
uno degli elementi più fondanti del suo pensiero filosofico, come chiarisce in
individualismo vecchio e nuovo: l’antifondazionalismo epistemico. Sulla base di
quest’ultimo egli tentava di confutare sul piano gnoseologico la validità di uno
degli asserti fondamentali del liberalismo, ovvero l’atomismo sociale, la critica
del quale risentiva dell’influsso dell’organicismo hegeliano da cui era stato
influenzato in gioventù.2 Si può dire che egli sia stato davvero un liberale sui
generis. Della modernità democratica in particolar modo ha tenuto a sottolineare
un aspetto, o meglio una contraddizione fin troppo evidente: da un lato egli dice
si è registrato un allargamento della partecipazione politica, grazie al progresso
tecnico e scientifico; dall’altro però questo stesso processo di apertura non ha
innescato di per sé un “potere” emancipatorio. Ciò è dipeso dal prevalere
dell’appropriazione privata dei prodotti dell’industria e dell’interesse particolare
sugli interessi pubblici3. Sembrerebbe da questo discorso che per il filosofo
americano sia necessario procedere a una sorta di socializzazione dei mezzi di
produzione, mediante un pubblico controllo della industria e della finanza. Se con
questo si allude al fatto che l’economia deve essere programmata e il governo
centrale è il luogo naturale della programmazione, possiamo dire che per Dewey
lo Stato deve farsi regolatore collettivo, come sostiene in Liberalismo e azione
sociale. Ma ciò non significa, come è stato sottolineato4, fare del pensatore
americano un teorico del socialismo: egli restò un pensatore democratico,
fortemente critico sia verso il liberalismo e il suo individualismo radicale, sia
verso le forme di potere statolatriche e accentratrici. Inoltre, per Dewey, è
possibile, anzi necessario correggere le storture del capitalismo e il suo principio
iniquo di redistribuzione della ricchezza, lasciando in piedi la democrazia; ed è
proprio in ragione del nesso che egli stabilisce tra la necessità di una continuità
delle istituzioni liberali americane e l’esigenza di una correzione, graduale e
progressiva dell’assetto economico soltanto, che egli polemizza con il socialismo,
colpevole di adombrare visioni palingenetiche di cambiamento della società. Egli
imputa al marxismo infatti la responsabilità di annullare il valore dell’incidenza
2
Cfr. J. Dewey, Scritti politici, a cura di G. Cavallai, Donzelli, Roma, 2003, pp. XX-XXV.
Cfr. M. Alcaro, John Dewey, scienza, prassi, democrazia, Laterza, Bari, 1997, pp. 35-40.
4
Cfr. M. Alcaro, John Dewey…cit., pp. 128-143.
3
60
del fattore umano nella storia, criticando quello che a suo dire sembra essere il
determinismo della monocausalità economica5, tipico esempio di
quell’assolutismo “obiettivo” o “realistico” che deriva dall’isolare un fattore
dell’interazione dei fenomeni sociali e dal considerarlo come supremo. Egli
rifiuta ogni spiegazione monocausale della realtà, affermando che «la probabilità
e il pluralismo caratterizzano lo stato attuale della scienza» di contro alla
«necessità e la ricerca di un’unica legge che comprendesse tutto», caratteristiche
queste ultime attribuite non solo al marxismo ma a tutta «l’atmosfera intellettuale
del quinto decennio del secolo passato» 6. Ma nonostante questo vi è stato chi,
come il filosofo americano Cornel West, ha affermato che Dewey sia stato nella
sua riflessione molto vicino alle tesi del marxismo, in particolare a quelle di un
marxista antideterminista come Gramsci. Certo non si deve nascondere che su
molti terreni i due autori sono distanti: Gramsci non affida al metodo scientifico
un ruolo preponderante nel processo di democratizzazione della società, come fa
Dewey. Ciò non di meno rilevanti sono le convergenze.
Forse il punto di maggiore contatto che è possibile cogliere tra i due autori è
rappresentato dalla teoria educativa, o meglio dal nesso, individuato da entrambi
come centrale, istruzione-educazione che considera la questione della formazione
dell’uomo come condizione imprescindibile della vita democratica.
Per quanto riguarda Gramsci nei Quaderni del carcere egli polemizza duramente
con quel tipo di istruzione, proposta dal modello educativo gentiliano, che tende a
sganciare a suo dire il nesso formazione-educazione. In particolare egli critica la
riforma Gentile perché espressione di un modello di società liberale, legato ad
una oligarchica partecipazione della politica ormai tramontata e incapace di
cogliere la novità di fondo della società moderna, ovvero l’irruzione delle masse
nella vita politica. Questo dato impone un ripensamento strutturale delle modalità
di istruzione e di trasmissione dei saperi il quale, lungi dal configurarsi come un
ulteriore aumento di specialismi disciplinari (che non fanno altro che ripetere
nella pedagogia la divisione cristallizzata della società in classi), sia in grado di
promuovere una riforma organica capace di interpretare a fondo ciò di cui una
moderna società fondata sulla democrazia ha bisogno, ovvero la dilatazione della
funzione dell’intellettualità. Paradossalmente ciò accade in una forma, quella
5
6
Ivi, pp. 147-9.
J. Dewey, Libertà e cultura, [1945] La Nuova Italia, Firenze, 1967². p. 16.
61
appunto della moltiplicazione delle specializzazioni, opposta a quello che
dovrebbe essere il fine, il coinvolgimento degli individui «come partecipi di un
comune progetto, perché li ammette solamente in quanto portatori di una qualifica
lavorativa che definisce in modo rigidamente unilaterale la loro personalità
storica»7. Proprio su questi temi - ovvero in merito alla necessità di preservare e
diffondere a sempre più estese classi sociali i contenuti della formazione
umanistica, pur nel riconoscimento dei problemi politici e organizzativi sollevati
dall’esigenza di una nuova formazione tecnico-scientifica adeguata agli sviluppi
della società industriale - risiede la possibilità di operare un confronto proficuo
con le posizioni di Dewey; quest’ultimo in un’opera del 1916, dal titolo
Democrazia e Educazione, sostiene la necessità, in un “regime democratico”, in
cui vige «un’uguaglianza tra dirigenti e diretti e in cui tutti gli individui sono
potenzialmente governanti»8, di riformare e diffondere un’istruzione pubblica,
fondata sull’idea di una formazione globale dell’individuo, quanto più allargata
alla partecipazione di sempre maggiori settori della società, soprattutto di quelli
che per secoli sono stati confinati a ruolo, per dirla con Gramsci, di classi
subalterne. Proprio in ragione del fatto che tanto per Dewey quanto per Gramsci,
queste classi, relegate per secoli ai margini della storia, hanno l’opportunità di
diventare governanti, si impone loro la necessità e l’obbligo di istruirsi e di
elaborare una coscienza critica che le sottragga dall’atteggiamento di passività e
sottomissione, al potere costituito. Dewey sottolinea l’urgenza di elaborare un
progetto pedagogico unitario che sia in grado di promuovere, attraverso
l’istruzione scolastica, una cultura democratica volta a spezzare la secolare
divisione tra un insegnamento teorico, storicamente appannaggio delle classi
dirigenti, e uno tecnico specialistico, riservato alle classi lavoratrici. Questo stato
di cose infatti, argomenta Dewey, «discende di necessità dall’essere la società
organizzata sulla base di una separazione fra classi lavoratrici e classi agiate»9;
separazione che, nel mondo occidentale, ha radici molto lontane: essa fu
formulata ai tempi dei greci «sulla base di una divisione di classi fra quelle che
dovevano lavorare per vivere e quelle che erano libere da questa necessità»10, e
ciò spiega anche il motivo per il quale, un modello educativo aristocratico
7
F. Frosini , Gramsci e la filosofia, Saggio sui Quaderni del carcere, Carocci, Roma 2003, p. 191.
J. Dewey, Democrazia e Educazione,[1916] La Nuova Italia, Firenze, 2000, p. 110.
Ivi, p. 175.
10
Ivi, p. 323.
8
9
62
snobistico nei confronti della pratica, tende a perpetrare un modello di società
servile.
Per comprendere il nesso forte esistente, nella visione deweyana, tra democrazia
ed educazione, bisogna spiegare cosa egli intende con questo discorso: contro
tutti coloro che concepiscono la democrazia in termini unicamente procedurali,
come si diceva in apertura di discorso, ovvero come una semplice forma
rappresentativa di governo, Dewey sostiene la necessità di fondarla su basi etiche
e sociali, come egli stesso argomenta in uno scritto del 1888, dal titolo Etica
della democrazia11. La democrazia non coincide con un mero concetto numerico,
come sostengono tutti quelli che identificano la sovranità popolare con una
semplice somma addizionale che si esprime nel voto; il voto, lungi dall’essere
espressione parcellizzata della sovranità, è uno strumento di decisione politica
che tiene conto dell’intero organismo sociale e rappresenta in ciascun suo
membro l’effettiva sovranità del cittadino. Per questa ragione, se la società viene
concepita come un tutto organico, come la sua formazione hegeliana gli
suggeriva, decade per Dewey un postulato fondamentale su cui si regge la teoria
liberale: la distinzione tra governanti e governati. Se infatti il governo deriva i
suoi poteri dal consenso di ogni singolo governato, e tale consenso è l’espressione
della comunicazione “orizzontale” del comune sentire di tutti i membri di una
collettività, ecco che il governo non può coincidere con il dominio, perché ciò
implicherebbe una verticalizzazione del comando, e quindi il venir meno del
presupposto etico della democrazia stessa, ovvero la dimensione intersoggettiva
della comunicazione partecipata12 .
Anche dopo le delusioni subite all’indomani del primo conflitto mondiale,
quando sembrava ormai tramontato il sogno di un’America “esportatrice” di
democrazia, Dewey rimase fedele al sogno di rifondare, in termini partecipativi,
11
Cfr., J. Dewey, Scritti …cit., pp. 22-25. Si tratta di un opuscolo in cui Dewey polemizza con uno
scritto di Henry Maine e critica le tesi sociali e politiche contenute nel libro del 1885 sul Popular
Government; il filosofo non accetta la tesi di Maine secondo cui la società è costituita da un insieme di
individui-atomi ed indipendenti. Gli uomini al contrario non sono monadi isolate, ripiegate su stesse,
ma individui sempre in relazione con altri individui all’interno di un contesto dato, cioè di una società
già in qualche modo organizzata. Non è difficile scorgere dietro questa interpretazione organicista
della società l’influsso che sul pensatore americano esercitò, quando ancora studente frequenta la
John Hopkins University (dove insegnano l’hegeliano George Morris, Stanley Hall e Ch. S. Peirce)
tutto un clima culturale e filosofico che si richiama al neohegelismo e all’organicismo (cfr. G.
Cavallari, Introduzione a J. Dewey, scritti… cit., pp. XII-XIII).
12
Cfr. G. Cavallari, Introduzione a Scritti…cit., pp. XVIII-XIX.
63
le istituzioni politiche, come risulta anche dalla lettura di Natura e condotta
dell’uomo del 1922. Le sue speranze erano affidate al contributo che le nuove
scienze sociali potevano offrire al processo di allargamento della partecipazione
democratica; a suo dire bisognava, sia attraverso l’ausilio di nuovi metodi
educativi, capaci sin dalla tenera età degli individui di sviluppare l’acquisizione di
un abito critico proprio del pensiero sperimentale, sia tramite la diffusione di un
nuovo senso civico all’interno dell’intera collettività, sollecitare la partecipazione
di tutti gli individui alla vita pubblica13.
Anche Gramsci, nel Quaderno 12, stabilisce un nesso inscindibile tra democrazia
(intesa come organizzazione della società in cui vige una corrispondenza tra
dirigenti e diretti) ed educazione, analizzando la questione sia da un punto di
vista strettamente economico, in quanto in una società in cui si è abbattuto il
privilegio è previsto che «lo Stato possa assumersi le spese che oggi sono a carico
della famiglia per il mantenimento degli scolari»14, ma anche, e qui la assonanza
con Dewey sembra forte, da un punto di vista morale, etico. La battaglia per la
conquista di una nuova civiltà si misura infatti anche con la capacità, non solo
della scuola, ma anche di tutte quelle strutture che compongono la fitta rete della
società civile, di diffondere lo spirito pubblico, tale che «la intera funzione
dell’educazione e formazione delle nuove generazioni diventa da privata,
pubblica, poiché solo così essa può coinvolgere tutte le generazioni senza
divisioni di gruppi o caste»15.
Ma il tema della corrispondenza dirigenti-diretti in Gramsci si collega a quello
più specifico del “centralismo democratico”; tale questione inoltre mette in gioco
«la quistione della “personalità e libertà”» che nella società democratica, ove
appunto vige la corrispondenza dirigenti-diretti, si pone «non per il fatto della
disciplina, ma per l’ “origine del potere che ordina la disciplina”». Poiché questa
origine è «democratica», cioè «l’autorità è una funzione tecnica specializzata e
non un “arbitrio” o un’imposizione estrinseca ed esteriore», ecco che la disciplina
è «un elemento necessario di ordine democratico, di libertà»; se si intende quindi
con questa parola «un rapporto continuato e permanente tra governanti e
13
Cfr. M. Alcaro, op. cit. pp.111-127.
A. Gramsci, Quaderni del carcere. Edizione critica dell’istituto Gramsci, a cura di V. Gerratana,
Einaudi,Torino, 1975, p. 1534 (d’ora in poi Q., seguito dal numero di pagina).
15
Ibidem.
14
64
governati che realizza una volontà collettiva» e non certo «passivo e supino
accoglimento di ordini», essa non annulla «la personalità in senso organico, ma
solo limita l’arbitrio e l’impulsività irresponsabile, per non parlare della fatua
vanità di emergere»16 .
Si chiarisce in questo modo meglio alla luce di quanto finora detto la
corrispondenza esistente nella riflessione gramsciana e deweyana tra democrazia
e educazione: la democrazia è infatti una società nella quale opera una
comunicazione orizzontale e reciproca fra le parti che la compongono, tra società
civile e società politica. Comunicazione non gerarchica, ma osmotica; a questo
proposito Gramsci porta spesso l’esempio negativo della comunicazione tra i
ranghi dell’esercito e la denota col termine «dominio» o «cadornismo»17, per
indicare una forma di comunicazione e di organizzazione della società
piramidale, basata appunto più sulle differenze individuali, che sulle
“conformazioni” sociali. Egli disprezza l’originalità “idiota”, e si fa fautore di un
conformismo inteso come socializzazione organizzata.
Si diceva inoltre dei possibili punti di contatto tra i due autori; oltre a quello
appena individuato relativo al nesso democrazia-educazione, un altro è
rappresentato dalla comune formazione giovanile avvenuta in ambienti filosofici
influenzati dalla ripresa dell’hegelismo.
Sia Gramsci sia Dewey - quest’ultimo in particolare, come abbiamo evidenziato,
fortemente condizionato dall’organicismo hegeliano - furono egualmente
influenzati da una concezione del rapporto soggetto-oggetto che rifiuta «la teoria
del rispecchiamento», la conoscibilità di una «oggettività esteriore
meccanicamente intesa», come asserisce Gramsci nei Quaderni18. Larga parte
della polemica gramsciana contro le posizioni espresse dal socialismo secondo
internazionalista si fonda su tale presupposto. Nei Quaderni quel marxismo
deteriore è rappresentato dalle posizioni espresse da Bucharin al II congresso
internazionale di storia della scienza e della tecnologia, svoltosi a Londra nel
193119. Ma non si capirebbe tutta la critica gramsciana al riduzionismo
materialistico se non la si associasse al tratto caratteristico della sua antropologia,
16
Q., pp.1706-7.
Q., p. 1753.
Q., p.1415.
19
Q., AC, p. 2765.
17
18
65
fondata su una visione storicizzata dell’umano20: quest’ultimo è sempre
l’espressione dell’insieme delle relazioni sociali. In un luogo dei Quaderni, il Q
10 § 54, intitolato emblematicamente Che cosa è l’uomo? così infatti Gramsci
argomenta:
Se «l’uomo è un processo e precisamente il processo dei suoi atti»21, se «occorre
concepire l’uomo come una serie di rapporti attivi in cui se l’individualità ha la
massima importanza, non è però il solo elemento da considerare», e se
«l’individuo non entra in rapporti con gli altri uomini per giustapposizione, ma
organicamente, cioè in quanto entra a far parte di organismi dai più semplici ai
più complessi» e se «questi rapporti non sono meccanici», allora «si può dire che
ognuno cambia se stesso, si modifica, nella misura in cui cambia e modifica tutto
il complesso di rapporti di cui è il centro di annodamento»22.
Questa visione corrisponde a quella natura dialogica della mentalità filosofica
gramsciana, che, come è stato osservato, intesse tutta la struttura della trama
carceraria come particolarmente emerge in un passo del Quaderno 10, § 44, in cui
egli viene a parlare di un «nuovo tipo di filosofo» che si può chiamare, dice,
«filosofo democratico», perché convinto che la sua personalità non si limita alla
propria individualità fisica, ma è piuttosto «un rapporto sociale attivo di
modificazione dell’ambiente culturale». È un rapporto che per essere valido deve
rimanere aperto, come il rapporto attivo di scienza e vita, mai concluso nella
compiuta perfezione di un processo che non ha più bisogno di essere rinnovato.
Nella stessa nota richiamandosi alla teoria pedagogica dell’influenza reciproca tra
maestro e allievo, Gramsci ne estende la portata e ne fa il contrassegno di questa
nuova figura di “filosofo democratico”. Se è vero ricorda che non solo i rapporti
didattici, ma tutti i rapporti umani nel loro complesso si svolgono all’insegna
della reciprocità e dell’intercambiabilità dei ruoli, ciò vuol dire che anche il
singolo individuo, così come il filosofo, entra in rapporto attivo con l’ambiente
che vuole modificare, sapendo che questo ambiente «reagisce sul filosofo e
20
Cfr. D. Ragazzini, Società industriale e formazione umana, Editori Riuniti, Roma, 1976, pp. 18-9.
Ragazzini ha giustamente messo in relazione la posizione gramsciana con la sesta e undicesima delle
Tesi su Feuerbach di Marx, in cui si sostiene che l’essenza umana non è un dato che è possibile
cogliere astrattamente, come se si trattasse di un dato “immanente” all’interno della singola
personalità, ma nella dialettica storica, essa risulta dall’evoluzione dei rapporti sociali.
21
Q., p. 1344.
22
Q., p. 1345.
66
costringendolo a una continua autocritica, funziona da maestro»23. Questo passo
gramsciano può essere confrontato con quanto Dewey sostiene in merito al
rapporto transitivo che lega gli uomini al loro ambiente; la scoperta della
dimensione sociale dell’essere umano è infatti l’elemento centrale della sua
riflessione filosofica. In Natura e condotta dell’uomo, ad esempio, egli insorge
contro le posizioni unilaterali degli innatisti che ritengono la coscienza, l’io,
qualcosa di “meramente spirituale”, regno dell’intuizione solipsistica individuale
(Stirner), ma anche contro il riduzionismo “ambientalista”alla Spencer, che riduce
la coscienza ad una serie di stimoli-risposte comportamentisticamente
osservabili24. Entrambe le posizioni, egli dichiara, sono incapaci di tener conto
della reale dinamica dell’esperienza umana25 e della “dimensione sociale”dell’io
ad essa correlata, secondo la quale l’“abitudine” “coabita” con l’impulso
originario e soggettivo proprio di ogni singolo essere umano, nel dirigere la
condotta. Così la visione del mentale come di un’ipostasi astratta, egli ripete
nell’opera, aveva costituito l’ultimo baluardo di tutti i conservatori. Se infatti la
mente è concepita come un dato “originario”, la vita sociale appare come una sua
derivazione e non come un elemento interagente e causante. Dietro al concetto di
“dato naturale”, proprio dell’innatismo scientista”, albergherebbe a suo dire
infatti un’ideologia retriva e conservatrice, e un progetto di ordine sociale fondato
sul mantenimento dello status quo contrario al “dinamismo” della società
democratica26.
Tornando a Gramsci, si diceva che egli attraverso la visione relazionale delle
“dinamiche della personalità”27, ha ripudiato tutta una tradizione, il determinismo
marxista, di stampo positivista, alla Bucharin, proposto dalla seconda
Internazionale, teso a privilegiare, in modo del tutto meccanicista, il primato della
collettività, sui singoli individui, considerati quest’ultimi la risultante addizionale
di una semplice somma aritmetica; per Gramsci, al contrario,«l’individuale non è
23
Q., p. 1332.
Cfr. J. Dewey, Natura e Condotta dell’uomo [1922], La Nuova Italia, Firenze, 1958.
25
Cfr. C. Metelli di Lallo, La Dinamica dell’esperienza nel pensiero di John Dewey, Liviana, Padova,
1958, pp. 16-17.
26
J. Dewey, Natura e condotta…cit., pp. 40-42.
27
Cfr. Dario Ragazzini, Leonardo nella società di massa, teoria della personalità in Gramsci,
Moretti- Honegger, Bergamo, 2002, pp.24-25.
24
67
il residuale di una analisi sociale»28. L’intento è antisostanzialistico e polemico
contro tutte quelle visioni, che, prescindendo dall’analisi dei rapporti strutturali,
sempre attraversati dai conflitti di classe, ipotizzano l’astratto uomo in sé; nel
trasformare la domanda “che cosa è l’uomo” nell’altra “che cosa l’uomo può
diventare?”, e il riferimento è al passo dei Quaderni citato precedentemente, c’è
sicuramente uno spunto antikantiano, che rifiuta l’idea una natura umana
originaria, in quanto essa risulta sempre dalla dinamica dell’evoluzione storica
della società; la naturalità di cui l’uomo dispone è inglobata nella storicità e nella
socialità delle sue azioni ed è in funzione di esse. Gramsci utilizza per descrivere
il rapporto dialettico tra singolo e collettività – individuo e ambiente direbbe il
Dewey di Natura e condotta dell’uomo, il concetto di trasformazione molecolare,
in numerosi luoghi dei Quaderni, proprio per evidenziare un approccio
antimoralistico alla tematica della persona29. Così come la persona non è
un’ipostasi astratta, anche le sue azioni non possono essere ingabbiate in teorie
interpretative generali, in progetti metafisici inclusi nelle varie filosofie della
storia, poiché la prospettiva gramsciana rifiuta ogni visione fatalistica della
storia, come la critica alle incrostazioni deterministiche del marxismo dimostra, e
ogni teoria che voglia, per usare un’espressione di Gramsci rivolta a Croce,
“mettere le brache al mondo”.
Giunti a questo punto del discorso è inevitabile operare un bilancio critico del
confronto svolto tra i due autori. Si è già fatto riferimento alla posizione espressa
dall’intellettuale americano Cornel West, a proposito del parallelismo esistente tra
il marxismo e Dewey; su questo aspetto centrale è la messa a fuoco di un punto:
28
Ivi, p. 24.
V. Gerratana in un suo scritto dal titolo Saggio sulla dissoluzione del soggetto, in Problemi di
metodo, Editori Riuniti, Roma 1996, individua l’origine di questa metafora del “molecolare” in una
lettera alla cognata Tania del 6 marzo 1933; in essa Gramsci, in riferimento ad un gruppo di naufraghi
che per disperazione, contrariamente a quanto avrebbero potuto mai immaginare, nel momento in cui
interviene un mutamento nelle condizioni materiali della loro esistenza tale per cui essi non possono
più “essere gli individui di prima” divengono antropofagi, introduce, tramite quest’esempio, una
riflessione sul concetto di persona: questa, sottolinea, non è mai un presupposto ontologico, su cui
poter discettare liberamente, ma sempre il risultato di un processo di “auto creazione” morale. Come
alternativa sia alla distruzione teorica dell’individuo, proposta da posizioni antimoraliste alla
Nietzsche, sia all’assorbimento del singolo nella collettività, fatta propria dal positivismo marxista,
Gramsci - sottolinea ancora Gerratana - non restaura il concetto “eroico” di persona, dominatore
dell’universo. Egli al contrario lotta contro una simile concezione, non solo perché essa non tiene
conto del sacrificio inutile della vita umana, ma anche perché proprio la visione della persona come
ente morale finito difende su basi materialistiche il principio dell’unità e della responsabilità
dell’individuo nei confronti della collettività (Ivi, pp. 120-140).
29
68
West ha sostenuto che sebbene il filosofo americano abbia rifiutato il
determinismo economicista nella spiegazione dei fatti sociali, a ben vedere
proprio più degli interpreti di Marx che di Marx stesso, e sebbene pure abbia
rifiutato il concetto della lotta di classe, in quanto strumento di rottura
dell’organismo sociale30; ciò non toglie che la fusione, nella prospettiva del
pragmatismo deweyano, delle rivoluzionarie prospettive epistemologiche dei
primi interpreti del pragmatismo americano, con l’istanza dell’etica sociale, che
gli veniva dagli studi hegeliani, realizzò una felice stagione del pensiero
americano in cui l’intellettuale si pone seriamente il problema della sua
partecipazione attiva, all’interno della società civile, e ritiene indispensabile
stimolare, soprattutto tramite le agenzie educative come la scuola, e i mezzi
d’informazione, la partecipazione degli individui all’interno dell’universale
politico31.
La “questione” dell’educazione e degli intellettuali che svolgono la funzione di
collegamento fondamentale tra la società civile e politica, viene indicata da West,
come caratteristico sia della filosofia della prassi gramsciana sia del pragmatismo
deweyano. Tanto in Gramsci quanto in Dewey, come abbiamo visto, l’educazione
è concepita come formazione integrale dell’individuo che deve assumere il
proprio posto in un ordine socio-politico e diventare cosciente dei propri diritti e
doveri. Come afferma Eric Hobsbawm, parafrasando le parole di West, Dewey
attualizza bene la convinzione marxiana per la quale gli uomini prendono
coscienza dei loro compiti sul terreno sovrastrutturale delle ideologie, nel
momento in cui stabilisce una relazione strettissima tra “potere”, forma della
politica, e “sapere”, forma della cultura32. Inoltre Gramsci rappresenta, secondo
l’opinione di West, il teorico di un marxismo aperto che rifiuta qualsiasi forma di
“economicismo”riduzionista, come dimostra la stretta interdipendenza esistente
fra elementi “materiali” della struttura e quelli linguistici, simbolico - culturali
della “sovrastruttura” presente nella sua filosofia. In questo contesto potremmo
30
La lotta di classe, asserisce Dewey in Natura e condotta dell’uomo, non può essere un mezzo di
progresso e di trasformazione evolutiva della società, poiché è un fattore di divisione e discontinuità,
un tipo di analisi dei fattori sociali che tende a isolare un fine indipendentemente dai mezzi che si
utilizzano, mentre i mezzi e i fini devono essere funzionalmente e correlativamente determinati(cfr. J.
Dewey, Natura…cit., pp. 44-50).
31
Cfr. C. West, La filosofia americana, Editori Riuniti, Roma, 1997.pp. 37-42.
32
Cfr. E. Hobsbawm, Gramsci in Europa e in America, Laterza, Roma - Bari, 1995, a cura di A. A.
Cantucci, pp. 110-120.
69
rifarci alle parole di Stuart Hall, teorico e fondatore dei Cultural studies, il quale
si richiama a Gramsci nel tener ferma e insieme rinnovare la dialettica marxiana
che, per usare una terminologia a lui cara, spogliandosi di ogni garanzia si traduce
e si articola in una struttura sociale - culturale complessa, ove mobilità, flessibilità
delle determinazioni convivono con la centralità riconosciuta e praticata
dell’analisi di classe33. Gramsci infatti non adotta una “teoria unidimensionale del
potere”, e con il concetto di “blocco storico”, fornisce un modello di spiegazione
dei fatti storico-sociali in cui non c’è un fattore “aprioristicamente dominante”,
per usare le parole di Dewey. Quest’ultimo in Libertà e cultura insiste
sull’interconnessione esistente tra economia, morale e cultura, rifiutando , come
abbiamo visto, ogni spiegazione monocausale della realtà, e auspicando
l’applicazione dei criteri fondati sul “pluralismo” e la “probabilità”, propri della
moderna scienza sperimentale, anche all’analisi dei fenomeni politici e sociali.
Avevamo definito in apertura di discorso Dewey un “socialista democratico”, in
riferimento alla sua teoria sociale dell’individuo, critico dei principi atomistici del
liberalismo34. Proprio per questa caratteristica la filosofia deweyana è stata messa
in relazione anche con gli aspetti teorici più importanti del materialismo storico
di Marx. Centrale è ad esempio nell’analisi di Giulio Preti, la messa a fuoco della
convergenza esistente tra il modo di concepire il rapporto transitivo - attivo tra
l’uomo e l’ambiente proprio della filosofia della prassi del giovane Marx delle
Tesi su Feuerbach e la critica che il pragmatismo, in particolare quello deweyano,
muove all’Empirismo storico, rimasto fermo ad una modalità passiva, legata ad
una logica adeguazionista, di intendere l’esperienza35. Per Preti anche il
pragmatismo è una filosofia della praxis nel senso di una filosofia intesa come
orientamento attivo, fattivo, volontaristico verso il mondo, che non pretende di
interpretarlo, bensì di modificarlo. Centrale infatti sarebbe tanto per il giovane
Marx delle Tesi su Feuerbach e dell’ Ideologia tedesca tanto per il Dewey di
Esperienza e Natura e di Natura e condotta dell’uomo, la critica sia all’idealismo
speculativo sia al materialismo ingenuo: per entrambi i pensatori infatti occorre
eliminare l’idea che l’attività di modificazione del mondo sia qualcosa che venga
33
Cfr. S. Hall, Il problema dell’ideologia. Per un marxismo senza garanzie, in Id., Politiche del
quotidiano, culture, identità e senso comune, a cura di G. Leghista, Il Saggiatore, Milano, 2006, pp.
119-125.
34
L. Borghi, Educazione e sviluppo sociale, La Nuova Italia, Firenze, 1967, p. 323.
35
Cfr. G. Preti, Praxis ed Empirismo, Einaudi, Torino, 1975, pp. 177-180.
70
dopo la percezione del mondo stesso. In questa lettura la natura non si
contrappone staticamente al soggetto, ma è essa stessa prodotto dell’accumularsi
delle attività umane dei secoli passati, come sostiene Dewey in Natura e condotta
dell’uomo. Pertanto sia il pragmatismo sia il materialismo storico sarebbero una
forma di “umanesimo”; quando infatti Marx, nell’Ideologia tedesca, sostiene che
l’uomo è l’essere che fa se stesso e che la storia è la conoscenza dell’uomo in
quanto essere che fa se stesso36, secondo Preti ribadisce la continuità del rapporto
soggetto-oggetto, che è un aspetto fondamentale anche dell’epistemologia
pragmatista. Ma proprio questo parallelo epistemologico tra Dewey e il
marxismo teorico è stato anche duramente criticato; è stato infatti ricordato che
se da una parte Dewey elabora una teoria della conoscenza in polemica con ogni
approccio speculativo alla realtà, approdando ad una teoria naturalistica del vero
che interpreta, sulla scorta di Darwin, il rapporto uomo-natura come una
interazione in cui i fattori mentali e quelli materiali, biologico - naturali, sono
inscindibilmente coinvolti, dall’altra questo stesso approccio materialistico
quando viene trasferito dall’analisi degli strumenti della conoscenza all’analisi
dei fattori sociali gli appare semplificatorio e riduttivo. Per questa ragione ha
osservato Mario Dal Pra, Dewey non solo non si è mai incontrato con il testo di
Marx, ma ne è rimasto volutamente a distanza proprio per le analisi economicopolitiche cui conduceva37; e sempre per questa ragione non può essere letto,
come fa Preti, come il pensatore che più si avvicina a Marx tra quelli non
marxisti38. Occorre ricordare infatti che nella riflessione dello statunitense
permane una visione teoreticistica della socialità che si discosta fortemente dal
modo in cui ad esempio la intende Gramsci, per il quale l’uomo è sempre
l’espressione dell’insieme dei rapporti sociali di cui entra a far parte, storicamente
determinati e connessi, sia pure attraverso le mediazioni dei processi culturali,
allo sviluppo delle forze produttive e generatori di conflitto tra forze produttive e
rapporti di produzione39. In Gramsci agisce l’interpretazione marxiana della
storia, conseguentemente la mediazione trasformatrice tra uomo e mondo non è
mai un processo teoretico, come in Dewey, ma sempre il prodotto del lavoro
36
Cfr. C. Marx - F. Engels, L’Ideologia tedesca, in Opere complete, vol.V, 1845-1846, Ed. Riuniti,
Roma, 1972, pp.76-77.
37
Cfr. M. Dal Pra, Dewey e il pensiero del giovane Marx, in “Rivista di Filosofia”, luglio, n.2, 1960.
38
Cfr. G. Preti, Il pragmatismo che cos’è, “Il Politecnico”, 33-34, 1946.
39
D. Ragazzini, Società industriale…cit., pp. 212-14.
71
umano in condizioni storico economiche determinate. Così anche se Dewey
considera il lavoro il modo proprio dell’uomo di intervenire attivamente sulla
natura, umanizzandola, è pur vero che egli non tiene conto del riconoscimento, di
origine marxista, della profonda ambivalenza simbolica contenuta in questo
stesso concetto: da una parte il lavoro è uno strumento di emancipazione e
liberazione, dall’altra però esso ha rappresentato anche l’espressione storica dello
sfruttamento di classe perpetrato soprattutto da quella che deteneva i mezzi di
produzione. In Dewey prevale quindi una visione astrattamente teorica del lavoro,
quella che il Marx dei Manoscritti economico-filosofici attribuisce a Hegel per il
quale l’oggetto è sempre la forma dell’autocoscienza oggettivata; nel marxismo, e
quindi anche in Gramsci il lavoro è invece la forma di una produzione storica
determinata .
Dunque il bilancio di questo confronto registra affinità ma anche notevoli
differenze che è stato necessario ricordare; detto ciò un’ultima riflessione in
chiusura di discorso pare opportuna: rileggere oggi i testi deweyani ci consente di
comprendere come all’interno della stessa cultura politica americana dal primo
dopoguerra in poi si sia sollevata un’opposizione critica all’interpretazione
prevalente e angustamente economicista dell’american way of life; anche
attraverso Dewey è emersa la consapevolezza che la cultura americana potesse
incarnare la fiducia nel discorso politico libero e trasparente, nella comunicazione
e nel ruolo attivo dell’opinione pubblica per far progredire le istituzioni
democratiche.
L’umanesimo progressista di Dewey è incomprensibile senza confrontarlo con
interlocutori con cui egli si è sempre confrontato come Kant, Hegel e Marx, non a
caso la sua riscoperta in Europa e in Italia è stata parallela al successo dell’ultimo
Habermas in tema di opinione pubblica, agire comunicativo, forme post-nazionali
di socializzazione e inclusione dell’altro. A Dewey va dato il merito di aver posto
l’accento in particolare in quegli anni trenta, dominati da assolutismi autoritari,
sul fatto che separare i fini dai mezzi tramite i quali raggiungerli in politica come
nella scienza, significa rinunciare ad agire per il bene comune che consiste per il
cittadino democratico nella liberazione degli esseri umani dal bisogno e nello
sviluppo integrale di tutte le loro capacità creative40.
40
G. Cavallari, op. cit., p. LVI.
72
Partendo dai Quaderni: i linguaggi non-verbali
Derek Boothman
Esiste […], dal punto di vista culturale
e storico, una grande differenza tra
l’espressione linguistica della parola
scritta e parlata e le espressioni
linguistiche
delle
altre
arti.
(Q6§62,730).
1.
Gli aspetti non-verbali dei linguaggi verbali
Gramsci nota un collegamento tra gli aspetti verbali e non-verbali dei linguaggi
quando commenta la differenza tra il dialetto e la lingua nazionale, differenza che
non si limita agli aspetti del lessico, della morfologia e della sintassi. È
importante, invece, anche il “tono del discorso (il cursus e la musica del periodo)
che caratterizza le regioni” (Q23§40, 2236-7)41, tono – nel senso di intonazione –
spesso diverso tra dialetto e variante regionale, da una parte, e lingua nazionale
dall’altra. Mentre tale osservazione di per sé non ha nulla di originale, nel
discorso complessivo di Gramsci, gli elementi di questo genere acquisiscono uno
spessore dal momento che, in determinate situazioni, essi svolgono un ruolo
rilevante nel determinare i rapporti sociali tra i parlanti. Spesso la diversità nel
modo di parlare si osserva tra dialettofoni e parlanti della lingua nazionale, ma
può anche esistere e svolgere un ruolo importante nei rapporti tra nazioni, e in
entrambi i casi ciò che emerge è segno delle relazioni gerarchiche di egemonia. A
partire dai suoi studi universitari, Gramsci era molto consapevole di fattori di
questo genere nel mondo greco-romano dell’antichità42, del quale esempi ben
conosciuti sono il rifiuto romano delle consonanti gutturali e il decadere, dopo le
prime fasi della civiltà romana, della lettera “h”, considerate troppo caratteristiche
dei popoli “barbari”. Nel mondo odierno, le relazioni gerarchiche eventualmente
41
I riferimenti ai Quaderni del carcere di Gramsci citano il paragrafo del quaderno, ad esempio Q23,
seguito dalla pagina nella quale si trova il passo; l’edizione citata è quella a cura di Valentino
Gerratana (Einaudi: Torino 1975).
42
Cfr. il commento nel corso universitario di glottologia svolto da Giulio Matteo Bartoli, nella
trascrizione che questi affidò a Gramsci: “Da che dipende l’influenza linguistica? Di solito si dice:
dalla potenza di un popolo, sia di cultura che di censo; e si dice che Roma per la sua civiltà inferiore
non riuscì a romanizzare la Grecia. Ma Roma era forse più civile dell’Etruria? Eppure in Italia,
[Roma] distrusse le antiche nazionalità e le antiche lingue e impose la propria egemonia su tutte le
attività dello spirito” (Parte II, nota alla p. 47, degli Appunti di glottologia di G.M. Bartoli, trascritti da
Gramsci; manoscritto consultato in fotocopia presso la biblioteca della Fondazione Istituto Gramsci,
Roma).
73
coinvolte ed espresse attraverso l’intonazione e la musicalità della voce sono
presenti in modo analogo: basti pensare alla differenza sentita tra il francese della
Francia, o l’inglese della Gran Bretagna, e le stesse lingue parlate diversamente
dai cittadini dei Paesi degli ex-imperi. Inoltre, sempre in riguardo all’intonazione,
nello stesso ventitreesimo quaderno, Gramsci riprende alcuni suoi commenti
precedenti, che vale la pena di citare per esteso: “Durante la guerra, per esempio,
un oratore inglese, francese, russo, poteva parlare a un pubblico italiano, nella sua
lingua incompresa, delle devastazioni compiute dai tedeschi nel Belgio; se il
pubblico simpatizzava con l’oratore, il pubblico ascoltava attentamente e
«seguiva» l’oratore, si può dire che lo «comprendeva». È vero che nell’oratoria
non è solo elemento la «parola»: c’è il gesto, il tono della voce ecc., cioè un
elemento musicale che comunica il leitmotiv del sentimento predominante, della
passione principale e l’elemento orchestrico: il gesto in senso largo che scandisce
e articola l’onda sentimentale e passionale” (Q23§7, 2194-5). Qui l’elemento
musicale ecc., è caratteristico di un tipo di persuasione e non indica un rapporto di
gerarchia o di egemonia ma un rapporto, talvolta chiamato “fàtico”, di empatia tra
parlante e pubblico.
E inoltre, nella discussione della lingua cinese, Gramsci annota
l’importanza che viene data “al tono dei singoli suoni e al ritmo musicale del
periodo” (Q5§ 23, 560: enfasi nostra). Rispetto al discorso scritto, quindi, l’oralità
contiene un altro elemento importantissimo: il tono, la cadenza, o meglio la
modulazione della voce che già anche nel linguaggio orale introduce l’elemento
della musicalità. Contemporaneamente a Gramsci, aspetti di questo genere erano
oggetto di analisi sociolinguistica nei libri pubblicati alla fine degli anni Venti dal
pupillo e collaboratore di Bakhtin, Valentin Nicolaevič Vološinov, in particolare
nel suo Marxismo e filosofia del linguaggio. Dice Vološinov: “l’aspetto più
evidente ma nel contempo anche più superficiale, della valutazione sociale
racchiusa nella parola viene trasmesso con l’aiuto dell’intonazione espressiva”43.
Vološinov sta qui discutendo un passo del Diario di uno scrittore di F.M.
Dostoevskij44, nel quale la stessa parola (considerata tanto oscena da non essere
stata scritta da Dostoevskij stesso) viene pronunciata da sei persone diverse,
43
V. N. Vološinov, Marxismo e filosofia del linguaggio, trad. ital. di M. De Michiel, Manni: Lecce,
1999, p.229.
Polnoe sobranie sočinenij F.M. Dostoevskogo (Opere complete di F.M. Dostoevskij), Vol. IX, pagg.
274-5, 1906.
44
74
ognuna delle quali la investe con una intonazione e, come risultato, un significato
ben diverso da quelli dei suoi compagni. “Questa parola – continua Vološinov –
non è in sostanza che un sostegno per l’intonazione. La conversazione qui è
condotta dalle intonazioni, che esprimono le valutazioni dei parlanti”45. Ci
troviamo ad un livello pre - lessicale, sempre ad un livello umano, ma un livello
che gli esseri umani dividono con diverse altre specie di animali, e tale livello è
caratteristico non tanto di una lingua quanto di un sotto-codice o di un linguaggio
non-verbale.
2.
Gli altri tipi di linguaggi
Se ci fosse un linguaggio limitato alla sola intonazione, o alla pura indicazione di
un oggetto o concetto (come in un gioco linguistico alla Wittgenstein), esso non
sarebbe ancora una lingua, la quale per Gramsci, più che per molti altri linguisti, è
intimamente collegata alla cultura. Questa concezione della lingua è espressa
molto bene e chiaramente da Luigi Rosiello, grande linguista e studioso
dell’aspetto linguistico degli scritti gramsciani: “l’apprendimento di una lingua
storica rappresenta […] il momento di passaggio dalla natura alla cultura”46. Ma
nell’approccio e nella terminologia usata da Gramsci, la lingua stessa è l’insieme
di diversi linguaggi, e si può asserire che la cultura rappresenta la somma dei
contenuti di questi diversi linguaggi, compresi quelli non-verbali e quelli solo
parzialmente verbali. E, inoltre, si può aggiungere che i gradi più progrediti della
civiltà, in generale ma non sempre, contengono linguaggi non-verbali più
complessi di quelli meno progrediti.
Gramsci in parte prova a descrivere la differenza qualitativa tra i vari
linguaggi, anche quelli non-verbali, quando osserva che “tra l’arte letteraria e le
altre forme di espressione artistica (figurative, musicali, orchestriche ecc.) esiste
una differenza che bisognerebbe definire e precisare in modo teoricamente
giustificato e comprensibile” (Q23§7, 2193). E, in un altro dei paragrafi chiave
per i commenti sulle differenze tra i vari tipi di linguaggi, osserva che i linguaggi
non verbali si sviluppano molto più rapidamente del linguaggio letterario che,
invece, è “strettamente legato alla vita delle moltitudini nazionali e si sviluppa
45
Vološinov, op. cit., p. 231.
Luigi Rosiello “Scienza e politica in Noam Chomsky”, Rinascita 28 agosto 1970 e ora in Rosiello,
Linguistica e marxismo, Editori Riuniti: Roma 1974.
46
75
lentamente e solo molecolarmente”. Nei linguaggi delle arti, invece, sono vivi
“gli elementi espressivi del passato, si può dire di tutto il passato” e “in essi si
forma rapidamente una lingua cosmopolita che assorbe gli elementi tecnicoespressivi di tutte le nazioni che volta per volta producono grandi pittori, scrittori,
musicisti, ecc.” (Q6§62, 730). In appoggio a questa argomentazione cita
l’esempio di Wagner che “ha dato alla musica elementi linguistici che tutta la
letteratura tedesca non ha dato in tutta la sua storia”.
È la forma letteraria, la forma verbale, che “ha un carattere strettamente
nazionale – popolare -culturale”47, mentre “una statua di Michelangelo, un brano
musicale di Verdi, un balletto russo, un quadro di Raffaello ecc., possono invece
essere capiti quasi immediatamente da qualsiasi cittadino del mondo” (Q23§7,
2193-4)48. Tuttavia egli aggiunge qui il corollario che, davanti ad una statua di
Michelangelo o di una melodia di Verdi “l’emozione artistica” sentita da una
persona cresciuta in un ambiente culturale lontano da quello italiano “non sarà
della stessa intensità e colore dell’emozione di un italiano medio e tanto meno di
un italiano colto”. E, su un tema analogo, ricorda, come esempio di differenze tra
i linguaggi anche pittorici, “l’aneddoto del disegnatore che fa il profilo di un
negro e gli altri negri scherniscono il ritrattato perché il pittore gli ha riprodotto
«solo mezza faccia»” (Q6§62, 730). Può essere, come scrive Gramsci, che qui si
tratta di un livello primordiale dell’arte, ma va anche osservato che nell’arte
dell’alta cultura “occidentale” si è riusciti a dare una soluzione del problema della
“mezza faccia” solo con un movimento, il cubismo dei primi decenni del
ventesimo secolo, che ha incorporato anche le tecniche “primordiali” delle
“manifestazioni artistiche del folklore”, come Gramsci le definisce (loc.cit.).
2.1
Il cinema
Altro mezzo artistico, ancora relativamente nuovo all’epoca in cui Gramsci
scriveva, era il cinema49. Anche questa forma doveva crearsi un linguaggio di
47
Goethe è citato come uno dei massimi esponenti.
Queste righe, che compaiono con lievi variazioni anche in un testo di prima stesura (Q9§132, 1193),
rappresentano gli unici accenni che Gramsci fa nei Quaderni al balletto come forma artistica.
49
Forse stranamente, la fotografia, cioè la forma artistica dell’immagine statica, trova spazio nei
Quaderni solo in senso metaforico, ad esempio nel Q29§1, 2341: “La grammatica è «storia» o
«documento storico»: essa è la «fotografia» di una fase determinata di un linguaggio nazionale
(collettivo) [formatosi storicamente e in continuo sviluppo], o i tratti fondamentali di una fotografia.”
48
76
comunicazione proprio, ma qui si tratta, senza entrare nei particolari, di un
linguaggio e non una lingua come tale, perché, tra l’altro, non esiste tra il
pubblico e gli attori visti sullo schermo l’intercomunicazione che caratterizza una
lingua. Tra i compiti del nuovo linguaggio c’era quello di creare le forme adatte
alla narrazione dell’azione e per questo fine, forse più di altre forme artistiche, i
primi cineasti hanno dovuto inventare ex-novo una sintassi visiva. Tale termine
“sintassi” è da intendere in un significato non metaforico rispetto alle lingue
verbali, visto che per “sintassi” si intende il rapporto tra i segni linguistici, cioè
tra le unità di significato (il lessema nel linguaggio verbale e normalmente un
fotogramma o una breve serie di fotogrammi nel cinema). Sta di fatto che,
contemporaneamente a Gramsci, stavano iniziando il loro lavoro negli anni Venti
(nel caso dello statunitense D.W. Griffith anche nel decennio precedente) i grandi
registi che hanno creato la sintassi cinematografica per via del montaggio, dando
luogo in questo modo ad un rapporto non sempre “lineare” tra gli spezzoni
adiacenti del film. In questo contesto, per “non-linearità” si intendono diverse
cose e, anche limitando il discorso agli Anni Venti, si può citare la voluta
incoerenza semantica tra sequenze filmiche che caratterizza il lavoro
dell’esordiente Luis Buñuel50 e dei suoi compagni surrealisti; oppure
l’accelerazione dell’azione attraverso l’uso di “salti temporali” alla Lubitsch51;
oppure – l’esempio forse più famoso e citato – la giustapposizione, teorizzata e
praticata da Ejsenštein, di un numero limitato di fotogrammi allo scopo di creare
un significato diverso da quello di ogni fotogramma preso singolarmente52.
Gramsci non poteva essere al corrente di tutti gli sviluppi dell’epoca, ma vale la
pena di osservare che furono pubblicati nei mesi in cui Gramsci arrivò in Russia
un importante manifesto di Ejsenštein, assieme ad un altro di Dziga Vertov nel
quale si trovano i termini “cine-frase” e, addirittura, anche “cine-lingua”. Il
cinema, in seguito, si sviluppò e si mostrò capace di narrare eventi in modi
altrettanto innovativi (si pensi ad esempio, tra tante diverse tecniche, all’uso del
50
Cfr. Luis Buñuel e Salvador Dalí, Un chien andalou (1929).
Molte altre tecniche narrative furono inventate successivamente, ma qui ci limitiamo ad alcuni
commenti sullo sviluppo cinematografico contemporaneo al periodo sul quale scriveva Gramsci.
52
Cfr. il commento, in un volume classico sul cinema, sulla famosa sequenza del film di Ejsenštein,
La Corazzata Potemkin (1925), nella quale “tre statue di leoni differenti e filmate separatamente
formeranno, messe una dopo l’altra, un magnifico sintagma; si crederà che l’animale scolpito si drizzi,
si sarà portati a vedervi in tutta univocità il simbolo della rivolta operaia” (Christian Metz. Semiologia
del cinema, trad. italiana di Adriano Aprà e Franco Ferrini. Garzanti: Milano, 1989, p.63).
51
77
“flash-back”), attraverso un linguaggio che utilizza immagini dinamiche e,
simultaneamente, fa uso della musica nonché, dalla fine degli anni Venti, anche il
dialogo parlato.
Comunque, nelle arti, più che la tecnica è spesso il contenuto ciò di cui si
occupa Gramsci che, a più riprese, accosta il cinema, sia il nuovissimo
“cinematografo sonoro” sia quello muto già in via di estinzione, ai romanzi
popolari (Q3§78, 358; Q15§58, 1821; e Q23§7, 2195), paragone che sarà
approfondito autonomamente da diversi teorici del cinema53. Forse il commento
più rappresentativo di Gramsci sul paragone cinema-romanzo d’appendice
riguarda il francese Paul Nizan, il quale non sapeva “porre la quistione della così
detta «letteratura popolare», cioè della fortuna che ha in mezzo alle masse
nazionali la letteratura da appendice (avventurosa, poliziesca, gialla ecc.), fortuna
che è aiutata dal cinematografo e dal giornale” (Q15§58, 1821). Per quanto
riguarda, invece, la diffusione delle forme artistiche, nel primo commento da
trovarsi nei Quaderni sulla nuova arte cinematografica, Gramsci osserva che
anche ideologicamente “il teatro e il cinematografo hanno una rapidità e area
d’azione enormemente più vasta del libro” anche se, rispetto al libro, agiscono “in
superficie, non in profondità” (Q1§153, 135; cfr. anche la versione riscritta,
Q16§21, 1891).
Il cinema è paragonato anche al melodramma perché entrambe le forme
utilizzano delle tecniche simili e suscitano reazioni simili nel pubblico, fattori che
presi insieme spiegano “la ragione del «successo» internazionale del
cinematografo modernamente e, prima, del «melodramma» in particolare e della
musica in generale” (Q9§132, 1195, copiata senza modifiche nel Q23§7, 2195).
E, inoltre, in un altro paragrafo, questa volta nel quattordicesimo quaderno,
Gramsci osserva che il nuovo “cinematografo parlato, ma anche le didascalie del
vecchio cinematografo muto, [è] compilato tutto in stile melodrammatico”
(Q14§19, 1677).
53
Cfr. Colin McCabe, “From Realism and the Cinema: Notes on Some Brechtian Theses” ora in
Contemporary Film Theory (pp. 53-67), a cura di Anthony Easthope, Longman: New York, 1993. V.
pp. 54 e 56 per il parallelo che fa McCabe tra il cinema e i grandi romanzi realisti dell’Ottocento.
78
2.2
La musica e Il melodramma musicale
Il melodramma, che “in un certo senso è il romanzo popolare musicato” (Q21§1,
2109), è un tema al quale Gramsci torna una decina di volte nei Quaderni.
Rispetto ai romanzi di appendice, puramente verbali e ai quali è paragonato, il
melodramma musicale diventa il mezzo più “pestifero” appunto perché le parole
musicate si ricordano di più, e perciò plasmano più efficacemente il pensiero
(Q8§4, 969). Da questa forma artistica nasce, quindi, non solo in “alcuni strati
deteriori dell’intelligenza” ma anche nelle classi popolari, ciò che Gramsci in
questa stessa nota definisce “la concezione melodrammatica della vita”. Capisce
e, al tempo stesso, inveisce contro questa forma come modo di evadere da ciò che
molti popolani ritenevano “basso, meschino, spregevole … per entrare in una
sfera più eletta, di alti sentimenti e di nobili passioni”. Bersaglio principale
dell’attacco, qui come altrove nei Quaderni, è proprio Verdi. Di fatti in diversi
paragrafi collega Verdi con Mascagni e Puccini: anche a causa dell’analfabetismo
che caratterizzava il Paese nei primi decenni dello Stato unitario, il pubblico
voleva “Verdi, Puccini, Mascagni, che non hanno i corrispondenti nella
letteratura, evidentemente” (Q23§57, 2253; cfr. anche Q6§147, 807). Ed è stato
osservato da un altro filosofo del Novecento “Anche della comprensione d’una
frase musicale si può dire che c’è la comprensione di un linguaggio”54.
Il lato positivo della popolarità di compositori come Verdi, comunque,
risiede nel fatto che sottostante l’espressione “di carattere cosmopolitico del
linguaggio musicale” (e in altri contesti anche di quello pittorico, egli aggiunge)
esiste una “più profonda sostanza culturale, più ristretta, più «nazionale popolare»” (Q23§7, 2194). Infatti una delle caratteristiche dei linguaggi nonverbali è che anch’essi, quasi al pari della letteratura (l’esempio classico per
Gramsci è la Francia ottocentesca), possono essere rilevanti, anzi talvolta sono
indispensabili, per la formazione della coscienza popolare. Anzi, Gramsci osserva
che in Italia la musica, in una certa misura “ha sostituito, nella cultura popolare,
quella espressione artistica che in altri paesi è data dal romanzo popolare” e sono
“i genii musicali” che hanno avuto “quella popolarità che invece è mancata ai
letterati” (Q9§66, 1136). E, nello stesso paragrafo, si pone la domanda se la
fioritura dell’opera in musica, come manifestazione storico-culturale, “coincide in
54
Ludwig Wittgenstein, Zettel, trad. ital. di Mario Trinchero, Einaudi: Torino, 1967, §172.
79
tutte le sue fasi di sviluppo” con quella dell’“epica popolare rappresentata dal
romanzo”, cioè con inizio nel Settecento e “fioritura” nella prima metà del secolo
successivo. Le osservazioni di Gramsci in questo paragrafo dei Quaderni sono più
aperte e più ipotetiche di molti altri suoi commenti. Ma, ciononostante, arriva alla
doppia conclusione che “gli intellettuali italiani continuano la loro funzione
europea attraverso la musica” – i libretti, tra l’altro, hanno trame europee più che
nazionali – e che sia il romanzo sia il melodramma (compresa la sua versione
operistica italiana) “coincidono con la manifestazione e l’espansione delle forze
democratiche popolari-nazionali in tutta l’Europa” (loc. cit.). Gramsci stesso
(Q6§208, 846) osserva come canzoni d’amore passano “per due o tre
elaborazioni” per diventare canzoni politiche e anche come l’inno tirolese di
Andreas Hofer “ha dato la forma musicale alla Molodaia Gvardia” (Giovane
guardia) russa. Fenomeni simili sono successi nella Resistenza e, analogamente,
si può pensare agli esperimenti musicali, contemporanei a Gramsci, di BrechtWeill e di altri autori nella Germania di Weimar.
In forma diversa, la musica continua a svolgere un ruolo importante
come linguaggio politico-sociale non, o solo parzialmente, verbale. Un caso
interessante è il fenomeno dei cantautori, qui limitato al confronto tra la scena
nazionale italiana e quella anglofona. In entrambi i casi le parole sono importanti
ma forse non tanto il rapporto di mercato quanto il rapporto di egemonia
linguistica fa sì che anche i massimi cantautori italiani come, ad esempio Guccini
e De Andrè, sono poco esportabili, mentre i “singer-songwriters”, come Jim
Morrison o Bob Dylan, i Beatles o i Rolling Stones, non hanno problemi per
esportare la loro musica a Paesi occidentali non-anglofoni. La musica, compreso
il suo aspetto non verbale, può svolgere un ruolo importantissimo nella
formazione della coscienza nazionale, politica, di gruppi sociali e di classe. Ma,
va sottolineato, è importante per il pubblico anche l’aspetto non verbale e
puramente musicale di questo fenomeno. Per citare due casi, la scelta da parte di
Dylan di suonare uno strumento elettrico al posto della chitarra acustica
inizialmente significò per i suoi “fans” un cedimento ideologico. Al contrario, e a
distanza di solo pochissimi anni, Jimi Hendrix svolse la sua critica alla politica
imperialista statunitense in Vietnam, scelta effettuata con grande efficacia e resa
ancora più pungente e mordace dei più eloquenti discorsi orali, per mezzo della
sua versione parodistica, suonata alla chitarra elettrica, dell’inno nazionale “The
star-spangled banner” (inizialmente una canzone da taverna!).
80
Non si tratta, come molto parzialmente indicato qui, soltanto del legame
quasi diretto tra la musica e la politica, ma dei legami quali musica-giovani,
musica-gruppi etnici, nonché di legami culturali in senso più ampio che spesso
esprimono i desideri di cambiamento. Come osserva Gramsci: “l’arte è sempre
legata a una determinata cultura o civiltà, e che lottando per riformare la cultura si
giunge a modificare il «contenuto» dell’arte, si lavora a creare una nuova arte,
non dall’esterno …, ma dall’intimo, perché si modifica tutto l’uomo in quanto si
modificano i suoi sentimenti, le sue concezioni e i rapporti di cui l’uomo è
l’espressione necessaria” (Q21§1, 2109).
Senza cercare appositamente dei libri specialistici di sociologia della
musica, esempi di tali trasformazioni culturali sono da trovarsi anche consultando
i moderni corpora linguistici elettronici, ad esempio il “British National Corpus”,
costituito da ca. 100 milioni di parole in un database interrogabile55. Questo
corpus contiene articoli ed estratti di libri sulla musica, e forse più
sorprendentemente, collegate ad essi anche le egemonie delle diverse forme
musicali, comprese quelle popolari, oppure la trasformazione culturale che
conduce alla predominanza di un nuovo tipo di musica, aspetti impliciti tra l’altro
nel sopraccitato commento di Gramsci. Per illustrare un aspetto del rapporto
musica-egemonia, riferito a culture musicali diverse, basta una citazione che
potrebbe essere resa così: “Rivolgimenti paralleli accadono più o meno
contemporaneamente sia nel jazz, musica nella quale gli stili moderni, e in modo
diverso, il movimento neo-tradizionalista, sfidano l’egemonia dei cantanti
«coroner» e le orchestre da ballo tradizionali, sia nella cultura musicale d’elite,
nella quale l’esplosione modernista degli anni precedenti, capeggiata da
Schoenberg e Stravinsky, è emulata dal movimento iconoclastico
dell’avanguardia postbellico che faceva capo a Boulez, Stockhausen e Cage”56.
Un punto interessante, al quale si tornerà in chiusura è la simultaneità di
cambiamenti radicali, che si mostrano anche in altri contesti storici, ad esempio
55
Il BNC contiene la trascrizione di discorsi di vario genere, sia scritti (per ca. l’80%) sia orali (il
rimanente 20%), per costituire uno spaccato della lingua inglese come esisteva ed era usata
nell’ultimo ventennio del Novecento.
56
Middleton, R, Studying popular music. Open University Press: Milton Keynes, 1993, 3-83: “Parallel
upheavals occur at roughly the same time in jazz, where modern styles, and, in a different way, the
revivalist movement, challenge the hegemony of crooners and commercial dance-bands; and in elite
music culture, where the earlier modernist outburst, headed by Schoenberg and Stravinsky, is matched
by the iconoclasm of the post-war avant-garde led by Boulez, Stockhausen and Cage”.
81
negli anni Settanta del XX secolo, quando il fenomeno punk ha seguito alcuni (e
forse anche anticipato altri) aspetti della crisi provocata dalla rottura
dell’equilibrio sociale stabilito nel dopoguerra. La “recezione della musica da
ballo sincopata nei primi anni del Novecento, del rock’n’roll negli Anni
Cinquanta, del punk nei tardi Anni Settanta [sono] non solo fenomeni nuovi ma
fenomeni innaturali. Questi sono momenti che implicano elementi di crisi sociale,
o almeno dì inquietudine sociale, che segnano il declino della forza di
comportamenti articolati”57. Questi sono periodi analoghi a quelli descritti da
Gramsci quando scrive che il vecchio muore ma il nuovo non può nascere
(Q3§34, 311), eccetto che nel caso degli anni Settanta nasce il nuovo – culturale,
ma non ancora politico –, e il nuovo nasce come critica radicale del vecchio.
Stranamente in tutti i discorsi sul folclore non compare nei Quaderni il
lessema “musica folcloristica/folkloristica”, che per vasti strati della popolazione
aveva, e continua in molte zone ad avere, un’importanza ragguardevole e,
addirittura fondamentale come elemento che contribuisce alla formazione della
coscienza popolare. Esempi di questo aspetto della musica si trovano dovunque
in Europa, dai Balcani nel Sud-est fino alla Scozia nel Nord, paese quest’ultimo
nel quale la musica tradizionale plurisecolare è quella del “pibroch”58, ossia la
versione nazionale scozzese della cornamusa. La forma più colta di questa musica
consiste, come nella sonata classica, di tema con variazioni e raggiunge le altezze
che in Occidente (trascurando impropriamente alcune musiche del mondo
islamico) che solitamente caratterizzano solo la musica “classica” o di “alta
cultura”. La musica dei pibroch (la “pìobaireachd”) non solo riesce a trascendere
il confine che si afferma normalmente esista tra la musica folkloristica, da una
parte, e la musica “seria” del “grande canone” dell’altra ma anche si afferma
come forma musicale che fa parte integrale della coscienza nazionale.
Analogamente, per quanto riguarda il ruolo della musica orchestrale nel
processo della formazione delle coscienze nazionali, basta pensare al
57
Middleton, op. cit.: “the reception of syncopated dance music in the early 1900s, of rock 'n' roll in
the 1950s, and of punk in the late 1970s, as not only new but unnatural. These are moments involving
elements of social crisis, or at least social unrest, when the strength of accepted articulated patterns
declines.”
58
La parola “pibroch” spesso, ma non sempre, sottintende un’elegia, tra le più famose delle quali è
quella conosciuta col nome “Cha till MacCrimmon”, il lamento composto nel 1745, in occasione della
sconfitta definitiva dei clans, dal capo famiglia dei MacCrimmon, cioè i musicisti ereditari del clan
MacLeod che da ben trecento anni gestivano un’accademia per i suonatori della cornamusa in un’isola
(Raasay) del Nord-Ovest della Scozia.
82
romanticismo ottocentesco. La sopraccitata “espansione delle forze democratiche
popolari-nazionali” trova un parallelo, nel caso della formazione della coscienza
nazionale delle classi dirigenti e dei ceti medi nazionali, nella musica di
compositori come Dvorak, Smetana, ecc. Nel ventesimo secolo, invece, è Bartok
in particolare che unì la musica “classica” e folcloristica59, ma occorre non
dimenticare gli esperimenti di altro tipo negli anni Venti, condotti dai compositori
europei (“Les Six”, ad esempio) che provavano ad incorporare elementi della
nuova musica jazz nelle loro composizioni.
Si può, in conclusione su questo punto, affermare che, come linguaggio,
la musica fa appello diretto alle emozioni e, in modo non meno importante ma più
indirettamente, ai processi di ragionamento e di costruzione/ricostruzione della
coscienza.
2.3
L’architettura
Come esempio di un altro linguaggio non-verbale, Gramsci offre qualche spunto
sull’architettura. Ma è giusto considerare l’architettura un linguaggio? In un
senso, sì, è un linguaggio ma, considerato puramente come linguaggio, è forse più
limitato di quelli della musica o del cinema. Per le sue “parole” sono da intendere
gli elementi di base come pavimenti, tetti, muri, angoli, scale, porte e così via, e
sotto questo livello come “lettere” ci sono i mattoni o le pietre, il tutto sistemato
in modi che mostrano una certa regolarità, benché con variazioni, analogamente
alla struttura di una frase in una lingua naturale. E sono sia la struttura di un
edificio singolo sia l’insieme degli edifici che poi trasmettono un messaggio
semantico a chi li vede, messaggio che normalmente indica l’uso al quale viene
messo il complesso stesso degli edifici. La natura di un edificio è spesso anche un
segno del tipo di luogo dove esso si trova (in quale paese, in quale parte di tale
paese ecc., qual è il clima nel posto dove si trova, e altre cose ancora).
Uno dei passaggi dei Quaderni che sembra più appropriato da citare in
questo contesto si trova in un paragrafo del terzo Quaderno, le cui ultime righe
valgono la pena di essere citate per esteso: “Secondo me, una grande arte
architettonica può nascere solo dopo una fase transitoria di carattere «pratico», in
59
In epoca precedente, non va dimenticato Bach, il quale spesso incorporò nella sua musica i temi
popolari-folcloristici, addirittura anche nelle Variazioni Goldberg, una delle sommità supreme della
musica occidentale.
83
cui cioè si cerchi solo di raggiungere la massima soddisfazione ai bisogni
elementari del popolo col massimo di convenienze: ciò inteso in senso largo, non
cioè solo per quanto riguarda il singolo edifizio, la singola abitazione o il singolo
luogo di riunione per grandi masse, ma in quanto riguarda un complesso
architettonico, con strade, piazze, giardini, parchi, ecc.” (Q3§155, 407). Non,
quindi, una struttura architettonica imposta dall’alto, ma una struttura creata con
il contributo attivo degli utenti delle strutture stesse60. Se l’architettura, come le
altre arti, è considerata sotto l’aspetto del linguaggio, nel trattare in questo passo
non solo dei singoli edifici ma proprio del loro insieme, Gramsci svolge
metaforicamente un discorso “sopra-segmentale”, cioè un discorso complessivo
al di sopra del livello della singola frase grammaticale. Il messaggio semantico è
che occorre inventare degli stili architettonici nuovi, che poi influiscono sulle
scelte anche a livello di base (i mattoni o le pietre che in varie combinazioni
formano le strutture dei singoli edifici). Questi nuovi stili non possono essere
come quello del Seicento, contro la cui estetica, caratterizzata “dal prevalere
dell’elemento esternamente decorativo” (Q14, §1, 1655), occorre lottare. Come
risposta ai bisogni reali del popolo, Gramsci vede un funzionalismo e
razionalismo architettonico, i quali comportano una nuova estetica (loc.cit.).
Continua Gramsci nel capoverso successivo: “È evidente che in architettura
«razionalismo» significa semplicemente «moderno»: è anche evidente che
«razionale» non è altro che un modo di esprimere il bello secondo il gusto di un
certo tempo.”
Sempre nello stesso quaderno 14, Gramsci torna più volte al discorso del
funzionalismo e del razionalismo, che è “acclamato e giustificato”, stranamente,
solo nell’architettura. Qui entra il discorso degli “scopi pratici” dell’architettura
ma, più che “scopi pratici”, l’elemento importante è la necessità: “le case sono
necessarie per tutti”: non è per puro caso che il razionalismo e il funzionalismo
architettonico sono nati e si sono sviluppati nell’era delle socializzazioni,
processo inteso in senso largo (Q14§65, 1725). E all’inizio dello stesso quaderno,
la differenza tra l’architettura e le altre arti è spiegata così: l’architettura è un’arte
60
Ciò non nega l’elemento di coercizione, ma “coercizione” va inteso nel senso usato da Gramsci in
un’altra nota che tratta tra altre cose dell’architettura: “La coercizione è tale solo per chi non l’accetta,
non per chi l’accetta: se la coercizione si sviluppa secondo lo sviluppo delle forze sociali non è
coercizione, ma «rivelazione» di verità culturale ottenuta con un metodo accelerato” (Q14, §65,
1725).
84
più “pubblica”, ed è della collettività, non “privata”: “un quadro o un libro o una
statuina, può tenersi in luogo «personale» per il gusto personale; non così una
costruzione architettonica”, anzi “l’architettura è «collettiva» non solo come
«impiego», ma come «giudizio»” (Q14, §2, 1656).
L’insieme di queste osservazioni sull’architettura può essere letto contro
lo sfondo dei processi sociali in atto negli anni Venti e nei primi anni Trenta. Non
solo nell’URSS ci furono grandi progetti architettonici, ma anche a Vienna, dove
Gramsci abitava per alcuni mesi prima del suo rientro in Italia, ci fu un grande
movimento sociale di tutte le forze progressiste sul diritto alla casa degli operai, e
le osservazioni contenute soprattutto nel Q14 sembrano quasi un commento
diretto su tali avvenimenti. Per concludere sull’architettura come linguaggio, non
mancano nemmeno le metafore e gli aspetti egemonici dell’architettura. Fino
“alla disposizione delle vie e ai nomi di queste” (Q3§49, 333) anche l’architettura
funziona come parte della “struttura materiale dell’ideologia” e perciò, in questo
caso, anche dell’egemonia. Un esempio molto illuminante dell’aspetto
dell’egemonia risale ai primi decenni della rivoluzione industriale. Infatti in
determinati luoghi accadeva talvolta, ad esempio nel sito di una fabbrica inglese,
che ci fossero insieme un edificio che apparentemente era una chiesetta
protestante e accanto ad esso un altro edificio, apparentemente una caserma. Ma
risulta che la “chiesetta” è, invece, l’edificio che conteneva la ruota idraulica o, in
epoca leggermente successiva, la macchina a vapore, e poi ancora più tardi i
generatori elettrici; la “caserma”, d’altra parte, era la fabbrica stessa, dove
lavoravano gli operai. C’è qui l’egemonia borghese, espresso metaforicamente in
linguaggio architettonico: l’equilibrio tra consenso e coercizione è rappresentato
in termini architettonici dal potere della natura (acqua, vapore, elettricità) che
esce dal tempio-chiesa (forza spirituale-consenso) mentre la coercizionerepressione è rappresentata dalla caserma-fabbrica, dentro la quale gli operai sono
costretti a vendere la loro forza-lavoro attraverso il sistema del lavoro salariato
(forza fisica-coercizione).
3
Verso una conclusione
Gli scritti di Gramsci sull’arte (nel senso di tutte le arti) si inseriscono nel nesso
cultura-società, nell’ottica della lotta per la trasformazione della società attraverso
l’elevamento culturale di tutte le stratificazioni culturali disomogenee delle classi
85
subalterne. Il popolo, Gramsci osserva, è “contenutista”, nel senso di preferire
nell’arte contenuti che gli sono vicini, soprattutto se tali contenuti sono espressi
da grandi artisti (Q17§29, 1934). Come osserva altrove, “un’opera d’arte è tanto
più «artisticamente» popolare quanto più il suo contenuto morale, culturale,
sentimentale è aderente alla moralità, alla cultura, ai sentimenti nazionali, e non
intesi come qualcosa di statico, ma come un’attività in continuo sviluppo”
(Q6§62, 731-2; cfr. la posizione analoga in relazione alla musica espressa nel
Q5§156, 679-80). Ciò che rifiuta nettamente e a più riprese, comunque, è
l’intrusione nell’arte di “elementi extra - artistici” (Q5§27, 566) o di un
“contenuto morale estrinseco”, il quale degrada l’arte in mera propaganda (cfr.
Q23§51, 2257)61. In determinati periodi i tentativi di dettare il contenuto
attraverso la censura ecclesiastica “infastidi[va] anche i pittori” (Q17§15, 1919);
in questo caso Gramsci parla della chiesa cattolica ma, nel riportare uno scritto di
Croce su questo punto senza ulteriore commento aggiuntivo, sembra accettare
l’opinione del filosofo abruzzese che neppure il calvinismo, “favorì la libera
ricerca e il culto della bellezza” (Q16§9, 1859).
Non è trascurato nel discorso gramsciano il ruolo delle classi popolari
nella creazione di una nuova cultura. Innanzitutto, appoggiandosi ad una
posizione dello studioso medievalista Ezio Levi, Gramsci osserva che “i primi
elementi del Rinascimento non furono di origine aulica o scolastica, ma popolare,
e furono espressione di un movimento generale culturale religioso (patarino) di
ribellione agli istituti medioevali, chiesa e impero” (Q6§116, 1187; cfr. anche
Q15§64, 1829 sulla natura popolare delle innovazioni delle primissime fasi del
Rinascimento). Poi, anche se afferma che un artigiano “produce sempre le stesse
roncole, gli stessi carri, gli stessi finimenti da animali da tiro, ecc., per tutta la
vita” (Q5§140, 671) e solo in casi eccezionali raggiunge il livello di “creazione
individuale”, riconosce che, diversamente dalla produzione di massa fordista, la
creazione produttiva “era massima nell’artigiano, nel «demiurgo», quando la
personalità del lavoratore si rifletteva tutta nell’oggetto creato” (Q22§11, 2165).
Il forte legame tra arte e lavoro, caratteristico del vecchio artigianato, sembra
essere qui elevato al punto di partenza per un nuovo tipo di produzione industriale
61
Bersaglio degli attacchi su questo punto sono spesso gli scrittori ed artisti cattolici, e anche quelli
(dall’umanesimo in poi) che rappresentano gli stretti interessi particolari di una casta chiusa. La sua
posizione, al pari di quella di Marx (cfr. i commenti di questi sul realista Balzac), naturalmente
riconosce i meriti di artisti politicamente della parte avversa.
86
che trascenda il fordismo. E, sotto questo aspetto, Gramsci offre anche altri spunti
nel chiedersi, ad esempio “Quando una nuova civiltà sorge, non è naturale che
essa assuma forme «popolari» e primitive, che siano uomini «modesti» ad esserne
i portatori?” (Q6§116, 787); afferma inoltre, “se il mondo culturale per il quale si
lotta è un fatto vivente e necessario […] esso troverà i suoi artisti” (Q15§38,
1794) e, in versione leggermente diversa, dal movimento di tale mondo nuovo
“nasceranno nuovi artisti” (Q23§6, 2192).
Gramsci lascia aperta una questione, anzi non la tratta in modo
approfondito: cioè il rapporto tra i linguaggi non verbali. In particolare, ciò
riguarda il rapporto, anzi, la “traduzione” tra il linguaggio architettonico e quello
delle altre arti. Dopo aver detto (cfr. sopra) che “in architettura «razionalismo»
significa semplicemente «moderno»”, aggiunge “Di quanto e del come il
«razionalismo» dell’architettura possa diffondersi nelle altre arti è quistione
difficile e che sarà risolta dalla «critica dei fatti»” (Q14§2, 1665). In una
affermazione più controversa torna all’argomento, sempre nello stesso quaderno
“Cosa corrisponde in letteratura al «razionalismo» architettonico? Certamente la
letteratura «secondo un piano», cioè la letteratura «funzionale», secondo un
indirizzo sociale prestabilito” (Q14§65, 1724)62. Per altri tipi di discorsi Gramsci
parla del “circolo omogeneo” che nei decenni a cavallo della grande rivoluzione
francese collegava le attività della filosofia (tedesca), la politica e la letteratura
politica (francese) e l’economia (inglese): “deve esserci, nei loro principii teorici,
convertibilità da una all’altra, traduzione reciproca nel proprio specifico
linguaggio di ogni elemento costitutivo: uno è implicito nell’altro, e tutti insieme
formano un circolo omogeneo” (Q11§65, 1492). Per le forme artistiche, Gramsci
si avvicina a questa posizione quando parla dell’adattamento che un’epoca fa dei
lavori di un’era precedente e, in relazione ad eventuali lavori di natura popolare,
si chiede “Se questo si fa da una lingua in un’altra, per i capolavori del mondo
62
Tale posizione non rappresenta alcun tipo di cedimento verso la dittatura del contenuto artistico, ciò
che più tardi in URSS andava sotto il nome di zhdanovismo. Gramsci prende posizione a favore della
sperimentazione artistica quando afferma: “Che si debba parlare, per essere esatti, di lotta per una
«nuova cultura» e non per una «nuova arte» (in senso immediato) pare evidente”, cioè una nuova arte
nasce solo in base ad una nuova cultura (Q23§6, 2192), punto sul quale egli torna più volte con
sfumature diverse (Q4§5, 425; Q6§133, 798; Q21§1, 2109; Q22§3, 2187-90). Inoltre, per il lavoro
scientifico, specifica che “pare necessario che il lavorio di ricerca di nuove verità e di migliori, più
coerenti e chiare formulazioni delle verità stesse sia lasciato all’iniziativa libera dei singoli scienziati,
anche se essi continuamente ripongono in discussione gli stessi principi che paiono i più essenziali”
(Q11, 12, 1393).
87
classico che ogni età ha tradotto e imitato secondo le nuove culture, perché non si
potrebbe e dovrebbe fare per lavori come Spartaco e altri, che hanno un valore
[«culturale]-popolare» più che artistico? (Motivo da svolgere)”63 (Q6§208, 846).
E in altri periodi, anche per quanto riguarda altri linguaggi artistici,
spesso una svolta accade in più campi simultaneamente, aprendo così la
possibilità della traduzione fra di loro, come nel caso trattato da Gramsci di
filosofia – politica - economia. Esempi di tali svolte sono la pittura, la musica, le
arti visive, l’architettura e anche lo stile letterario nell’età barocca; oppure il
modernismo negli stessi campi, nonché anche in quelli della danza o della
religione (almeno in quella cristiano-cattolica e, secondo Gramsci, anche
nell’Islam: v. ad esempio Q20§4, 2090); e, in tempi ancora più vicini a noi nel
tempo, la svolta minimalista, forse non in tutti ma in gran parte degli stessi campi.
Ovviamente, mentre occorre evitare il riduzionismo, è evidente che svolte quasi
simultanee in campi intellettuali diversi non accadono per caso, e usando gli
stessi criteri di convertibilità abbozzati da Gramsci per il suo “circolo omogeneo”
di cui sopra, la traducibilità, intesa come possibilità della traduzione, esiste nel
senso che i cambiamenti ed i nuovi sviluppi in campi artistici diversi l’uno
dall’altro sono riconducibili a principi sociali di fondo.
63
Si tratta del romanzo ottocentesco Spartaco, di Raffaello Giovagnoli (non “Raffaele” come scritto
erroneamente nelle note dell’edizione gerrataniana).
88
Dialogo tra Gramsci e una sua ombra,
Testi montati e commentati di Antonio Gramsci e Tania Schucht,
musiche di Béla Bartók idea scenica in nove quadri di Giorgio Baratta
per Massimo Mila
e Franco Coggiola
Gramsci è autore di non-libri. I suoi scritti - lettere, articoli,documenti,
note e appunti, saggi incompiuti - sono i pezzi di un puzzle che spetta ai suoi
lettori comporre, montare, tradurre.
Il “dialogo” che qui si presenta si propone di interloquire con la scrittura
“monologica” di Gramsci assumendone la costante richiesta di comunicazione,
cooperazione, intervento: esso vuole offrire una prima approssimazione
all’immagine di un personaggio nel quale la scrittura e la vita, il pensiero e
l’azione, il privato e il pubblico appaiono sorprendententemente connessi, così
che il suo passato sembra entrare disinvoltamente nel nostro presente.
Quattro dei testi riportati nel Dialogo sono di Tania Schucht (da un
rapporto sulle sue prime visite nel carcere e da una lettera). Tutti gli altri sono di
Antonio Gramsci (da un articolo di giornale, dalle Lettere e dai Quaderni).
Verranno recitati da un unico interprete, possibilmente donna. Il commento detto senza alcuna enfasi - più che a un intento narrativo, si ispira al bisogno di
interlocutore che traspare continuamente dalla scrittura di Gramsci.
“Realismo contadino”, “delirio visionario”, “contrappunto germinale”:
ascoltato con Massimo Mila, il pianoforte di Bartók entra fluidamente in dialogo
con la lingua di Gramsci. Esso può aiutarci a riproporre quella tensione
produttiva tra alta cultura e cultura popolare, che l'uno e l'altro ci hanno
consegnato come un compito da assolvere per i prossimi mille anni.
Il Dialogo si snoda su nove “quadri”, i cui titoli verranno annunciati di
volta in volta da cartelloni sulla scena. In un eventuale secondo tempo - dopo un
breve inizio che ripete la fine del primo - non ci saranno più testi da re-citare:
solo un dialogo da improvvisare.
89
Quadro primo
Un sardo senza complicazioni psicologiche
Bartók, Sei danze popolari rumene. 1. Danza col bastone
Il 12 ottobre 1931 Antonio Gramsci dalla casa penale di Turi scrive alla cognata
Tania Schucht:
Io stesso non ho nessuna razza: mio padre è di origine albanese recente
(la famiglia scappò dall’Epiro dopo o durante le guerre del 1821 e si italianizzò
rapidamente); mia nonna era una Gonzalez e discendeva da qualche famiglia
italo - spagnola dell’Italia meridionale (come ne rimanevano tante dopo la
cessazione del dominio spagnolo); mia madre è sarda per il padre e per la
madre e la Sardegna fu unita al Piemonte sardo nel 1847 dopo essere stata un
feudo personale e un patrimonio dei principi piemontesi che la ebbero in cambio
della Sicilia che era troppo lontana e meno difendibile. Tuttavia la mia cultura è
italiana fondamentalmente e questo è il mio mondo: non mi sono mai accorto di
essere dilaniato tra due mondi, sebbene ciò sia stato scritto nel ‘Giornale
d’Italia’ del 1920, dove in un articolo di due colonne si spiegava la mia attività
politica a Torino, tra l’altro, con l’essere io sardo e non piemontese o siciliano
ecc. [...] D’altronde in Italia queste quistioni non sono mai state poste e nessuno
in Liguria si spaventa se un marinaio si porta al paese una moglie negra. Non
vanno a toccarla col dito insalivato per vedere se il nero va via né credono che
le lenzuola rimarranno tinte di nero.
Antonio Gramsci nasce ad Ales il 22 gennaio 1891. Sette anni più tardi il padre
Francesco, impiegato all’ufficio del registro di Ghilarza, viene arrestato per
peculato e condannato a cinque anni di galera. Sullo sfondo di questo episodio
una questione politica locale mai chiarita. La madre Peppina Marcias e i sette
figli cadono nella miseria. Piccolo, malato e gobbo, con un faccione aperto e
radioso e la lunga criniera che gli “ondeggia a ogni soffio”, Antonio non ha certo
una infanzia facile né felice.
Ho incominciato a lavorare da quando avevo 11 anni, guadagnando ben 9 lire al
mese (ciò che del resto significava un chilo di pane al giorno) per 10 ore al
90
giorno compresa la mattina della domenica e me la passavo a smuovere registri
che pesavano più di me e molte notti piangevo di nascosto perché mi doleva tutto
il corpo. Ho conosciuto quasi sempre solo l’aspetto più brutale della vita e me la
sono sempre cavata, bene o male. Neanche mia madre conosce tutta la mia vita e
le traversie che ho passato.
Figlia di piccoli possidenti ma troppo orgogliosa per chiedere aiuto, Peppina
trentasettenne, alta e piacente, vestita “all’europea”, con la terza elementare ma
estremamente curiosa di letture di ogni genere, riesce a campare la famiglia
ammazzandosi di fatica. Antonio la ricorderà sempre come “una forza benefica e
piena di tenerezza per noi”.
Tu non puoi immaginare quante cose io ricordo in cui tu appari sempre come
una forza benefica e piena di tenerezza per noi. Se ci pensi bene, tutte le
quistioni dell’anima e dell’immortalità dell’anima e del paradiso e dell’inferno
non sono poi in fondo che un modo di vedere questo semplice fatto: che ogni
nostra azione si trasmette negli altri secondo il suo valore, di bene e di male,
passa di padre in figlio, da una generazione all’altra in un movimento perpetuo.
Poiché tutti i ricordi che noi abbiamo di te sono di bontà e di forza e tu hai dato
le tue forze per tirarci su, ciò significa che tu sei già da allora, nell’unico
paradiso reale che esista, che per una madre penso sia il cuore dei propri figli.
Vedi cosa ti ho scritto? Del resto non devi pensare che io voglia offendere le tue
opinioni religiose e poi penso che tu sei d’accordo con me più di quanto non
pare.
La tenerezza del ricordo, ragione di vita nel sepolcro carcerario, non impedisce al
pensatore sardo di dipingere la sua come una irrimediabile, autentica mamma.
Tu non devi avere nessun orgasmo, e devi solo pensare che io sono tranquillo.
Oh!, queste mamme, queste mamme! Se il mondo fosse stato sempre nelle loro
mani, gli uomini vivrebbero ancora dentro le caverne, vestiti solo di pelli di
caprone!
Italiano e internazionalista Gramsci lo è diventato dopo aver conosciuto le
tentazioni del separatismo. Il “sardo senza complicazioni psicologiche”, come
91
scriverà polemicamente di sé alla cognata russa, ha sempre manifestato un amore
profondo, inquieto e non complice per la sua terra d’origine. Egli porterà dentro
di sé tutti i “dolori della Sardegna”, le sue ribellioni, le lotte talora disperate, ma
anche l’immenso spazio pieno di luce, la lingua duttile, materiale e concreta, i
produttivi arcaismi, sfida permanente per una modernità troppo “secca,
macchinale e burocratica”.
Che cosa mi ha salvato dal diventare completamente un cencio inamidato?
L’istinto della ribellione, che da bambino era contro i ricchi, perché non potevo
andare a studiare, io che avevo preso dieci in tutte le materie nelle scuole
elementari, mentre andavano il figlio del macellaio, del farmacista, del
negoziante in tessuti. Esso si allargò per tutti i ricchi che opprimevano i
contadini della Sardegna ed io pensavo allora che bisognava lottare per
l’indipendenza nazionale della regione: “Al mare i continentali!”. Quante volte
ho ripetuto queste parole. Poi ho conosciuto la classe operaia di una città
industriale e ho capito ciò che realmente significavano le cose di Marx che avevo
letto prima per curiosità intellettuale. Mi sono appassionato così alla vita, per la
lotta, per la classe operaia.
A vent’anni Gramsci vince una borsa per la facoltà di lettere dell’Università di
Torino. Si butta a capofitto nello studio, ma squattrinato e ammalato, in lite con il
padre, non regge né accetta il ritmo degli esami e abbandona. La sua militanza
nel partito socialista si traduce in un’intensa attività giornalistica, che inaugura
un rapporto nuovo, democratico e dialogico con i lettori, promuovendo, come
dirà nei Quaderni, un “giornalismo integrale”, volto a interagire con essi per
formare “un nuovo senso comune”.
Il tipo di giornalismo che si considera in queste note è quello che si potrebbe
chiamare “integrale” [...] cioè quello che non solo intende soddisfare tutti i
bisogni [...] del suo pubblico, ma intende di creare e sviluppare questi bisogni e
quindi suscitare, in un certo senso, il suo pubblico, ed estenderne
progressivamente l’area.
La lingua del giovane giornalista, sapida e tagliente, lucida, dissacrante, ma
anche ricca di suoni e visioni, sembra ricalcare, a livello di scrittura, quella
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maestria nello “scomporre l’immagine in piani” diversi, in cui egli ritrovava il
senso della “nuova tendenza dell’arte odiernissima, dalla musica alla pittura dei
cubisti”. Alla vigilia della rivoluzione d’ottobre scrive su “Avanti!”:
Il mondo è veramente grande e terribile, e complicato. Ogni azione che viene
lanciata sulla sua complessità sveglia echi inaspettati.
Quadro secondo
Madame di Tebe
Gli anni verdi vedono Gramsci a Torino. “Scherzoso, sfottente e fanciullesco”:
così lo descrive Pia Carena, compagna infaticabile e amica del cuore. Terracini
ricorda il cappello sporco della cenere di millesigarette, la cravatta storta, gli
occhiali bene inforcati. Il barese Alfonso Leonetti, il “barigino” come lo
apostrofava Gramsci, racconta dell’accanito bevitore di caffè, amante
dell’operetta, un pò ossessivamente impegnato a canticchiarti l’amabile refrain di
“Madame di Tebe”.
Spesso a cuori e a picche, ansiose bocche chiedono la verità. Principi e plebe
vengono qua, Madame di Tebe le carte fa.
Battista Santhià, nato a Santhià, abitante a Santhià in via Santhià, l'operaio
specializzato protagonista dei consigli di fabbrica, rievoca l’implacabile vena
polemica di Gramsci, ma anche i suoi lunghi silenzi, ricchi di attesa per le parole
dei compagni. Voleva sapere tutto, ma proprio tutto, della condizione di fabbrica,
della qualità del lavoro, della vita quotidiana degli operai. Gramsci - conclude
Santhià - era un “capo che sapeva ascoltare”.
Gramsci ventenne era proprio un bel tipo, fin troppo burlone. Una lettera scritta
alla madre da Cagliari, ove stava terminando il liceo, prima di partire per Torino,
riporta un curioso episodio.
Carissima mamma,
[...] che papà non faccia davvero la pazzia di venir qui. Voi vi spaventate perché
la polizia domanda informazioni di uno? [...] State tranquilli, e ridete in faccia al
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tenente e a tutte le barbe dei carabinieri, come faccio io da un pezzo: poveretti,
in fondo bisogna compatirli: occupandosi come si occupano di socialisti e
anarchici, non hanno tempo di pensare ai ladri e ai malandrini, e hanno paura
che non rubino loro la lucerna.
A me l'altra notte in loggione mi hanno fatto osservazione perché ammiravo ad
alta voce gli splendidi baffi di una guardia di polizia: ed io le ho detto che si
tagliasse i baffi se non voleva che se ne parlasse. E perciò? Per la mia splendida
criniera che mi ondeggia ad ogni soffio mi hanno preso per una ragazza, e si
sono meravigliati che una donna facesse tanto chiasso in teatro: perché
vedevano solo la testa e la mano che faceva un sonoro pernacchio. Io non me la
son presa a male, anzi ho ringraziato dell'attenzione che mi usavano. Ma niente
di male. Purché non mettano le manette, domandino quante informazioni
vogliono. Bacia tanto tutti di casa, asciuga le lacrime di tutta la famiglia, e vivi
tranquilla. Baci anche da Nannaro che ha acquistato molto appetito dopo questo
fatto.
Quadro terzo
La capanna nella foresta
Bartók, Sei danze popolari rumene. 5. Polka rumena
Segretario di redazione dell’“Ordine Nuovo” e animatore del movimento
consiliare durante il biennio rosso, Gramsci è uno dei fondatori del Partito
comunista d’Italia. E’ a Mosca e Vienna come dirigente dell’Internazionale. A
Mosca nel 1922 conosce nel sanatorio “Foresta d’argento” la bella Giulia
Schucht, sorella di Eugenia e di Tania: tutte e tre, in modi diversi, cercheranno il
suo cuore. Grazie a Giulia Antonio scopre in sé, che si credeva “completamente
arido e disseccato, una piccola sorgente (piccola piccola...) di melanconia e di
chiaro di luna con contorno di azzurro”.
Sei danze popolari rumene. 3. Su un punto solo
Le voglio bene e ho la certezza che lei mi vuol bene. Sono, è vero, da molti anni
abituato a pensare che esista una impossibilità assoluta, quasi fatale, a che io
possa essere amato. Questa convinzione mi ha servito per troppo tempo come
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una difesa contro me stesso perché qualche volta non ritorni a pungermi e non
mi faccia rabbuiare. Da ragazzo, a dieci anni, ho cominciato a pensare così per i
miei genitori. Ero costretto a fare troppi sacrifizi e la mia salute era così debole
che mi ero persuaso di essere un sopportato, un intruso nella mia stessa
famiglia. Sono cose che non si dimenticano facilmente, che lasciano tracce molto
più profonde di quanto non si possa pensare. Tutti i miei sentimenti sono
avvelenati un pò da questa abitudine radicata. Ma oggi non riconosco quasi me
stesso, tanto sono cambiato e perciò mi pare strano che ella noti e dia
importanza a contrazioni nervose e a piccoli scatti che sono fuori di me, che
hanno forse un valore puramente fisico. Le voglio bene. Perché dice: “Troppo
presto”? Perché dice che il mio amore è qualche cosa fuori di lei, che non la
riguarda? Che pasticci, che imbrogli sono questi? Non sono un mistico, né lei è
una madonna bizantina.
Con Giulia Antonio scopre il piacere di fare “un pò il matto”, di ritornare
bambino, senza inibizioni.
Faccio un pò il matto [...] Quando ti abbraccerò ancora penso che mi sentirò
male, tanto la passione mi stravolgerà.
Vorrei averti vicina [...] Farei degli orologi di sughero, dei violini di cartapesta,
delle lucertole di cera con due code, insomma esaurirei tutto il repertorio dei
miei ricordi sardeschi.
Ma il tempo dell’amore è poco, ed è, come scrive Antonio a Julca, “rubato al
caso”, che altro non è se non quello straccio di tempo che, per l’appunto, quasi
per caso, viene lasciato libero da un impegno politico divoratore e totalizzante,
vissuto dal politico professionale con spirito critico e ironico oltre che con
generosità e dedizione.
Cara Julca,
Siamo stati troppo poco insieme, e quel poco ancora l’abbiamo rubato al caso:
la nostra felicità era un contrabbando del giorno per giorno, goduto in una
misteriosa capanna nella foresta. Ciò ha lasciato troppo rimpianto in tutto il
nostro essere, troppe vibrazioni che continuavano e continuano ad agitarci
insoddisfatte. Ecco la causa del nostro passeggero malessere. In fondo non
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abbiamo avuto il tempo di sentirci marito e moglie: siamo stati solo degli amanti
in luna di miele [...] Io non posso pensare senza profonda commozione a questo
periodo che ci ha dato la felicità e ci ha unito moralmente e intellettualmente.
Ricordi le tue esitazioni? Avevi ragione e io lo sentivo: ma più avevo ragione io.
Se io fossi partito senza che le nostre vite si fossero fuse, senza che la felicità di
essere l’uno dell’altro avesse fatto fortemente vibrare tutto il nostro essere,
avremmo noi superato questa crisi, che è stata poi così piccola cosa? Non lo so.
Tanto sono cambiato che non so neppure immaginare ciò che sarebbe altrimenti
successo, ma nulla di bene, io credo. Il nostro sarebbe stato, e più ci sarebbe
sembrato con la lontananza, un piccolo romanzo, un biancomangiare alla
Matilde Serao. Così mi pare, almeno, per quanto possa riuscire a ricostruire
un’ipotesi assurda.
Oggi invece penso così: - e se anche, per una dannata ipotesi, dovessi rimanere
ancora per lungo tempo lontano da Julca, cosa succederebbe? Certo mi
struggerei parecchio: il pensiero di altre vite che si svolgono lontano da me
sarebbe un assillo continuo, ma non perciò dispererei o sarei meno forte.
Attenderei e verrebbe pure il giorno in cui ci si ritroverebbe insieme, e si
tornerebbe bambini e ci si mostrerebbe la lingua e il tempo passato sembrerebbe
cancellato d’un tratto dal ricordo. Ciò penso oggi, anche perché sono sicuro di
rivederti tra breve, di nuovamente tenerti tra le mie braccia, per baciarti gli
occhi, per baciare i tuoi polsi, il tuo collo, per baciarti tutta, appassionatamente,
come un bambino goloso. Perché ti voglio immensamente bene, e capisco come
possano assumere un significato reale anche le espressioni che sembrano
divenute banali per il troppo uso che ne ha fatto la gente. Tutto si rinnova,
perché il nostro amore è una cosa nuova e noi siamo originalissimi volendoci
bene così come ce lo vogliamo anche tormentandoci un pò, qualche volta.
Quadro quarto
Un capo che sapeva ascoltare
Sei danze popolari rumene. 4. Danza del corno
“Tutto si rinnova” anche nella vita politica del rivoluzionario di professione, il
quale, pochi giorni prima di scrivere la lettera che ascolteremo, il 6 aprile 1924,
era stato eletto deputato del Parlamento italiano.
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Pare che proprio questa volta il destino crudele abbia proprio voluto che io fossi
deputato di... Venezia. Andrò quindi in Italia per qualche giorno, ma poi
ritornerò a uscire per andare all’Esecutivo allargato dell’Internazionale
comunista. Le elezioni sono andate molto bene per noi. Le notizie che il Partito
ha ricevuto dai vari posti sono ottime: abbiamo preso 304.000 voti ufficialmente,
ma in realtà ne abbiamo certamente preso più del doppio e i fascisti hanno
pensato di attribuirseli, cancellando con la gomma il segno comunista e
tracciandone uno fascista. Quando penso a ciò che sono costati agli operai e ai
contadini i voti datimi, quando penso che a Torino sotto il controllo dei bastoni
3.000 operai hanno scritto il mio nome e nel Veneto altri 3.000 in maggioranza
contadini hanno fatto altrettanto, che parecchi sono stati bastonati a sangue
perciò, giudico che una volta tanto l’essere deputato ha un valore e un
significato. Penso però che per fare il deputato rivoluzionario in una camera
dove 400 scimmie ubriache urleranno continuamente ci vorrebbe una voce e una
resistenza fisica superiori a quelle che io abbia. Ma cercherò di fare del mio
meglio: sono stati eletti alcuni operai energici e robusti che io conosco bene e
conto di poter svolgere un lavoro non del tutto inutile. Qualche fascista di mia
conoscenza si torcerà più di una volta dalla rabbia. Ma di ciò parleremo a voce,
perché ci sarà tempo, dato che la Camera si aprirà solo il 24 maggio e alle
prime riunioni io non potrò assistere perché sarò vicino a te per mostrarti la
lingua, in attesa di mostrarla a... Mussolini.
Ti bacio, chorosaia, slavnaia, ljubimaja, rodnaja.
Dalla breve stagione d’amore nascono Delio (morto nel 1981) che il padre potrà
godere per pochi mesi, e Giuliano (oggi ex insegnante di flauto a Mosca) che il
padre invece non ha mai visto. Il "capo che sapeva ascoltare” non poté mai
parlare con i propri figli, che a Mosca verranno tenuti all’oscuro, in seguito a una
infausta pressione di zia Eugenia, sorella di Giulia, sulla vera sorte del padre, il
quale dal carcere poteva comunicare con loro solo attraverso lettere che venivano
tradotte dalla madre.
Immagino che per Delio e Giuliano io debbo essere come una specie di olandese
volante, che per ragioni imperscrutabili non posso occuparmi di loro e
partecipare alla loro vita: come potrebbe scrivere l’Olandese volante? e poi mi
ripugna il mestiere di fantasma.
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Sei danze popolari rumene. 2. Danza con la sciarpa
Delio e Giuliano sanno poi tirare i sassi lontano, farli zufolare, farli rimbalzare
quattro e cinque volte nell’acqua? Mi dispiace di non aver potuto insegnar loro
tutte queste abilità e altre ancora.
Tornato a Roma nel fuoco della lotta antifascista, Gramsci era stato arrestato l’8
novembre 1926. E’ in permanente emigrazione anche come galeotto giacché, nei
primi tre mesi, conosce “quasi tutte le carceri della penisola”. Lo “aiuta a vivere”
il suo modo d’essere “scettico e scanzonato”, “quel certo spiritello ironico e
pieno di umore che mi accompagna sempre”, quella “punta di allegro umorismo”
che c’è nel “fondo del mio carattere”, come scrive alla madre.
Almeno i primi tre mesi dopo l’arresto furono molto movimentati ... sballottolato
da un estremo all’altro della penisola, sia pure con molte sofferenze fisiche, non
avevo tempo di annoiarmi. Sempre nuovi spettacoli da osservare, nuovi tipi
eccezionali da catalogare: davvero mi pareva di vivere in una novella
fantastica...
Il viaggio è stato per me come una lunghissima cinematografia: ho conosciuto e
visto un’infinità di tipi, dai più volgari e repugnanti ai più curiosi e ricchi di
caratteristiche interessanti [...] Immaginate che da Palermo a Milano si snodi un
immenso verme, che si compone e decompone continuamente, lasciando in ogni
carcere una parte dei suoi anelli, ricostituendone dei nuovi [...] Questo verme ha
dei covili, in ogni carcere, che si chiamano transiti, dove si rimane dai 2 agli 8
giorni, e che accumulano, raggrumandole, la sozzura e la miseria delle
generazioni. Si arriva, stanchi, sporchi, coi polsi addolorati per le lunghe ore di
ferri, con la barba lunga, coi capelli in disordine, con gli occhi infossati e
luccicanti per l’esaltazione della volontà e per l’insonnia; ci si butta per terra su
pagliericci che hanno chissà quale vetustà, vestiti, per non aver contatti col
sudiciume, avvolgendosi la faccia e le mani nei propri asciugamani, coprendosi
con coperte insufficienti tanto per non gelare. Si riparte ancora più sporchi e
stanchi, fino al nuovo transito, coi polsi ancora più lividi per il freddo dei ferri e
il peso delle catene e per la fatica di trasportare, così agghindati, i propri
bagagli; ma, pazienza, ora tutto è passato e mi sono già riposato. Sto qui, in una
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cella buona, riscaldata dal sole, coperto da un maglione che ho acquistato subito
e finalmente ho cacciato il freddo dalle mie vecchie ossa.
Sono come una palla di football che dei piedi anonimi possono lanciare da una
parte all’altra d’Italia.
Il carcere è una bruttissima cosa [...] Il peggiore guaio della mia vita attuale è la
noia.
Il caldo è atroce certi giorni, dormo poco, sono dominato da una grande
svogliatezza; anche il leggere non mi attrae. Come dicono in Sardegna, giro
nella cella come una mosca che non sa dove morire.
Gramsci vive con dignità e fermezza dentro le carceri fasciste che lo condurranno
alla morte, la sua condizione - egli dice - di “combattente che non ha avuto
fortuna nella lotta immediata”. Il suo pensiero corre spesso verso la madre.
Mi preoccupa molto lo stato d’animo della mamma [...] Per lei il mio
incarceramento è una terribile disgrazia alquanto misteriosa nelle sue
concatenazioni di cause ed effetti; per me è un episodio della lotta politica che si
combatteva e si continuerà a combattere non solo in Italia, ma in tutto il mondo,
per chissà quanto tempo ancora ... La poveretta ha molto sofferto e credo che
soffra tanto più in quanto nei nostri paesi è difficile comprendere che si può
andare in prigione senza essere né ladro, né imbroglione, né un assassino; essa
vive in condizioni di spavento permanente fin dallo scoppio della guerra (tre
miei fratelli erano al fronte) e aveva e ha una frase sua: “i miei figli li
macelleranno” che in sardo è terribilmente più espressiva che in italiano:
“faghere a pezza”. Pezza è la carne che si mette in vendita, mentre per l’uomo si
adopera il termine “carre”.
Quadro quinto
Filologia vivente
Sei danze popolari rumene. 6. Danza veloce
Il 4 giugno 1928 Gramsci viene condannato dal Tribunale speciale per la difesa
dello Stato a 20 anni, 4 mesi, 5 giorni di reclusione. Viene destinato al carcere di
Turi nei pressi di Bari. All’isolamento civile si accompagna un sempre maggiore
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isolamento politico. Si consuma poco a poco il suo distacco, che diventa infine
inconciliabile, dalla linea ufficiale del partito e dell’Internazionale, iniziato già
poco prima dell’arresto, nell’ottobre 1926. Gramsci aveva aspramente
polemizzato con il Comitato centrale del Partito comunista dell’Unione sovietica
per aver voluto “stravincere nella lotta” contro l’opposizione trotzkista mettendo
così a repentaglio “l’unità del nostro partito fratello di Russia” che era
“necessaria per lo sviluppo e il trionfo delle forze rivoluzionarie mondiali”.
Maggioranza e minoranza devono saper costruttivamente convivere, secondo
Gramsci, poiché il loro mandato è legittimo solo se è conseguenza dell’“azione”
del partito “tra le masse”: si tratta perciò in primo luogo dell’unità stessa delle
masse popolari, che non può mai essere meccanica o burocratica e che riconosce
anzi come sua linfa vitale “l’attrito dei singoli”.
Una coscienza collettiva, e cioè un organismo vivente, non si forma se non dopo
che la molteplicità si è unificata attraverso l’attrito dei singoli: né si può dire
che il “silenzio” non sia molteplicità. Un’orchestra che fa le prove, ogni
strumento per conto suo, dà l’impressione della più orribile cacofonia; eppure
queste prove sono la condizione perché l’orchestra viva come un solo
“strumento”.
“Tra grande massa, partito, gruppo dirigente” deve vigere secondo Gramsci “un
sistema che si potrebbe dire di filologia vivente’”, ove “filologia - egli dice - è
l’espressione metodologica dell’importanza che i fatti particolari siano accertati e
precisati nella loro inconfondibile ‘individualità’”. La parte precede e anticipa il
tutto, l’individuo viene valorizzato, non scompare nel collettivo. Esso è un
“centro di annodamento” di “organismi dai più semplici ai più complessi”. Già il
giovane Gramsci, estimatore di Whitman, aveva scritto:
L’individualità non viene soppressa nel comunismo: al contrario, essa vi trova le
condizioni del maggiore sviluppo, della infinita espansione, in quanto l’individuo
delega alla società ed economizza un complesso di sforzi e di attriti che oggi lo
esauriscono e lo logorano, e tutta l’energia spirituale rivolge al suo
miglioramento, al suo infinito sviluppo nel bene e nel bello.
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La vita del partito comunista deve rispecchiare la sostanza del principio critico, e
cioè la ricerca permanente di un equilibrio precario, mai garantito, epperò vitale,
tra l’uno e i molti, tra identità e diversità. E’ questo principio che ispira e regge la
teoria dell’egemonia, la quale integra a livello di sovrastrutture la lotta di classe,
approfondendo e componendo le contraddizioni non antagonistiche tra gruppi
sociali, generi, nazioni, nel contesto di una società civile che tende a identificarsi
con il popolo e per altro verso a superare il suo tradizionale distacco dallo Stato,
ad assorbirne anzi molteplici funzioni, spogliandole della tradizionale
contrapposizione tra dirigenti e diretti. Allievo di Machiavelli e di Lenin,
Gramsci si studia di introdurre nella politica una dialettica in filigrana tra identità
e differenze.
Lo stesso raggio luminoso passando per prismi diversi dà rifrazioni di luce
diversa: se si vuole la stessa rifrazione occorre tutta una serie di rettificazioni
dei singoli prismi. La “ripetizione” paziente e sistematica è un principio
metodico fondamentale: ma la ripetizione non meccanica, “ossessionante”,
materiale; ma l’adattamento di ogni concetto alle diverse peculiarità e tradizioni
culturali, il presentarlo e ripresentarlo in tutti i suoi aspetti positivi e nelle sue
negazioni tradizionali, organando sempre ogni aspetto parziale nella totalità.
Trovare la reale identità sotto l’apparente differenziazione e contraddizione, e
trovare la sostanziale diversità sotto l’apparente identità è la più delicata,
incompresa eppure essenziale dote del critico delle idee e dello storico dello
sviluppo sociale.
Gramsci inseguiva un modo molto immediato e diretto di vivere e pensare i
problemi tradizionali della filosofia. Sentiva sé e il mondo in cui operava come
una intricata, complicata, tormentata “combinazione di vecchio e di nuovo”. Il
comunismo era per lui in senso forte un progetto materiale e ideale di
“unificazione del genere umano”, ma anche, come già aveva detto Marx, il pieno
riconoscimento e valorizzazione di differenze e particolarità, dei diritti delle
diseguaglianze. C’era bisogno, a questo scopo, di un ampio e contraddittorio
processo di sintesi, frutto di una tensione produttiva tra l’uno e i molti, in quanto,
come egli dice, “tutte le storie particolari vivono solo nel quadro della storia
mondiale”. Gramsci prospettava acutamente il radicale superamento di ogni
eurocentrismo; con un senso critico spruzzato di ironia ribadiva però l’attualità
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della funzione civilizzatrice della tradizione occidentale nelle sue espressioni
migliori.
L’uomo moderno dovrebbe essere una sintesi di quelli che vengono...
ipostatizzati come caratteri nazionali: l’ingegnere americano, il filosofo tedesco,
il politico francese, ricreando, per dir così, l’uomo italiano del Rinascimento, il
tipo moderno di Leonardo da Vinci divenuto uomo-massa o uomo collettivo pur
mantenendo la sua forte personalità e originalità individuale. Una cosa da nulla,
come vedi.
Una società liberata, e quindi una relazione più sana tra gli individui, non era per
lui solo un problema di emancipazione economica. Con altrettanta insistenza egli
poneva l’accento sui mutamenti di coscienza.
La questione etico - civile più importante legata alla quistione sessuale è quella
della formazione di una nuova personalità femminile: finché la donna non avrà
raggiunto non solo una reale indipendenza di fronte all’uomo, ma anche un
nuovo modo di concepire se stessa e la sua parte nei rapporti sessuali, la
quistione sessuale rimarrà ricca di caratteri morbosi.
Quadro sesto
Antigone e il prigioniero
Bartók, Microcosmo, V, 124, Staccato
Quale fosse il reale sentimento di Gramsci nei confronti delle donne non è facile
dire. Si avvertono in lui mescolati come in un crogiolo una vivissima passionalità
e un rigorismo morale intransigente, un profondo rispetto ma anche un eccesso di
orgoglio maschile, moderato dall’attesa di una prospettiva più avanzata, forse
anche da una corrente di femminilità presente, chissà con quanta consapevolezza,
nel suo animo. Scrive a Tania:
Ecco dove voglio colpirti e farti arrabbiare. Tu, come tutte le donne, in generale,
hai molta immaginazione e poca fantasia ancora, l’immaginazione in te (come
nelle donne in generale) lavora in un solo senso, nel senso che chiamerei (ti vedo
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fare un salto)... protettore degli animali, vegetariano, infermieristico: le donne
sono liriche (per elevarci un pò) ma non sono drammatiche. Immaginano la vita
degli altri (anche dei figli) dal solo punto di vista del dolore animale, ma non
sanno ricreare con la fantasia tutta una vita altrui, nel suo complesso, in tutti i
suoi aspetti. (Bada che io constato, non giudico, né oso trarre conseguenze per
l’avvenire; descrivo ciò che esiste oggi).
La modalità principale dei rapporti di Gramsci con le donne è stata una forzosa
rinuncia all’amore, per motivi personali prima, politici poi. Vienna, 11 maggio
1924
Mia cara Julca,
domani parto per l’Italia, e dopo qualche tempo ripartirò per venire al V
Congresso e all’Esecutivo Allargato. Per varie e incresciose ragioni ho dovuto
trattenermi qui più di quanto pensassi. Mi ero tanto abituato a pensare che tra
breve, alla fine di maggio, ti avrei rivista, che non riesco a consolarmi [...] Per
me è necessario che ci riuniamo: mi pare di essere diventato un punto
interrogativo nell’infinito spazio; non so dove mettere i piedi per trovare una
concretezza. Penso a te continuamente e mi viene la voglia di scrivere delle
elegie gemebonde contro l’avverso destino che ci ha separato così giovani,
quando appena avevamo cominciato a conoscere la felicità.
Sei anni più tardi non solo la felicità appare brutalmente spezzata; persino la
comunicazione epistolare tra il militante recluso e la moglie a Mosca, che non ha
più rivisto e mai più rivedrà, appare a lui rispecchiare “rapporti [...]
convenzionali, bizantini, senza spontaneità”.
Carissima Giulia,
[...] nella nostra corrispondenza manca appunto una “corrispondenza” effettiva
e concreta: non siamo mai riusciti a intavolare un “dialogo”: le nostre lettere
sono una serie di “monologhi” che non sempre riescono ad accordarsi neanche
nelle linee generali; se a questo si aggiunge l’elemento tempo, che fa
dimenticare ciò che si è scritto precedentemente, l’impressione del puro
“monologo” si rafforza. Non ti pare? Ricordo una novellina popolare
scandinava: - tre giganti abitano nella Scandinavia lontani uno dall’altro come
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le grandi montagne. Dopo migliaia d’anni di silenzio, il primo gigante grida agli
altri due: - “Sento muggire un armento di vacche!” - Dopo trecento anni il
secondo gigante interviene: “Ho sentito anch’io il mugghio!” e dopo altri
trecento anni il terzo gigante intima: “Se continuate a far chiasso così, io me ne
vado!” - Beh! non ho proprio voglia di scrivere, c’è un vento di scirocco che dà
l’impressione di essere ubbriachi.
Un rilievo pari a quello che ha avuto la madre nella sua infanzia, ha avuto negli
anni della maturità trascorsi in carcere la cognata Tania, sua amica – amante sorella: una relazione platonica, ma di un platonismo fonte di vita. In analogia a
un sentimento espresso da Rosa Luxemburg, è stato chiamato “sublime” il
rapporto tra Tania e Antonio: un sentimento trasceso o idealizzato, spostato verso
lidi immateriali i quali però, accettando la metafora, furono un porto sicuro per la
tempestosa navigazione carceraria del comunista sardo. Per Tania si trattò di una
immersione totale nella vita affettiva e politica di Antonio, che si concluse forse
con un naufragio. Sappiamo pochissimo su di lei, morta pochi anni dopo la morte
di lui, all’infuori di questa relazione. Non è un caso che Tania si interrogasse
addirittura sulla necessità di rinunciare a se stessa per potersi ritrovare donandosi
a un altro.
Forse si dovrebbe vivere sempre al di fuori del proprio io per poter gustare la
vita con la maggiore intensità?
Viceversa era Antonio a proporre un sentimento di sé che relativizza
radicalmente la compattezza e autosufficienza dell’individuo, riaffermandolo
però con forza nel reimmetterlo in un circuito di relazioni aperte e indefinite.
Non so immaginare come si possa vivere al di fuori del proprio io, dato che
esista un io identificabile una volta per sempre e non si tratti della propria
personalità in continuo movimento, cosa per cui si è continuamente fuori del
proprio io e continuamente dentro.
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Quadro settimo
Nuovo ordine
Bartók, Allegro barbaro
Data la straordinaria apertura alla vita degli altri che caratterizza il mondo
interiore di Gramsci, si può intuire lo spessore drammatico del dubbio che in
carcere lo assale, di poter perdere l’autocontrollo e con esso la propria identità.
Scrive a Tania il 6 marzo 1933:
Ho ancora vivo il ricordo di un paragone che ti ho fatto nel colloquio di
domenica per spiegarti ciò che avviene in me [...] Immagina un naufragio e che
un certo numero di persone si rifugino in una scialuppa per salvarsi senza
sapere dove, quando e dopo quali peripezie effettivamente si salveranno. Prima
del naufragio, com’è naturale, nessuno dei futuri naufraghi pensava di
diventare... naufrago e quindi tanto meno pensava di essere condotto a
commettere gli atti che dei naufraghi, in certe condizioni, possono commettere,
per esempio, l’atto di diventare... antropofaghi. Ognuno di costoro, se
interrogato a freddo su che cosa avrebbe fatto nell’alternativa di morire o di
diventare cannibale, avrebbe risposto, con la massima buona fede, che, data
l’alternativa, avrebbe scelto certamente di morire. Avviene il naufragio, il rifugio
nella scialuppa ecc. Dopo qualche giorno, essendo mancati i viveri, l’idea del
cannibalismo si presenta in una luce diversa, finché a un certo punto, di quelle
persone date, un certo numero diviene davvero cannibale. Ma in realtà si tratta
delle stesse persone? [...] Un simile mutamento sta avvenendo in me
(cannibalismo a parte). Il più grave è che in questi casi la personalità si sdoppia:
una parte osserva il processo, l’altra parte lo subisce, ma la parte osservatrice
(finché questa parte esiste significa che c’è un autocontrollo e la possibilità di
riprendersi) sente la precarietà della propria posizione, cioè prevede che
giungerà un punto in cui la sua funzione sparirà, cioè non ci sarà più
autocontrollo, ma l’intera personalità sarà inghiottita da un nuovo “individuo”
con impulso, iniziative, modi di pensare diversi da quelli precedenti. Ebbene io
mi trovo in questa situazione. Non so cosa potrà rimanere di me dopo la fine del
processo di mutazione che sento in via di sviluppo.
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Forse Gramsci temeva che qualcosa di analogo al naufrago che diventa
cannibale, potesse capitare non solo a lui stesso, come individuo singolo in carne
ed ossa, ma al movimento comunista, che dalla rivoluzione d’ottobre in poi
continuava a trovarsi sempre più in bilico - e in condizioni sempre più incerte tra progettualità rivoluzionaria e inghiottimento da parte di un nuovo individuo
sociale in rischio di pervertimento. Non si può escludere che Gramsci temesse
che anche il comunismo potesse cadere nel cannibalismo. Eppure un anno dopo
aver scritto questa lettera, egli ribadisce la sua convinzione politica di fondo, che
è anche il suo modo di progettarsi nel futuro dell’umanità: un futuro assai lontano
se, come risulterà subito evidente, egli pensava al comunismo ancor più che
come esito o sviluppo del socialismo sovietico in crisi permanente, quale
superamento dialettico della nuova forza egemone nel mondo, l’America
statunitense, che tanto spaventava l’Europa.
Ciò che oggi viene chiamato “americanismo” è in gran parte la critica
preventiva dei vecchi strati che dal possibile nuovo ordine saranno appunto
schiacciati e che sono già preda di un’ondata di panico sociale, di dissoluzione,
di disperazione, è un tentativo di reazione incosciente di chi è impotente a
ricostruire e fa leva sugli aspetti negativi del rivolgimento. Non è dai gruppi
sociali “condannati” dal nuovo ordine che si può attendere la ricostruzione, ma
da quelli che stanno creando, per imposizione e con la propria sofferenza, le basi
materiali di questo nuovo ordine: essi “devono” trovare il sistema di vita
“originale” e non di marca americana, per far diventare “libertà” ciò che oggi
è necessità.
Quadro ottavo
Il caffè col contorno di jazz
Bartók, Per i bambini, I, 1-4
Memore ma non nostalgico dell’umanità contadina, il filosofo sardo, di cui si
ricordano negli anni torinesi “gli occhi umanissimi, pieni di dolce fantasticheria
mentre guardava” gli uccelli, era colpito dalla “intossicazione” americanista e
fordista che aveva invaso il mondo, e cioè, come egli dice, dal “macchinismo che
stritola”, che erode e distruggeva l’“animalità” e quindi la “naturalità” nell’uomo.
106
Gramsci non era contro l’America, né contro l’industrialismo e la
modernizzazione della produzione. Ha scritto anzi che “l’antiamericanismo è
stupido, prima di essere comico”. Vedeva però nell’american way of life
l’approfondirsi di una contraddizione radicale, e potenzialmente mortale, tra
storia e natura, che solo il comunismo avrebbe potuto sciogliere nella direzione
di un progresso materiale e intellettuale di massa. Non era certo facile vivere
razionalmente questa contraddizione nel presente, e che presente quello di
Gramsci! Ma quello dei suoi figli?
Oggi i bambini, quando nascono, hanno già 80 anni, come il Lao-Tsé cinese. La
radio e l’aeroplano hanno distrutto per sempre il Robinsonismo, che è stato il
modo di fantasticare di tante generazioni. L’invenzione stessa del Meccano
indica come il bambino si intellettualizzi rapidamente.
Non ho mai saputo decidere se il Meccano, togliendo al bambino il suo proprio
spirito inventivo, sia il giocattolo moderno che più si può raccomandare “...” In
generale io penso che la cultura moderna (tipo americano), della quale il
meccano è l’espressione, renda l’uomo un pò secco, macchinale, burocratico, e
crei una mentalità astratta (in un senso diverso da quello che per “astratto”
s’intendeva nel secolo scorso). C’è stata l’astrattezza determinata da una
intossicazione metafisica, e c’è l’astrattezza determinata da una intossicazione
matematica.
Americanismo è per Gramsci non solo il fordismo che trasforma il lavoratore
nell’operaio-massa disegnato da Taylor come un “gorilla ammaestrato” oltre che
potenziale soggetto collettivo di lotta; americanismo è anche la contraddittoria
fucina dell’“uomo nuovo” e quindi della donna moderna che aspira
all’emancipazione economica e morale, ma è per altro verso attratta nella
trappola holliwoodiana dei “concorsi di bellezza” o nell’ideale borghese del
“mammifero di lusso”. Gramsci vedeva bene le facce contrastate della moderna
cultura di massa: quella industriale che penetra nell’inconscio e “disciplina” e
”standardizza” gli istinti sessuali; e quella ‘internazionale - popolare’ che si
esprime ad esempio nella musica e nella danza prodotte dai neri e diffuse in
Europa e nel mondo.
107
La musica e la danza importata in Europa dai negri hanno veramente
conquistato tutto uno strato della popolazione europea colta, hanno creato anzi
un vero fanatismo. Ora è impossibile immaginare che la ripetizione continuata
dei gesti fisici che i negri fanno intorno ai loro feticci danzando, che l’avere
sempre nelle orecchie il ritmo sincopato degli jazz-bands, rimangano senza
risultati ideologici; a) Si tratta di un fenomeno enormemente diffuso, che tocca
milioni e milioni di persone, specialmente giovani; b) si tratta di impressioni
molto energiche e violente, cioè che lasciano tracce profonde e durature; c) si
tratta di fenomeni musicali, cioè di manifestazioni che si esprimono nel
linguaggio più universale oggi esistente, nel linguaggio che più rapidamente
comunica immagini e impressioni totali di una civiltà [...] estranea alla nostra
ma certamente [...] primitiva ed elementare, cioè facilmente assimilabile e
generalizzabile dalla musica e dalla danza a tutto il mondo psichico.
Era un passo da una lettera a Tania del febbraio 1928, alla quale Gramsci
racconta di aver cercato di rassicurare, parlando del jazz nero americano, un
"povero evangelista", suo compagno di carcere, terrorizzato dall'idea che il
"cristianesimo europeo" potesse venir inquinato dall'invasione di oggettini
buddisti portatori dell’"ideolatria asiatica". Insomma il povero evangelista fu
convinto, che mentre aveva paura di diventare un asiatico, in realtà egli, senza
accorgersene, stava diventando un negro e che tale processo era terribilmente
avanzato, almeno fino alla fase di meticcio. Non so quali risultati siano stati
ottenuti: penso però che non sia più capace di rinunciare al caffè con contorno di
jazz e che d'ora innanzi si guarderà più attentamente nello specchio per
sorprendere i pigmenti di colore nel suo sangue.
Le vibrazioni più sottili dell’arco che Gramsci tende tra il calore del passato e il
freddo del presente carcerario, ruotano attorno allo spazio-tempo insieme mitico
e reale della Sardegna, all’eco sonora della lingua-dialetto, a memorie di fatti,
persone, piante, in modo particolare di animali della sua isola, che egli rivive con
una intensità bruciante. Ma non è la struggente nostalgia la nota dominante del
‘sardismo’ di Gramsci: lo è piuttosto la consapevolezza di quanto sia importante
riconoscere e approfondire l’esperienza delle origini, come egli comunica alla
sorella Teresina:
108
Lascia che i tuoi bambini succhino tutto il sardismo che vogliono e si sviluppino
spontaneamente nell’ambiente naturale in cui sono nati: ciò non sarà un
impaccio per il loro avvenire, tutt’altro.
Qualcosa del calore delle origini, che esalta e ferisce, penetra nel grigiore della
cella, riuscendo anche a rasserenare l’animo del carcerato. A San Vittore
Gramsci alleva due passerotti.
Il primo era molto più simpatico dell’attuale. Era molto fiero e di una grande
vivacità. L’attuale è modestissimo, di animo servile e senza iniziativa. Il primo
divenne subito padrone della cella. Credo che avesse uno spirito eminentemente
goethiano, come ho letto in una biografia a proposito dell’uomo biografato.
Über allen Gipfeln. Conquistava tutte le cime esistenti nella cella e quindi si
assideva per qualche minuto ad assaporarne la sublime pace. Salire sul tappo di
una bottiglietta di tamarindo era il suo perpetuo assillo; e perciò una volta
cadde in un recipiente pieno dei rifiuti della caffetteria e fu lì lì per affogare.
Quadro nono
La rosa è viva e fiorirà certamente
Bartók, All’aria aperta, II, 4, Musica della notte
Tania fu certo sorpresa, in occasione degli incontri che ella poté avere con lui nel
1929 a Turi, della insistenza di Antonio nel chiederle dei semi di rosa che egli
intendeva piantare nel cortile del carcere. In una relazione scritta per il partito
comunista Tania Schucht racconta:
Totale sette volte: il 18, 21, 25, 28, 30 marzo e 3 e 9 aprile; i colloqui avranno
avuto la durata media di mezza ora, e, meno che una sola volta, ebbero luogo
sempre in piedi, sotto una tettoia, nel cortile, in presenza di una guardia. Nel
primo colloquio comunicai ciò di cui ero incaricata. Antonio, invece, mi disse che
già non mi aspettava più. Espresse una grande ansia di avere notizie politiche. Lo
interessava il contenuto del discorso di Mussolini, il suo atteggiamento verso il
“Tribunale Speciale”. Voleva dei semi di fiori. La seconda volta lo trovai molto
agitato. “Ma perché non sei venuta prima?” disse. Credeva che dovessi partire il
109
giorno stesso. Ma siccome avevo già preso la decisione di fermarmi fino a
Pasqua, glielo dissi ed egli rimase tutto riconfortato, mi chiese subito se credevo
di poterlo vedere ancora, e quando lo rassicurai [disse] - “Allora ci vedremo
qualche volta ancora!” - e nel tempo rimanente del colloquio, mi chiese di
portargli varie cosette, ma ciò che egli desiderava maggiormente erano i semi di
fiori; promisi di accontentarlo.
Benché Antonio dica che in carcere si diventi terribili, penso invece che la sua
sensibilità per il prossimo si sia ancora acutizzata, a contatto della sofferenza. Ad
esempio, quando venni a Natale, lo trovai a letto; il Direttore aveva voluto farmi
entrare nella sua cella. Antonio non volle, mi disse: ”Sai che ci sono, qui dentro, di
quelli che da 30 anni non hanno veduto una donna: non dovevi entrare per questo”.
Allora Antonio mi chiese con insistenza una rosa rampicante, obiettai che non
credevo opportuno che si facesse un pergolato in carcere, non dovendo goderlo. E
Antonio rispose che sapeva invece di dovere stabilire mentalmente la sua esistenza
per lunghi anni a Turi, quindi poteva bene desiderare di avere un rosaio che
avrebbe fatto salire lungo il muro, sino alle celle.
La vita della rosa nel cortile di Turi ha un inizio non troppo felice ma Antonio
spera e scrive a Tania il 22 aprile:
La rosa ha preso una terribile insolazione: tutte le foglie e le parti più tenere sono
bruciate e carbonizzate; ha un aspetto desolato e triste, ma caccia fuori
nuovamente le gemme. Non è morta, almeno per ora. La catastrofe solare era
inevitabile, perché potrei coprirla solo con della carta, che il vento portava via;
sarebbe stato necessario avere un bel mazzo di paglia che è cattiva conduttrice del
calore e nello stesso tempo ripara dai raggi diretti. In ogni modo la prognosi è
favorevole, a eccezione di complicazioni straordinarie. I semi hanno tardato molto
a sortire in pianticelle: tutta una serie si intestardisce a fare la vita podpolie.64
Certo erano semi vecchi in parte tarlati. Quelli usciti alla luce del mondo, si
sviluppano lentamente, e sono irriconoscibili. Io penso che il giardiniere, quando
64
E’ una parola russa che in italiano significa “sotterranea” o anche “clandestina”.
110
ti ha detto che una parte dei semi erano bellissimi, voleva dire che erano utili da
mangiare; infatti alcune pianticelle rassomigliano stranamente al prezzemolo e
alle cipolline più che ai fiori. A me ogni giorno viene la tentazione di tirarle un pò
per aiutarle a crescere, ma rimango incerto tra le due concezioni del mondo e
dell’educazione: se essere rousseauiano e lasciar fare la natura che non sbaglia
mai ed è fondamentalmente buona o se essere volontarista e sforzare la natura
introducendo nell’evoluzione la mano esperta dell’uomo e il principio d’autorità.
Finora l’incertezza non è finita e nel capo mi tenzonano le due ideologie.
L’insistenza del filosofo giardiniere viene infine premiata. Antonio scrive a Tania
il 10 luglio:
Sai, la rosa si è completamente ravvivata. Dal 3 giugno al 15, di colpo, ha
cominciato a mettere occhi e poi foglie, finché si è completamente rifatta verde:
adesso ha dei rametti lunghi già 15 centimetri. Ha provato anche a dare un
bocciolino piccolo piccolo che però a un certo punto è illanguidito ed ora sta
ingiallendo. In ogni modo la pianta è attecchita e l’anno venturo darà certamente
i fiori. Non è neanche escluso che qualche rosellina timida timida la conduca a
compimento quest’anno stesso. Ciò mi fa piacere, perché da un anno in qua i
fenomeni cosmici mi interessano (forse il letto, come dicono al mio paese, è posto
secondo la direzione buona dei fluidi terrestri e quando riposo le cellule
dell’organismo roteano all’unisono con tutto l’universo). Ho aspettato con grande
ansia il solstizio d’estate e ora che la terra si inchina... verso il sole, sono più
contento (la quistione è legata col lume che portano la sera ed ecco trovato il
fluido terrestre!); il ciclo delle stagioni, legato ai solstizii ed agli equinozii, lo
sento come carne della mia carne; la rosa è viva e fiorirà certamente
questa rosa viva fa pensare a Rosa Luxemburg che in quegli stessi anni, anche lei,
coltivava le rose nel giardino della sua prigione. Antonio prosegue:
la rosa è viva e fiorirà certamente perché il caldo prepara il gelo e sotto la neve
palpitano già le prime violette, ecc. ecc.; insomma il tempo mi appare come una
cosa corpulenta, da quando la spazio non esiste più per me.
111
Questo tempo corpulento ha a che fare con l’origine ma anche con il senso dei
Quaderni del carcere, di questo flusso di note e appunti, tremila pagine stese con
una grafia chiara, stabile, quasi infantile nella sua purezza. I Quaderni hanno un
carattere intimamente frammentario: nulla in essi è concluso e conclusivo, tutto è
aperto e problematico (si avverte l’attesa socratica di un interlocutore). Eppure
sono l’espressione pura e cristallina di un pensiero pieno allo stato nascente.
Questa nascita permanente produce l’effetto di un organismo in movimento, di una
vita che pulsa... Gramsci stava subendo in modo del tutto particolare l’inesorabilità
del tempo - che egli chiamava “pseudonimo della vita” - gli effetti del divenire e
del dileguare delle cose. Non è solo il ciclo delle stagioni ad essere “carne della
sua carne”: lo è anche la storia drammatica degli umani vissuta come natura, come
corpo, come parte di sé e di cui egli stesso è parte.
“Non si possono capire i Quaderni senza aver letto con attenzione le Lettere”, che
qualcuno ha chiamato un “moderno breviario per laici” scritto da “un sardo senza
complicazioni psicologiche”. Da una lettera rivolta a Giulia nel giugno 1932 ci
viene ancora un pensiero che può valere come un invito a “continuare con
Gramsci”:
Occorre bruciare tutto il passato, e ricostruire tutta una vita nuova: non bisogna
lasciarci schiacciare dalla vita vissuta finora, o almeno bisogna conservarne solo
ciò che fu costruttivo e anche bello. Bisogna uscire dal fosso e buttar via il rospo
dal cuore.
Bartók, Microcosmo, 113, Ritmo bulgaro
112
113
114
PARTE SECONDA
LA SARDEGNA NEGLI SCRITTI DI ANTONIO GRAMSCI
SAGGIO CONCLUSIVO DEL PROGETTO DI RICERCA
20 luglio 1931
Carissima Tatiana,
non ho nessunissima voglia di scrivere.
Del resto, ciò dipende anche
da ragioni fisiologiche;
il caldo è atroce certi giorni, dormo poco,
sono dominato da una grande svogliatezza;
anche il leggere non mi attrae.
Come dicono in Sardegna,
giro nella cella come una mosca
che non sa dove morire.
Ti abbraccio teneramente
Antonio
5 gennaio 1937
Cara Iulca,
Nella letteratura italiana hanno scritto
che se la Sardegna è un'isola,
ogni sardo è un'isola nell'isola
e ricordo un articolo molto comico
di uno scrittore del «Giornale d'Italia»
che nel 1920 così cercava di spiegare
le mie tendenze intellettuali e politiche.
Ma forse un pochino di vero c'è.
Antonio
115
116
La Sardegna negli scritti di Antonio Gramsci
Nel 2007 ricorreva il 70° anniversario della morte di Antonio Gramsci (Ales 22
gennaio 1891 - Roma 27 aprile 1937) indubbiamente il più importante filosofo
sardo di tutti i tempi ed uno dei più grandi pensatori politici del ‘900.
L’indiscutibile rilevanza del pensatore potrebbe emergere chiaramente anche da
un unico dato: egli oggi, ancor prima di Dante Alighieri e Nicolò Machiavelli, è
l’autore in lingua italiana più tradotto nel mondo. Conseguentemente, come
ovvio, esiste una sterminata bibliografia sulla produzione letteraria, giornalistica,
filosofica gramsciana, che tuttavia solo in minima parte affronta il tema che si
vuole focalizzare con il presente progetto di ricerca e che riguarda proprio la
presenza della Sardegna in Gramsci e nella sua opera.
Quale Sardegna è presente negli scritti del pensatore di Ales? È solamente la
Sardegna biografica che emerge nei ricordi delle “lettere dal carcere”, oppure, c’è
anche una Sardegna culturale, sociale, morale e politica che genera ad esempio le
riflessioni critiche volte a “correggere” il marxismo operaista sulla necessità che a
lottare per l’emancipazione umana fossero non solo gli operai ma anche i
contadini? Cosa emerge da quella Sardegna contadina conosciuta da Gramsci
nell’infanzia? In questa attenzione alle peculiarità identitarie è possibile
riscontrare addirittura un anticipo sulla politica delle “vie nazionali”? Che tracce
ha lasciato, nell’opera letteraria e filosofica di Gramsci, quel mondo che il
pensatore di Ales aveva conosciuto nella sua giovinezza, prima di trasferirsi nella
città operaia italiana per antonomasia quale fu la Torino del biennio rosso?
L’approccio a questa tematica, come si vede, non è solo di tipo biografico ma
cerca di cogliere in tutta la sua vasta dimensione la “sardità” che emerge in mille
sfaccettature e riflessioni acute e penetranti.
Il metodo di ricerca ha dato centralità direttamente agli scritti, alla lettura del
corpus dell’edizione delle opere, quindi, in seconda battuta alle testimonianze ed
infine alla bibliografia. La scommessa era quella di focalizzare la vivacità e la
ricchezza della presenza in tutta l’opera gramsciana delle origini sarde intese non
solo come “origines” ma anche e altrettanto come luogo identitario fondativo di
esperienza morale, sociale, politica, umana.
Una presenza quella della Sardegna a volte in ombra, quasi come un fondale
marino, che però emerge nel Gramsci pensatore universale, nelle sue opere che
sono diventate oramai un vero e proprio classico della filosofia e della politica, le
117
lettere dal carcere, per usare le parole di Giorgio Baratta, sono quasi un breviario
laico, ed anche in quelle pagine ancora una volta c’è la Sardegna, così come nelle
pagine in cui Gramsci, l’intellettuale meridionalista ed il politico d’azione, trae
spunto ed oggetto di riflessione, proprio a dimostrare che la Sardegna ha avuto un
ruolo nella genesi del suo pensiero.
Gramsci nacque in Sardegna e partendo da questo legame originario con la sua
terra, sulla base degli scritti, sono stati sviluppati i seguenti temi: la Sardegna
come biografia degli affetti; la Sardegna contadina come fucina degli ideali e
dell’elaborazione politica; la Sardegna, il Partito degli operai e dei contadini; la
Sardegna e la Quistione meridionale.
La Sardegna come biografia degli affetti
La prima più semplice ed essenziale relazione fra Gramsci e la Sardegna è data da
quel legame originario con la propria terra che in special modo sentono le persone
nate in un’isola, le quali per conoscere culture diverse devono necessariamente
varcare il mare65, entità che “isola” e protegge ma allo stesso tempo anche limita.
I sardi sentono i legami familiari “in forme molto violente ed appassionate”
scriverà Gramsci in una lettera del 18 agosto del 1924.
Tutta l’infanzia e l’adolescenza66 di Nino, come lo chiamavano in famiglia, è
vissuta fra i paesi di Ales (dal 1891 al 1894), Sorgono (dal 1894 al 1899) e poi
stabilmente Ghilarza da cui si recava a Santu Lussurgiu per motivi di studio.
L’arresto del padre fu il primo evento doloroso e traumatico della sua vita,
65
A proposito si può leggere nella lettera n°405 del 5 gennaio 1937: (..) “Nella letteratura italiana
hanno scritto che se la Sardegna è un'isola, ogni sardo è un'isola nell'isola e ricordo un articolo
molto comico di uno scrittore del «Giornale d'Italia» che nel 1920 così cercava di spiegare le mie
tendenze intellettuali e politiche. Ma forse un pochino di vero c'è, quanto basta per dare l'accento
(veramente dare l'accento non è poco), ma non voglio mettermi ad analizzare: dirò «l'accento
grammaticale» e tu potrai divertirtene di cuore e ammirare la mia modestia grillesca”.
66
Fondamentale rimane la biografia di Giuseppe Fiori Vita di Antonio Gramsci a cui si rimanda. Edita
nel 1966 da Laterza, seppur con qualche perplessità poiché l’autore socialista mostrava quel lato
umano di Gramsci che l’agiografia del PCI, a partire dall’edizione delle lettere curata da Togliatti,
aveva tenuto in secondo piano. Vedi anche: Daniele C. Togliatti editore di Gramsci, Carocci, Roma,
2005, Cardia Marci S. Il giovane Gramsci, Ines, Cagliari, 1977, cfr. pp.21-47, Fiori G. Lettere a casa,
a cura di M. Brigaglia, Biblioteca della Nuova Sardegna, Sassari, 2003 e Carrus N. Gramsci e il suo
ambiente. La famiglia, il paese, la formazione, in Il pensiero permanente, Tema, Cagliari, 1999,
pp.115-125.
118
tuttavia quello che apparentemente potrebbe sembrare solo un fatto biografico, in
realtà, si colloca in una dimensione politica più ampia e nel contesto in cui la
Sardegna si trovava all’epoca. I partiti politici allora presenti infatti erano molto
attivi, battaglieri ed operosi, ma non erano costituiti da persone che vi aderivano
per via delle idee politiche di cui apparivano portatori, quanto piuttosto erano
“partiti personali, consorterie nel senso stretto della parola (..) dove pullulano
microscopici partiti personali nei diversi Comuni, tanto più astiosi e violenti
quanto più le ragioni del dissidio sono più prossime”, così si legge in una
relazione-inchiesta del deputato ozierese Francesco Pais Serra commissionata da
Crispi e consegnata nel 1896 67. In quest’ottica si colloca la vicenda di Francesco
Gramsci il quale alle elezioni del 1897 si schierò apertamente contro il deputato
Francesco Cocco Ortu, già sottosegretario all’agricoltura, ed in favore del suo
sfidante Enrico Carboni Boy in un confronto dall’esito incerto. La sfida si risolse
a favore del Cocco Ortu che di lì a poco sarebbe diventato ministro
dell’Agricoltura accrescendo notevolmente il suo potere e portando, come
conseguenza nelle ramificazioni paesane dei vari gruppetti che a lui facevano
riferimento, benefici per i vincitori e guai per i vinti. Pochi mesi dopo, a seguito
di un controllo a sorpresa presso l’ufficio del registro in cui Francesco Gramsci
lavorava, e da cui era momentaneamente assente per un lutto familiare, furono
riscontrate irregolarità e fu arrestato il 9 agosto del 1989. Nonostante “il lieve
danno e valore” e l’esiguità della cifra mancante il 27 ottobre del 1900 fu
condannato a cinque anni di carcere. La famiglia Gramsci non era poverissima,
tuttavia questa vicenda la gettò nella miseria più nera68, lasciando la madre ed i
sette figli senza alcun reddito. Furono anni durissimi che pesarono anche sul
giovane Gramsci che fu colpito da un’altra sventura seria, una malformazione
fisica che comparve, forse a seguito di una caduta all’età di quattro anni. La
madre, orgogliosa e tenace, dopo l’arresto di Francesco Gramsci non volle mai
chiedere aiuto ai fratelli del marito, ciò riteneva sarebbe stata un’umiliazione
67
Gramsci cita questa inchiesta nel Quaderno n°19, 26, “Il rapporto città-campagna nel Risorgimento
e nella struttura nazionale italiana.”, pp.2035-2046. L’edizione dei quaderni seguita è quella critica
dell’Istituto Gramsci a cura di V. Gerratana, Einaudi, 1975, si riporta il numero del quaderno, del
paragrafo, e se necessario delle pagine, es. Q.19, 26,pp.2035-2046.
68
Cfr. Paulesu Quercioli Mimma, Gramsci vivo nelle testimonianze dei suoi contemporanei,
Feltrinelli, 1977, p.13 la testimonianza della sorella Teresina più piccola di qualche anno che racconta
come certe sere non ci fosse cibo a sufficienza per tutti ed allora la madre regalava 5 centesimi ad
Antonio e Carlo che si addormentavano digiuni ma con quel soldo sotto il cuscino che poi però alla
mattina al risveglio era scomparso.
119
perché il suo matrimonio era stato accolto con ostilità69, e così affrontò gli eventi
con coraggio superandoli a costo di notevoli sacrifici ed enormi difficoltà70.
In quella Sardegna di consorterie politiche, in quegli stessi anni, il fanciullo
Gramsci conosceva l’isola dai meravigliosi paesaggi che si ritrova
splendidamente in alcuni quadri delle lettere dal carcere; Nino cresceva a contatto
con la natura, e ne parla nelle lettere al figlio, ad esempio la lettera 247 scritta il
22 febbraio del 1932:
Caro Delio, mi è piaciuto il tuo angoletto vivente coi fringuelli e i pesciolini. Se i
fringuelli scappano talvolta dalla gabbietta, non bisogna afferrarli per le ali o
per le gambe, che sono delicate e possono rompersi o slogarsi; occorre prenderli
a pugno pieno per tutto il corpo, senza stringere. Io da ragazzo ho allevato molti
uccelli e anche altri animali: falchi, barbagianni, cuculi, gazze, cornacchie,
cardellini, canarini, fringuelli, allodole ecc.; ho allevato una serpicina, una
donnola, dei ricci, delle tartarughe. Ecco come ho visto i ricci fare la raccolta
delle mele. Una sera d'autunno quando era già buio, ma splendeva luminosa la
luna, sono andato con un altro ragazzo, mio amico, in un campo pieno di alberi
da frutto, specialmente di meli. Ci siamo nascosti in un cespuglio, contro vento.
Ecco, a un tratto, sbucano i ricci, cinque, due più grossi e tre piccolini. In fila
indiana si sono avviati verso i meli, hanno girellato tra l'erba e poi si sono messi
al lavoro: aiutandosi coi musetti e con le gambette, facevano ruzzolare le mele,
che il vento aveva staccato dagli alberi, e le raccoglievano insieme in uno
spiazzetto, ben bene vicine una all'altra. Ma le mele giacenti per terra si vede che
non bastavano; il riccio più grande, col muso per aria, si guardò attorno, scelse
un albero molto curvo e si arrampicò, seguito da sua moglie. Si posarono su un
ramo carico e incominciarono a dondolarsi, ritmicamente; i loro movimenti si
comunicarono al ramo, che oscillò sempre più spesso, con scosse brusche e molte
altre mele caddero per terra. Radunate anche queste vicino alle altre, tutti i ricci,
grandi e piccoli, si arrotolarono, con gli aculei irti, e si sdraiarono sui frutti, che
rimanevano infilzati: chi aveva poche mele infilzate (i riccetti), ma il padre e la
madre erano riusciti a infilzare sette o otto mele per ciascuno. Mentre stavano
69
Ivi, p. 16
Scrive Gramsci nella lettera n°308 del 31 ottobre 1932: “la nostra generazione ha attraversato
tempi molto duri, e noi specialmente. Saremmo capaci di fare ciò che ha fatto la mamma trentacinque
anni fa? Di porsi lei sola, povera donna, contro una terribile bufera e di salvare sette figli? Certo la
sua vita è stata esemplare per noi e ci ha mostrato quanto valga la pertinacia per superare difficoltà
che sembravano insuperabili anche a uomini di grande fibra.”
70
120
ritornando alla loro tana, noi uscimmo dal nascondiglio, prendemmo i ricci in un
sacchetto e ce li portammo a casa. Io ebbi il padre e due riccetti e li tenni molti
mesi, liberi, nel cortile; essi davano la caccia a tutti gli animaletti, blatte,
maggiolini ecc. e mangiavano frutta e foglie d'insalata. Le foglie fresche
piacevano loro molto e così li potei addomesticare un poco; non si
appallottolavano più quando vedevano la gente. Avevano molta paura dei cani.
Io mi divertivo a portare nel cortile delle biscie vive per vedere come i ricci le
cacciavano. Appena il riccio si accorgeva della biscia, saltava lesto lesto sulle
quattro gambette e caricava con molto coraggio. La biscia sollevava la testa, con
la lingua fuori e fischiava; il riccio dava un leggero squittio, teneva la biscia con
le gambette davanti, le mordeva la nuca e poi se la mangiava pezzo a pezzo.
Questi ricci un giorno sparirono: certo qualcuno se li era presi per mangiarli.71
Il fanciullo Gramsci se ne andava in giro per le campagne, fra la valle del Tirso
ed Abbasanta. Descrittiva di questo contatto con la Sardegna negli anni
dell’infanzia è la lettera n°301 scritta il 10 ottobre 1932 dal carcere al figlio
Delio:
Molto tempo fa ti avevo promesso di scriverti alcune storie sugli animali che ho
conosciuto io da bambino, ma poi non ho potuto. Adesso proverò a raccontartene
qualcuna: – 1° Per esempio, la storia della volpe e del polledrino. Pare che la
volpe sappia quando deve nascere un polledrino, e sta all'agguato. E la cavallina
sa che la volpe è in agguato. Perciò, appena il polledrino nasce, la madre si
mette a correre in circolo intorno al piccolo che non può muoversi e scappare se
qualche animale selvatico lo assale. Eppure si vedono qualche volta, per le
strade della Sardegna, dei cavalli senza coda e senza orecchie. Perché? Perché
appena nati, la volpe, in un modo o in un altro, è riuscita ad avvicinarsi e ha
mangiato loro la coda e le orecchie ancora molli molli. Quando io ero bambino
uno di questi cavalli serviva a un vecchio venditore di olio, di candele, e di
petrolio, che andava da villaggio in villaggio a vendere la sua merce (non c'era
allora cooperative né altri modi di distribuire la merce), ma di domenica, perché
i monelli non gli dessero la baia, il venditore metteva al suo cavallo coda finta e
orecchie finte. – 2° Ora ti racconterò come ho visto la volpe la prima volta. Coi
miei fratellini andai un giorno in un campo di una zia dove erano due
grandissime querce e qualche albero da frutta; dovevamo fare la raccolta delle
71
Lettere dal carcere, a cura di S. Caprioglio e E. Fubini. – Torino, Einaudi, 1965, p.316
121
ghiande per dare da mangiare a un maialino. Il campo non era lontano dal
paese, ma tuttavia tutto era deserto intorno e si doveva scendere in una valle.
Appena entrati nel campo, ecco che sotto un albero era tranquillamente seduta
una grossa volpe, con la bella coda eretta come una bandiera. Non si spaventò
per nulla; ci mostrò i denti, ma sembrava che ridesse, non che minacciasse. Noi
bambini eravamo in collera che la volpe non avesse paura di noi; proprio non
aveva paura. Le tirammo dei sassi, ma essa si scostava appena e poi
ricominciava a guardarci beffarda e sorniona. Ci mettevamo dei bastoni alla
spalla e facevamo tutti insieme: bum! come fosse una fucilata, ma la volpe ci
mostrava i denti senza scomodarsi troppo. D'un tratto si sentì una fucilata sul
serio, sparata da qualcuno nei dintorni. Solo allora la volpe dette un balzo e
scappò rapidamente. Mi pare di vederla ancora, tutta gialla, correre come un
lampo su un muretto, sempre con la coda eretta e sparire in un macchione.72
Gramsci visse intensamente il contatto con la sua terra in tutti gli aspetti naturali,
sociali e folkloristici73. Era un bravo scolaro, aveva imparato l’italiano come
lingua madre e ciò gli consentiva di essere avvantaggiato rispetto ad altri ragazzi
educati nel sardo i quali imparavano l’italiano con la scolarizzazione. Il suo
amore per la lettura era sostenuto dalla famiglia, come testimonia la sorella
Teresina, in un dettaglio emblematico: si raccoglievano gli avanzi delle candele
per poterne fabbricare altre piccole affinché “Nino potesse leggere anche dopo
venuto il buio”74.
All’età di undici anni, Gramsci dovette interrompere gli studi e dal 1903 al 1905
andò a lavorare all’ufficio del catasto di Ghilarza con il fratello Gennaro, le
privazioni e le rinunzie in famiglia rendevano necessario il lavoro di tutti75.
Trenta anni dopo, nella lettera n°638 del 3 ottobre 1932 dal carcere a Tatiana
Schucht, sorella della moglie Julia, molto preoccupata per le sue condizioni di
salute, tanto da inviare un’istanza, ai sensi del regolamento carcerario, per
chiedere al Capo del Governo che Gramsci potesse essere visitato da un medico
72
Lettere dal carcere, cit. p. 378;
Il Fiori, op. cit., pp.23-24, ricorda Santu Antine a Sedilo, l’impeto della corsa dei cavalli, le
bancarelle dei torronai, le gare poetiche dialettali, e la festa di sant’Isidoro, il contadino, che Gramsci
ricorderà in una lettera alla madre del 3 ottobre 1927, n°51.
74
Fiori, Op. cit., p.27;
75
Cfr. Paulesu Quercioli, Op. cit., p.19, la testimonianza di Teresina Gramsci: una cesta di biancheria
stirata, ossia il lavoro delle donne di casa di una sera, valeva appena 3 lire;
73
122
di fiducia per sincerarsi delle reali condizioni di salute e dei peggioramenti dovuti
alla carcerazione, scriverà:
Non devi credere che io abbia intenzione di suicidarmi o di abbandonarmi, come
un cane morto, al filo della corrente. Mi dirigo da me da molto tempo e mi
dirigevo da me già da bambino. Ho incominciato a lavorare da quando avevo 11
anni, guadagnando ben 9 lire al mese (ciò che del resto significava un chilo di
pane al giorno) per 10 ore di lavoro al giorno compresa la mattina della
domenica e me la passavo a smuovere registri che pesavano più di me e molte
notti piangevo di nascosto perché mi doleva tutto il corpo. Ho conosciuto quasi
sempre solo l'aspetto più brutale della vita e me la sono sempre cavata, bene o
male. Neanche mia madre conosce tutta la mia vita e le traversie che ho passato:
a lei ricordo qualche volta quella piccola parte che in prospettiva sembra ora
piena di lietezza e di spensieratezza. Adesso le addolciscono la vecchiaia perché
le fanno dimenticare le traversie ben più gravi e le amarezze ben più profonde
che ella ha subito nello stesso tempo. Se ella sapesse che io conosco tutto quello
che conosco e che quegli avvenimenti mi hanno lasciato delle cicatrici, le
avvelenerei questi anni di vita in cui è bene che dimentichi e che vedendo la vita
lieta dei nipotini che ha intorno confonda le prospettive e pensi realmente che le
due epoche della sua vita sono la stessa e una.76
Dalla lettura di queste righe emergono due elementi essenziali: il primo che
Gramsci, nonostante tutto, seppe di quanto era accaduto al padre e del vero
motivo della sua assenza prolungata negli anni della sua infanzia. Furono vani gli
sforzi della madre per tenere tutto nascosto, tanto che per uno strano caso del
destino, nella lettera n°374 del 15 dicembre 1930 raccomandò a Tatiana Schucht
di convincere sua sorella a dire la verità al figlio sulla condizione di carcerato del
padre:
Non è né giusto né utile, in ultima analisi, tener nascosto ai bambini che io sono
in carcere: è possibile che la prima notizia determini in loro reazioni sgradevoli,
ma il modo di informarli deve essere scelto con criterio. Io penso che sia bene
trattare i bambini come esseri già ragionevoli e coi quali si parla seriamente
anche delle cose più serie; ciò fa in loro una impressione molto profonda,
rafforza il carattere, ma specialmente evita che la formazione del bambino sia
76
Archivio del Partito Comunista Italiano, fondo Gramsci, cfr. anche Antonio Gramsci – Tatiana
Schucht, Lettere 1926-1935, a cura di Aldo Natoli e Chiara Daniele, Einaudi, 1997, pp. 1087-1089.
Per la richiesta a Mussolini, ivi, pp.1090-1091.
123
lasciata al caso delle impressioni dell'ambiente e alla meccanicità degli incontri
fortuiti. È proprio strano che i grandi dimentichino di essere stati bambini e non
tengano conto delle loro proprie esperienze; io, per conto mio, ricordo come mi
offendesse e mi inducesse a rinchiudermi in me stesso e a fare vita a parte ogni
scoperta di sotterfugio usato per nascondermi anche le cose che potevano
addolorarmi; ero diventato, verso i dieci anni, un vero tormento per mia madre, e
mi ero talmente infanatichito per la franchezza e la verità nei rapporti reciproci
da fare delle scenate e provocare scandali.77
In secondo luogo emerge come la durezza di quella vita ne forgiò talmente il
carattere che sia negli anni della clandestinità, quando durante gli spostamenti più
di una volta ebbe a dormire sulla neve, sia negli anni del carcere, apparve una
forza d’animo veramente impressionante, che ha qualcosa del carattere sardo78.
Anche per questo alcune pagine delle lettere dal carcere avvicinano Gramsci ai
grandi martiri della libertà di pensiero di ogni tempo.
Nel 1905 i confini culturali della Sardegna si spalancarono con le prime letture
che incisero sulla formazione di Gramsci. Il fratello Gennaro, a Torino per
svolgere il servizio di leva, gli inviava il quotidiano socialista l’Avanti che
all’epoca godeva di un grande prestigio presso le masse, lo stesso che avrebbe
conquistato l’Unità prima della dittatura fascista e che sarebbe stato motivo di
grande orgoglio per Gramsci. Terminata la reclusione del padre, Gramsci poté
riprendere gli studi. Nei due anni di lavoro al catasto aveva comunque studiato
come autodidatta e con qualche lezione privata. Grazie a nuovi sacrifici dei
genitori si iscrisse al ginnasio di Santu Lussurgiu. In quegli anni viveva come
pensionante presso la casa di una contadina e talmente era l’amore per i libri che
arrivava a vendere una parte delle provviste che la famiglia gli inviava per
acquistare libri e riviste “sovversive” che tanto facevano preoccupare il padre, al
quale Gramsci rispondeva, non a caso, di essere l’ultimo dei borboni79. Ad
77
Antonio Gramsci – Tatiana Schucht, Lettere 1926-1935, cit., pp. 624-628. Un interessante spunto
pedagogico si può cogliere en passant in questa vicenda: così come Gramsci nella sua infanzia non
seppe dalla madre che suo padre era stato incarcerato, ma lo scoprì come una ferita profonda, così egli
stesso chiede che suo figlio sappia della situazione nella quale si trova, perché occorre trattare i
bambini come esseri ragionevoli, coi quali si parla anche di queste cose.
78
Cfr. Lilliu G. Gramsci il sardo, in Dentro la modernità, identità simboli, linguaggi, Tema, Cagliari,
2005, pp.63-69.
79
Il curioso aneddoto deriva dal fatto che il nonno di Gramsci, anch’egli faceva di nome Gennaro
come suo fratello, era nella gendarmeria borbonica e come scrisse nella lettera n°141 del 13 gennaio
124
Oristano nel 1908 conseguì la licenza ginnasiale, nonostante la preparazione
ricevuta fosse molto lacunosa80. I genitori si rendevano perfettamente conto che
non consentire a Gramsci di continuare gli studi sarebbe stato un grave errore
viste le sue doti intellettuali e il suo amore per la lettura e lo studio. Le difficoltà
economiche tuttavia erano enormi e così la soluzione fu trovata assieme al fratello
maggiore Gennaro, dipendente dell’ufficio del catasto di Ghilarza, il quale
avrebbe chiesto il trasferimento agli uffici di Cagliari e con i soldi del suo lavoro
e quelli inviati dalla famiglia avrebbe mantenuto se stesso ed il fratello. Fu in
questo modo che Gramsci si trasferì a Cagliari iscrivendosi al Liceo Dettori. Qui
venne a contatto con un mondo nuovo ricco di stimoli culturali, con i gruppi
giovanili socialisti nei quali si dibattevano i problemi sociali ed economici della
Sardegna, assistendo ai primi scioperi81.
Nel 1908 comincia la corrispondenza epistolare che accompagnerà Gramsci quasi
fino alla morte. Le lettere nel complesso degli scritti gramsciani occupano un
posto di rilievo, oltre che negli anni del carcere come unico mezzo per
comunicare all’esterno, anche negli anni dell’attività politica nazionale ed
internazionale esse erano il mezzo con cui comunicare opinioni ed idee su svariati
temi, e gettano una luce formidabile su tutta l’attività politica, di studio e
giornalistica di Gramsci fino al 1926 anno dell’arresto e del celebre ultimo
scambio di vedute con Togliatti su alcuni importantissimi punti politici pochi
giorni prima di essere arrestato82.
I tre anni trascorsi a Cagliari furono molto duri, “pensaci tu se con 40 lire sia
umanamente possibile vivere a Cagliari” scriveva al padre appena giunto nella
città capoluogo e spesso la scarsa attenzione del genitore, o forse le difficoltà
economiche, rendevano difficile anche la regolarizzazione dei documenti ed il
pagamento delle tasse scolastiche.83 Al 1909 risale l’incontro con Raffa Garzìa,
direttore de l’Unione sarda e docente al Liceo “Dettori”, un professore,
1930: “mio nonno, non te l'ho mai detto, era proprio colonnello della gendarmeria borbonica e
probabilmente fu tra quelli che arrestarono lo Spaventa antiborbonico e fautore di Carlo Alberto”.
80
Cfr. Fiori, op. cit., pp. 42-49.
81
Antonio Gramsci, Lettere 1908-1926, a cura di A. Santucci, Einaudi, Torino, 1992, lettera n°16, pp.
28-29, nota 2, lo sciopero degli studenti medi di Cagliari durerà oltre trenta giorni;
82
Si tratta della lettera n°182 del 14 ottobre 1926, e della lettera n°185 del 26 ottobre 1926, cfr.
Lettere 1908-1926, cit., pp.455-466 e 470-474.
83
Ivi, Lettere 1908-1926, cit. lettera n°4, pp. 9-10, dello stesso tenore numerose altre missive, cfr.
nn°6, 11, 16, 18, 19, 20, 21, ed altre, dove emergono le condizioni nelle quali Gramsci doveva
barcamenarsi.
125
anticlericale e radicale, giovane, ma burbero e severo, che non tollerava quasi
nessuno studente eccetto Gramsci, cui prestava anche libri per quella sua
insaziabile sete di lettura e conoscenza. Il primo testo diffuso a mezzo stampa di
Gramsci è proprio una corrispondenza da Aidomaggiore per l’Unione sarda dopo
di che ricevette anche il tesserino di giornalista. A questi anni risalgono le prime
letture di Marx84, ma i suoi autori più letti sono Benedetto Croce e Gaetano
Salvemini. Assieme ad altri studenti organizzò un circolo anticlericale intitolato
al filosofo Giordano Bruno che aveva sede a Cagliari in Via Barcellona nei pressi
del Liceo “Dettori” dove si organizzavano conferenze e letture, soprattutto dei
grandi poeti, Carducci, Leopardi, Foscolo, ma anche Sebastiano Satta85. Altro
episodio notevole di quegli anni è la visita del deputato socialista Guido Podrecca
direttore del periodico anticlericale L’asino che fu accolto a Cagliari con un
trionfo di folla e vi tenne una serie di conferenze su: “Il pensiero rivoluzionario di
Riccardo Wagner”, “Fede e morale”, “Il marito dell’anima” ed infine un comizio
sul tema “L’organizzazione operaia”, le iniziative furono seguite da Gramsci che
volle conoscerlo personalmente86.
Finiti gli studi liceali, che avevano comportato certamente enormi sacrifici
personali87 e rinunce anche per la sua famiglia, Gramsci per primo era
consapevole che una prosecuzione dei suoi studi non sarebbe stata possibile con i
soli mezzi finanziari della sua famiglia. L’unica possibilità era quella di ottenere
una borsa di studio, occasione che si presentò nel 1911. Gramsci vinse infatti in
quell’anno la borsa di studio universitaria del Collegio Carlo Alberto di Torino
84
Antonio Labriola è il tramite attraverso cui leggere il Manifesto del Partito Comunista di Marx,
interessante a proposito la lettera n°113 del 28 marzo 1924 a Vincenzo Bianco, cfr. “Lettere 19081926”, cit. pp.308-309. Gramsci, e Togliatti, abbandonano presto il positivismo e mantengono come
punto di riferimento gli scritti “In memoria del Manifesto dei Comunisti”, i “Saggi intorno alla
concezione materialistica della storia” e “Discorrendo di socialismo e di filosofia”. La cosa
maggiormente degna di nota è l’interesse che Gramsci dimostra verso la dimensione “pratica” ossia il
capire “come le idee diventano forze pratiche”.
85
Vedasi la testimonianza di Renato Figari compagno di classe di Gramsci al Liceo in Paulesu
Quercioli, Op. cit., pp. 21-26.
86
Ivi, Op. cit., p. 23. Il giudizio su Podrecca cambierà ben presto infatti quell’anticlericalismo troppo
spesso solamente rozzo, non teneva conto dell’enorme influenza esercitata sulle masse contadine
dalla religione e del fatto stesso della presenza in Italia del Vaticano: cfr. A. Gramsci, Il vaticano e
l’Italia, a cura di E. Fubini, Editori Riuniti, 1961.
87
Cfr. Paulesu Quercioli, Op. cit., pp. 22-23, la testimonianza del Figari: “era molto povero (..) gli
mancavano i mezzi per acquistare tutti i libri ed i giornali che avrebbe voluto e per frequentare il
teatro di prosa e di lirica che era una delle sue passioni. (..) i soldi che riceveva dalla famiglia
bastavano appena per sopravvivere”.
126
città in cui si trasferì. Conobbe Togliatti anch’egli borsista in quel collegio e nel
1912, come ricorderà Togliatti88, svolgeranno una ricerca sulla struttura sociale
della Sardegna. Durante gli anni torinesi il legame “affettivo” con la Sardegna
sarà dato fondamentalmente dall’epistolario, dalle frequentazioni degli altri
emigrati a Torino e dal ritorno nell’isola in occasione delle vacanze estive.
Sappiamo che nell’estate 1912 Gramsci fu prima a Ghilarza quindi a Bosa
marina, e di nuovo l’anno successivo in Sardegna, sempre a Ghilarza da dove
inviò la propria adesione al “Gruppo di azione e propaganda antiprotezionista”
che veniva promosso da Attilio Deffenu89. Assiste alle prime elezioni a suffragio
universale (26 ottobre e 2 novembre) dalle quali rimane molto colpito soprattutto
per il ruolo che assumono le masse contadine nella trasformazione sociale.
Due eloquenti testimonianze del Gramsci di questi anni vengono da un suo
illustre compagno di studi e militanza politica: Palmiro Togliatti: “Debbo dire che
il suo stato d’animo era allora, nei primi anni della sua giovinezza, fieramente
non soltanto sardo, ma, direi sardista. Egli sentiva profondamente il risentimento
comune a tutti i sardi contro i torti fatti all’isola; questo diventava anche per lui
risentimento contro i continentali e verso il Continente”. 90
Nel 1912 – 1913 Gramsci si appassiona agli studi di glottologia, sono di questo
periodo una serie di lettere alla famiglia con la richiesta di raccogliere
informazioni su alcuni vocaboli o modi di dire91 tipici della Sardegna, il
superamento dell’esame col massimo dei voti e la lode, era anche frutto delle
letture extrauniversitarie.
Dicevamo che la domanda: “Come le idee diventano forze pratiche?” era nel
1915 uno degli interessi filosofici principali del giovane Gramsci secondo il suo
professore di filosofia Annibale Pastore di cui seguì il corso di interpretazione
88
Togliatti P. Gramsci sardo, in Scritti su Gramsci, Editori Riuniti, 2001, cit. p.153.
Maiorca Bruno, Gramsci sardo, antologia e bibliografia 1903-2006, Tema, 2007, p.60: “Caro
Deffenu, ti ho già indirizzato da parecchio un vaglia di 2,00 lire quota di adesione al Gruppo sardo
della Lega antiprotezionista; ma prima non ne ho saputo nulla. Se tu non hai ricevuto fai il piacere
d’informarmi, perché io possa reclamare all’Ufficio postale. Saluti cordiali anche ad Alfredo
(Deffenu N.d.R.). Antonio Gramsci – Ghilarza 28 settembre 1913.” Attilio Deffenu si era laureato
l’anno prima a Pisa con una tesi su Teoria marxista della concentrazione capitalistica. Il 9 ottobre
1913 nel n°41 della “Voce” veniva registrata l’adesione al Gruppo di propaganda antiprotezionista,
che come nota Fiori, è la prima battaglia politica cui Gramsci prende parte.
90
Togliatti P. Scritti su Gramsci, Editori Riuniti, 2001, p.121.
91
Cfr. Lettere 1908-1926, cit. lett. n°32, pp. 61-62, lett. n°38, 39, pp. 71-74 e lettera n°41, p. 76 scritte
fra il 1912-1913 cfr Lilliu G. Gramsci e la lingua sarda, in Il pensiero permanente, Tema, Cagliari,
1999, pp.156-160.
89
127
critica del marxismo. Al 1915 risale l’ultimo esame universitario sostenuto anche
se, ancora per qualche anno, Gramsci penserà di poter concludere gli studi. Dopo
il 1917 il percorso teorico e d’azione del pensatore sardo si allontana sempre più
dagli interessi universitari, le sue attenzioni si dirigono verso gli studi marxisti e
verso l’impegno diretto sia nella stampa socialista, sia come militante ed aderente
alla frazione rivoluzionaria del PSI. La Rivoluzione d’ottobre naturalmente
contribuisce a rafforzarne l’adesione alle idee socialiste anche se da Gramsci
detta rivoluzione non sarà interpretata in un’ottica socialista come antigiacobina e
antiautoritaria.
Da allora i ritorni in Sardegna saranno sempre più rarefatti nonostante nei pensieri
di Gramsci sia sempre vivo il ricordo della sua isola. Nel 1920 partecipa
all’assemblea dell’associazione “Giovane Sardegna” dove si registra un suo
intervento polemico92 e nel dicembre di quell’anno ritorna in Sardegna per i
funerali della sorella Emma morta di malaria.
Dopo la fondazione de L’Ordine Nuovo Gramsci sarà assorbito da una notevole
attività giornalistica e politica; in questi anni si colloca il rapporto particolare che
egli ebbe con i soldati della Brigata Sassari di stanza a Torino. Già dal 1919 avviò
nelle loro fila una capillare opera di propaganda socialista che avrebbe dato i suoi
frutti quando i soldati si sarebbero rifiutati di sparare contro gli operai. Questo è
certamente un episodio singolare, infatti già prima del colpo di stato fascista del
1922 le violenze erano generalizzate ma sistematicamente rivolte contro gli
oppositori più duri: comunisti e socialisti. La sede del giornale in Via XX
settembre a Torino aveva due ingressi, uno ampio, in Via Lagrange, l’altro più
ristretto appunto in Via XX settembre. Entrambi gli ingressi erano ostruiti con
casse di legno riempite di pietre in modo da creare un percorso obbligato e
limitare la rapidità d’accesso in caso di aggressioni. Una prima volta alcuni
carabinieri sardi misero in fuga un gruppo di fascisti che si erano recati presso il
giornale per fare i gradassi93, una seconda volta i soldati della Brigata Sassari si
rifiutarono di sparare contro gli operai, motivo per il quale furono trasferiti94. La
notorietà di Gramsci presso le truppe sarde era considerevole. Tutto ciò non poté
comunque impedire la strage di Torino. Il segretario della Fiom, Pietro Ferrero, fu
legato ad un camion e trascinato fino alla morte, trenta operai furono prelevati
92
Cfr. oltre, in questo saggio, il capitolo su la Sardegna e la quistione meridionale.
Cfr. Paulesu Quercioli, Op. cit., pp. 33-34.
94
Cfr. Paulesu Quercioli, Op. cit., pp. 53-54, p.64, p. 105.
93
128
dalle loro case, uccisi e gettati nel Po. Alla redazione dell’Ordine Nuovo c’era un
gruppo permanente di difesa del giornale ed un altro gruppo di difesa personale di
Gramsci; era stato elaborato un piano di difesa in cui tutti avevano un ruolo
preciso ed anche Gramsci, quando scattava l’allarme, prendeva la rivoltella
calibro 6,35 ed andava diligentemente al suo posto95.
Negli anni torinesi erano molte le occasioni per ricordare la Sardegna, soprattutto
perché a Torino vi era una consistente immigrazione isolana e Gramsci “era
aggiornato su tutte le questioni che riguardavano la Sardegna e ne viveva tutto il
dramma”96 inoltre lo si trovava spesso a parlare in sardo con i suoi conterranei.
La nostalgia per la sua isola emerge in diverse lettere. Salvatosi dal massacro di
Torino del dicembre 1922, perché chiamato dal partito a ricoprire incarichi che lo
portavano a soggiornare tra Vienna e Mosca, ricorda le saline di Cagliari, chiede
alla madre in una lettera “è possibile avere fotografie del bacino del Tirso?”97.
Nel 1924 Gramsci venne eletto deputato per il PCd’I nella circoscrizione del
Veneto, così ne parla in un significativo passaggio di una lettera:
Le elezioni sono andate molto bene per noi. Le notizie che il partito ha ricevuto
dai vari posti sono ottime: abbiamo preso 304.000 voti ufficialmente, ma in
realtà ne avevamo preso più del doppio e i fascisti hanno pensato di attribuirseli,
cancellando con la gomma il segno comunista e tracciandone uno fascista.
Quando penso a ciò che sono costati agli operai e ai contadini i voti datimi,
quando penso che a Torino sotto il controllo dei bastoni 3.000 operai hanno
scritto il mio nome e nel Veneto altri 3.000 in maggioranza contadini hanno fatto
altrettanto, che parecchi sono stati bastonati a sangue per ciò giudico che una
volta tanto l’essere deputato ha un valore ed un significato. Penso che per fare il
deputato rivoluzionario in una camera dove 400 scimmie ubriache urleranno
continuamente ci vorrebbe una voce ed una resistenza fisica superiori a quelle
che io abbia. 98
Il suo ritorno in Sardegna come parlamentare fu certamente una cosa inattesa e di
grande prestigio anche per la famiglia. Sappiamo dalle lettere inviate alla moglie
95
Cfr. Paulesu Quercioli, Op. cit., pp. 56-58, p.72.
Cfr. Paulesu Quercioli, Op. cit., p. 60. Un esempio di questo interesse è dato dalla lettera del 22
ottobre 1917 ad Angelo Corsi al quale chiede di scrivere un articolo sul movimento economico
politico del proletariato sardo, cfr, Lettere 1908-1926, cit. lettera n°47, pp. 87-88, oppure la richiesta
di invio di un quotidiano sardo, ivi, lettera 49, pp. 90-91, ed anche lettera 128, pp. 352-353.
97
Lettere 1908-1926, cit. lettera n°78, pp. 157-158, e lettera n°141, pp. 375-376.
98
Lettere 1908-1926, cit. lettera n°119, pp. 324-325.
96
129
Julca in Russia, che quei giorni che si apprestava a passare nell’isola gli
avrebbero dato motivo per rasserenarsi e scriverle a lungo99. Ecco un passo al
riguardo tratto da una lettera:
Al mio paese ho giocato a lungo con una mia nipotina di quattro anni (..) ho
rivissuto un po’ della mia infanzia e mi sono divertito per tre giorni più così che
ricevendo le visite delle notabilità del paese, anche fasciste, che venivano a
visitarmi con grande sussiego e solennità, congratulandosi dell’essere io… un
deputato sia pure comunista. I sardi si fanno onore… eh! Forza paris! Avanti
Sardegna! Uno spasso indubbiamente. Ma vennero anche i soci della locale
società di mutuo soccorso, tra artigiani, operai o contadini, spingendo avanti il
loro presidente che non avrebbe voluto compromettere l’apoliticità del sodalizio,
e mi posero molte quistioni: sulla Russia, su come funzionano i soviet, sul
comunismo, su ciò che significhi capitale e capitalisti, sulla nostra tattica verso il
fascismo ecc. Questa riunione fu molto interessante perché se mi diede la misura
dei pregiudizi diffusi, dell’arretratezza del villaggio italiano, mi diede anche la
prova dell’insofferenza che esiste e dell’immensa forza che esercita la Russia (..)
un compagno parte fra giorni, ti porterà del sapone di Marsiglia (..) ed anche
una cuffietta sarda, del villaggio di Desulo, la quale prova, mi pare, strane
parentele tra i Chirghisi e i montanari della Barbagia (Barbagia = Barbaries).100
Il ritorno in Sardegna fu anche occasione per la riunione del congresso regionale
sardo del P.C.d’I., che ovviamente in forma clandestina si svolse il 26 ottobre nei
pressi di Cagliari101. Prende contatti con il Partito Sardo d’Azione. Qualche
settimana dopo eccolo ancora ricordare in modo semiserio i giorni trascorsi
nell’isola: “Sono stato in Sardegna, ho ripreso contatto con la terra della mia
fanciullezza, ho rivisto dei mezzi briganti che dicono non essere uomo chi a 20
anni non ha ammazzato e creato uomo, e saprò farmi coraggio102.
L’attività di Gramsci nel 1925-1926 è instancabile, su tutto il territorio nazionale
partecipa a decine di riunioni clandestine, svolge attività giornalistica, di studio e
di elaborazione politica. Nel gennaio del 1926 è eletto segretario del P.C.d’I.
99
Lettere 1908-1926, cit. lettera n°149, p. 392.
Lettere 1908-1926, cit. lettera n°150, pp. 393-395.
101
Restaino F., Con Gramsci a Is Arenas, in Rinascita sarda, 25 maggio 1963, e Marci G. Un
congresso clandestino, Con A. Gramsci il 26 ottobre 1924 nella zona paludosa di Is Arenas, Rinascita
sarda, n°5-6, 25 marzo 1975, p.5. Ne accenna anche Giovanni Lay Ricordando Antonio Gramsci, 24
novembre 1943, che fu con lui in carcere a Turi.
102
Lettere 1908-1926, cit. lettera n°154, pp. 402-403.
100
130
Intanto nel Partito Comunista dell’Urss, dopo la morte di Lenin nel 1924, come è
noto, si delineava una frattura fra Stalin e Bucharin da una parte e Trockij,
Zinov’ev e Kamenev dall’altra. Il celebre scambio di lettere fra Gramsci e
Togliatti sulle questioni russe è l’ultimo atto politico del Gramsci segretario del
P.C.d’I.103, infatti dirigendosi a Genova per una riunione del partito proprio su
questo tema viene arrestato dalla polizia, in spregio all’immunità parlamentare ed
alle leggi, e condotto in carcere104.
Dopo l’arresto Gramsci non vedrà più la Sardegna, avrà un incontro con fratello
Gennaro lungamente preparato dal centro estero clandestino del partito, dal quale
però non emergerà un’idea precisa di cosa egli pensasse delle questioni di cui in
un modo o nell’altro in carcere arrivava notizia.
Quando nel 1937 Gramsci fu scarcerato era ormai gravemente malato, era suo
desiderio ritornare in Sardegna, cosa per la quale si stava adoperando anche la
sorella Teresina105, ma non farà in tempo. Ci rimangono tre lettere suggestive, due
del 1936 e l’ultima del gennaio 1937, pochi mesi prima della morte:
Ti ringrazio delle notizie che mi mandi; che tu stai meglio e anche i ragazzi. Che
tu stia meglio veramente non so se possa dedursi dalle lettere: Tania dice di sì. Io
non so cosa scriverti, come scriverti ecc. Non so neanche cosa farò; mi pare che
se rientro in Sardegna, tutto un ciclo della mia vita si chiuderà forse
definitivamente.106
Non so ciò che puoi aver capito della mia espressione «finire un ciclo della vita»,
ma mi pare che non hai capito con esattezza e che hai dato all'espressione un
significato troppo tragico, che io non capisco con esattezza. (..) Ciò che io
intendo quando penso che un mio ritiro in Sardegna (che pure sento sarebbe e
potrebbe essere utile alla mia salute) sarebbe l'inizio di un nuovo ciclo della mia
vita è l'espressione di una analisi ben ponderata, nelle condizioni date, della mia
posizione che sarebbe di isolamento completo, di degradazione intellettuale più
103
Lettere 1908-1926, cit. lettera n°182, pp. 455-466 e lettera n°185, pp.470-474. vedi anche Fiori G.
Aspetti nuovi della biografia gramsciana, in Maiorca B. Gramsci sardo, antologia e bibliografia
1903-2006, Tema, 2007, pp. 196-201.
104
Sugli anni del carcere si è sviluppato un interessante dibattito nell’ultimo ventennio con numerosi
interventi fra i quali si possono vedere: Vacca G., Rossi A. Gramsci tra Mussolini e Stalin, Fazi, 2007,
Pistillo M. Gramsci in carcere. Le difficili verità d'un lento assassinio, Bari, Lacaita Editore, 2001,
Dubla F., Giusto M. Il Gramsci di Turi. Testimonianze dal carcere, Chimenti Editore, 2008.
105
Cfr. Paulesu Quercioli, Op. cit., p.21 e Mauro W. Voleva tornare in Sardegna. Morì nella notte. Il
Giorno, 27 aprile 1997.
106
Lettere dal carcere, lettera n°390 del luglio 1936.
131
accentuata dell'attuale, di annullamento o quasi di certe forme di attesa che in
questi anni, se mi hanno tormentato, hanno anche dato un certo contenuto alla
vita. Ma non credo che possa scrivere di questo argomento in modo da dartene
un senso profondo. Del resto, e questo mi pare per ora il più importante, non devi
credere che questi miei sentimenti esprimano scoraggiamento e un qualsiasi
pessimismo che dirò «storico». Ho sempre pensato che la mia sorte individuale
era una subordinata; ciò non vuol dire che anche la mia sorte individuale, come
quella di ogni altro individuo, non mi preoccupi e anche non mi «debba»
preoccupare.107
Fra le ultime testimonianze scritte di Gramsci sulla Sardegna108 c’è proprio la
lettera che abbiamo citato in apertura:
Nella letteratura italiana hanno scritto che se la Sardegna è un'isola, ogni sardo
è un'isola nell'isola e ricordo un articolo molto comico di uno scrittore del
«Giornale d'Italia» che nel 1920 così cercava di spiegare le mie tendenze
intellettuali e politiche. Ma forse un pochino di vero c'è, quanto basta per dare
l'accento (veramente dare l'accento non è poco, ma non voglio mettermi ad
analizzare: dirò «l'accento grammaticale» e tu potrai divertirtene di cuore e
ammirare la mia modestia grillesca). Cara, ti abbraccio con tutta la mia
tenerezza. Antonio.
La Sardegna contadina come fucina degli ideali e dell’elaborazione politica
Debbo dire che il suo stato d’animo era allora, nei primi anni della sua
giovinezza, fieramente non soltanto sardo ma, direi, sardista. Egli sentiva
profondamente il risentimento comune a tutti i sardi contro i torti fatti all’isola;
questo diventava anche per lui risentimento verso i continentali e verso il
Continente. (..) Antonio Gramsci era venuto dalla Sardegna già socialista. Forse
lo era più per l’istinto di ribellione del sardo e per l’umanitarismo del giovane
intellettuale di provincia, che per il possesso di un sistema completo di pensiero.
107
108
Ivi, lettera n°394, estate 1936, alla moglie Iulca.
Ivi, lettera n°405, del 5 gennaio 1937, alla moglie Iulca.
132
Questa testimonianza è di Palmiro Togliatti109 e può bene introdurre la seconda
prospettiva di ricerca sull’influenza che la Sardegna ebbe sul pensatore di Ales.
Come abbiamo visto Gramsci conobbe Togliatti in quanto anch’egli era borsista
nel collegio Carlo Alberto di Torino e come rilevato nel 1912 svolgeranno una
ricerca sulla struttura sociale della Sardegna. Certamente nel maturare della sua
personalità, ancor prima del suo orientamento politico, Gramsci conosceva bene
le condizioni di vita delle masse contadine della Sardegna.
Scriverà Gramsci in una lettera da Vienna del 6 marzo 1924110: Sono stato
abituato dalla vita isolata, che ho vissuto fin dalla fanciullezza, a nascondere i
miei stati d’animo dietro una maschera di durezza, o dietro un sorriso ironico ed
è qui tutta la differenza. Ciò mi ha fatto male, per molto tempo: per molto tempo i
miei rapporti con gli altri furono un qualche cosa di enormemente complicato,
una moltiplicazione o una divisione per sette di ogni sentimento reale, per evitare
che gli altri intendessero ciò che io sentivo realmente. Che cosa mi ha salvato dal
diventare completamente un cencio inamidato? L’istinto della ribellione, che da
bambino era contro i ricchi, perché non potevo andare a studiare, io che avevo
preso 10 in tutte le materie nelle scuole elementari, mentre andavano il figlio del
macellaio, del farmacista, del negoziante in tessuti. Esso si allargò per tutti i
ricchi che opprimevano i contadini della Sardegna ed io pensavo allora che
bisognava lottare per l’indipendenza nazionale della regione: “Al mare i
continentali!”. Quante volte ho ripetuto queste parole. Poi ho conosciuto la
classe operaia di una città industriale e ho capito ciò che realmente significavano
le cose di Marx che avevo letto prima per curiosità intellettuale. Mi sono
appassionato così alla vita, per la lotta, per la classe operaia.
Questa lettera retrospettiva ci conferma come Gramsci avesse l’innata tendenza
che lo accompagnerà per tutta la vita, ad universalizzare quella che poteva essere
una situazione puntuale e particolare in qualcosa di più generale. Il fatto che lui
non potesse proseguire negli studi nonostante i bei voti, e la rabbia contro coloro
che con minor merito potevano farlo per via delle loro condizioni economiche,
diventa ben presto un sentimento più generale contro chi opprimeva la Sardegna,
che poi in forma ancora più universale diventa la lotta contro lo sfruttamento
109
Una raccolta aggiornata degli scritti di Togliatti su Gramsci la si trova in: Togliatti P. Scritti su
Gramsci, Editori Riuniti, 2001, a cura di G. Liguori. Fra gli scritti proposti, Gramsci, la Sardegna,
l’Italia, del 1947, Gramsci sardo, del 1951.
110
Lettere 1908-1926, cit. lettera n°103, p. 271.
133
dell’uomo sull’uomo che Gramsci studente ritrova in Marx e nel socialismo.
Un’altra testimonianza interessante a riguardo è quella di Battista Santhià che
faceva parte del gruppo de l’Ordine Nuovo assieme a Gramsci: “Nelle sue
conversazioni con noi Gramsci ricordava spesso le sue esperienze giovanili, in
Sardegna; e credo che questa sua esperienza di vita abbia pesato sulla sua
formazione anche se il dato fondamentale fu lo studio e l’elaborazione
torinese”.111
Gramsci si era reso conto che i contadini e gli operai dovevano essere uniti, ma le
situazioni concrete nelle quali si svolgeva l’attività politica mostravano che non
era sufficiente l’ovvietà di un ragionamento per ottenere meccanicamente un
risultato. Accadeva spesso che i contadini fossero antisocialisti, e quindi
andassero contro loro stessi in quanto oppressi, però se il figlio di un contadino
veniva eletto nei consigli di fabbrica, allora mutava l’atteggiamento. Accadeva
che lavoratori che provenissero dalle campagne riuscivano molto più di altri a
superare le diffidenze contro la classe operaia, ma non solo, secondo Gramsci
occorreva far tesoro persino dei sacerdoti che si interessavano alle giuste
rivendicazioni operaie, perciò bisognava abbandonare l’equivalenza banale e
rozza fra socialista ed anticlericale, e favorire l’elezione in taluni casi di esponenti
cattolici anche arrivando a far dimettere altri eletti per favorirne la surroga dove
non riuscivano autonomamente ad avere eletti. Bisognava conquistare il più
possibile energie alla causa comune.
Potremmo definire variazioni sul tema “oppressi ed oppressori” le considerazioni
di queste lettere, delle testimonianze, e perfino dei saggi scolastici, ad esempio un
compito in classe presumibilmente del 1910, quando Gramsci frequentava
l’ultima classe del Liceo “Dettori”, che riporta considerazioni sulla rivoluzione
francese, sulla storia delle dominazioni e contiene nozioni che il pensatore sardo
aveva già sviluppato, seppure con la maturità che può avere uno studente, prima
dell’esperienza torinese.112 Teresina Gramsci, la sorella più piccola, riferisce113:
“In quel periodo (prima del 1911 – N.d.R.) durante una vacanza trascorsa a
Ghilarza, per la prima volta capii quali idee Nino maturava e quale era il nuovo
che egli andava scoprendo a contatto coi libri, ma soprattutto per aver
111
Cfr. Paulesu Quercioli, Op. cit., p.101.
Maiorca Bruno, Gramsci sardo, Op. cit. , pp.56-58.
113
Cfr. Paulesu Quercioli, Op. cit., p.17.
112
134
conosciuto le lotte dei lavoratori. Nel Sulcis c’erano stati grandi scioperi e
repressioni.”
Teresina Gramsci cita gli scioperi del Sulcis, di cui Nino in effetti era bene a
conoscenza, come rileva anche un’altra testimonianza, quella di Peppino Frongia
che visse a Torino con Gramsci114: “Gramsci era aggiornato su tutte le questioni
che riguardavano la Sardegna, e ne viveva tutto il dramma. Io avevo partecipato
nel maggio del 1906 alla vita entusiasmante e insieme tribolata degli operai
dell’Iglesiente e alle loro lotte. Ero stato testimone dell’eccidio di Gonnesa, di
Montescorra, di Nebida. Discutemmo di questi fatti e ricordo molto bene come
egli li giudicava. Partiva dal fatto che la rivolta del 1906 si basava su una
protesta giusta e sacrosanta, su rivendicazioni legittime, ma la sua conclusione
sanguinosa e la successiva repressione governativa erano scontate in partenza in
quanto il movimento non era stato guidato né da un partito né da un sindacato:
era stato costruito sulla sabbia. Cosa occorreva? Una organizzazione di classe
non settaria, ma aperta ai ceti medi, agli intellettuali, alle istanze autonomistiche
e regionalistiche.”
L’influenza delle vicende sarde sulla sua formazione appare confermata, come
abbiamo visto, sia da quanto afferma Gramsci autobiograficamente, sia da
numerose testimonianze. L’interesse verso le masse contadine ed operaie, la loro
cultura, le loro condizioni di vita, era occasionato non solo dalle notizie di
cronaca, ma dal contatto diretto che egli ebbe nelle occasioni più disparate,
comprese le gite scolastiche come testimonia un compagno di classe del Liceo
Dettori, in occasione di una escursione a Guspini ed Arbus che racconta115: “La
gita ebbe come meta Guspini e Arbus dove allora lavoravano moltissimi operai,
le miniere erano in piena efficienza. Fummo accolti molto bene e, ospitati presso
varie famiglie, ci fermammo per tre giorni. Io e gli altri cinque compagni fummo
accolti presso la casa di un negoziante; Gramsci non ricordo dove alloggiasse,
ma lo ricordo molto bene quando ad Arbus, conversando con gli operai, si
informava delle loro condizioni di lavoro, poneva mille domande su come erano
trattati, su come vivevano. In quel momento capii che il suo interesse per la gita
era profondamente differente rispetto ai nostri.”
114
115
Cfr. Paulesu Quercioli, Op. cit., p.61.
Cfr. Paulesu Quercioli, Op. cit., p. 23.
135
La dimensione della questione sociale, contadina e operaia della Sardegna
emergeva non solo in riferimento all’analisi delle condizioni di vita su cui
Gramsci si informava minuziosamente, ma anche in riferimento ad una questione
culturale più generale che comprendeva anche le lenti della cultura attraverso le
quali si vedevano le stesse cose. La medesima testimonianza rileva: “Ma le idee
di Gramsci erano già allora molto più definite delle nostre, così come il suo
atteggiamento nei confronti del problema “sardo”. Mi viene in mente un episodio
che può chiarire questa mia affermazione. Un nostro amico della Trexenta,
Salvatore Melis, aveva scritto e messo in scena al Politeama Margherita una
commedia dialettale intitolata “Tiu Paddori”. Era un lavoro divertente e per
certi versi originale ma intonato a un atteggiamento snobistico e qualunquistico
nei confronti dei contadini sardi e del loro modo di essere. Gramsci venne ad
assistere allo spettacolo e pareva divertirsi abbastanza, ma alla fine disse che
non condivideva assolutamente l’impostazione della commedia. Secondo lui non
si doveva mettere in ridicolo la tradizione contadina, gli atteggiamenti e il
linguaggio della gente delle zone interne agro-pastorali. Non era questo il modo
per proporre i veri problemi della Sardegna. La funzione degli scrittori, degli
intellettuali era invece quella di farsi interpreti delle istanze dei minatori, dei
pastori, dei contadini poveri facendo emergere tutta quella cultura sotterranea
che era tanta e veniva tenuta accuratamente in ombra per un malinteso senso di
italianità.” Queste testimonianze gettano nuova luce su ciò che il giovane
Gramsci pensava che viene riassunto così da Togliatti: Dovete immaginarvi la
Sardegna come un campo fertile e ubertoso la cui fertilità è alimentata da una
vena d’acqua sotterranea che parte da un monte lontano. Improvvisamente voi
vedete che la fertilità del campo è scomparsa. Là dove erano messi ubertose vi è
soltanto più erba bruciata dal sole. Voi cercate la causa di questa sciagura, ma
non la troverete mai se non uscite dall’ambito del vostro campicello, se non
spingete la vostra ricerca fino al monte da cui l’acqua veniva , se non arrivate a
capire che lontano parecchi chilometri un malvagio o un egoista ha tagliato la
vena d’acqua che alimentava la fertilità ubertosa del vostro campo. Questa
testimonianza rinvia direttamente a Palmiro Togliatti che scrisse anche un articolo
nel 1951 dal titolo Gramsci sardo nel numero monografico dedicato alla
Sardegna della rivista il Ponte116
116
Il Ponte, 1951, n°9-10, settembre-ottobre, anno VII, numero monografico “Sardegna” con scritti di
136
L’attenzione di Gramsci per le questioni agrarie, contadine, è presente fin dagli
esordi della sua attività politica e rimarrà costante in tutta la sua elaborazione.
Questo è un passo giovanile che va certamente letto in questa ottica senza
dimenticare che egli conosceva bene, come dimostrerà da dirigente socialista
prima e da dirigente e segretario del P.C.d’I. poi, anche il contesto più ampio
della politica dell’Internazionale Contadina (il Krestintern). Nel 1925 fu inviato
un documento al congresso del Partito Sardo d’Azione riunito a Macomer, tale
documento redatto da Grieco fu certamente ispirato da Gramsci117.
Nei Quaderni dal carcere sono numerosi i passi con riflessioni sugli aspetti più
diversi che dimostrano come Gramsci, pensatore e uomo politico, abbia fatto
tesoro di tante conoscenze dovute all’esperienza vissuta oltre che allo studio.
Passaggi rilevanti in questo senso li troviamo nei testi: Industriali e agrari (Q.6,
100)118, La borghesia rurale (Q.7, 72)119, La quistione della terra (Q.7, 54)120,
Quistioni agrarie (Q.15, 67)121, L’agricoltore è risparmiatore (Q.8, 85)122,
Contadini e vita della campagna (Q.6, 102)123, I Contadini italiani (Q.2, 79)124 e
L’alimentazione del popolo italiano (Q. n°7, 57)125 di cui riportiamo alcuni passi:
La quistione della terra. Apparente frazionamento della terra in Italia: ma la
terra non [è] dei contadini coltivatori, ma della borghesia rurale che spesso [è]
più feroce e usuraia del grande proprietario. Accanto a questo fenomeno c’è
l’altro del polverizzarsi della poca terra posseduta dai contadini lavoratori (che
intanto sono per lo più in alta collina e in montagna). Questo polverizzarsi ha
diverse cause: 1) la povertà del contadino che è costretto a vendere una parte
della sua poca terra; 2) la tendenza ad avere molte piccolissime parcelle nelle
diverse zone agricole del comune o di una serie di comuni, come assicurazioni
Togliatti, Lussu, Laconi, ed altri. Nell’articolo di Togliatti (pp.1085-1089) si racconta di una ricerca
giovanile sul banditismo fatta insieme a Gramsci che poneva in relazione lo sfruttamento capitalistico
con l’aumento del fenomeno del brigantaggio. Ne esiste una variante, ma col medesimo contenuto in
Togliatti P. Scritti su Gramsci, Editori Riuniti, 2001, p.121 e p.153.
117
Cfr. Antonio Gramsci e la questione sarda, antologia a cura di G. Melis, Cagliari, Edizione della
Torre, 1975.
118
Q.6, 100, pp.774-775.
119
Q.7, 72, pp.908-909.
120
Q.7, 54, pp.898.
121
Q.15, 67, p.1830.
122
Q.8, 85, p.991.
123
Q.6, 102, pp.775-776.
124
Q.2, 79, p. 242.
125
Q.7, 57, p.899.
137
contro la monocultura esposta a totale distruzione in caso di cattiva annata; 3) il
principio di eredità della terra fra i figli, ognuno dei quali vuole una parcella di
ogni campo ereditato (questo parcellamento non appare dal catasto perché la
divisione non viene fatta legalmente ma bona fide). Pare che il nuovo codice
civile introduca anche in Italia il principio dell’homestead, o bene di famiglia,
che tende appunto in molti paesi a evitare lo sminuzzamento eccessivo della
terra, a causa di eredità.126
Quistioni agrarie. Cosa deve intendersi per «azienda agricola»?
Un’organizzazione industriale per la produzione agricola che abbia caratteri
permanenti di continuità organica. Differenza tra azienda e impresa. L’impresa
può essere per fini immediati, mutevoli ogni anno o gruppo di anni, ecc., senza
investimenti fondiari, ecc., con capitale d’esercizio «d’avventura». La quistione
ha importanza, perché l’esistenza della azienda o del sistema aziendale indica il
grado di industrializzazione raggiunto e ha una ripercussione sulla mentalità
della massa contadina. Arrigo Serpieri: «La stabilizzazione nello spazio
dell’impresa è realizzata, quando essa coincide con una azienda, unità tecnicoeconomica che stabilmente coordina terra, capitali e forze di lavoro occorrenti
alla produzione».127
«L’agricoltore è risparmiatore: egli sa che la sistemazione del terreno, gli
impianti, le costruzioni, sono cose periture e sa che cagioni nemiche, che egli non
può dominare, possono fargli perdere il raccolto; non calcola quote
d’ammortamento, di reintegro e di rischio, ma accumula risparmio e, nei
momenti difficili, ha una resistenza economica che meraviglia chi esamina le
situazioni contingenti». (Antonio Marozzi, La razionalizzazione della produzione,
«Nuova Antologia», 16 febbraio 1932). È vero che il contadino è un
risparmiatore generico e che ciò, in circostanze molto determinate, è una forza;
ma bisognerebbe notare a che prezzo sono possibili questi risparmi «generici»
resi necessari dall’impossibilità di calcoli economici precisi, e come questi
risparmi vengano scremati dalle manovre della finanza e della speculazione. 128
126
Gramsci A. Passato e presente, Editori Riuniti, 1996, a cura di V. Gerratana, cit., p.69.
Passato e presente, cit., pp.69-70.
128
Passato e presente, cit., p.70.
127
138
Contadini e vita della campagna. Elementi direttivi per una ricerca: condizioni
materiali di vita: abitazione, alimentazione, alcoolismo, pratiche igieniche,
abbigliamento, movimento demografico (mortalità, natalità, mortalità infantile,
nuzialità, nascite illegittime, inurbamento, frequenza dei reati di sangue e altri
reati non economici, litigiosità giudiziaria per quistioni di proprietà, ipoteche,
subaste per imposte non pagate, movimento della proprietà terriera, inventario
agricolo, costruzioni di case rurali, reati di carattere economico, frodi, furti,
falsi, ecc., inurbamento di donne per servizi domestici, emigrazione, popolazione
passiva famigliare). Orientamento della psicologia popolare nei problemi della
religione e della politica, frequenza scolastica dei fanciulli, analfabetismo delle
reclute e delle donne.129
I contadini italiani. Problemi contadini: malaria, brigantaggio, terre incolte,
pellagra, analfabetismo, emigrazione. (Nel Risorgimento questi problemi furono
trattati? come? da chi?). Nel periodo del Risorgimento alcuni di questi malanni
raggiungono il grado massimo di gravità: il Risorgimento coincide con un
periodo di grande depressione economica in larghe regioni italiane, che viene
aumentata dal sommovimento politico. La pellagra apparve in Italia nel corso
del Settecento, e andò sempre più aggravandosi nel secolo successivo: ricerche
sulla pellagra di medici ed economisti. (Quali le cause della pellagra e della
cattiva nutrizione dei contadini che ne è l’origine?). Confrontare il libro di Luigi
Messedaglia: Il Mais e la vita rurale italiana (Piacenza, Ed. Federazione dei
Consorzi agrari, 1927). Questo libro del Messedaglia [è] necessario per lo studio
della quistione agraria italiana, come il libro del Jacini e quelli di Celso
Ulpiani.130
L’alimentazione del popolo italiano. In «Gerarchia» del febbraio 1929, p. 158, il
prof. Carlo Foà riporta le cifre fondamentali dell’alimentazione italiana in
confronto agli altri paesi: l’Italia ha 909.750 calorie disponibili per abitante, la
Francia 1.358.300, l’Inghilterra 1.380.000, il Belgio 1.432.500, gli Stati Uniti
1.866.250. La commissione scientifica interalleata per i vettovagliamenti ha
stabilito che il minimo di consumo alimentare per l’uomo medio è di 1 milione di
129
130
Passato e presente, cit., p.70.
Passato e presente, cit., pp.130-131;
139
calorie per anno. L’Italia come media nazionale di disponibilità è al disotto di
questa media. Ma se si considera che la disponibilità non si distribuisce tra gli
uomini medi, ma prima di tutto per gruppi sociali, si può vedere come certi
gruppi sociali, come i braccianti meridionali (contadini senza terra) a stento
devono giungere alle 400.000 calorie annue, ossia 2/5 della media stabilita dagli
scienziati.131
Gramsci era informato su tutte le questioni di interesse dei contadini, dei
proprietari terrieri, degli intellettuali132 e dimostra una padronanza sicuramente
frutto di riflessioni approfondite. L’interesse intellettuale e politico verso queste
problematiche si manifesta anche nell’attenzione costante di Gramsci verso la
politica del Partito Sardo d’Azione che traeva la sua forza in Sardegna dalla
particolare situazione che si era creata fra gli ex combattenti. Emilio Lussu agli
inizi del fascismo era addirittura convinto che il radicamento e la intrinseca forza
sardista avrebbero potuto reggere anche all’urto del fascismo.
La sola regione dove il movimento degli ex combattenti assunse un profilo più
preciso e riuscì a crearsi una struttura sociale più solida è la Sardegna. E si
capisce: appunto perché in Sardegna la classe dei grandi proprietari terrieri è
tenuissima, non svolge nessuna funzione e non ha le antichissime tradizioni
culturali, intellettuali e governative del Mezzogiorno continentale. La spinta dal
basso, esercitata dalle masse dei contadini e dei pastori non trova un
contrappeso soffocante nel superiore strato sociale dei grandi proprietari: gli
intellettuali dirigenti subiscono in pieno la spinta e fanno dei passi in avanti più
notevoli che l'Unione nazionale. La situazione siciliana ha caratteri differenziali
molto profondi sia dalla Sardegna che dal Mezzogiorno.
Un riferimento molto importante sul rapporto fra sardismo e comunismo in
Gramsci ed altre questioni di notevole importanza, lo troviamo in una lettera
131
Passato e presente, cit., p.96.
Confronta con quanto riportato più avanti circa l’esperienza della “Giovane Sardegna” del 1919 ed
a proposito del ruolo degli intellettuali nella questione meridionale. Gramsci pensava tra l’altro che un
fenomeno come il fascismo avrebbe potuto accelerare le spinte autonomiste: “in questa situazione
avrà in Italia nuova vita la tendenza all’autonomia di intere regioni (Sardegna, Sicilia ed Italia
meridionale), che potrà offrire una base amplissima di lotta contro il fascismo e per la dissoluzione
dello stato borghese.” Lettere 1908-1926, op. cit., appendice 1, p. 521.
132
140
inviata ad Emilio Lussu da Gramsci nel luglio del 1926133 che riportiamo
integralmente in quanto molto significativa per le questioni che stiamo trattando:
Carissimo Lussu, ti unisco il questionario annunziato. Rispondimi come ti pare
più opportuno e se ritieni ciò necessario politicamente aggiungi qualche
quistione e modifica e sopprimi qualcuna di quelle suesposte.
1. La politica economica che il gruppo fascista rappresentato dall'on. Paolo Pili
cerca di attuare in Sardegna quali reali successi ha avuto? È riuscito a far
conquistare al fascismo e al governo il consenso almeno di una parte dei
contadini e dei pastori sardi? E se non ha conquistato un consenso attivo, ha
però determinato una qualsiasi forma di aspettazione passiva che oggettivamente
possa essere giustificata favorevole al fascismo e al governo? 2. Come
reagiscono contro l'attività dell'on. Pili i vecchi gruppi di speculatori e di
bagarini, siano essi sardi o continentali? 3. Qual è l'atteggiamento del partito
sardo di fronte a questo momento politico, dato che l'on. Pili tende a realizzare
alcune rivendicazioni del programma tradizionale del sardismo? La politica
dell'on. Pili ha provocato nelle file sardiste uno spostamento a sinistra per la
ricerca di una maggiore diffusione del fascismo? 4. La politica di compressione
esercitata dal regime fascista, che ha condotto alla soppressione del regime
rappresentativo nel 90 per cento dei municipi sardi, ha obbiettivamente portato a
rendere più acuto il problema regionalistico e a porre la questione della
autonomia su un terreno più radicale di rivendicazioni a tipo nazionale? 5.
Poiché l'esperienza del dopoguerra ha dimostrato l'impossibilità che il problema
regionale sardo possa essere risolto dalle sole masse popolari della Sardegna, se
queste masse non sono alleate a determinate forze sociali e politiche del
continente italiano, a quali forze sociali e politiche il Partito sardo d'azione
133
L’attenzione verso quanto succedeva in casa sardista si manterrà sempre viva in Gramsci nel corso
degli anni. Due esempi. La lettera n°67 a Togliatti del 18-5-1923 da Mosca, Lettere 1908-1926, cit., p.
121 in cui dopo un ragionamento su proletariato e campagna scrive “esemplifico perché tu mi intenda
meglio e allargo la quistione al congresso popolare, che non è stato da noi sfruttato politicamente,
sebbene esso, insieme allo sviluppo della situazione del Partito Sardo d’azione, ci offrisse il campo
per affermazioni essenziali nel problema dei rapporti fra proletariato e classi di campagna”. Secondo
esempio, un passo della relazione al Comitato direttivo del P.C. dove scrive sinteticamente: “Tattica
verso il partito massimalista. Necessità, di impostare più energicamente il problema meridionale. Se
il nostro partito nel Mezzogiorno non si mette a lavorare seriamente, il Mezzogiorno sarà la base più
forte della coalizione di sinistra. Tattica verso il Partito sardo d'azione, in vista di un suo prossimo
congresso. Per l'Italia meridionale e per le Isole creazione dei gruppi di lavoro regionali nel resto
d'Italia.” Comitato direttivo del Partito comunista del 2-3 agosto 1926 (APCI, 396/13-27) in Rinascita,
14 aprile 1967, pp. 21-22.
141
crede necessario allearsi? 6. Poiché la quistione regionale sarda è legata
indissolubilmente al regime borghese capitalistico che ha bisogno, per sussistere,
non solo di sfruttare la classe degli operai industriali attraverso il lavoro
salariato, ma anche di far pagare alle masse contadine del Mezzogiorno e delle
Isole una taglia doganale e una taglia fiscale, e poiché la coalizione dei partiti
democratici di sinistra e socialdemocratici non può avere nel suo programma la
espropriazione della borghesia industriale e dei grandi proprietari terrieri, non
sembra chiaro al Partito sardo d'azione che unico alleato continentale della
popolazione lavoratrice sarda può essere il blocco rivoluzionario operaio e
contadino sostenuto dall'Internazionale dei contadini? 7. Quali sono le opinioni
diffuse fra i sardisti a proposito del programma dell'Internazionale dei
contadini? Perché il direttorio del Partito sardo d'azione non ha risposto, sia
pure per via interna, al manifesto trasmesso al congresso di Macomer del 1925
dell'Internazionale dei contadini? 8. Qual è l'opinione media dei contadini e dei
pastori sardi sulla rivoluzione operaia e contadina che si è affermata
vittoriosamente in Russia? Esiste una corrente popolare che giudica la
Rivoluzione russa come vittoria politica dei contadini di tutto il mondo e quindi
anche dei contadini sardi più avanzati? Saluti, Antonio Gramsci.
Come si vede si tratta di una lettera ricca di contenuti134 che condensa in sé tante
questioni sulle quali Gramsci lavorava, nella duplice veste di Segretario del
Partito Comunista e di intellettuale studioso dei problemi del mezzogiorno.
In Gramsci la conoscenza delle cose sarde stimola la riflessione su questioni
generali, che a loro volta inducono ad una maggiore conoscenza delle cose sarde;
non si tratta di un circolo vizioso, ma di un procedere a spirale, dove ad ogni
ritorno non è mai nello stesso punto ma la conoscenza che si acquisisce è
maggiore ed avanzata.
L’interesse per le questioni sarde è intrinsecamente collegato con le
problematiche generali connesse alle analisi ed alla politica da seguire per attuare
l’avvento del socialismo in Italia. In altre parole, appare evidente che l’essere
Gramsci sardo e la sua conoscenza della struttura sociale della Sardegna sia un
134
La risposta di Lussu, è centrata soprattutto sull’analisi delle politiche fasciste in Sardegna verso
pastori e contadini e tratta più rapidamente le altre questioni che interessavano a Gramsci, cfr.
Fascismo, sardismo, autonomia – il carteggio Gramsci Lussu, in AA.VV. Il pensiero permanente, a
cura di E. Orrù e N. Rudas, Tema, Cagliari, 1999, pp. 399-403. Vedi anche: A. Gramsci, La questione
sarda: l’alleanza tra operai, contadini e pastori, in La costruzione del PC (1923-1926), Torino,
Einaudi, 1971.
142
tassello fondamentale che contribuisce in maniera determinante a formare in lui
l’idea della necessità di unire alle masse operaie del Nord, le masse contadine del
sud che lui conosceva fin da giovanissimo. Gramsci è un intellettuale “anfibio”
perché prima di venire a contatto a Torino con le masse operaie, la cultura ed i
valori di cui erano portatrici, era nato e vissuto a contatto delle masse contadine
della Sardegna che, seppure con la loro peculiarità e con la loro mentalità, erano
parte di quel meridione135 che Gramsci pensava addirittura potesse divenire la
tomba del fascismo136. L’influenza e la sensibilità di Gramsci verso la c.d.
“Questione meridionale” nascono certamente dall’essere egli un sardo, nato e
vissuto in Sardegna, poi emigrato a Torino nella città con maggiore presenza
operaia d’Italia, ed ha potuto quindi conoscere i due mondi cui appartenevano gli
oppressi della sua epoca e, in un certo senso, di ogni epoca, i contadini e gli
operai, la campagna e la città.
Nell’ottica della nostra ricerca appare chiaro che Gramsci, proprio per le sue
origini, ha avuto modo di riflettere ed essere condizionato sulla, e dalla, struttura
sociale della Sardegna, sulle, e dalle, condizioni di vita dei contadini. Ovviamente
egli si interessa anche degli aspetti che potrebbero apparirci “folcloristici” ma che
pur sempre sono presenti in quelle che sembrerebbero informazioni “secondarie”
ma che spesso rimandano a qualcosa di generale ed importante.
Sappiamo che Gramsci fu molto colpito ed impressionato dalle elezioni del 1913
di cui parlerà all’amico Tasca137 che racconta: “Era stato molto colpito dalla
trasformazione prodotta in quell’ambiente dalla partecipazione delle masse
contadine alle elezioni, benché non sapessero e non potessero ancora servirsi per
conto loro della nuova arma. Fu questo spettacolo e la meditazione su di esso,
che fece definitivamente di Gramsci un socialista. Quando tornò a Torino
all’inizio del nuovo anno scolastico ebbi conferma del valore decisivo che aveva
avuto per lui quest’esperienza.”. Sulle elezioni, le prime a suffragio universale
135
Dietro la parola “meridione” stavano situazioni diversissime fra loro, interessante a riguardo un
passo della lettera a Tania Schucht n°25 del 11 aprile 1927: “Vita di Ustica. Il 20 gennaio, riparto. 4
giorni a Palermo. Traversata per Napoli con criminali comuni. Napoli: conosco tutta una serie di tipi
del più alto interesse per me, che del Mezzogiorno fisicamente conoscevo solo la Sardegna”. Gramsci
in sostanza, ritiene del massimo interesse non solo la conoscenza della struttura sociale, ma anche
della mentalità, ed in questa ottica si capiscono anche le valutazioni sul confronto fra meridionali,
calabresi, pugliesi, e siciliani, che seppure tutti appartenenti al mezzogiorno d’Italia erano diversissimi
fra loro.
136
Lettere 1908-1926, cit., lettera n°94 da Vienna del 9 febbraio 1924.
137
Tasca A. I primi dieci anni del Pci, Laterza, Bari, 1971, p.88;
143
maschile (26 ottobre e 2 novembre) Gramsci è assetato di informazioni anche sui
particolari e cose apparentemente secondarie come testimonia la richiesta a sua
sorella Teresina di inviargli “une relazione minutissima con nomi e particolari”,
insomma ulteriori particolari e notizie certe rispetto a quelle che già aveva per
conoscenza diretta138.
Col senno di poi può apparirci quasi banale che un politico abbia interesse per le
elezioni, però nel 1913, col passaggio dal voto per censo al voto per testa è chiaro
che si apre una nuova dimensione ricca di possibilità, se non “la” possibilità
stessa di esistere per una politica socialista quale era appunto quella che maturava
in Gramsci all’epoca. Le grandi masse popolari entrano nella storia politica, non
attraverso una rivoluzione violenta, ma attraverso l’urna elettorale.
Ecco un passo del quaderno n°19 “Momenti di vita intensamente collettiva e
unitaria nello sviluppo nazionale del popolo italiano” importante sia per quanto
dicevamo sulle elezioni, sia per l’esplicito richiamo all’esperienza sarda che
testimonia quindi di come le vicende isolane abbiano lasciato traccia nel suo
pensiero e fornito materiale alla sua analisi:
L’elezione del 1913 è la prima con caratteri popolari spiccati per la larghissima
partecipazione dei contadini; quella del 1919 è la più importante di tutte per il
carattere proporzionale e provinciale del voto che obbliga i partiti a
raggrupparsi e perché in tutto il territorio, per la prima volta, si presentano gli
stessi partiti con gli stessi (all’ingrosso) programmi. In misura molto maggiore e
più organica che nel 1913 (quando il collegio uninominale restringeva le
possibilità e falsificava le posizioni politiche di massa per l’artificiosa
delimitazione dei collegi) nel 1919 in tutto il territorio, in uno stesso giorno, tutta
la parte più attiva del popolo italiano si pone le stesse quistioni e cerca di
risolverle nella sua coscienza storico-politica. Il significato delle elezioni del
1919 è dato dal complesso di elementi «unificatori», positivi e negativi, che vi
confluiscono: la guerra era stata un elemento unificatore di primo ordine in
quanto aveva dato la coscienza alle grandi masse dell’importanza che ha anche
per il destino di ogni singolo individuo la costruzione dell’apparato governativo,
oltre all’aver posto una serie di problemi concreti, generali e particolari, che
riflettevano l’unità popolare-nazionale. Si può affermare che le elezioni del 1919
138
Lettere 1908-1926, cit. lettera n°43, pp. 78-79. Cfr anche Cfr. Fiori Giuseppe, Gramsci e il mondo
sardo, in AA.VV. Gramsci e la cultura contemporanea a cura di P. Rossi, E.R., Roma, 1969, Vol. I,
pp. 478 e sgg.
144
ebbero per il popolo un carattere di Costituente (questo carattere lo ebbero
anche le elezioni del 1913, come può ricordare chiunque abbia assistito alle
elezioni nei centri regionali dove maggiore era stata la trasformazione del corpo
elettorale e come fu dimostrato dall’alta percentuale di partecipazione al voto:
era diffusa la convinzione mistica che tutto sarebbe cambiato dopo il voto, di una
vera e propria palingenesi sociale: così almeno in Sardegna) sebbene non
l’abbiano avuto per «nessun» partito del tempo: in questa contraddizione e
distacco tra il popolo e i partiti è consistito il dramma storico del 1919, che fu
capito immediatamente solo da alcuni gruppi dirigenti più accorti e intelligenti (e
che avevano più da temere per il loro avvenire). È da notare che proprio il
partito tradizionale della costituente in Italia, il repubblicano, dimostrò il minimo
di sensibilità storica e di capacità politica e si lasciò imporre il programma e
l’indirizzo (cioè una difesa astratta e retrospettiva dell’intervento in guerra) dai
gruppi dirigenti di Destra.”139
La frase “era diffusa la convinzione mistica che tutto sarebbe cambiato dopo il
voto, di una vera e propria palingenesi sociale: così almeno in Sardegna”
conferma che Gramsci conosceva direttamente, di prima mano, quanto affermava,
ossia, il ragionamento generale che lui sviluppa, con quella sottolineatura,
testimonia di come l’analisi gramsciana si basi sulla sua esperienza dei fatti, sulle
reazioni, sulle aspettative, che maturavano nell’isola e che da questa esperienza si
ampli ed inserisca nel contesto più generale del mezzogiorno.
Certamente quando Gramsci analizzava, ad esempio, il rapporto città-campagna,
poteva conoscere direttamente, da un lato, una città come Torino, e dall’altro la
condizione contadina e agraria sarda, dovuta oltre che dagli studi storicoeconomici essenzialmente dalla sua sardità. A tal proposito è significativo un
capitolo del Quaderno n°19: “Il rapporto città-campagna nel Risorgimento e
nella struttura nazionale italiana”:
Il Mezzogiorno era ridotto a un mercato di vendita semicoloniale, a una fonte di
risparmio e di imposte ed era tenuto «disciplinato» con due serie di misure:
misure poliziesche di repressione spietata di ogni movimento di massa con gli
eccidi periodici di contadini (nella commemorazione di Giolitti, scritta da
Spectator – Missiroli – nella «Nuova Antologia» [1° agosto 1928, N.d.R.], si fa le
139
Q.19, 19, pp.2004-2006, opp. Il Risorgimento, a cura di V. Gerratana - 3. ed. – Roma, Editori
riuniti, 1996. - XIV, 296 p. cit., p.71.
145
meraviglie perché Giolitti si sia sempre strenuamente opposto a ogni diffusione
del socialismo e del sindacalismo nel Mezzogiorno, mentre la cosa è naturale e
ovvia, poiché un protezionismo operaio – riformismo, cooperative, lavori
pubblici – è solo possibile se parziale; cioè ogni privilegio presuppone dei
sacrificati e spogliati); misure poliziesche - politiche: favori personali al ceto
degli «intellettuali» o «paglietta», sotto forma di impieghi nelle pubbliche
amministrazioni, di permessi di saccheggio impunito delle amministrazioni
locali, di una legislazione ecclesiastica applicata meno rigidamente che altrove,
lasciando al clero la disponibilità di patrimoni notevoli ecc., cioè
incorporamento a «titolo personale» degli elementi più attivi meridionali nel
personale dirigente statale, con particolari privilegi «giudiziari», burocratici ecc.
Così lo strato sociale che avrebbe potuto organizzare l’endemico malcontento
meridionale, diventava invece uno strumento della politica settentrionale, un suo
accessorio di polizia privata. Il malcontento non riusciva, per mancanza di
direzione, ad assumere una forma politica normale e le sue manifestazioni,
esprimendosi solo in modo caotico e tumultuario, venivano presentate come
«sfera di polizia» giudiziaria. (..) Non bisogna dimenticare il fattore politicomorale della campagna di intimidazione che si faceva contro ogni anche
obiettivissima constatazione di motivi di contrasto tra Nord e Sud. È da ricordare
la conclusione dell’inchiesta Pais - Serra sulla Sardegna, dopo la crisi
commerciale del decennio ’90-900, e l’accusa già ricordata, mossa da Crispi ai
fasci siciliani di essere venduti agli inglesi. (..) Il programma di Giolitti fu
«turbato» da due fattori: 1) l’affermarsi degl’intransigenti nel partito socialista
sotto la direzione di Mussolini e il loro civettare coi meridionalisti (libero
scambio, elezioni di Molfetta, ecc.), che distruggeva il blocco urbano
settentrionale; 2) l’introduzione del suffragio universale, che allargò in modo
inaudito la base parlamentare del Mezzogiorno e rese difficile la corruzione
individuale (troppi da corrompere alla liscia e quindi apparizione dei mazzieri).
(..) L’allargamento del suffragio nel 1913 aveva già suscitato i primi accenni di
quel fenomeno che avrà la massima espressione nel ’19-20-21 in conseguenza
dell’esperienza politico-organizzativa acquistata dalle masse contadine in
guerra, cioè la rottura relativa del blocco rurale meridionale e il distacco dei
contadini, guidati da una parte degli intellettuali (ufficiali in guerra), dai grandi
proprietari; si ha così il sardismo, il partito riformista siciliano (il così detto
gruppo parlamentare Bonomi era costituito dal Bonomi e da 22 deputati
146
siciliani) con l’ala estrema separatista rappresentata da «Sicilia Nuova», il
gruppo del «Rinnovamento» nel Mezzogiorno costituito da combattenti che tentò
di costituire partiti regionali d’azione sul tipo sardo (cfr. la rivista «Volontà» del
Torraca, la trasformazione del «Popolo Romano», ecc.). In questo movimento
l’importanza autonoma delle masse contadine è graduata dalla Sardegna al
Mezzogiorno alla Sicilia, a seconda della forza organizzata, del prestigio e della
pressione ideologica esercitata dai grandi proprietari, che hanno in Sicilia un
massimo di organizzazione e di compattezza e hanno invece un’importanza
relativamente piccola in Sardegna. (..) Dal rapporto città-campagna deve
muovere l’esame delle forze motrici fondamentali della storia italiana e dei punti
programmatici da cui occorre studiare e giudicare l’indirizzo del Partito
d’Azione nel Risorgimento. Schematicamente si può avere questo quadro: 1) la
forza urbana settentrionale; 2) la forza rurale meridionale; 3) la forza rurale
settentrionale-centrale; 4-5) la forza rurale della Sicilia e della Sardegna. 140
Non è il solo passo dove è evidente che le vicende sarde, su cui Gramsci si basa,
determinano la generalizzazione ed una riflessione più ampia. Così anche nel
seguente passo tratto dal Quaderno n°14: “Le grandi potenze mondiali” in cui
ancora si fa riferimento a quanto avvenne in Sardegna:
Si può ricordare, per esempio, che nel 1911-12, al tentativo nell’Italia
Meridionale di formare politicamente i contadini attraverso una campagna per il
libero scambio (contro gli zuccherieri specialmente, dato che lo zucchero è merce
popolare legata all’alimentazione dei bambini, degli ammalati, dei vecchi) si
rispose con una campagna missionaria tendente a suscitare il fanatismo
superstizioso popolare, talvolta anche in forma violenta (così almeno in
Sardegna). Che fosse legata alla campagna per il libero scambio appare dal fatto
che contemporaneamente, nei così detti «Misteri» (settimanale popolarissimo,
tirato a milioni di copie) si invitava a pregare per i «poveri zuccherieri» attaccati
«cainamente» dai «massoni», ecc. 141
Che Gramsci fosse costantemente aggiornato sulle vicende sarde emerge da tanti
luoghi nei suoi scritti, anche in relazioni impegnative nelle quali il suo discorso
era rivolto a tutto il partito. Capita di leggere riferimenti alla Sardegna, ad
esempio in una relazione del 1924 in cui si sostiene non essere ancora mature le
140
Q.19, 26, pp.2035-2046 opp. Gramsci A. Il Risorgimento, cit. pp. 63-64.
Q.14, 11, pp.1665-1667 opp. A. Gramsci, Passato e presente - 3. ed. – Roma, Editori riuniti, 1996,
a cura di V. Gerratana, p.138.
141
147
pre-condizioni per una rivoluzione proletaria142. Interessante anche questa lettera
al fratello:
Devi sempre mandarmi notizie di Ghilarza: esse sono molto interessanti e
significative. Mi pare che se ne possa trarre questa conclusione. Mentre prima, in
Sardegna, c'era una delinquenza di carattere prevalentemente occasionale e
passionale, legata in modo indubbio ai costumi arretrati e a punti di vista
popolari che se erano barbarici conservavano tuttavia un qualche tratto di
generosità e di grandezza, ora invece si va sviluppando una delinquenza
tecnicamente organizzata, professionale, che segue piani prestabiliti, e
prestabiliti da gruppi di mandanti che talvolta sono ricchi, che hanno una certa
posizione sociale e che sono spinti a delinquere da una perversione morale che
non ha niente di simile con quella del classico banditismo sardo. È un segno dei
tempi dei più caratteristici e significativi.143
Gramsci ha del mondo sardo e del mondo contadino una conoscenza di prima
mano, che non avevano ad esempio dirigenti del PSI che, sottovalutando le forze
reali in campo, pensavano che la rivoluzione socialista sarebbe potuta avvenire ad
opera esclusiva degli operai e non dei contadini. Ed era lo stesso errore che
commisero inizialmente i comunisti, come sostiene Gramsci stesso e di cui, come
vedremo, abbiamo diverse testimonianze. Che cosa consente a Gramsci di
emanciparsi da quest’errore se non quell’essere “anfibio” di cui parlavamo, ossia
il suo conoscere la mentalità del contadino e la struttura sociale della “campagna”
ma anche altrettanto fortemente il conoscere la mentalità dell’operaio e la
struttura sociale della “città”?
Per tornare al tema di quale Sardegna c’è in Gramsci si possono vedere numerosi
passi in cui si studiano quelli che oggi potremmo chiamare “tipi psicologici”, ad
esempio, l’aspetto caratteristico della “diffidenza” dei contadini che trova nelle
analisi di Gramsci un riferimento preciso ancora una volta alla Sardegna
142
Cfr. la Relazione al Comitato centrale del partito comunista del 13-14 agosto 1924. Pubblicata su
L'Ordine Nuovo, 1° settembre 1924, a firma Antonio Gramsci, e su L'Unità, 26 agosto 1924, col titolo
La crisi delle classi medie, si legge: “Le conseguenze di una tale situazione non si sono ancora
manifestate in modo violento, perché esistono nel Mezzogiorno condizioni di economia arretrata, le
quali impediscono alla crisi di rivelarsi in modo profondo, come avviene nei paesi di avanzato
capitalismo: tuttavia già si sono verificati in Sardegna episodi gravi del malcontento popolare
determinato dal disagio economico.”
143
Lettera al fratello Carlo, n°108 del 8 ottobre 1928.
148
contadina, in cui egli è nato e vissuto e che senza dubbio gli fornisce materiale:
Quaderno n°16, il paragrafo “Oratoria, conversazione, cultura.”
Il Macaulay, nel suo saggio sugli Oratori attici (controllare la citazione),
attribuisce la facilità di lasciarsi abbagliare da sofismi quasi puerili, propria dei
Greci anche più colti, al predominio che nell’educazione e nella vita greca aveva
il discorso vivo e parlato. L’abitudine della conversazione e dell’oratoria genera
una certa facoltà di trovare con grande prontezza argomenti di una qualche
apparenza brillante che chiudono momentaneamente la bocca dell’avversario e
lasciano sbalordito l’ascoltatore. Questa osservazione si può trasportare anche
ad alcuni fenomeni della vita moderna e alla labilità della base culturale di
alcuni gruppi sociali come gli operai di città. Essa spiega in parte la diffidenza
dei contadini contro gli intellettuali comizianti: i contadini, che rimuginano a
lungo le affermazioni che hanno sentito declamare e dal cui luccicore sono stati
momentaneamente colpiti, finiscono, col buon senso che ha ripreso il sopravvento
dopo l’emozione suscitata dalle parole trascinanti, col trovarne le deficienze e la
superficialità e, quindi, diventano diffidenti per sistema.144
Questa osservazione sulla diffidenza dei contadini che è un tratto caratteristico,
anziché essere un dato solo di curiosità intellettuale è anche un indirizzo su come
comportarsi, ad esempio, nella propaganda, la tattica per rendere efficace l’opera
di proselitismo. Non basta il “luccichio” dell’artificio oratorio che incanta sul
primo momento, ma che avrebbe poi poca presa sulla diffidenza che scopre la
fallacia del ragionamento. D’altronde non c’è da stupirsi, fin da giovanissimo
Gramsci frequentò e visse fra contadini, come egli stesso testimonia in una
lettera: “Quando ero al ginnasio comunale a Santu Lussurgiu, abitavo in casa di
una contadina”145.
144
Q.16, 21, pp.1889-1893, opp. Passato e presente, cit., p. 121-122.
Lettere dal carcere, lettera a Tania Schucht n°295 del 12 settembre 1932: “Carissima Tania, ho
ricevuto due tue cartoline e due lettere, dell'8 e del 10. Quest'ultima specialmente, te lo confesso, mi
ha molto indispettito. Quando si tratta di medici e di medicine tu ti sfreni in progetti e fantasticherie,
mentre io ti ho raccomandato tante volte di essere sobria e di non abbondare nello zelo. Quando ero
al ginnasio (un piccolo ginnasio comunale a Santu Lussurgiu, in cui tre sedicenti professori
sbrigavano con molta faccia tosta, tutto l'insegnamento delle 5 classi) abitavo in casa di una
contadina (pagavo 5 lire mensili per l'alloggio, la biancheria del letto e la cucinatura della molto
frugale mensa) che aveva una vecchia madre un po' scema, ma non pazza, che appunto era la mia
cuoca e governante, la quale ogni mattina, quando mi rivedeva, mi domandava chi ero e come mai
avevo dormito in casa loro ecc. Ma questa è un'altra storia. Ciò che mi interessa ora è che la figlia
voleva sbarazzarsi della madre, voleva che il Municipio la inviasse a sue spese nel Manicomio
provinciale e perciò la trattava in modo così aspro e scellerato da vedere di costringerla a
145
149
Altro esempio del meccanismo che porta ad universalizzare l’esperienza di vita
mediante concetti astratti generali, che è presente in numerosi passi, sia relativi ad
osservazioni di dettaglio, sia a concetti generali, lo si trova in questo passaggio
del Quaderno n°3 dove è descritto il “sovversivo”:
Il concetto prettamente italiano di «sovversivo» può essere spiegato così: una
posizione negativa e non positiva di classe: il «popolo» sente che ha dei nemici e
li individua solo empiricamente nei così detti signori (nel concetto di «signore»
c’è molto della vecchia avversione della campagna per la città, e il vestito è un
elemento fondamentale di distinzione: c’è anche l’avversione contro la
burocrazia, in cui si vede unicamente lo Stato: il contadino – anche il medio
proprietario – odia il «funzionario», non lo Stato, che non capisce, e per lui è
questo il «signore» anche se economicamente il contadino gli è superiore, onde
l’apparente contraddizione per cui per il contadino il signore è spesso un «morto
di fame»). Quest’odio «generico» è ancora di tipo «semifeudale», non moderno, e
non può essere portato come documento di coscienza di classe: ne è appena il
primo barlume, è solo appunto la posizione negativa e polemica elementare: non
solo non si ha coscienza esatta della propria personalità storica, ma non si ha
neanche coscienza della personalità storica e dei limiti precisi del proprio
avversario. (..) Nel villaggio e nei piccoli centri urbani di certe regioni agricole
esistono due strati distinti di «morti di fame»: uno è quello dei «giornalieri
agricoli», l’altro, quello dei piccoli intellettuali. Questi giornalieri non hanno
come caratteristica fondamentale la loro situazione economica, ma la loro
condizione intellettuale-morale: essi sono ubriaconi, incapaci di laboriosità
continuata e senza spirito di risparmio e quindi spesso biologicamente tarati o
per denutrizione cronica o per mezza idiozia e scimunitaggine. Il contadino tipico
di queste regioni è il piccolo proprietario o il mezzadro primitivo (che paga
l’affitto con la metà, il terzo o anche i due terzi del raccolto secondo la fertilità e
la posizione del fondo), che possiede qualche strumento di lavoro, il giogo di
commettere qualche grave eccesso per aver modo di affermarne la pericolosità. La vecchina sempre
diceva alla figlia che le parlava col voi secondo il costume: «Dammi del tu, e trattami bene!» Non so
veramente se l'aneddoto possa riferirsi a te; in ogni modo anch'io sono costretto a dirti di essere
meno premurosa con me, perché questo è il modo migliore di mostrarmi il tuo affetto, a cui tengo
molto. Insomma devi fare alla lettera solo ciò che io ti scrivo e non condirlo di intingoli di tua
invenzione, che talvolta possono fare andare di traverso il boccone, non fantasticarci su, fare ipotesi
incongrue ecc. Del resto sto un po' meglio e spero di andar migliorando sempre più e questa, ti pare?
è la sola cosa importante in tutta la faccenda. Ti abbraccio teneramente. Antonio.”
150
buoi e la casetta che spesso si è fabbricato egli stesso nelle giornate non
lavorative, e che si è procurato il capitale necessario o con qualche anno di
emigrazione, o andando a lavorare in «miniera», o con qualche anno di servizio
nei carabinieri, ecc., o facendo qualche anno il domestico di un grande
proprietario, cioè «industriandosi» e risparmiando. Il «giornaliero», invece, non
ha saputo o voluto industriarsi e non possiede nulla, è un «morto di fame»,
perché il lavoro a giornata è scarso e saltuario: è un semimendicante, che vive di
ripieghi e rasenta la malavita rurale. Il «morto di fame» piccolo-borghese è
originato dalla borghesia rurale: la proprietà si spezzetta in famiglie numerose e
finisce con l’essere liquidata, ma gli elementi della classe non vogliono lavorare
manualmente: così si forma uno strato famelico di aspiranti a piccoli impieghi
municipali, di scrivani, di commissionari, ecc. ecc. Questo strato è un elemento
perturbatore nella vita delle campagne, sempre avido di cambiamenti (elezioni
ecc.) e dà il «sovversivo» locale, e poiché è abbastanza diffuso, ha una certa
importanza: esso si allea specialmente alla borghesia rurale contro i contadini,
organizzando ai suoi servizi anche i «giornalieri morti di fame». In ogni regione
esistono questi strati, che hanno propaggini anche nelle città, dove confluiscono
con la malavita professionale e con la malavita fluttuante.146 Un altro passo dove
la conoscenza della “mentalità” contenente osservazioni di carattere
“sociologico” si basa sicuramente su esperienza di vita e su conoscenza diretta:
Certo il fanciullo di una famiglia tradizionale di intellettuali supera più
facilmente il processo di adattamento psico-fisico; entrando già la prima volta in
classe ha parecchi punti di vantaggio sui suoi compagni, ha un'orientazione già
acquisita per le abitudini famigliari: si concentra nell'attenzione con più facilità,
perché ha l'abito del contegno fisico ecc. Allo stesso modo il figlio di un operaio
di città soffre meno entrando in fabbrica di un ragazzo di contadini o di un
giovane contadino già sviluppato per la vita rurale. Anche il regime alimentare
ha un'importanza, ecc. ecc. Ecco perché molti del popolo pensano che nella
difficoltà dello studio ci sia un «trucco» a loro danno (quando non pensano di
essere stupidi per natura): vedono il signore (e per molti, nelle campagne
specialmente, signore vuol dire intellettuale) compiere con scioltezza e apparente
facilità il lavoro che ai loro figli costa lacrime e sangue, e pensano ci sia un
«trucco». In una nuova situazione, queste quistioni possono diventare asprissime
146
Q.3, 46, pp.323-327, opp., Passato e presente, cit., pp. 20-21;
151
e occorrerà resistere alla tendenza di render facile ciò che non può esserlo senza
essere snaturato.147
Sempre nell’ottica dei testi riportati troviamo interessanti le notazioni sul ruolo
degli intellettuali ed anche in questo caso le riflessioni gramsciane appaiono
fondate sull’esperienza più che sullo studio libresco:
Gli intellettuali di tipo rurale sono in gran parte «tradizionali», cioè legati alla
massa sociale campagnola e piccolo borghese, di città (specialmente dei centri
minori), non ancora elaborata e messa in movimento dal sistema capitalistico:
questo tipo di intellettuale mette a contatto la massa contadina con
l'amministrazione statale o locale (avvocati, notai, ecc.) e per questa stessa
funzione ha una grande funzione politico-sociale, perché la mediazione
professionale è difficilmente scindibile dalla mediazione politica. Inoltre: nella
campagna l'intellettuale (prete, avvocato, maestro, notaio, medico, ecc.) ha un
medio tenore di vita superiore o almeno diverso da quello del medio contadino e
perciò rappresenta per questo un modello sociale nell'aspirazione a uscire dalla
sua condizione e a migliorarla. Il contadino pensa sempre che almeno un suo
figliolo potrebbe diventare intellettuale (specialmente prete), cioè diventare un
signore, elevando il grado sociale della famiglia e facilitandone la vita
economica con le aderenze che non potrà non avere tra gli altri signori.
L'atteggiamento del contadino verso l'intellettuale è duplice e pare
contradditorio: egli ammira la posizione sociale dell'intellettuale e in generale
dell'impiegato statale, ma finge talvolta di disprezzarla, cioè la sua ammirazione
147
Q.12, 2, pp.1540-1550, opp. Gli intellettuali e l'organizzazione della cultura, p. 75. Interessante è
anche il paragrafo Quante forme di grammatica possono esistere? dove potremmo dire che le
osservazioni sul “contadino che va in città” uniscono all’esperienza sarda, quella torinese! : “In realtà
oltre alla «grammatica immanente» in ogni linguaggio, esiste anche, di fatto, cioè anche se non
scritta, una (o più) grammatica «normativa», ed è costituita dal controllo reciproco,
dall'insegnamento reciproco, dalla «censura» reciproca, che si manifestano con le domande: «Cosa
hai inteso, o vuoi dire?», «Spiegati meglio», ecc., con la caricatura e la presa in giro, ecc.; tutto
questo complesso di azioni e reazioni confluiscono a determinare un conformismo grammaticale, cioè
a stabilire «norme» o giudizi di correttezza o di scorrettezza, ecc. Ma questo manifestarsi
«spontaneo» di un conformismo grammaticale, è necessariamente sconnesso, discontinuo, limitato a
strati sociali locali o a centri locali, ecc. (Un contadino che si inurba, per la pressione dell'ambiente
cittadino, finisce col conformarsi alla parlata della città; nella campagna si cerca di imitare la
parlata della città; le classi subalterne cercano di parlare come le classi dominanti e gli intellettuali,
ecc.). Si potrebbe schizzare un quadro della «grammatica normativa» che opera spontaneamente in
ogni società data, in quanto questa tende a unificarsi sia come territorio, sia come cultura, cioè in
quanto vi esiste un ceto dirigente la cui funzione sia riconosciuta e seguita. Cit. Letteratura e vita
nazionale, Q.29, 2, pp.2342-2345.
152
è intrisa istintivamente da elementi di invidia e di rabbia appassionata. Non si
comprende nulla della vita collettiva dei contadini e dei germi e fermenti di
sviluppo che vi esistono se non si prende in considerazione, non si studia in
concreto e non si approfondisce, questa subordinazione effettiva agli intellettuali:
ogni sviluppo organico delle masse contadine, fino a un certo punto, è legato ai
movimenti degli intellettuali e ne dipende.148
Ancora una volta l’intellettuale ed il politico, lo studio e l’esperienza vissuta,
Gramsci unisce alla riflessione sociologica l’azione del dirigente politico, la parte
finale del passo citato è emblematica di tutti questi aspetti. Nell’epistolario
gramsciano, inoltre, non mancano le considerazioni sulla Sardegna relative agli
aspetti più diversi149:
Ecco un fatto che dimostra come siano vane tutte le caratteristiche unitarie della
popolazione di un paese: i Sardi, che passano per essere meridionali, non sono
«gelosi» come si dice dei Siciliani o dei Calabresi. I reati di sangue per gelosia
sono rarissimi, mentre sono frequenti i reati contro i seduttori delle ragazze; i
contadini si dividono pacificamente se non vanno d'accordo o la moglie infedele
è solamente cacciata di casa: spesso avviene che e il marito e la moglie divisi di
fatto si accoppiino di nuovo con altra donna e altro uomo dello stesso villaggio.
È vero che in molti paesi della Sardegna esisteva prima della guerra (adesso non
so più) l'unione di prova, cioè la coppia si sposava solo dopo aver avuto un
figlio; in caso di infecondità ognuno ridiventava libero (ciò era tollerato dalla
Chiesa). Vedi che differenza nel campo sessuale che pure ha tanta importanza
nelle caratteristiche delle così dette «anime» nazionali?150
Per tornare ai Quaderni, riportiamo alcuni passi interessanti che direttamente od
indirettamente riguardano la Sardegna. Nel Quaderno n°6 si parla di “Uno Stato
federale mediterraneo”:
148
Antonio Gramsci, Gli intellettuali e l'organizzazione della cultura, Ed. Riuniti, 1996, p.13.
Curiosa le lettera n°184 a Tatiana Schucht del 23 marzo 1931: “Non metterti in testa di mandarmi
il «gioddu» o qualcosa di simile perché non saprei che farmene. Se poi tu credi che sia facile
preparare il «gioddu», che veramente al mio paese chiamano «mezzoradu», (cioè latte migliorato:
«gioddu» è parola sassarese che capiscono solo in un angolo molto piccolo della Sardegna) ti sbagli
di grosso: tanto è difficile che nel continente lo preparano solo degli specialisti bulgari e lo chiamano
infatti «Yogurt» o latte bulgaro; quello che vendono a Roma è addirittura repugnante in confronto di
quello che preparano i pastori sardi. Ti assicuro che nelle mie condizioni non c'è niente né di
allarmante né di grave, tutt'altro: da una diecina di giorni non ho più avuto dolori e si è attenuato
anche il mal di capo.”
150
Lettera a Tatiana Schucht n°195 del 15 giugno 1931.
149
153
Nel «’19», rivista fascista diretta a Milano da Mario Giampaoli, è stato
pubblicato nel 1927 (o prima o dopo; lessi l’articolo nel carcere di Milano) un
articoluccio di Antonio Aniante, da cui appariva che l’Aniante, con qualche altro
siciliano, aveva preso sul serio il programma, nato nel cervello di alcuni
intellettuali sardi (C. Bell. e qualche altro: ricordo che Emilio Lussu cercava di
far dimenticare l’episodio ridendone), di creare uno Stato federale mediterraneo
che avrebbe dovuto comprendere: la Catalogna, le Baleari, Corsica e Sardegna,
la Sicilia e Candia. L’Aniante ne scrive con un fare scemo da ammazzasette e
bisogna far la tara nel suo racconto: per esempio è credibile che egli sia stato
mandato all’estero (a Parigi, mi pare) per incontrarsi con altri «congiurati»? E
chi l’avrebbe mandato? E chi avrebbe dato i soldi?151
Sempre nel Quaderno n°6 il paragrafo “Corsica” contiene spunti che rimandano
anche alla Sardegna.
L’irredentismo italiano in Italia è sufficientemente diffuso; non so quanto in
Corsica. C’è in Corsica il movimento della «Muvra» e del Partito còrso
d’Azione, ma essi non vogliono uscire dai quadri francesi e tanto meno riunirsi
all’Italia; vogliono tutt’al più una larga autonomia e partecipano al movimento
autonomista francese (Bretagna, Alsazia, Lorena, ecc.). Ricordare l’avvocatino
veneto che incontrai in treno nel 1914: era abbonato alla «Muvra», all’«Archivio
storico di Corsica», leggeva romanzi di autori còrsi (per esempio Pierre
Dominique, che per lui era un rinnegato). Sosteneva la rivendicazione non solo
della Corsica, ma anche di Nizza e della Savoia. Anche il commendator Belloni,
vicequestore di Roma, quando nel settembre 1925 mi fece una perquisizione
domiciliare di quattro ore, mi parlò a lungo di queste rivendicazioni. Il
veterinario di Ghilarza, prima della guerra, dottor Nessi, brianzolo, rivendicava
anche il Delfinato, Lione compresa, e trovava ascolto fra i piccoli intellettuali
sardi che sono francofobi estremisti per ragioni economiche (la guerra di tariffe
con la Francia dopo il 1889) e per ragioni nazionalistiche, i sardi sostengono che
neanche Napoleone ha potuto conquistare la Sardegna, e la festa di sant’Efisio a
Cagliari non è altro che la riproduzione della vittoria dei sardi sui francesi del
1794 con l’intera distruzione della flotta francese (quaranta fregate) e di un
corpo di sbarco di quattromila uomini.152
151
152
Q.6, 92, 768, opp. Passato e presente, cit., p.81.
Q.6, 142, p.804, opp. Passato e presente, cit., p.86.
154
Se poi si scorrono i titoli di tutti i 29 quaderni, tuttavia, solo tre brevi paragrafi
hanno come titolo un riferimento diretto alla Sardegna. Il primo si trova al
Quaderno n°1:
Auguste Boullier, L’île de Sardaigne. Description, Histoire, Statistique, Moeurs,
État social, E. Dentu, Parigi, 1865. Il Boullier fu in Sardegna quando si parlava
di una sua cessione alla Francia. Scrisse anche un altro volume, Le dialecte et les
chants populaires de la Sardaigne. Il libro è ormai senza valore. È interessante
per alcuni aspetti. Il Boullier cerca di spiegare le cause delle difficoltà che si
presentarono in Sardegna contro la sparizione dei relitti feudali (beni collettivi,
ecc.), ciò che ringalluzziva i sostenitori dell’antico regime. Naturalmente il
Boullier, che si pone da un puro punto di vista ideologico, non capisce niente
della quistione. Vi sono ricordati inoltre alcuni elementi interessanti i rapporti
internazionali della Sardegna e la sua importanza nel Mediterraneo: per esempio
la insistenza di Nelson perché il governo inglese comprasse la Sardegna dal re
(di Piemonte) dietro un cànone di 500.000 sterline annue. Secondo Nelson la
Sardegna strategicamente è superiore a Malta; inoltre potrebbe diventare
economicamente redditizia sotto una gestione inglese, mentre Malta
economicamente sarà sempre passiva.153
Il secondo si trova al Quaderno n°8: La Sardegna. Nel «Corriere della Sera» tre
articoli di Francesco Coletti col titolo generale La Sardegna che risorge,
enumerano alcuni dei più importanti problemi sardi e danno un prospetto
sommario dei provvedimenti governativi. Il terzo articolo è del 10 febbraio 1932;
gli altri due di qualche settimana prima. Il Coletti si è sempre occupato della
Sardegna, anche negli anni prima della guerra, e i suoi scritti sono sempre utili,
perché ordinati e riassuntivi di molti fatti. Non so se abbia fatto delle raccolte in
volume di scritti vecchi. Vedere.154
Il terzo paragrafo, sempre nel Quaderno n°8: Sicilia e Sardegna. Per il diverso
peso che esercita la grande proprietà in Sicilia e in Sardegna, e quindi per la
diversa posizione relativa degli intellettuali, ciò che spiega il diverso carattere
dei movimenti politico-culturali, valgono queste cifre: in Sardegna solo il 18%
del territorio appartiene a Enti pubblici, il resto proprietà privata: dell'area
coltivabile il 50% comprende possessi inferiori a 10 ha. e solo il 4% al di sopra
153
154
Q.1, 142, p.128, opp. Passato e presente, cit. p.148.
Q.8, 54, p.973, opp. Passato e presente, cit., pp.95-96.
155
di 200 ha. Sicilia: nel 1907 il Lorenzoni assegnava 1400 proprietà di oltre 200
ha. con una estensione di ha. 717.729,16 cioè il 29,79% dell'estensione catastale
dell'isola, posseduta da 787 proprietari. Nel 1929 il Molé constatava 1055
latifondi di oltre 200 ha. con estensione complessiva di ha. 540.700 cioè il 22,2%
dell'area agraria e forestale (ma si tratta di vero frazionamento del latifondo).
Inoltre occorre tener conto della differenza storico – sociale - culturale dei
grandi proprietari siciliani da quelli sardi: i siciliani hanno una grande
tradizione e sono fortemente uniti. In Sardegna niente di ciò.155
Infine, ma non per importanza, sappiamo da una lettera dei primi mesi in cui era
carcerato anche dei libri di argomento sardo che egli ebbe modo di procurarsi
negli anni torinesi:
Io non ricordo più quali miei libri si trovano ancora a Ghilarza. Ricordo che nel
1913 avevo a Torino comprato uno stok di libri sulla Sardegna della biblioteca di
un marchese di Boyl, i cui eredi si erano disfatti dei libri di argomento sardo.
Qualcheduno, mi pare di ricordare, l'avevo portato a Ghilarza nelle vacanze.
Vorrei avere, se ci sono ancora, il libro del generale Lamarmora sui suoi viaggi
in Sardegna (è scritto in francese) e le storie del barone Mannu. Questi due mi
pare che siano proprio a Ghilarza. Avevo un grosso volume rilegato (molto
grosso, del peso di almeno 10 kili) con la raccolta di tutte le carte d'Arborea, ma
non ricordo se l'avevo portato. Un volumetto che invece ci deve essere è
dell'ingegnere Marchesi, Con Quintino Sella in Sardegna. Se trovi qualcuno di
questi libri in casa, fammelo mandare. Di' a Carlo che se gli capita di comprare
qualche numero della rivista «Il Nuraghe» me lo mandi dopo averlo letto.
Quando ti capita mandami qualcheduna delle canzoni sarde che cantano per le
strade i discendenti di Pirisi Pirione di Bolotana e se fanno, per qualche festa, le
gare poetiche, scrivimi quali temi vengono cantati. La festa di S. Costantino a
Sedilo e di S. Palmerio, le fanno ancora e come riescono? La festa di S. Isidoro
riesce ancora grande? Lasciano portare in giro la bandiera dei quattro mori e ci
sono ancora i capitani che si vestono da antichi miliziani? Sai che queste cose mi
hanno sempre interessato molto; perciò scrivimele e non pensare che sono
sciocchezze senza cabu né coa.156
155
Q.8, 161, pp.1037-1038, opp. Antonio Gramsci, Gli intellettuali e l'organizzazione della cultura,
Roma, Editori riuniti, 1996, p.13.
156
Lettera alla madre, n°51 del 3 ottobre 1927. Vedi anche la lettera n°248 del 29 febbraio 1932,
“Carissima mamma, in una lettera dell'11 Teresina mi annunziava una lettera di Grazietta e forse
156
La Sardegna, il Partito degli operai e dei contadini
Altro punto di vista attraverso il quale è possibile leggere il rapporto fra Gramsci
e la Sardegna, e l’influenza originaria che la Sardegna ha in Gramsci, è la
maturazione dell’idea che la questione pratica, relativa all’azione politica, che
vede la via maestra per giungere al socialismo in Italia, passare per l’alleanza fra
operai e contadini, sia una faccia della medaglia che dall’altra parte mostra la
“questione meridionale”.
Si può partire dalle notazioni autocritiche contro una certa mentalità da
“villaggio”, che Gramsci stesso ebbe come sardo dei primi del secolo, per
giungere al superamento che sfocia in un nuovo modo di pensare, “nazionale”,
diremmo oggi, ma anche alla luce del pensiero gramsciano, “globale”.
Giuseppe Fiori sintetizza efficacemente in questo modo: “Gramsci né si carcerò
nel sardismo di gioventù, né si ridusse ad assorbire passivamente l’indirizzo
politico e l’ideologia del proletariato settentrionale, fuorviato a quel tempo da
concezioni corporative non meno discutibili di quelle dominanti nel chiuso di
un’isola. (..) diventato socialista, Gramsci non seppelliva il suo passato”.157
In altre parole, per Gramsci, se da un lato era necessario superare il
provincialismo ed aprirsi ad una nuova cultura politica, dall’altro, per altri motivi,
anche la mentalità socialista necessitava di essere sprovincializzata. Una sorta di
“provincialismo alla rovescia” del socialismo riformista settentrionale che vedeva
nel meridione la “palla di piombo” dell’Italia, da un altro punto di vista forse, ma
comunque molto simile a quello degli industriali del Nord. Gramsci aveva invece
già maturato chiaramente l’idea che senza il meridione d’Italia nessuna
anche una di Mea, ma non ho ricevuto nulla. Penso che anche in Sardegna il cattivo tempo deve avere
imperversato, togliendo la volontà di scrivere. Qui ha nevicato molto, più che nel '28-'29 che
sembrava già eccezionale. Ringrazia Teresina delle notizie che mi ha mandato. Vorrei sentire davvero
le lunghe chiacchierate di zia Delogu e immagino che debba essere inesauribile nelle sue storielle di
gioventú. Ha ancora continuato nella sua selezione di pomidori giganteschi e senza semi; chissà
quanto le sarà costato dover abbandonare le sue fatiche di Urumare! Dirai anche a Teresina che
ringrazio lei e i suoi bambini per l'intenzione che hanno avuto di inviarmi le violette di Chenale e i
bulbi di ciclamino selvatico, ma non posso ricevere i loro doni; ciò andrebbe contro il regolamento
che vuole sia mantenuto il carattere afflittivo della pena carceraria. Dunque bisogna che sia afflittivo
e perciò niente violette e niente ciclamini, nessun diavoletto della natura deve stuzzicarmi le nari con
effluvi e gli occhi con i colori dei fiori. Ti abbraccio teneramente con tutti. Saluta zia Delogu quando
viene a trovarti. Antonio”. Cfr Cocco F. Le radici sarde, in Il pensiero permanente, a cura di E. Orrù e
N. Rudas, Tema, Cagliari, 1999, pp.126-131.
157
Fiori G., Op. cit., p.110.
157
rivoluzione socialista sarebbe mai stata possibile, e che solo dall’alleanza dei
contadini poveri del sud e della classe operaia del nord poteva trarre nuovo
slancio l’azione politica socialista.
Col senno di poi le considerazioni gramsciane appaiono ovvie, non foss’altro per
l’iconografia stessa del simbolo della falce e martello, perché se da un lato uno
dei due simboleggiava l’officina meccanica e quindi gli operai, l’altro,
simboleggiava certamente il lavoro nei campi ed i contadini. Eppure nel
movimento socialista, in un certo senso, si era persa la falce, ed era rimasto solo il
martello! Insomma, prendeva piede l’idea che gli operai avrebbero potuto fare da
soli, forse sottovalutando proprio quanto era avvenuto in Russia che non era un
paese industrializzato e la notazione marxista sui paesi in cui ancora non vi è
sufficiente sviluppo capitalistico. Questo atteggiamento da combattere è
sintetizzato da Gramsci così: “lotta contro l’aristocrazia operaia”.158
Dell’alleanza di operai e contadini Gramsci fa progressivamente il centro della
sua riflessione fra il 1919 e il 1926159 che diventa, soprattutto dopo l’affermarsi
del fascismo, la questione politico-organizzativa più importante di tutta la sua
azione politica, trattandone a più riprese nei documenti e nei colloqui coi
compagni di partito, negli articoli di giornale e nelle relazioni al partito.
Un primo articolo attraverso il quale leggere questi temi è dell’agosto nel 1919.
L’Italia vittoriosa seppure di una “vittoria mutilata” nel mese di gennaio aveva
firmato i trattati di pace, sei milioni di cittadini in armi, fra cui milioni di
contadini, che avevano combattuto anche per il miraggio della terra promessa dal
generale Diaz, erano rientrati alle loro case più miseri di prima. L’economia
nazionale era a pezzi. La vita del fronte aveva però creato una sorta di
158
Lettere 1908-1926, lettera n°100, cit. p. 259 a Togliatti da Vienna del 1 marzo 1924.
Un condensato delle riflessioni di quel periodo lo troviamo in un articolo di Gramsci dal titolo
leninista “Che fare?” pubblicato su “La voce della gioventù”, 1° novembre 1923, firmato Giovanni
Masci: “Non esiste un libro che studi i partiti politici italiani, i loro legami di classe, il loro
significato. Perché nella Valle del Po il riformismo si era radicato così profondamente? Perché il
partito popolare, cattolico, ha più fortuna nell'Italia settentrionale e centrale che nell'Italia del sud,
dove pure la popolazione è più arretrata e dovrebbe quindi più facilmente seguire un partito
confessionale? Perché in Sicilia i grandi proprietari terrieri sono autonomisti e non i contadini,
mentre in Sardegna sono autonomisti i contadini e non i grandi proprietari? Perché in Sicilia e non
altrove si è sviluppato il riformismo dei De Felice, Drago, Tasca di Cutò e consorti? Perché
nell'Italia del sud c'è stata una lotta armata tra fascisti e nazionalisti che non c'è stata altrove? Noi
non conosciamo l'Italia. Peggio ancora: noi manchiamo degli strumenti adatti per conoscere l'Italia,
così com'è realmente e quindi siamo nella quasi impossibilità di fare previsioni, di orientarci, di
stabilire delle linee d'azione che abbiano una certa probabilità di essere esatte. Non esiste una storia
della classe operaia italiana. Non esiste una storia della classe contadina?”.
159
158
particolarissima “coscienza di classe”, una nuova consapevolezza che scaturiva
naturaliter dalla solidarietà nelle situazioni di difficoltà che necessariamente
nasce stando in trincea al fronte. Poteva essere l’inizio della consapevolezza di
una lotta comune, nell’ottica del Gramsci politico:
Durante la guerra e per le necessità della guerra, lo Stato italiano ha assunto
nelle sue funzioni la regolamentazione della produzione e della distribuzione dei
beni materiali. Si è realizzata una forma di trust dell’industria e del commercio,
una forma di concentrazione dei mezzi di produzione e di scambio e un
eguagliamento delle condizioni di sfruttamento delle masse proletarie e
semiproletarie che hanno determinato i loro effetti rivoluzionari. Non è possibile
comprendere il carattere essenziale del periodo attuale, se non si tiene conto di
questi fenomeni e delle conseguenze psicologiche da essi prodotte. Nei paesi
ancora capitalisticamente arretrati come la Russia, l’Italia, la Francia e la
Spagna, esiste una netta separazione tra la città e la campagna, tra gli operai e i
contadini. Nell’agricoltura sono sopravvissute forme economiche prettamente
feudali, e una corrispondente psicologia. (..) La mentalità del contadino è
rimasta perciò quella del servo della gleba, che si rivolta violentemente contro i
«signori» in determinate occasioni, ma è incapace di pensare se stesso come
membro di una collettività (la nazione per i proprietari e la classe per i proletari)
e di svolgere un’azione sistematica e permanente rivolta a mutare i rapporti
economici e politici della convivenza sociale. La psicologia dei contadini era, in
tali condizioni, incontrollabile; i sentimenti reali rimanevano occulti, implicati e
confusi in un sistema di difesa contro gli sfruttamenti, meramente egoistica, senza
continuità logica, materiata in gran parte di sornioneria e di finto servilismo. La
lotta di classe si confondeva col brigantaggio, col ricatto, con l’incendio dei
boschi, con lo sgarrettamento del bestiame, col ratto dei bambini e delle donne,
con l’assalto al municipio: era una forma di terrorismo elementare, senza
conseguenze stabili ed efficaci. (..) Il contadino è vissuto sempre fuori dal
dominio della legge, senza personalità giuridica, senza individualità morale: è
rimasto un elemento anarchico, l’atomo indipendente di un tumulto caotico,
infrenato solo dalla paura del carabiniere e del diavolo. Non comprendeva
l’organizzazione, non comprendeva lo Stato, non comprendeva la disciplina;
paziente e tenace nella fatica individuale di strappare alla natura scarsi e magri
frutti, capace di sacrifici inauditi nella vita famigliare, era impaziente e violento
selvaggiamente nella lotta di classe, incapace di porsi un fine generale d’azione e
159
di perseguirlo con la perseveranza e la lotta sistematica. Quattro anni di trincea
e di sfruttamento del sangue hanno radicalmente mutato la psicologia dei
contadini. (..) La guerra ha costretto le nazioni più arretrate capitalisticamente, e
quindi meno dotate di mezzi meccanici, ad arruolare tutti gli uomini disponibili,
per opporre masse profonde di carne viva agli strumenti bellici degli Imperi
centrali. (..) Gli istinti individuali egoistici si sono smussati, un’anima comune
unitaria si è modellata, i sentimenti si sono conguagliati, si è formato un abito di
disciplina sociale: i contadini hanno concepito lo Stato nella sua complessa
grandiosità, nella sua smisurata potenza, nella sua complicata costruzione.
Hanno concepito il mondo, non più come una cosa indefinitamente grande come
l’universo e angustamente piccola come il campanile del villaggio, ma nella sua
concretezza di Stati e di popoli, di forze e di debolezze sociali, di eserciti e di
macchine, di ricchezze e di povertà. Legami di solidarietà si sono annodati che
altrimenti solo decine e decine d’anni di esperienza storica e di lotte intermittenti
avrebbero suscitati; in quattro anni, nel fango e nel sangue delle trincee, un
mondo spirituale è sorto avido di affermarsi in forme e istituti sociali permanenti
e dinamici. (..) Gli operai d’officina e i contadini poveri sono le due energie della
rivoluzione proletaria. Per loro specialmente il comunismo rappresenta una
necessità esistenziale: il suo avvento significa la vita e la libertà, il permanere
della proprietà privata significa il pericolo immanente di essere stritolati, di tutto
perdere fino alla vita fisica. Essi sono l’elemento irriducibile, la continuità
dell’entusiasmo rivoluzionario, la ferrea volontà di non accettare compromessi,
di proseguire implacabilmente fino alle realizzazioni integrali, senza
demoralizzarsi per gli insuccessi parziali e transitori, senza farsi troppe illusioni
per i facili successi. In Italia quest’opera è meno difficile di quanto si pensi:
durante la guerra sono entrate nella fabbrica cittadina ingenti quantità di
popolazione rurale: su essa la propaganda comunista ha rapidamente attecchito;
essa deve servire di cemento tra la città e la campagna, deve essere utilizzata per
svolgere nella campagna una fitta opera di propaganda che distrugga le
diffidenze e i rancori, deve essere utilizzata perché, valendosi della sua profonda
conoscenza della psicologia rurale e della fiducia che gode, inizi appunto
l’attività necessaria per determinare il sorgere e lo svilupparsi delle istituzioni
160
nuove che incorporino nel movimento comunista le vaste forze dei lavoratori dei
campi. 160
La psicologia e la mentalità contadine, che Gramsci dimostra di conoscere bene,
sono state fortemente cambiate dalla guerra, i contadini che erano capaci di
ribellarsi episodicamente o di fare i briganti, tuttavia senza riuscire ad avere una
coerente ed organizzata politica di massa a cui sentirsi legati e da cui sentirsi
rappresentati, hanno imparato al fronte una nuova disciplina “sociale”. Operai e
contadini sono “le due energie della rivoluzione proletaria”. Oggi ci appare
chiaramente come un eccesso di ottimismo acritico, ma il Gramsci di quegli anni
riteneva vicina la Rivoluzione per via dell’ingresso di molti contadini nelle
fabbriche. Ecco un altro articolo che verrà poi citato da Gramsci anche negli
appunti sulla questione meridionale161:
Il motto «la terra ai contadini» deve essere inteso nel senso che le aziende
agricole e le fattorie moderne devono essere controllate dagli operai agricoli
organizzati per azienda agricola e per fattoria, deve significare che le terre a
coltura estensiva devono essere amministrate dai Consigli dei contadini poveri
dei villaggi e delle borgate agricole; gli operai agricoli, i contadini poveri
rivoluzionari, e i socialisti consapevoli non possono concepire come utile ai loro
interessi e alle loro aspirazioni, non possono concepire come utile ai fini della
educazione proletaria, indispensabile per una repubblica comunista, la
propaganda per le «terre incolte o mal coltivate». Questa propaganda non può
avere altro risultato che una dissoluzione della coscienza e della fede
rivoluzionaria, non può avere per risultato che una mostruosa diffamazione del
socialismo. Cosa ottiene un contadino povero invadendo una terra incolta o mal
coltivata? Senza macchine, senza una abitazione sul luogo del lavoro, senza
credito per attendere il tempo del raccolto, senza istituzioni cooperative che
acquistino il raccolto stesso (se il contadino arriva al raccolto senza prima
essersi impiccato al più forte arbusto della boscaglia, o al meno tisico fico
selvatico, della terra incolta!) e lo salvino dalle grinfie degli usurai, cosa può
ottenere un contadino povero dall'invasione? Egli soddisfa, in un primo
momento, i suoi istinti di proprietario, sazia la sua primitiva avidità di terra; ma
in un secondo momento, quando s'accorge che le braccia non bastano per
160
161
Operai e contadini, articolo non firmato, L’Ordine Nuovo, 2 agosto 1919.
Vedi successivamente § La Sardegna e la Quistione meridionale.
161
scassare una terra che solo la dinamite può squarciare, quando si accorge che
sono necessarie le sementi e i concimi e gli strumenti di lavoro, e pensa che
nessuno gli darà tutte queste cose indispensabili, e pensa alla serie futura dei
giorni e delle notti da passare in una terra senza case, senza acque, con la
malaria, il contadino sente la sua impotenza, la sua solitudine, la sua disperata
condizione, e diventa un brigante, non un rivoluzionario, diventa un assassino dei
«signori», non un lottatore per il comunismo. (..) La borghesia settentrionale ha
soggiogato l'Italia meridionale e le isole e le ha ridotte a colonie di sfruttamento;
il proletario settentrionale, emancipando se stesso dalla schiavitù capitalistica,
emanciperà le masse contadine meridionali asservite alla banca e
all'industrialismo parassitario del Settentrione. La rigenerazione economica e
politica dei contadini non deve essere ricercata in una divisione delle terre
incolte o mal coltivate, ma nella solidarietà del proletario industriale, che ha
bisogno, a sua volta, della solidarietà dei contadini, che ha «interesse» acché il
capitalismo non rinasca economicamente dalla proprietà terriera e ha interesse
acché l'Italia meridionale e le isole non diventino una base militare di
controrivoluzione capitalista. 162
Le analisi di questo passo mostrano il metodo e la serietà con cui Gramsci
affrontava le questioni che altri sostenevano dilettantisticamente e con
superficialità. Lo slogan “la terra ai contadini” sarebbe potuto diventare una
diffamazione del socialismo se non accompagnato da una seria analisi delle
problematiche reali di sistema in assenza della quale non solo non si sarebbe
realizzato alcunché sulla via del socialismo, ma si sarebbe corso il rischio di
trasformare, in mancanza di alleanza fra operai e contadini, il mezzogiorno
d’Italia nella base del movimento reazionario. Un altro passo del 1920:
La questione dei contadini assilla lo scrittore della Stampa. Egli ce la butta tra i
piedi gioiosamente, trionfalmente. I contadini saranno il martello del
comunismo: attenti, operai! volete liberare le vostre nuche dal piedino ben
calzato della civile borghesia moderna: vi troverete sulla nuca lo scarpone
ferrato del contadino! (..) La lotta di classe non ha ancora assunto forme
diffusamente e coscientemente organiche nelle campagne; è certo che la
rivoluzione proletaria non sarà entrata nella sua forma risolutiva se non quando
la classe dei contadini poveri e dei piccoli proprietari si sarà violentemente
162
Operai e contadini, da L'Ordine Nuovo, 3 gennaio 1920.
162
staccata dai partiti politici di coalizione contadinesca (..) La lotta di classe
scoppierà violenta e irresistibile anche nelle campagne italiane: anche in Italia il
partito popolare si spezzerà in due tronconi; non certo i legami religiosi bastano
a infrenare la lotta delle classi, che è «la molla della storia». E anche in Italia
sarà la classe operaia che si metterà all'avanguardia della rivoluzione, perché,
tra gli oppressi della proprietà privata, solo il proletariato ha una dottrina
politica, il marxismo, ha una cultura, ha una psicologia unitaria, ha una
disciplina, perché solo la classe operaia può, dal mondo del lavoro, dalla
fabbrica, organizzare una società nuova capace di vita e di sviluppo.163
Sembrerebbe contraddittorio affermare da un lato che la lotta di classe debba
scoppiare anche nelle campagne e dall’altro che solo la classe operaia abbia una
dottrina tale per cui possa guidare la lotta per organizzare la nuova società;
tuttavia la contraddizione cade nel momento in cui si chiarisce che anche i
contadini sono proletari. Gramsci parla a volte di contadini poveri, per
distinguerli dai piccoli proprietari, comunque gli scritti di questo periodo sono
concordi nel parlare di una alleanza che sola può consentire in Italia di
raggiungere il socialismo. Tanto è vero che Gramsci pensa anche ad un giornale
degli operai e dei contadini, come possiamo leggere nella lettera per la
fondazione de «l'Unità»164. Si tratta di un documento che conferma e precisa
163
Operai e contadini, dall'Avanti!, edizione piemontese, 20 febbraio 1920.
Lettera al C.E. del P.C. d'Italia, datata 12 settembre 1923 pubblicata su Rinascita, 8 febbraio 1964
in Lettere 1908-1926, cit. p. 129. Oltre il passo riportato nel testo, vi sono anche osservazioni di
carattere politico che riportiamo qui in nota: “Al CE del PC d'Italia. 12 settembre 1923, Cari
compagni, nella sua ultima seduta il Pres. ha deciso che in Italia sia pubblicato un quotidiano
operaio redatto dal CE al quale possano dare la loro collaborazione politica i terzinternazionalisti
esclusi dal PS. Voglio comunicarvi le mie impressioni e le mie opinioni a questo proposito. Credo che
sia molto utile e necessario, data la situazione attuale italiana, che il giornale sia compilato in modo
da assicurare la sua esistenza legale per il più lungo tempo possibile. Non solo quindi il giornale non
dovrà avere alcuna indicazione di partito, ma esso dovrà essere redatto in modo che la sua
dipendenza di fatto dal nostro partito non appaia troppo chiaramente. Dovrà essere un giornale di
sinistra, della sinistra operaia, rimasta fedele al programma ed alla tattica della lotta di classe, che
pubblicherà gli atti e le discussioni del nostro partito, come farà possibilmente anche per gli atti e le
discussioni degli anarchici, dei repubblicani, dei sindacalisti e dirà il suo giudizio con un tono
disinteressato, come se avesse una posizione superiore alla lotta e si ponesse da un punto di vista
«scientifico». Capisco che non è troppo facile fissare tutto ciò in un programma scritto; ma
l'importanza non è di fissare un programma scritto, è piuttosto nell'assicurare al partito stesso, che
nel campo delle sinistre operaie ha storicamente una posizione dominante, una tribuna legale che
permetta di giungere alle più larghe masse con continuità e sistematicamente. I comunisti e i
serratiani collaboreranno al giornale, manifestamente, cioè firmando gli articoli con nomi di elementi
in vista, secondo un piano politico, che tenga conto mese per mese, e, direi, settimana per settimana,
della situazione generale del paese e dei rapporti che si sviluppano tra le forze sociali italiane.
164
163
come le riflessioni gramsciane, nate dagli studi giovanili e dalle letture sulla
questione meridionale ed i primi articoli in cui tratta del tema, già dal 1916,
valutino la centralità del problema e si sviluppino e maturino con sempre più
consapevolezza fino a giungere ad un programma operativo concreto come,
appunto, testimonia la lettera per la fondazione del quotidiano «l'Unità».
Io propongo come titolo L'Unità puro e semplice, che sarà un significato per gli
operai e avrà un significato più generale, perché credo che dopo la decisione
dell'Esecutivo Allargato sul governo operaio e contadino, noi dobbiamo dare
importanza specialmente alla questione meridionale, cioè alla questione in cui il
problema dei rapporti tra operai e contadini si pone non soltanto come un
problema di rapporto di classe, ma anche e specialmente come un problema
territoriale, cioè come uno degli aspetti della questione nazionale. Personalmente
io credo che la parola d'ordine «governo operaio e contadino» debba essere
adattata in Italia così: «Repubblica federale degli operai e dei contadini». Non
so se il momento attuale sia favorevole a ciò, credo però che la situazione che il
fascismo va creando e la politica corporativa e protezionistica dei confederali
porterà il nostro partito a questa parola d'ordine. A questo proposito sto
preparando una relazione per voi che discuterete ed esaminerete. Se sarà utile,
dopo qualche numero, si potrà nel giornale iniziare una polemica con
pseudonimi e vedere quali ripercussioni essa avrà nel paese e negli strati di
sinistra dei popolari e dei democratici che rappresentano le tendenze reali della
classe contadina e hanno sempre avuto nel loro programma la parola d'ordine
dell'autonomia locale e del decentramento. Se voi accettate la proposta del titolo
L'Unità lascerete il campo libero per la soluzione di questi problemi e il titolo
sarà una garanzia contro le degenerazioni autonomistiche e contro i tentativi
reazionari di dare interpretazioni tendenziose e poliziesche alle campagne che si
Bisognerà stare attenti ai serratiani che tenderanno a trasformare il giornale in un organo di frazione
nella lotta contro la direzione del PS. Bisognerà essere severissimi in ciò ed impedire ogni
degenerazione. La polemica si farà necessariamente, ma con spirito politico, non di setta ed entro
certi limiti. Bisognerà stare in guardia contro i tentativi per creare una situazione «economica» a
Serrati, che è disoccupato e sarà dai suoi compagni proposto, molto probabilmente, come redattore
ordinario. Serrati collaborerà firmando e non firmando; i suoi articoli firmati dovranno però essere
fissati in una certa misura e quelli non firmati dovranno essere accettati dal CE nostro. Sarà
necessario fare con i socialisti, meglio con lo spirito socialista di Serrati, Maffí ecc. delle polemiche
di principio che saranno utili per rinsaldare la coscienza comunista delle masse e per preparare
quella unità ed omogeneità di partito che sarà necessaria dopo la fusione per evitare una ricaduta
nella caotica situazione del 1920.(..)”
164
potranno fare: io d'altronde credo che il regime dei soviets, con il suo
accentramento politico dato dal partito comunista e con la sua decentralizzazione
amministrativa e la sua colorizzazione delle forze popolari locali, trovi un'ottima
preparazione ideologica nella parola d'ordine: Repubblica federale degli operai
e contadini. Saluti comunisti.”
Ed ancora su questo tema la lettera n°95 del dieci febbraio 1924 da Vienna
indirizzata al C.E. del P.C.d’I.165, in cui si pone il problema dei rapporti
organizzativi fra “classe operaia” e “classe contadina” e la lettera n°100 del primo
marzo del 1924, indirizzata a Togliatti e Scoccimarro, dove nel promemoria al
punto n°2 si parla di uno “studio delle possibilità militari di una insurrezione
armata nel Mezzogiorno”166 che però non ebbe seguito (almeno a quanto risulta
dalle carte note). Il tema del Mezzogiorno e dell’alleanza operai-contadini,
tuttavia, in Gramsci è sempre politico e l’idea di una insurrezione armata non
ricompare, mentre proprio per l’affermarsi del fascismo, si rafforza l’idea guida
che è sempre la stessa: l’alleanza fra operai e contadini:
Nell'Italia meridionale il fascismo ha in parte eliminato uno strato di antichi
dirigenti che controllavano gran parte delle masse contadine e rappresentarono
la forza maggiore dell'antifascismo. La formazione di un partito d'azione
meridionale non è cosa possibile. Si manifesta, invece, una tendenza che
potremmo chiamare un «migliolismo» meridionale e che deve essere da noi
utilizzata in tutta la sua portata. Se noi riusciremo a dare un'organizzazione ai
contadini meridionali, avremo vinto la rivoluzione; al momento dell'azione
decisiva uno spostamento delle forze armate borghesi dal Nord al Sud per
opporsi all'insurrezione dei contadini meridionali alleati coi proletari
settentrionali, assicura maggiore possibilità di azione per gli operai. Il nostro
compito generale è dunque chiaro: organizzare gli operai del Nord e i contadini
meridionali e saldare la loro alleanza rivoluzionaria.167
Un articolo del marzo 1924168 “Il Mezzogiorno e il fascismo” testimonia di come
165
Lettere 1908-1926, cit. pp.239-243.
Lettere 1908-1926, op. cit. p. 259.
Intervento al Comitato centrale del partito comunista del 9-10 novembre 1925.
168
Da L'Ordine Nuovo, quindicinale, 15 marzo 1924. “Gli industriali qualcosa fecero per aiutare
Mussolini: la Confederazione generale dell'industria, nella sua conferenza del giugno 1923, così
parlò per bocca del presidente On. Benni: «Così pure certamente andrà presto a terminare un'altra
azione lunga e complessa che noi abbiamo iniziato per il Mezzogiorno d'Italia. Vogliamo portare il
nostro contributo, con un'azione pratica, al risorgere dell'Italia meridionale ed insulare, dove già si
166
167
165
Gramsci si convinca sempre più dell’importanza della “questione meridionale”,
dell’errore commesso nel sottovalutarne le implicazioni, dell’importanza delle
masse contadine meridionali alleate con gli operai del nord:
La quistione meridionale non può essere risolta dalla borghesia altro che
transitoriamente, episodicamente, con la corruzione o col ferro e col fuoco. Il
fascismo ha esasperato la situazione e l'ha in gran parte chiarita. Il non essersi
posto con chiarezza il problema, in tutta la sua estensione e con tutte le sue
possibili conseguenze politiche, ha intralciato l'azione della classe operaia e ha
contribuito, in larga parte, al fallimento della rivoluzione degli anni 1919-'20. (..)
Oggi il problema è ancora più complicato e difficile che non fosse in quegli anni,
ma esso rimane problema centrale di ogni rivoluzione nel nostro paese e di ogni
rivoluzione che voglia avere un domani, e perciò deve essere posto arditamente e
decisamente. Nell'attuale situazione, con la depressione delle forze proletarie che
esiste, le masse contadine meridionali hanno assunto una importanza enorme nel
campo rivoluzionario. O il proletariato, attraverso il suo partito politico, riesce
in questo periodo a crearsi un sistema di alleati nel Mezzogiorno, oppure le
masse contadine cercheranno dei dirigenti politici nella loro stessa zona, cioè si
abbandoneranno completamente nelle mani della piccola borghesia
amendoliana, diventando una riserva della controrivoluzione, giungendo fino al
separatismo e all'appello agli eserciti stranieri nel caso di una rivoluzione
puramente industriale del nord. La parola d'ordine del governo operaio e
contadino deve perciò tenere speciale conto del Mezzogiorno, non deve
confondere la quistione dei contadini meridionali con la quistione in generale dei
rapporti tra città e campagna in un tutto economico organicamente sottomesso al
regime capitalistico: la quistione meridionale è anche quistione territoriale ed è
da questo punto di vista che deve essere esaminata per stabilire un programma di
governo operaio e contadino che voglia trovare larga ripercussione nelle masse.”
Parte fondamentale del ruolo guida che il partito di operai e contadini deve avere
in rapporto anche alla questione meridionale è appunto quella che Gramsci stesso
manifestano promettenti i primi indizi di un salutare risveglio economico. È un'opera non semplice:
ma è necessario che la classe industriale ci si dedichi, perché è interesse di tutti che la compagine
della nazione si amalgami ancor più sulla base degli interessi economici». Gli industriali aiutano
Mussolini con le belle parole; ma alle belle parole seguirono poco dopo dei fatti più espressivi delle
parole: la conquista delle società cotoniere del Salernitano e il trasferimento delle macchine,
camuffate da ferro vecchio, nella zona tessile lombarda.
166
chiama “questione agraria”, un problema politico di primissimo piano che
troviamo efficacemente sintetizzato in un sunto della Relazione al III Congresso
del Partito comunista d'Italia:
La quistione agraria. Il partito ha cercato, per ciò che riguarda la sua azione tra
i contadini, di uscire dalla sfera della semplice propaganda ideologica tendente a
diffondere solo astrattamente i termini generali della soluzione leninista del
problema stesso, per entrare nel terreno pratico dell'organizzazione e dell'azione
politica reale. (..) D'altronde una tale quistione, dato che il proletariato
industriale è da noi solo una minoranza della popolazione lavoratrice, si pone
con maggiore intensità che altrove. Il problema di quali siano le forze motrici
della rivoluzione e quello della funzione direttiva del proletariato si presentano
in Italia in forme tali da domandare una particolare attenzione del nostro partito
e la ricerca di soluzioni concrete ai problemi generali che si riassumono
nell'espressione: quistione agraria. (..) La quistione dei contadini meridionali è
stata esaminata dal congresso con particolare attenzione. Il congresso ha
riconosciuto esatta l'affermazione contenuta nelle tesi della Centrale, secondo la
quale la funzione della massa contadina meridionale nello svolgimento della
lotta anticapitalistica italiana deve essere esaminata a sé e deve portare alla
conclusione che i contadini meridionali sono, dopo il proletariato industriale e
agricolo dell'Italia del nord, l'elemento sociale più rivoluzionario della società
italiana. Quale è la base materiale e politica di questa funzione e delle masse
contadine del Sud? I rapporti che intercorrono tra il capitalismo italiano e i
contadini meridionali non consistono solamente nei normali rapporti storici tra
città e campagna, quali sono stati creati dallo sviluppo del capitalismo in tutti i
paesi del mondo; nel quadro della società nazionale questi rapporti sono
aggravati e radicalizzati dal fatto che economicamente e politicamente tutta la
zona meridionale e delle isole funziona come una immensa campagna di fronte
all'Italia del nord, che funziona come una immensa città. Una tale situazione
determina nell'Italia meridionale il formarsi e lo svilupparsi di determinati
aspetti di una quistione nazionale, se pure immediatamente essi non assumono
una forma esplicita di tale quistione nel suo complesso, ma solo di una
vivacissima lotta a carattere regionalistico e di profonde correnti verso il
decentramento e le autonomie locali. (..) Gli ultimi avvenimenti della vita
italiana, che hanno determinato un passaggio in massa della piccola borghesia
meridionale al fascismo, hanno reso più acuta la necessità di dare ai contadini
167
meridionali una direzione propria per sottrarli definitivamente all'influenza
borghese agraria. Il solo organizzatore possibile della massa contadina
meridionale è l'operaio industriale, rappresentato dal nostro partito. 169
Delle questioni agrarie Gramsci si è sempre occupato nel corso della sua vita
politica, nel dicembre 1921 alla riunione del Comitato Centrale presentò, assieme
a Bordiga, Tasca, Terracini, Graziadei una relazione per il secondo congresso del
PCd’I sulle tesi relative alla questione agraria. Nel 1926 a Bari si svolse
clandestinamente la conferenza agraria del partito dove vennero discusse ed
approvate le “tesi sul lavoro contadino” anche quelle direttamente ispirate da
Gramsci. Questi testi che vanno dal 1916 al 1926 sono quasi un percorso che
cammina parallelo quando non porti direttamente allo scritto, rimasto incompiuto,
del 1926 sulla Quistione meridionale di cui ora parleremo.
169
Pubblicata su L'Unità, 24 febbraio 1926 e su Rinascita, 1956, n. 10. Nel medesimo testo: (..) “Il
partito deve tendere a creare in ogni regione delle unioni regionali dell'Associazione di difesa dei
contadini: ma, entro questi quadri organizzativi più larghi, occorre distinguere quattro
raggruppamenti fondamentali delle masse contadine, per ognuno dei quali è necessario trovare
atteggiamenti e soluzioni politiche ben precise e complete. Uno di questi raggruppamenti è costituito
dalle masse dei contadini slavi dell'Istria e del Friuli, la cui organizzazione è legata strettamente alla
quistione nazionale. Un secondo è costituito dal particolare movimento contadino che si riassume
sotto il titolo di: «Partito dei contadini» e che ha la sua base specialmente nel Piemonte; per questo
raggruppamento di carattere aconfessionale e di carattere più strettamente economico, vale
l'applicazione dei termini generali della tattica agraria del leninismo, dato anche il fatto che tale
raggruppamento esiste nella regione in cui esiste uno dei centri proletari più efficienti in Italia. I due
altri raggruppamenti sono di gran lunga i più considerevoli e quelli che domandano la maggiore
attenzione del partito, e cioè: 1. la massa dei contadini cattolici, raggruppati nell'Italia centrale e
settentrionale, i quali sono più o meno direttamente organizzati dall'Azione cattolica e dall'apparato
ecclesiastico in generale, cioè dal Vaticano; 2. la massa dei contadini dell'Italia meridionale e delle
isole. (..) Ciò che rende caratteristica la situazione dei contadini meridionali è il fatto che essi, a
differenza dei tre raggruppamenti precedentemente descritti, non hanno nel loro complesso nessuna
esperienza organizzativa autonoma. Essi sono inquadrati negli schemi tradizionali della società
borghese, per cui gli agrari, parte integrante del blocco agrario - capitalistico, controllano le masse
contadine e le dirigono secondo i loro scopi. (..) Su tutta questa serie di problemi, la opposizione di
estrema sinistra non riuscì a dire che delle barzellette e dei luoghi comuni. La sua posizione
essenziale fu quella di negare aprioristicamente che questi problemi concreti esistano in sé, senza
nessuna analisi o dimostrazione neanche potenziale. Si può dire anzi che appunto nei riguardi della
quistione agraria, apparve la vera essenza della concezione dell'estrema sinistra, la quale consiste in
una specie di corporativismo che aspetta meccanicamente dal solo sviluppo delle condizioni obiettive
generali la realizzazione dei fini rivoluzionari. Tale concezione fu, come abbiamo detto, nettamente
rigettata dalla stragrande maggioranza del congresso.”
168
La Sardegna e la quistione meridionale
Punto di arrivo di tutta la riflessione intellettuale e politica pre - carceraria di
Gramsci sul rapporto operai – contadini, campagna – città, e culmine, a nostro
modo di vedere, di quell’originaria influenza che la Sardegna ebbe nella
formazione di Gramsci è lo scritto del 1926 su “la quistione meridionale”170. Sul
tema della questione meridionale esisteva una letteratura giornalistica e diverse
pubblicazioni cui Gramsci aveva potuto attingere, in una lettera alla madre
troviamo un riferimento diretto171. Della “letteratura” giornalistica Gramsci dà
conto indirettamente ed in termini generali nello svolgimento dei suoi
ragionamenti, ad esempio in un passo sugli intellettuali meridionali172 che erano
170
Cfr. 2000 pagine di Gramsci, Vol. I, Milano, 1964, il manoscritto andò smarrito nei giorni
dell'arresto di Gramsci e fu ritrovato da Camilla Ravera tra le carte che Gramsci abbandonò
nell'abitazione di via Morgagni. Il saggio fu pubblicato nel gennaio 1930 a Parigi nella rivista Stato
Operaio, con una nota in cui è detto: «Lo scritto non è completo e probabilmente sarebbe stato ancora
ritoccato dall'autore, qua e là. Lo riproduciamo senza alcuna correzione, come il migliore documento
di un pensiero politico comunista, incomparabilmente profondo, forte, originale, ricco degli sviluppi
più ampi.».
171
La lettera n°256 del 4 aprile 1932 alla madre contiene il seguente passaggio: “Vorrei che facessi
cercare tra i libri della famosa scansia, se c'è un opuscolo intitolato La quistione meridionale.” Con
ogni probabilità si tratta del numero unico sulla questione meridionale del giornale la “Voce”
stampato poi come opuscolo cfr. Q. 19, 24, pp.2011-2034. Ecco un articolo tratto da Il Grido del
popolo, 1° aprile 1916, firmato A.G. che dimostra dell’interesse per la questione fin dal 1916: “La
quarta guerra del Risorgimento italiano non pare debba avere per il Mezzogiorno conseguenze
diverse da quella delle altre tre. Lo ha fatto notare A. Labriola alla Camera durante la discussione
della politica economica del gabinetto Salandra. (..) Già nel 1911 in una pubblicazione semiufficiale
posta sotto il patronato dell'Accademia dei lincei, Francesco Coletti, un economista serio e poco
amante dei paradossi, aveva fatto notare che l'unificazione delle regioni italiane sotto uno stesso
regime accentratore aveva avuto per il Mezzogiorno conseguenze disastrose, e che la cecità dei
governanti, dimentichi del programma economico cavouriano, aveva incrudito lo stato di cose dal
quale originava la annosa e ormai cronica questione meridionale. La nuova Italia aveva trovato in
condizioni assolutamente antitetiche i due tronconi della penisola, meridionale e settentrionale, che si
riunivano dopo più di mille anni.”
172
Scrive Gramsci nel manoscritto Alcuni temi della quistione meridionale: “Abbiamo detto che
l'Italia meridionale è una grande disgregazione sociale. Questa formula oltre che ai contadini si può
riferire anche agli intellettuali. (..) I meridionali che hanno cercato di uscire dal blocco agrario e di
impostare la quistione meridionale in forma radicale hanno trovato ospitalità e si sono raggruppati
intorno a riviste stampate fuori del Mezzogiorno. Si può dire anzi che tutte le iniziative culturali
dovute agli intellettuali medi che hanno avuto luogo nel XX secolo nell'Italia centrale e settentrionale
furono caratterizzate dal meridionalismo, perché fortemente influenzate da intellettuali meridionali:
tutte le riviste del gruppo di intellettuali fiorentini, Voce, Unità; le riviste dei democratici cristiani,
come l'Azione di Cesena; le riviste dei giovani liberali emiliani e milanesi di G. Borelli, come la
Patria di Bologna o l'Azione di Milano; infine la Rivoluzione liberale di Gobetti. Orbene: supremi
moderatori politici e intellettuali di tutte queste iniziative sono stati Giustino Fortunato e Benedetto
Croce. In una cerchia più ampia di quella molto soffocante del blocco agrario, essi hanno ottenuto
169
al tempo fortemente egemonizzati dal Croce. Dal 1916 al 1926 la consapevolezza
della centralità politica della questione meridionale si fa strada sempre più
convintamente in Gramsci, così come la riflessione autocritica sulle occasioni
perdute, quale fu il biennio rosso. Una lettera a Togliatti del 1924 mette in
relazione autocritica, questione meridionale e fascismo173:
Quarto ed ultimo di questi problemi è quello del Mezzogiorno, che noi abbiamo
misconosciuto così come facevano i socialisti e abbiamo creduto fosse risolvibile
nell’ambito normale della nostra attività politica generale. Io sono sempre stato
persuaso che il Mezzogiorno diventerebbe la fossa del fascismo, ma credo anche
che esso sarà il maggiore serbatoio e la piazza d’armi della reazione nazionale e
internazionale se prima della rivoluzione noi non ne studiamo adeguatamente le
questioni e non siamo preparati a tutto.
È evidente che, se l’obiettivo politico prioritario ed essenziale da raggiungere è
l’alleanza fra operai e contadini, e se occorre una nuova visione politica del
problema del Mezzogiorno, occorreva portare avanti un doppio lavoro, nel sud
contadino, ma anche nel nord operaio. Abbiamo accennato alla critica che egli
muoveva alla “aristocrazia operaia” per delle idee che avevano presa sia nel
partito socialista174 che nel sindacato. A questa critica si aggiunge quella contro
l’idea a sfondo quasi razzista della sottovalutazione dei meridionali. Un capitolo
del quaderno n°19 analizza e critica la convinzione diffusa anche fra gli operai
che il mezzogiorno fosse “la palla di piombo” dell’Italia: Il problema della
direzione politica nella formazione e nello sviluppo della nazione e dello Stato
moderno in Italia: 175
Il popolano dell’Alta Italia pensava invece che, se il Mezzogiorno non progrediva
dopo essere stato liberato dalle pastoie che allo sviluppo moderno opponeva il
regime borbonico, ciò significava che le cause della miseria non erano esterne,
che la impostazione dei problemi meridionali non soverchiasse certi limiti, non diventasse
rivoluzionaria. (..) In questo senso Benedetto Croce ha compiuto una altissima funzione «nazionale»;
ha distaccato gli intellettuali radicali del Mezzogiorno dalle masse contadine, facendoli partecipare
alla cultura nazionale ed europea, e attraverso questa cultura li ha fatti assorbire dalla borghesia
nazionale e quindi dal blocco agrario.”
173
Lettere 1908-1926, lettera n°94 da Vienna, del 9 febbraio 1924, contenente disposizioni politiche
per il partito, pp.223-238, cit. p. 237.
174
Antonio Gramsci, La questione meridionale, a cura di F. De Felice e V. Parlato, Roma, E.R., 1966,
cfr. pp.155-190, dove afferma: Il partito socialista fu in gran parte il veicolo di questa ideologia
borghese nel proletariato settentrionale; il partito socialista diede il suo crisma a tutta la letteratura
«meridionalista».
175
Q. 19, 24, pp.2011-2034.
170
da ricercarsi nelle condizioni economico-politiche obiettive, ma interne, innate
nella popolazione meridionale, tanto più che era radicata la persuasione della
grande ricchezza naturale del terreno: non rimaneva che una spiegazione,
l’incapacità organica degli uomini, la loro barbarie, la loro inferiorità biologica.
Queste opinioni già diffuse (il lazzaronismo napoletano era una leggenda di
vecchia data) furono consolidate e addirittura teorizzate dai sociologhi del
positivismo assumendo la forza di «verità scientifica» in un tempo di
superstizione della scienza. Si ebbe così una polemica Nord-Sud sulle razze e
sulla superiorità e inferiorità del Nord e del Sud. Intanto rimase nel Nord la
credenza che il Mezzogiorno fosse una «palla di piombo» per l’Italia, la
persuasione che più grandi progressi la civiltà industriale moderna dell’Alta
Italia avrebbe fatto senza questa «palla di piombo», ecc. Nei principii del secolo
si inizia una forte reazione meridionale anche su questo terreno. Nel Congresso
Sardo del 1911, tenuto sotto la presidenza del generale Rugiu, si calcola quante
centinaia di milioni siano stati estorti alla Sardegna nei primi 50 anni di Stato
unitario, a favore del continente. Campagne del Salvemini, culminate nella
fondazione dell’«Unità», ma condotte già nella «Voce» (cfr. numero unico della
«Voce» sulla «Quistione meridionale», ristampato poi in opuscolo): in Sardegna
si inizia un movimento autonomistico, sotto la direzione di Umberto Cau, che
ebbe anche un giornale quotidiano «Il Paese». In questo inizio di secolo si
realizza anche un certo «blocco intellettuale», «panitaliano», con a capo B.
Croce e Giustino Fortunato, che cerca di imporre la quistione meridionale come
problema nazionale capace di rinnovare la vita politica e parlamentare. 176
176
Il Risorgimento, cit., pag. 52. Altro passaggio significativo sul bracciantato: “Si può anche dire che
partiti contadini nel senso stretto della parola è quasi impossibile crearne: il partito contadino si
realizza in generale solo come forte corrente di opinioni, non già in forme schematiche
d’inquadramento burocratico; tuttavia l’esistenza anche solo di uno scheletro organizzativo è di
utilità immensa, sia per una certa selezione di uomini, sia per controllare i gruppi intellettuali e
impedire che gli interessi di casta li trasportino impercettibilmente in altro terreno. Questi criteri
devono essere tenuti presenti nello studio della personalità di Giuseppe Ferrari che fu lo
«specialista» inascoltato di quistioni agrarie nel Partito d’Azione. Nel Ferrari occorre anche studiare
bene l’atteggiamento verso il bracciantato agricolo, cioè i contadini senza terra e viventi alla
giornata, sui quali egli fonda una parte cospicua delle sue ideologie, per le quali egli è ancora
ricercato e letto da determinate correnti (opere del Ferrari ristampate dal Monanni con prefazioni di
Luigi Fabbri). Occorre riconoscere che il problema del bracciantato è difficilissimo e anche oggi di
ardua soluzione. In generale occorre tener presenti questi criteri: i braccianti sono ancora oggi, nella
maggior parte, ed erano quindi tanto più nel periodo del Risorgimento, dei semplici contadini senza
terra, non degli operai di una industria agricola sviluppata con capitale concentrato e con la
divisione del lavoro; nel periodo del Risorgimento era più diffuso, in modo rilevante, il tipo
171
La convinzione di Gramsci è che continuare a pensare il mezzogiorno come la
“palla di piombo” che impedisce alla nazione di muoversi è un grave errore
politico da combattere con forza, perché l’alleanza fra industriali del nord ed
agrari del sud col tramite delle banche creerebbe una tenaglia che renderebbe
impossibile la rivoluzione: il proletariato deve muoversi su tutti e due questi
fronti.
La stesura del manoscritto fu occasionata da un articolo tanto superficiale quanto
falso che apparve nel Quarto Stato del 18 settembre 1926 nel quale si accusavano
i “comunisti torinesi” fra cui evidentemente Gramsci era la figura di maggior
spicco, di non avere alcun merito sul “problema meridionale” e si affermava:
«Non abbiamo dimenticato che la formula magica dei comunisti torinesi era:
dividere il latifondo tra i proletari rurali. Quella formula è agli antipodi con ogni
sana realistica visione del problema meridionale». A questo grossolano
capovolgimento della realtà Gramsci risponde citando un brano dell'Ordine
Nuovo (numero del 3 gennaio 1920) nel quale è riassunto il punto di vista dei
comunisti torinesi, che noi abbiamo già riportato177 e sottolinea come:
Qualche concetto potrebbe essere oggi espresso meglio, potrebbe e dovrebbe
essere meglio distinto il periodo immediatamente successivo alla conquista dello
Stato, caratterizzato dal semplice controllo operaio sull'industria, dai periodi
successivi. Ma quello che importa notare qui è che il concetto fondamentale dei
comunisti torinesi non è stato la «formula magica» della divisione del latifondo,
ma quello della alleanza politica tra operai del Nord e contadini del Sud per
rovesciare la borghesia dal potere di Stato: non solo, ma proprio i comunisti
torinesi (che pure sostenevano, come subordinata all'azione solidale delle due
classi, la divisione delle terre) mettevano in guardia contro le illusioni
dell’obbligato in confronto a quello dell’avventizio. La loro psicologia perciò è, con le dovute
eccezioni, la stessa del colono e del piccolo proprietario (è da ricordare la polemica tra i senatori
Tanari e Bassini nel «Resto del Carlino» e nella «Perseveranza» avvenuta verso la fine del 1917 o ai
primi del ’18 a proposito della realizzazione della formula la «terra ai contadini», lanciata in quel
torno di tempo: il Tanari era pro, il Bassini contro e il Bassini si fondava sulla sua esperienza di
grande industriale agricolo, di proprietario di aziende agricole in cui la divisione del lavoro era già
talmente progredita da rendere indivisibile la terra per la sparizione del contadino-artigiano e
l’emergere dell’operaio moderno). La questione si poneva in forma acuta non tanto nel Mezzogiorno
dove il carattere artigianesco del lavoro agricolo era troppo evidente, ma nella valle padana dove
esso è più velato.”, ivi, p.54.
177
Vedi il capitolo La Sardegna, il partito degli operai e dei contadini, e note n°160 e n°162.
172
«miracolistiche» sulla spartizione meccanica dei latifondi. E prosegue andando al
cuore dell’intuizione originaria del problema stesso della quistione meridionale:
Nel campo proletario, i comunisti torinesi hanno avuto un «merito»
incontrastabile: di avere imposto la quistione meridionale all'attenzione
dell'avanguardia operaia, prospettandola come uno dei problemi essenziali della
politica nazionale del proletariato rivoluzionario. In questo senso essi hanno
contribuito praticamente a far uscire la quistione meridionale dalla sua fase
indistinta, intellettualistica, così detta «concretista», per farla entrare in una fase
nuova. (..) Ma la quistione contadina in Italia è storicamente determinata, non è
la «quistione contadina e agraria in generale»; in Italia la quistione contadina
ha, per la determinata tradizione italiana, per il determinato sviluppo della storia
italiana, assunto due forme tipiche e peculiari, la quistione meridionale e la
quistione vaticana. Conquistare la maggioranza delle masse contadine significa
dunque, per il proletariato italiano, far proprie queste due quistioni dal punto di
vista sociale, comprendere le esigenze di classe che esse rappresentano,
incorporare queste esigenze nel suo programma rivoluzionario di transizione,
porre queste esigenze tra le sue rivendicazioni di lotta.
Gramsci aveva chiaramente impostato quello che era “il primo problema da
risolvere, per i comunisti torinesi” che aveva una portata notevolissima nel
quadro dell’azione politica e del pensiero marxista – leninista in quanto azione
politica concreta: “modificare l'indirizzo politico e l'ideologia generale del
proletariato stesso” in Italia. Un accenno, come rilevato, lo si trova in una lunga e
complessa missiva del 9 febbraio 1924 a Togliatti, dove si afferma chiaramente
che il problema del Mezzogiorno non poteva essere risolto nell’ambito di una
politica generale ma costituisse un unicum. Due anni dopo le considerazioni
gramsciane sono le seguenti:
È noto quale ideologia sia stata diffusa in forma capillare dai propagandisti
della borghesia nelle masse del Settentrione: il Mezzogiorno è la palla di piombo
che impedisce più rapidi progressi allo sviluppo civile dell'Italia; i meridionali
sono biologicamente degli esseri inferiori, dei semibarbari o dei barbari
completi, per destino naturale; se il Mezzogiorno è arretrato, la colpa non è del
sistema capitalistico o di qualsivoglia altra causa storica, ma della natura che ha
fatto i meridionali poltroni, incapaci, criminali, barbari, temperando questa sorte
matrigna con la esplosione puramente individuale di grandi geni, che sono come
le solitarie palme in un arido e sterile deserto. Il partito socialista fu in gran
173
parte il veicolo di questa ideologia borghese nel proletariato settentrionale; il
partito socialista diede il suo crisma a tutta la letteratura «meridionalista» (..)
ancora una volta la «scienza» era rivolta a schiacciare i miseri e gli sfruttati, ma
questa volta essa si ammantava dei colori socialisti, pretendeva essere la scienza
del proletariato. (..) I comunisti torinesi reagirono energicamente contro questa
ideologia, proprio a Torino, dove i racconti e le descrizioni dei veterani della
guerra contro il «brigantaggio» nel Mezzogiorno e nelle isole avevano
maggiormente influenzato la tradizione e lo spirito popolare. Reagirono
energicamente, in forme pratiche, riuscendo ad ottenere risultati concreti di
grandissima portata storica, riuscendo ad ottenere, proprio a Torino, embrioni di
quella che sarà la soluzione del problema meridionale.
Il manoscritto prosegue elencando i risultati ed i successi che l’azione politica del
gruppo torinese aveva conseguito. In un passo dei Quaderni178 li troviamo
sintetizzati in poche righe. Il primo fatto considerevole è l’offerta della
candidatura nel seggio del collegio IV di Torino a Gaetano Salvemini, il quale
seppur aveva l’appoggio dei contadini di Molfetta e Bitonto, a causa delle
pressioni ed intimidazioni delle cricche giolittiane non ottenne consensi. L’offerta
della candidatura da parte della sezione socialista era unilaterale, senza nessuna
richiesta di appoggio della linea politica. Salvemini rifiutò, tuttavia fu commosso
per il valore del gesto politico179.
178
Q.1, 57, p.68, Reazioni del Nord alle pregiudiziali antimeridionali, annota Gramsci: “1° Episodio
del 1914 a Torino: proposta a Salvemini di candidatura: la città del Nord elegge il deputato per la
campagna del Sud. Rifiuto, ma partecipazione di Salvemini alla elezione come oratore. [2°] Episodio
Giovane Sardegna del ’19 con annessi e connessi. [3°] Brigata Sassari nel ’17 e nel ’19. [4°]
Cooperativa Agnelli nel ’20 (suo significato «morale» dopo il settembre; motivazione del rifiuto). [5°]
Episodio del ’21 a Reggio Emilia (di questo Zibordi si guarda bene dal parlarne nel suo opuscolo su
Prampolini). Sono questi fatti che colpirono Gobetti e quindi provocarono l’atmosfera del libro di
Dorso. (B. S.: agnelli e conigli. Miniere-Ferrovie).”
179
Nelle parole di Gramsci: “Quando, nel 1914, per la morte di Pilade Gay, rimase vacante il IV
collegio della città e fu posta la quistione del nuovo candidato, un gruppo della Sezione socialista, del
quale facevano parte i futuri redattori dell'Ordine Nuovo, ventilò il progetto di presentare come
candidato Gaetano Salvemini. Il Salvemini era allora l'esponente più avanzato in senso radicale della
massa contadina del Mezzogiorno. Egli era fuori del partito socialista, anzi conduceva contro il
partito socialista una campagna vivacissima e pericolosissima, perché le sue affermazioni e le sue
accuse, nella massa lavoratrice meridionale, diventavano causa di odio, non solo contro i Turati, i
Treves, i d'Aragona ma contro il proletariato industriale nel suo complesso. (..) queste le motivazioni
riportate: «Gli operai di Torino vogliono eleggere un deputato per i contadini pugliesi. Gli operai di
Torino sanno che, nelle elezioni generali del 1913, i contadini di Molfetta e di Bitonto erano, nella
loro stragrande maggioranza, favorevoli al Salvemini; la pressione amministrativa del governo
Giolitti e la violenza dei mazzieri e della polizia ha impedito ai contadini pugliesi di esprimersi. Gli
174
Il secondo episodio riguarda direttamente la Sardegna ed i sardi che si trovavano
a Torino, dove nel 1919 si formò l'associazione chiamata «Giovane Sardegna»,
che costituiva una delle premesse di quello che sarebbe poi divenuto il Partito
sardo d'azione180:
I nostri archivi sono andati dispersi; molte carte sono state da noi stessi distrutte
per non provocare arresti e persecuzioni. Ma noi ricordiamo decine e centinaia
di lettere giunte dalla Sardegna alla redazione torinese dell'Avanti!; lettere
spesso collettive, spesso firmate da tutti gli ex combattenti della Sassari di un
determinato paese. Per vie incontrollate e incontrollabili, l'atteggiamento politico
da noi sostenuto si diffondeva; la formazione del Partito sardo d'azione ne fu
fortemente influenzata alla base e sarebbe possibile ricordare a questo proposito
episodi ricchi di contenuto e di significato.
La «Giovane Sardegna» si proponeva di unire tutti i sardi dell'isola e del
continente in un blocco regionale capace di esercitare una utile pressione sul
governo per ottenere che fossero mantenute le promesse fatte durante la guerra ai
soldati; dietro la facciata dei nobili intenti, tuttavia, si nascondevano alcuni
personaggi tutt’altro che disinteressati, vi aderivano, scrive Gramsci, “con
l'entusiasmo che crea ogni nuova probabilità di pescar croci, commende e
medaglini, avvocati, professori, funzionari”. L'assemblea costituente, convocata a
Torino per i sardi abitanti nel Piemonte, riuscì imponente per il numero degli
intervenuti. Era in maggioranza povera gente, popolani senza qualifica
distinguibile, manovali d'officina, piccoli pensionati, ex carabinieri, ex guardie
carcerarie, ex soldati di finanza che esercitavano piccoli negozi svariatissimi; tutti
erano entusiasmati all'idea di ritrovarsi tra compaesani, di sentire discorsi sulla
loro terra alla quale continuavano ad essere legati da innumerevoli fili di
parentele, di amicizie, di ricordi, di sofferenze, di speranze: la speranza di
ritornare al loro paese, ma ad un paese più prospero e ricco, che offrisse le
condizioni di vivere, sia pure modestamente. In quel clima un intervento
dissonante poteva essere accolto molto male, tuttavia racconta Gramsci:
operai di Torino non domandano impegni di sorta al Salvemini, né di partito, né di programma, né di
disciplina al gruppo parlamentare; una volta eletto, il Salvemini si richiamerà ai contadini pugliesi,
non agli operai di Torino, i quali faranno la propaganda elettorale secondo i loro principi e non
saranno per nulla impegnati dall'attività politica del Salvemini.»
180
Ulteriore testimonianza dell’attenzione di Gramsci verso il Partito sardo d’Azione, che sarebbe
nato dopo l’esperienza della “Giovane Sardegna” del 1919 e che prosegue come abbiamo visto
nell’attenzione costante verso i congressi sardisti.
175
I comunisti sardi, in numero preciso di otto, si recarono alla riunione,
presentarono alla presidenza una loro mozione, domandarono di fare una
controrelazione. Dopo il discorso infiammato e retorico del relatore ufficiale,
adorno di tutte le veneri e gli amorini dell'oratoria regionalistica, dopo che gli
intervenuti avevano pianto ai ricordi dei dolori passati e del sangue versato in
guerra dai reggimenti sardi, e si erano entusiasmati fino al delirio alla idea del
blocco compatto di tutti i figli generosi della Sardegna, era molto difficile
«piazzare» la controrelazione; le previsioni più ottimistiche erano, se non il
linciaggio, per lo meno una passeggiata fino in questura dopo essere stati salvati
dalle conseguenze del «nobile sdegno della folla». La controrelazione, se suscitò
una enorme stupefazione, fu però ascoltata con attenzione, e una volta rotto
l'incanto, rapidamente, se pur metodicamente, si giunse alla conclusione
rivoluzionaria. Il dilemma: siete voi, poveri diavoli di sardi, per un blocco coi
signori di Sardegna che vi hanno rovinato e sono i sorveglianti locali dello
sfruttamento capitalistico o siete per un blocco con gli operai rivoluzionari del
continente che vogliono abbattere tutti gli sfruttamenti ed emancipare tutti gli
oppressi? — questo dilemma fu fatto penetrare nei cervelli dei presenti. Il voto
per divisione fu un formidabile successo: da una parte un gruppetto di signore
sgargianti, di funzionari in tuba, di professionisti lividi dalla rabbia e dalla
paura con una quarantina di poliziotti per contorno di consenso e dall'altra tutta
la moltitudine dei poveri diavoli e delle donnette vestite da festa intorno alla
piccolissima cellula comunista. Un'ora dopo, alla Camera del lavoro, era
costituito il Circolo educativo socialista sardo con 256 inscritti; la costituzione
della «Giovane Sardegna» fu rinviata sine die e non ebbe mai luogo.
Altro episodio citato da Gramsci e di cui abbiamo già parzialmente dato conto
nella sua biografia è quello relativo alla presenza della Brigata Sassari a Torino
ed all’opera di propaganda della sezione socialista nelle fila dei militari. La stessa
strategia seguita nelle vicende della Giovane Sardegna è quella adottata nei
confronti dei soldati, essa era “la base politica dell'azione condotta fra i soldati
della brigata Sassari, brigata a composizione quasi totalmente regionale”. La
brigata Sassari aveva partecipato alla repressione del moto insurrezionale di
Torino dell’agosto 1917; le autorità confidavano sul fatto che essa non avrebbe
mai fraternizzato con gli operai, in quanto erano ancora vivi i ricordi di odio che
inevitabilmente ogni repressione lascia nella folla. Scrive Gramsci del racconto
176
che gli fece un operaio conciapelli di Sassari, addetto ai primi sondaggi di
propaganda:
«Mi sono avvicinato a un bivacco di piazza (i soldati sardi nei primi giorni
bivaccarono nelle piazze come in una città conquistata) e ho parlato con un
giovane contadino che mi aveva accolto cordialmente perché di Sassari come lui.
"Cosa siete venuti a fare a Torino?" "Siamo venuti per sparare contro i signori
che fanno sciopero". "Ma non sono i signori quelli che fanno sciopero, sono gli
operai e sono poveri". "Qui sono tutti signori: hanno tutti il colletto e la cravatta;
guadagnano 30 lire al giorno. I poveri io li conosco e so come sono vestiti; a
Sassari, sì, ci sono molti poveri; tutti 'gli zappatori' siamo poveri e guadagnamo
1,50 al giorno." "Ma anche io sono operaio e sono povero". "Tu sei povero
perché sei sardo". "Ma se io faccio sciopero con gli altri, sparerai contro di me?"
Il soldato rifletté un poco, poi mettendomi una mano sulla spalla: "Senti, quando
fai sciopero con gli altri, resta a casa!"». Era questo lo spirito della stragrande
maggioranza della Brigata, che contava solo un piccolo numero di operai
minatori del bacino di Iglesias. Eppure, dopo pochi mesi, alla vigilia dello
sciopero generale del 20-21 luglio, la brigata fu allontanata da Torino, i soldati
anziani furono congedati e la formazione divisa in tre: un terzo fu mandato ad
Aosta, un terzo a Trieste, un terzo a Roma. La brigata fu fatta partire di notte,
all'improvviso; nessuna folla elegante li applaudiva alla stazione; i loro canti, se
erano anche essi guerrieri, non avevano più lo stesso contenuto di quelli cantati
all'arrivo. (..) L'ultima ripercussione controllata di questa azione la si ebbe nel
1922, quando, con gli stessi propositi che per la brigata Sassari, furono inviati a
Torino 300 carabinieri della legione di Cagliari. Ricevemmo, alla redazione
dell'Ordine Nuovo, una dichiarazione di principio, firmata da una grandissima
parte di questi carabinieri; essa echeggiava di tutta la nostra impostazione del
problema meridionale, essa era la prova decisiva della giustezza del nostro
indirizzo.
La tesi centrale era quindi quella che “nessuna azione di massa è possibile se la
massa stessa non è convinta dei fini che vuole raggiungere e dei metodi da
applicare”. Il proletariato del nord non solo non deve avere pregiudizi nei
confronti dei contadini meridionali, ma “per essere capace di governare come
177
classe dirigente, deve spogliarsi di ogni residuo corporativo, di ogni pregiudizio o
incrostazione sindacalista”181.
Gli altri due esempi citati da Gramsci sono relativi all’ipotesi di trasformazione
della Fiat e di una officina meccanica di Reggio Emilia182 in cooperative, cosa
che trovava appoggio entusiasta nelle fila del Partito Socialista ma che nell’ottica
di Gramsci era sostanzialmente una “trappola”:
Dopo l'occupazione delle fabbriche, la direzione della Fiat fece la proposta agli
operai di assumere la gestione dell'azienda in forma di cooperativa. Come è
naturale, i riformisti erano favorevoli. Si profilava una crisi industriale. Lo
spettro della disoccupazione angosciava le famiglie operaie. Se la Fiat diventava
cooperativa, una certa sicurezza dell'impiego avrebbe potuto essere acquistata
dalla maestranza e specialmente dagli operai politicamente più attivi, che erano
persuasi di essere destinati al licenziamento. La Sezione socialista guidata dai
comunisti intervenne energicamente nella quistione. Fu detto agli operai: una
181
(..) “per conquistarsi la fiducia e il consenso dei contadini e di alcune categorie semiproletarie
della città, superare alcuni pregiudizi e vincere certi egoismi che possono sussistere e sussistono nella
classe operaia come tale anche quando nel suo seno sono spariti i particolarismi di professione. Il
metallurgico, il falegname, l'edile, ecc. devono non solo pensare come proletari e non più come
metallurgico, falegname, edile, ecc., ma devono fare ancora un passo avanti: devono pensare come
operai membri di una classe che tende a dirigere i contadini e gli intellettuali, di una classe che può
vincere e può costruire il socialismo solo se aiutata e seguita dalla grande maggioranza di questi
strati sociali. Se non si ottiene ciò, il proletariato non diventa classe dirigente, e questi strati, che in
Italia rappresentano la maggioranza della popolazione, rimanendo sotto la direzione borghese,
danno allo stato la possibilità di resistere all'impeto proletario e di fiaccarlo. Ebbene: ciò che si è
verificato nel terreno della quistione meridionale dimostra che il proletariato ha compreso questi suoi
doveri. Due fatti sono da ricordare: uno verificatosi a Torino, l'altro a Reggio Emilia, cioè nella
cittadella del riformismo, del corporativismo di classe, del protezionismo operaio portato ad esempio
dai «meridionalisti» nella loro propaganda tra i contadini del Sud.”
182
Il secondo esempio riguarda i fatti di Reggio Emilia, dove ugualmente si profilava la
trasformazione di una grande officina meccanica in cooperativa. “Reggio Emilia era sempre stato il
bersaglio dei «meridionalisti». Una frase di Camillo Prampolini: «L'Italia si divide in nordici e
sudici» era come l'espressione più caratteristica dell'odio violento che tra i meridionali si spargeva
contro gli operai del Nord. A Reggio Emilia si presentò una quistione simile a quella della Fiat: una
grande officina doveva passare nelle mani degli operai come azienda cooperativa. I riformisti
reggiani erano entusiasti dell'avvenimento e lo strombazzavano nei loro giornali e nelle loro riunioni.
Un comunista torinese si recò a Reggio, prese la parola nel comizio di fabbrica, espose tutto il
complesso della quistione tra Nord e Sud e si ottenne il «miracolo»: gli operai, a grandissima
maggioranza, respinsero la tesi riformista e corporativa. Fu dimostrato che i riformisti non
rappresentavano lo spirito degli operai reggiani; ne rappresentavano solo la passività e altri lati
negativi. Erano riusciti a instaurare un monopolio politico, data la notevole concentrazione nelle loro
file di organizzatori e propagandisti d'un certo valore professionale, e quindi a impedire lo sviluppo e
l'organizzazione di una corrente rivoluzionaria; ma era bastata la presenza di un rivoluzionario
capace per metterli in iscacco e rivelare che gli operai reggiani sono dei valorosi combattenti e non
dei porci allevati con la biada governativa.”
178
grande azienda cooperativa come la Fiat può essere assunta dagli operai, solo se
gli operai sono decisi a entrare nel sistema di forze politiche borghesi che oggi
governa l'Italia. La proposta della direzione della Fiat rientra nel piano politico
giolittiano. (..) Oggi Giolitti è nuovamente al potere, nuovamente la grande
borghesia si affida a lui, per il panico che la invade innanzi all'impetuoso
movimento delle masse popolari. Giolitti vuole addomesticare gli operai di
Torino. Li ha battuti due volte: nello sciopero dell'aprile scorso e
nell'occupazione delle fabbriche, tutt'e due le volte con l'aiuto della
Confederazione generale del lavoro, cioè del riformismo corporativo. Ritiene ora
di poterli inquadrare nel sistema borghese statale. Infatti, che avverrà se le
maestranze Fiat accettano le proposte della direzione? Le attuali azioni
industriali diventeranno obbligazioni; cioè la cooperativa dovrà pagare ai
portatori di obbligazioni un dividendo fisso, qualunque sia il giro degli affari.
L'azienda Fiat sarà taglieggiata in tutti i modi dagli istituti di credito, che
rimangono in mano ai borghesi, i quali hanno l'interesse a ridurre gli operai alla
loro discrezione. Le maestranze necessariamente dovranno legarsi allo Stato, il
quale «verrà in aiuto agli operai» attraverso l'opera dei deputati operai,
attraverso la subordinazione del partito politico operaio alla politica
governativa. Ecco il piano di Giolitti nella sua piena applicazione. Il proletariato
torinese non esisterà più come classe indipendente, ma solo come un'appendice
dello Stato borghese. Il corporativismo di classe avrà trionfato, ma il proletariato
avrà perduto la sua posizione e il suo ufficio di dirigente e di guida; esso
apparirà alle masse degli operai più poveri come un privilegiato, apparirà ai
contadini come uno sfruttatore alla stessa stregua dei borghesi, perché la
borghesia, come ha sempre fatto, presenterà alle masse contadine i nuclei operai
privilegiati come l'unica causa dei loro mali e della loro miseria. Le maestranze
Fiat accettarono quasi all'unanimità il nostro punto di vista e le proposte della
direzione furono respinte. Ma questo esperimento non poteva essere sufficiente. Il
proletariato torinese, con tutta una serie di azioni, aveva dimostrato di avere
raggiunto un altissimo grado di maturità e capacità politica.
Altre considerazioni molto interessanti sul mezzogiorno sono delle analisi
funzionali a capire quale strategia politica il Partito Comunista dovesse attuare
nei confronti della questione meridionale e contengono riferimenti diretti ed
indiretti alla Sardegna:
179
Il Mezzogiorno può essere definito una grande disgregazione sociale; i contadini,
che costituiscono la grande maggioranza della sua popolazione, non hanno
nessuna coesione tra loro. (Si capisce che occorre fare delle eccezioni: le Puglie,
la Sardegna, la Sicilia, dove esistono caratteristiche speciali nel grande quadro
della struttura meridionale.) La società meridionale è un grande blocco agrario
costituito di tre strati sociali: la grande massa contadina amorfa e disgregata, gli
intellettuali della piccola e media borghesia rurale, i grandi proprietari terrieri e
i grandi intellettuali. I contadini meridionali sono in perpetuo fermento, ma come
massa essi sono incapaci di dare una espressione centralizzata alle loro
aspirazioni e ai loro bisogni.
Troviamo nel manoscritto anche una importante analisi di tipo socio-culturale e
politico sul ruolo degli intellettuali meridionali che, per dirla con Gramsci, “sono
uno strato sociale dei più interessanti e dei più importanti nella vita nazionale
italiana. Basta pensare che più di 3/5 della burocrazia statale è costituita di
meridionali per convincersene.”. Ancora una volta le osservazioni di Gramsci
non sono di tipo intellettualistico ed erudito, ma riportano oltre le notazioni di
carattere generale anche dei tratti che, essendo egli vissuto in Sardegna,
sicuramente ha potuto conoscere ed usa per definire il meridione. In altre parole,
ciò che egli ha conosciuto della mentalità contadina lo ha potuto conoscere in
Sardegna non certo in una città operaia come Torino. Scrive Gramsci:
Ora, per comprendere la particolare psicologia degli intellettuali meridionali,
occorre tenere presenti alcuni dati di fatto: 1. In ogni paese lo strato degli
intellettuali è stato radicalmente modificato dallo sviluppo del capitalismo. Il
vecchio tipo dell'intellettuale era l'elemento organizzativo di una società a base
contadina e artigiana prevalentemente; per organizzare lo Stato, per organizzare
il commercio, la classe dominante allevava un particolare tipo di intellettuale.
L'industria ha introdotto un nuovo tipo di intellettuale; l'organizzatore tecnico, lo
specialista della scienza applicata. (..) Nei paesi dove l'agricoltura esercita un
ruolo ancora notevole o addirittura preponderante, è rimasto in prevalenza il
vecchio tipo, che dà la massima parte del personale statale e che anche
localmente, nel villaggio e nel borgo rurale, esercita la funzione di intermediario
tra il contadino e l'amministrazione in generale. Nell'Italia meridionale
predomina questo tipo, con tutte le sue caratteristiche: democratico nella faccia
contadina, reazionario nella faccia rivolta verso il grande proprietario e il
governo, politicante, corrotto, sleale; non si comprenderebbe la figura
180
tradizionale dei partiti politici meridionali, se non si tenesse conto dei caratteri
di questo strato sociale. 2. L'intellettuale meridionale esce prevalentemente da un
ceto che nel Mezzogiorno è ancora notevole: il borghese rurale, cioè il piccolo e
medio proprietario di terre che non è contadino, che non lavora la terra, che si
vergognerebbe di fare l'agricoltore, ma che dalla poca terra che ha, data in
affitto o a mezzadria semplice, vuol ricavare: di che vivere convenientemente, di
che mandar all'università o in seminario i figlioli, di che far la dote alle figlie che
devono sposare un ufficiale o un funzionario civile dello Stato. Da questo ceto gli
intellettuali ricevono un'aspra avversione per il contadino lavoratore,
considerato come macchina da lavoro che deve esser smunta fino all'osso e che
può essere sostituita facilmente data la superpopolazione lavoratrice: ricavano
anche il sentimento atavico e istintivo della folle paura del contadino e delle sue
violenze distruggitrici e quindi un abito di ipocrisia raffinata e una raffinatissima
arte di ingannare e addomesticare le masse contadine. 3. Poiché al gruppo
sociale degli intellettuali appartiene il clero, occorre notare le diversità di
caratteristiche tra il clero meridionale nel suo complesso e il clero settentrionale.
Il prete settentrionale comunemente è il figlio di un artigiano o di un contadino;
ha sentimenti democratici, è più legato alla massa dei contadini; moralmente è
più corretto del prete meridionale, il quale spesso convive quasi apertamente con
una donna, e perciò esercita un ufficio spirituale più completo socialmente, cioè è
un dirigente di tutta l'attività di una famiglia. Nel Settentrione la separazione
della Chiesa dallo Stato e la espropriazione dei beni ecclesiastici è stata più
radicale che nel Mezzogiorno, dove le parrocchie e i conventi o hanno
conservato o hanno ricostituito notevoli proprietà immobiliari e mobiliari. Nel
Mezzogiorno il prete si presenta al contadino: 1) come un amministratore di
terre col quale il contadino entra in conflitto per la quistione degli affitti; 2) come
un usuraio che domanda elevatissimi tassi di interesse e fa giocare l'elemento
religioso per riscuotere sicuramente o l'affitto o l'usura; 3) come un uomo
sottoposto alle passioni comuni (donne e danaro) e che pertanto spiritualmente
non dà affidamento di discrezione e di imparzialità. La confessione esercita
perciò uno scarsissimo ufficio dirigente e il contadino meridionale, se spesso è
superstizioso in senso pagano, non è clericale. Tutto questo complesso spiega il
perché nel Mezzogiorno il partito popolare (eccettuata qualche zona della
Sicilia) non abbia una posizione notevole, non abbia posseduto nessuna rete di
istituzioni e di organizzazioni di massa. L'atteggiamento del contadino verso il
181
clero è riassunto nel detto popolare: «Il prete è prete sull'altare; fuori è un uomo
come tutti gli altri».
Il contadino meridionale è legato al grande proprietario terriero per il tramite
dell'intellettuale, ciò impedisce che nel mezzogiorno vi sia alcun progresso, ma
anzi, “esso realizza un mostruoso blocco agrario”183 che interessa direttamente la
classe operaia la quale per poter raggiungere il suo scopo storico deve
necessariamente comprendere e fare propria la questione meridionale. Gli
intellettuali meridionalisti hanno avuto influenza su Gramsci e sui comunisti
torinesi, come del resto anche fra i socialisti, tuttavia:
L'Ordine Nuovo e i comunisti torinesi, se in un certo senso possono essere
collegati alle formazioni intellettuali cui abbiamo accennato e se pertanto hanno
anch'essi subito l'influenza intellettuale di Giustino Fortunato e di Benedetto
Croce, rappresentano però nello stesso tempo una rottura completa con quella
tradizione e l'inizio di un nuovo svolgimento, che ha già dato dei frutti e che
ancora ne darà. Essi, come è stato già detto, hanno posto il proletariato urbano
come protagonista moderno della storia italiana e quindi della quistione
meridionale.”
In queste parole è efficacemente sintetizzato il percorso che stiamo delineando, e
si chiarisce anche quel passo dell’articolo del 1920 citato prima in cui il rapporto
contadini-operai poteva apparire equivoco: il proletariato è protagonista della
storia italiana in quanto ha assunto in sé il problema della questione meridionale e
dell’alleanza coi contadini del sud. Discorso a parte quello su Gobetti184, che in
183
Per usare le parole di Gramsci, che continua: “Esso realizza un mostruoso blocco agrario che nel
suo complesso funziona da intermediario e da sorvegliante del capitalismo settentrionale e delle
grandi banche. Il suo unico scopo è di conservare lo statu quo. Nel suo interno non esiste nessuna
luce intellettuale, nessun programma, nessuna spinta a miglioramenti e progressi. Se qualche idea e
qualche programma è stato affermato, essi hanno avuto la loro origine fuori del Mezzogiorno, nei
gruppi politici agrari conservatori, specialmente della Toscana, che nel Parlamento erano consorziati
ai conservatori del blocco agrario meridionale.”
184
“Avendo servito da intermediari tra il proletariato e determinati strati di intellettuali di sinistra,
sono riusciti a modificare, se non completamente, certo notevolmente l'indirizzo mentale di essi. È
questo l'elemento principale della figura di Piero Gobetti, se ben si riflette. Il quale non era un
comunista e probabilmente non lo sarebbe mai diventato, ma aveva capito la posizione sociale e
storica del proletariato e non riusciva più a pensare astraendo da questo elemento. Gobetti, nel
lavoro comune del giornale, era stato da noi posto a contatto con un mondo vivente che aveva prima
conosciuto solo attraverso le formule dei libri. La sua caratteristica più rilevante era la lealtà
intellettuale e l'assenza completa di ogni vanità e piccineria di ordine inferiore: perciò non poteva
non convincersi come tutta una serie di modi di vedere e di pensare tradizionali verso il proletariato
erano falsi e ingiusti. (..) Egli si rivelò un organizzatore della cultura di straordinario valore ed ebbe
182
questa sede non possiamo sviluppare, ma che è bene aver presente perché “dà
l’accento” per dirla con Gramsci e chiarisce ulteriormente il suo pensiero. Il
manoscritto sulla quistione meridionale che è un’incompiuta, si conclude con
delle considerazioni sulla funzione degli intellettuali in generale ed in particolare
sulla possibilità di distruggere il blocco agrario attraverso l’organizzazione dei
contadini poveri come interesse immediato del partito, il quale deve riuscire
anche nell’opera di disgregazione del blocco intellettuale. Nelle parole di
Gramsci:
Gli intellettuali si sviluppano lentamente, molto più lentamente di qualsiasi altro
gruppo sociale, per la stessa loro natura e funzione storica. Essi rappresentano
tutta la tradizione culturale di un popolo, vogliono riassumerne e sintetizzarne
tutta la storia: ciò sia detto specialmente del vecchio tipo di intellettuale,
dell'intellettuale nato sul terreno contadino. Pensare possibile che esso possa,
come massa, rompere con tutto il passato per porsi completamente nel terreno di
una nuova ideologia, è assurdo. È assurdo per gli intellettuali come massa, e
forse assurdo anche per moltissimi intellettuali presi individualmente, nonostante
tutti gli onesti sforzi che essi fanno e vogliono fare. Ora a noi interessano gli
intellettuali come massa, e non solo come individui. (..) Ma è anche importante e
utile che nella massa degli intellettuali si determini una frattura di carattere
in questo ultimo periodo una funzione che non deve essere né trascurata né sottovalutata dagli operai.
Egli scavò una trincea oltre la quale non arretrarono quei gruppi di intellettuali più onesti e sinceri
che nel 1919-20-21 sentirono che il proletariato come classe dirigente sarebbe stato superiore alla
borghesia. Alcuni in buona fede e onestamente, altri in cattivissima fede e disonestamente andarono
ripetendo che il Gobetti era nient'altro che un comunista camuffato, un agente, se non del partito
comunista, per lo meno del gruppo comunista dell'Ordine Nuovo. Non occorre neanche smentire tali
insulse dicerie. (..) Ci è stato qualche volta rimproverato da compagni di partito di non aver
combattuto contro la corrente di idee di Rivoluzione liberale: questa assenza di lotta anzi sembrò la
prova del collegamento organico, di carattere machiavellico (come si suol dire) tra noi e il Gobetti.
Non potevamo combattere contro Gobetti perché egli svolgeva e rappresentava un movimento che
non deve essere combattuto, almeno in linea di principio. Non comprendere ciò significa non
comprendere la quistione degli intellettuali e la funzione che essi svolgono nella lotta delle classi.
Gobetti praticamente ci serviva di collegamento: 1. Con gli intellettuali nati sul terreno della tecnica
capitalistica che avevano assunto una posizione di sinistra, favorevole alla dittatura del proletariato,
nel 1919-20. 2. Con una serie di intellettuali meridionali che, per collegamenti più complessi,
ponevano la quistione meridionale su un terreno diverso da quello tradizionale, introducendovi il
proletariato del Nord: di questi intellettuali Guido Dorso è la figura più completa e interessante.
Perché avremmo dovuto lottare contro il movimento di Rivoluzione liberale? Forse perché esso non
era costituito di comunisti puri che avessero accettato dall'A alla Z il nostro programma e la nostra
dottrina? Questo non poteva essere domandato perché sarebbe stato politicamente e storicamente un
paradosso.” Cfr. Gobetti P. La Rivoluzione liberale, 22 aprile 1924, anno III, n°17, Antonio Gramsci,
ora in Scritti politici, a cura di P. Spriano, Einaudi, Torino, 1960.
183
organico, storicamente caratterizzata: che si formi, come formazione di massa,
una tendenza di sinistra, nel significato moderno della parola, cioè orientata
verso il proletariato rivoluzionario. L'alleanza tra proletariato e masse contadine
esige questa formazione: tanto più l'esige l'alleanza tra il proletariato e le masse
contadine del Mezzogiorno. Il proletariato distruggerà il blocco agrario
meridionale nella misura in cui riuscirà, attraverso il suo partito, ad organizzare
in formazioni autonome e indipendenti sempre più notevoli masse di contadini
poveri; ma riuscirà in misura più o meno larga in tale suo compito obbligatorio
anche subordinatamente alla sua capacità di disgregare il blocco intellettuale
che è l'armatura flessibile ma resistentissima del blocco agrario. Per la soluzione
di questo compito il proletariato è stato aiutato da Piero Gobetti e noi pensiamo
che gli amici del morto continueranno, anche senza la sua guida, l'opera
intrapresa che è gigantesca e difficile, ma appunto perciò degna di tutti i sacrifizi
(anche della vita, come è stato nel caso del Gobetti) da parte di quegli
intellettuali (e sono molti, più di quanto si creda) settentrionali e meridionali che
hanno compreso essere essenzialmente nazionali e portatrici dell'avvenire due
sole forze sociali: il proletariato e i contadini...”
[Qui si interrompe il manoscritto].
I numerosi passaggi che abbiamo tratto del manoscritto di Gramsci sono
significativi e nell’ottica del presente saggio credo testimonino di come l’essere
Gramsci sardo abbia avuto un peso determinante. In Gramsci si sono incontrati
due mondi, quello della Sardegna, e quello dell’esperienza torinese che si sono
reciprocamente influenzati e compenetrati e la sintesi di questi mondi è stata sia
politica che culturale. È stata una sintesi politica, perché idee guida come “il
partito degli operai e dei contadini”, oppure come “repubblica federale degli
operai e dei contadini” sono sintesi efficaci di un programma politico che si vuole
realizzare, ma è stata altrettanto una sintesi culturale perché la letteratura
meridionalistica ha avuto in Gramsci un intellettuale fine ed attento che ha
configurato la questione non solo in termini di pensiero marxista declinato in
attualità del presente, ma anche nel più ampio contesto di una visione storica che
parte dal Risorgimento. L’unità d’Italia aveva comportato la creazione di uno
stato che doveva uniformare dei territori divisi da un millennio di storia. La destra
affrontò il problema imponendo un odiosissimo fiscalismo che fu solo mitigato
dall’avvento della sinistra che però non seppe cambiarne a fondo la politica.
184
Crispi riuscì a imprimere un cambiamento, e “dette un reale colpo in avanti alla
nuova società italiana, fu il vero uomo della nuova borghesia”:
La politica coloniale di Crispi è legata alla sua ossessione unitaria e in ciò seppe
comprendere l’innocenza politica del Mezzogiorno; il contadino meridionale
voleva la terra e Crispi che non gliela voleva (e poteva) dare in Italia stessa, che
non voleva fare del «giacobinismo economico», prospettò il miraggio delle terre
coloniali da sfruttare. L’imperialismo di Crispi fu un imperialismo passionale,
oratorio, senza alcuna base economico-finanziaria. (..) L’atteggiamento dei vari
gruppi sociali del Mezzogiorno dal ’19 al ’26 serve a mettere in luce e in rilievo
alcune debolezze dell’indirizzo ossessionatamente unitario di Crispi e a mettere
in rilievo alcune correzioni apportatevi da Giolitti (poche in realtà, perché
Giolitti si mantenne essenzialmente nel solco di Crispi. (..) È evidente che, per
contrapporsi efficacemente ai moderati, il Partito d’Azione doveva legarsi alle
masse rurali, specialmente meridionali, essere «giacobino» non solo per la
«forma» esterna, di temperamento, ma specialmente per il contenuto economicosociale: il collegamento delle diverse classi rurali che si realizzava in un blocco
reazionario attraverso i diversi ceti intellettuali legittimisti-clericali poteva
essere dissolto per addivenire ad una nuova formazione liberale - nazionale solo
se si faceva forza in due direzioni: sui contadini di base, accettandone le
rivendicazioni elementari e facendo di esse parte integrante del nuovo
programma di governo, e sugli intellettuali degli strati medi e inferiori,
concentrandoli e insistendo sui motivi che più li potevano interessare (e già la
prospettiva della formazione di un nuovo apparato di governo, con le possibilità
di impiego che offre, era un elemento formidabile di attrazione su di essi, se la
prospettiva si fosse presentata come concreta perché poggiata sulle aspirazioni
dei rurali). Il rapporto tra queste due azioni era dialettico e reciproco:
l’esperienza di molti paesi, e prima di tutto della Francia nel periodo della
grande Rivoluzione, ha dimostrato che se i contadini si muovono per impulsi
«spontanei», gli intellettuali cominciano a oscillare e, reciprocamente, se un
gruppo di intellettuali si pone sulla nuova base di una politica filocontadina
concreta, esso finisce col trascinare con sé frazioni di massa sempre più
importanti. 185
185
Q. 19, 24, pp.2011-2034, Il problema della direzione politica nella formazione e nello sviluppo
della nazione e dello Stato moderno in Italia. Cfr. anche Q.6, 89, pp.764-767, § Politica e diplomazia:
185
Non è possibile in questa sede porre in un ottica storico – politica le riflessioni
gramsciane che considerano il Risorgimento italiano come una mancata
rivoluzione, ed i tanti spunti di riflessione e ricerca disseminati negli scritti,
d’altronde i quaderni del carcere, come in un certo senso tutte le opere di Gramsci
che non siano articoli giornalistici, come osserva Giorgio Baratta sono “nonlibri”, sono appunti, note, riflessioni, che non hanno mai ricevuto da Gramsci
quella organicità editoriale che tutti i libri pubblicati e revisionati dall’autore
ricevono. Il manoscritto sulla questione meridionale rappresenta una sorta di isola
di coerenza, come si può ritrovare solo nelle note più lunghe e complesse dei
Quaderni dove Gramsci si sofferma e sviluppa il suo pensiero o negli articoli di
giornale, che pur nella brevità, hanno una loro coerenza interna.
Il percorso attraverso i testi gramsciani che abbiamo delineato in queste pagine
credo abbia mostrato con sufficiente chiarezza come il riferimento alla Sardegna
sia un tema costante che emerge sia nell’aspetto formativo del giovane Gramsci,
sia nel Gramsci politico della maturità, sia ancora nel Gramsci intellettuale. La
formazione del giovane Gramsci, il suo processo di maturazione, per dirla con le
parole di Antonello Mattone186, “ha nel riferimento alla Sardegna un motivo
ricorrente”, che è una chiave interpretativa della “questione sarda”187 da
affiancare all’altra ossia “l’attenzione verso le scelte politiche comuniste nel
periodo della direzione gramsciana (più precisamente negli anni 1924-1926)
come verifica di una consistente iniziativa di Gramsci nei confronti della
questione sarda”188.
In estrema sintesi, dall’analisi dell’opera gramsciana nei suoi riferimenti alla
Sardegna è possibile individuare la presenza della Sardegna in un triplice ruolo:
anzitutto nella formazione di Gramsci, e quindi come una presenza profonda,
originaria, in secondo luogo nel Gramsci politico, giornalista, dirigente di partito
“La debolezza di Crispi fu appunto di legarsi strettamente al gruppo settentrionale, subendone il
ricatto e di avere sistematicamente sacrificato il Meridione, cioè i contadini, cioè di non aver osato,
come i giacobini osarono, di posporre agli interessi corporativi del piccolo gruppo dirigente
immediato, gli interessi storici della classe futura, risvegliandone le energie latenti con una riforma
agraria. Anche il Crispi è un termidoriano preventivo, cioè un termidoriano che non prende il potere
quando le forze latenti sono state messe in movimento, ma prende il potere per impedire che tali forze
si scatenino: un «fogliante» era nella Rivoluzione francese un termidoriano in anticipo, ecc.”
186
Mattone A. Una “chiave” per ripensare la storia della Sardegna, Nuova Rinascita sarda, aprile
1987.
187
Melis G. Antonio Gramsci e la questione sarda, Della Torre, Cagliari, 1975.
188
Entrambe citati in: Maiorca B. Gramsci sardo, antologia e bibliografia 1903-2006, Tema, 2007,
pp.24-25.
186
e capo dei comunisti italiani, che si sviluppa parallelamente alla maturazione
della consapevolezza dell’importanza dell’alleanza fra contadini ed operai, e
raggiunge il suo culmine negli anni 1923-1926 con l’elaborazione teorica e di
azione pratica della questione meridionale che dopo l’arresto subirà una drastica
cesura. Infine il Gramsci intellettuale, che certamente non è una persona “altra”
rispetto al Gramsci politico189, ma che, dopo il 1926, una volta forzatamente
allontanato dalla scena politica, acquista una libertà di elaborazione intellettuale
che troviamo esplicata pienamente nei Quaderni del carcere che rappresentano la
maturità intellettuale del pensatore sardo.
Possiamo leggere e comprendere appieno alcuni temi politici della riflessione
gramsciana soltanto avendo sullo sfondo il percorso umano di Gramsci che nato
in Sardegna, cresce a contatto con il mondo contadino, ne conosce la mentalità,
ne studia la struttura sociale, conosce le vicende dei minatori del Sulcis, gli
scioperi, e quindi giunge all’esperienza torinese avendo un bagaglio umano e
culturale che gli consentirà di non cadere nell’errore che compivano altri, quelli
che egli stesso chiamò “aristocrazia operaia” e che criticava duramente, ossia
quella visione angusta e politicamente fallimentare che veniva veicolata da larghi
settori del PSI e talvolta anche dalla CGIL. L’errore della concezione del
meridione come di una “palla di piombo” dell’Italia, anch’essa veicolata dai
socialisti, trova in Gramsci un critico severo, quindi il maturare della
consapevolezza della centralità della questione meridionale che ancora dopo la
scissione del ‘21 i comunisti non avevano compreso appieno, e che si svilupperà
diventando dal 1923 progressivamente sempre più importante. Senza la Sardegna,
senza l’esperienza sarda che permane nell’esperienza torinese, probabilmente il
pensiero e l’azione di Gramsci sarebbero stati profondamente diversi.
La sintesi più efficace che Gramsci stesso traccia della maturazione della sua
concezione politica e del suo pensiero è in una lettera da Vienna del 6 marzo
1924190:
L’istinto della ribellione, che da bambino era contro i ricchi, perché non potevo
andare a studiare, io che avevo preso 10 in tutte le materie nelle scuole
elementari, mentre andavano il figlio del macellaio, del farmacista, del
189
Eugenio Garin, nel 1958, al primo convegno gramsciano poneva in guardia verso quelle operazioni
intese a tenere distinti il pensiero e l’azione di Gramsci, cfr. Antonio A. Santucci Attenti ci vendono un
Gramsci truccato, La Nuova Sardegna, 3 marzo 1992, n°62, p.47.
190
Lettere 1908-1926, cit. lettera n°103, p. 271.
187
negoziante in tessuti. Esso si allargò per tutti i ricchi che opprimevano i
contadini della Sardegna ed io pensavo allora che bisognava lottare per
l’indipendenza nazionale della regione: “Al mare i continentali!”. Quante volte
ho ripetuto queste parole. Poi ho conosciuto la classe operaia di una città
industriale e ho capito ciò che realmente significavano le cose di Marx che avevo
letto prima per curiosità intellettuale. Mi sono appassionato così alla vita, per la
lotta, per la classe operaia.
Scrive Renzo Laconi: “È evidente a tutti quanto peso abbiano avuto la formazione
e la stessa origine sarda di Gramsci in tutta quella serie di azioni politiche, svolte
a Torino ed in campo nazionale, attraverso le quali venne maturando la sua nuova
impostazione della questione meridionale”191 e Togliatti: “sardo fu Gramsci
perché dalla conoscenza delle condizioni e dei dolori della sua terra, dalla
conoscenza delle sofferenze del popolo che l’abita venne a lui l’impulso a porre
in modo nuovo, diverso, i problemi del rinnovamento non soltanto della vita della
Sardegna, ma della vita e della struttura di tutta la società italiana”192
Alla luce della vita di Gramsci e delle sue origini sarde, alla luce degli scritti e del
suo pensiero, alla luce della sua azione politica, e delle testimonianze di chi lo
conobbe, possiamo certamente affermare che “la Sardegna” è profondamente
presente in Gramsci, nella sua forza d’animo, come nella sua formazione
intellettuale, nei suoi scritti e nello sviluppo del suo pensiero. Non un rapporto
deterministico e meccanico fra le origini sarde e la sua attenzione alle questioni
sociali, ma un quid senza il quale la sua elaborazione politica non è comprensibile
appieno, come sintesi dell’esperienza torinese e del pensiero marxista, ma anche
ed altrettanto fortemente dell’esperienza sarda interiorizzata e mai dimenticata.
191
Laconi R. Note per una indagine gramsciana, in Rinascita sarda, 15 giugno 1957, pp. 65-75, da
vedere anche l’intervento di Laconi al II congresso regionale del PCI sardo nel 1945.
192 Togliatti P. Scritti su Gramsci, Editori Riuniti, 2001, cit.
188
Gramsci e la Sardegna del futuro
Abbiamo visto attraverso gli scritti e le lettere il legame di Gramsci con la
Sardegna nella sua dimensione affettiva, coi suoi paesaggi, le antiche sagre
paesane, poi nella sua dimensione formativa, con le lotte dei minatori del Sulcis,
gli scioperi e le violenze, la conoscenza delle condizioni di vita degli oppressi.
Abbiamo visto il desiderio di conoscenza presente fin da bambino che nel
crescere si unirà alla dimensione politica, fino all’abbandono degli studi
universitari, fino a diventare totalizzante. L’elaborazione gramsciana
dell’alleanza fra operai e contadini è letta attraverso le lenti dell’esperienza sarda
che si fonde con quella torinese. Il sardismo ed il socialismo sono uniti nella
peculiarissima forma gramsciana, ed il frutto più maturo di quel pensiero
inquieto, le riflessioni dei Quaderni del carcere, rappresentano la maturità
intellettuale di Gramsci e portano al loro interno un paradosso umanamente
tragico ed intellettualmente dirompente: il pensiero di Gramsci nel carcere
acquista la libertà che prima non aveva, senza le responsabilità e le limitazioni
della disciplina di partito, senza le responsabilità e le limitazioni dell’appartenere
ad un’organizzazione internazionale, il suo pensiero si esprime in tutta la sua
grandezza. Mentre la sua libertà d’azione politica veniva delittuosamente
cancellata, egli acquisiva una libertà intellettuale che ci ha consegnato, in questi
32 umili quaderni scolastici scritti con grafia minuta, il frutto di una grande mente
che divorava ogni argomento sulle questioni le più disparate.
Oggi Antonio Gramsci appartiene al mondo193 è studiato in Europa, nei paesi
dell’antico continente, in Gran Bretagna, ma anche negli Stati Uniti, in India, in
Argentina, in Messico, in Brasile, in Canada, in Giappone, in Corea del sud, in
Cina. Esistono traduzioni dell’edizione critica gerrataniana del 1975 nelle lingue
e culture le più lontane dalla Sardegna.
Dopo le quindicimila voci della bibliografia gramsciana è forse difficile
aggiungere qualche cosa di nuovo sul passato, ma è forse giusto e possibile
scrivere qualcosa sul futuro. Il fatto stesso che Gramsci parli a studiosi così
lontani dalla sua epoca e dal suo contesto storico è la conferma che il suo
193
AA.VV. Studi gramsciani nel mondo 2000-2005, a cura di G. Vacca e G. Schirru, il Mulino, 2007.
Baratta G. Le rose e i quaderni. Il pensiero dialogico di Antonio Gramsci, Carocci, 2003 e Gramsci in
contrappunto, Carocci, Roma, 2007. Brigaglia M. La fortuna di Gramsci nel mondo, in Il pensiero
permanente, Tema, Cagliari, 1999, pp.71-76.
189
pensiero è vivo e non è solo oggetto di storia del pensiero come potrebbe apparire
se ci si limitasse al contesto italiano.
Se oggi un partito politico italiano indicasse in Gramsci l’ispiratore della propria
politica generale e culturale esso sarebbe ben presto segnalato come un gruppo di
nostalgici comunisti quali sono appunto quei gruppi più o meno farneticanti che
inseriscono a forza Gramsci nel proprio pantheon.
Se tuttavia si guarda al Gramsci dei Quaderni, nella sua maturità intellettuale,
libero dall’agone della lotta politica del Partito Comunista e dall’attività
giornalistica militante, allora si capirà perché nel resto del mondo il suo pensiero
si diffonde e feconda nuovi studi, mentre in Italia ancora il suo essere stato
segretario del Partito Comunista e per tanti anni bandiera di quel movimento, è il
tratto più identificativo che mette tutto il resto in secondo piano e ne limita
l’universalità.
Gramsci è un pensatore attuale precisamente nel senso che parla al nostro tempo,
ed è un pensatore universale perché portatore di valori che superano i confini
geografici oltre che temporali.
Che cosa può insegnare Gramsci alla Sardegna di oggi, ai suoi giovani, alla sua
classe politica, agli intellettuali?
Per primo colpisce il rigore morale dell’uomo, la dimensione umana e la
straordinaria forza d’animo che, anche nelle vicende più dure e più tristi, non lo
ha mai portato a cedere rispetto ai valori per cui combatteva, per cui ha vissuto e
per cui è morto. Rileggendo il resoconto194 del processo farsa che il tribunale
194
Testo della dichiarazione resa da Gramsci il 30 maggio 1928 secondo la ricostruzione di Domenico
Zucàro: cfr. Il processone, Roma, 1961, pp. 182-183: Gramsci. «Confermo le mie dichiarazioni rese
alla polizia e al giudice istruttore. Sono stato arrestato malgrado fossi deputato in carica. Sono
comunista e la mia attività politica è nota per averla esplicata pubblicamente come deputato e come
scrittore dell'Unità. Non ho svolto attività clandestina di sorta perché, ove avessi voluto, questo mi
sarebbe stato impossibile. Già da anni ho sempre avuto vicino sei agenti, con il compito dichiarato di
accompagnarmi fuori o di sostare in casa mia. Non fui, così, mai lasciato solo; e, con il pretesto della
protezione, fu esercitata nei confronti una vigilanza che diviene oggi la mia migliore difesa. Chiedo
che vengano sentiti come testi per deporre su questa circostanza il prefetto e il questore di Torino. Se
d'altronde l'essere comunista importa responsabilità, l'accetto». Replica del presidente: «Tra gli
scritti sequestrati si parla di guerra e di impossessamento di potere da parte del proletariato. Cosa
vogliono significare questi scritti?». Gramsci: «Penso, signor generale, che tutte le dittature di tipo
militare finiscano prima o poi per essere travolte dalla guerra. Sembra a me evidente, in tal caso, che
tocchi al proletariato sostituire le classi dirigenti, pigliando le redini del paese per sollevare le sorti
della nazione». Solo ad alcune interruzioni del pubblico ministero Gramsci rispose con vivacità
polemica, non risparmiandogli una lezioncina a causa di certe domande codine e accademiche. Alla
190
fascista imbastì contro di lui, le lettere in cui comunicava e discuteva circa
l’arresto, ma anche dalle testimonianze che ci sono giunte, capiamo che Gramsci
era un grande uomo e, per tutte le cose che abbiamo letto, anche un grande sardo.
Nel deserto della politica contemporanea sono pochissimi gli uomini politici che
si innalzano oltre una mediocrità uniforme e capillare, e Gramsci può certamente
essere un maestro di coerenza.
Un secondo insegnamento per cui Gramsci oggi può essere considerato un
maestro è certamente il suo impegno politico, la sua capacità di elaborazione, di
studio, di approfondimento dei problemi. Anche in questo caso è disarmante
l’incapacità odierna dei partiti politici di condurre analisi serie sulle
problematiche che necessita affrontate a livello legislativo e di governo della
nazione. Non solo non vi è un orizzonte ultimo che ci porti ad aspirare ad una
società migliore, e qui non parliamo certamente di una Rivoluzione bolscevica,
ma di un incisivo, serio e coerente riformismo, ma manca anche un’agenda
politica seria per l’affrontare il quotidiano. Il Parlamento italiano è oggi l’ultimo
posto dove una decisione viene assunta. Essere gramsciani oggi significa ridare
alla politica la serietà di studi approfonditi e la coerenza di decisioni conseguenti,
unico argine possibile ai mostruosi “blocchi” per usare le parole di Gramsci, che
non sono più solamente il blocco agrario del sud, quello industriale del nord e le
banche che li unificano. Oggi in una società molecolare e fluida come quella
contemporanea le “classi” non sono più gigantemente monolitiche, ma esistono
organizzazioni trasversali che, attraverso un cortocircuito mediatico – finanziario
– economico – politico, rendono agli occhi dell’opinione pubblica l’essenziale
secondario e l’effimero fondamentale condizionando la capacità di giudizio e
quindi di espressione democratica e di piena libertà politica. Quando Gramsci
guardava alle elezioni del 1913, ma soprattutto a quelle del 1919 con il
superamento dei collegi, capiva le potenzialità democratiche del fatto stesso che
tutta la nazione in un medesimo giorno potesse esprimersi col voto, capiva
l’importanza della democrazia195 e dell’acculturamento delle masse. Non può
fine dell'interrogatorio, rispondendo ancora al presidente, Gramsci, come a conclusione, si volse con
veemenza ai giudici: «Voi condurrete l'Italia alla rovina e a noi comunisti spetterà di salvarla!».
195
Oltre quanto abbiamo visto è interessante quanto scrive G. Vacca: «sia la teoria dell’egemonia
sviluppata nei Quaderni, sia la concezione della “democrazia di nuovo tipo” [le posizioni di Togliatti
e Dimitrov], implicano il superamento della teoria della “rivoluzione proletaria” e della “dittatura
del proletariato”, e comportano quindi una riformulazione del “fine ultimo”, se non il suo
abbandono» in Vacca G., Rossi A. Gramsci tra Mussolini e Stalin, Fazi, 2007, p. 157.
191
esserci democrazia senza un’informazione corretta, ed oggi, in Italia la scarsa
qualità e la scarsa serietà del giornalismo sono appunto uno degli indici del
declino, con i giornali ed i media appiattiti su una mediocrità autoreferenziale.
In Gramsci la dimensione politica è connaturata a quella filosofica che è l’altro
grande aspetto in cui si manifesta la sua grandezza. La peculiare forma dei
Quaderni ci ha consegnato un pensiero che si sviluppa quotidianamente, che non
può attingere liberamente alle letture e che quindi estrae il massimo possibile
dalle riviste e dai libri non censurati che avevano accesso al carcere. Gramsci
rielabora in continuazione i concetti, a volte anche in un arco di tempo molto
ampio, li affronta da diverse prospettive e come tutte le opere nella storia del
pensiero che superano la propria epoca ed il proprio hic et nunc, i suoi concetti
sono a pieno titolo dei classici del pensiero.
La Sardegna di oggi, se riuscisse ad essere gramsciana, almeno quanto Gramsci è
stato sardo, avrebbe certamente un futuro migliore, così come ne avrebbe bisogno
l’Italia. Le dinamiche che si sviluppano nella “società politica” sono lontanissime
dal rigore morale di Gramsci e dalla serietà delle sue analisi e della sua azione
politica ed appare veramente difficile, per il lavoro immane che occorre portare
avanti, la sfida di un rinnovamento della politica, della mentalità delle classi
dirigenti, appare difficile riuscire ad incidere nella vita dei partiti. Tuttavia è
questa l’unica via possibile per migliorare, la via della fatica metodica,
rifuggendo dagli illusionismi che hanno la consistenza effimera dei programmi
televisivi. “Istruitevi perché avremo bisogno di tutta la nostra intelligenza” è uno
slogan coniato da Gramsci ed è il punto di partenza del cammino per una società
migliore. Davvero ci sarà bisogno di tutta la “nostra” intelligenza.
Questa è la cifra dell’insegnamento di un grande pensatore, di un grande uomo, di
un grande sardo. Un’immagine ci pare più di tutte vicina a raffigurare la presenza
della Sardegna in tutta l’opera di Gramsci: un fondale marino, così profondo
eppure così trasparente.
192
193
194
APPENDICE
CURIOSITA’ GRAMSCIANE
195
196
Curiosità gramsciane
La ricerca sulle opere di Gramsci che abbiamo condotto ci ha portato a schedare
migliaia di pagine. Lo scopo della ricerca era quello di focalizzare il rapporto
Gramsci –Sardegna attraverso i testi stessi di Gramsci, più che gli scritti “su”
questo tema. Abbiamo già detto che la politica culturale del PCI fece di Gramsci
un “mito” e mise in secondo piano l’aspetto umano. Oggi fra le pubblicazioni
recenti, invece, spiccano ad esempio le fiabe, le lettere familiari dell’epistolario
non più censurate, ecc. Gramsci aveva uno spiccato senso dell’umorismo ed in
questa appendice vogliamo riportare dei passi e degli episodi non citati ma che
indirettamente ed umoristicamente possono comunque rientrare nella ricerca.
Lassa sa figu puzzone
Delio: ha incominciato col parlare la lingua della madre, come era naturale e
necessario, ma rapidamente è andato apprendendo anche l'italiano e cantava
ancora delle canzoncine in francese, senza perciò confondersi o confondere le
parole dell'una e dell'altra lingua. Io volevo insegnarli anche a cantare: «Lassa
sa figu, puzone»196, ma specialmente le zie si sono opposte energicamente. Mi
sono divertito molto con Delio nell'agosto scorso: siamo stati insieme una
settimana al Trafoi, nell'Alto Adige, in una casetta di contadini tedeschi. Delio
compiva proprio allora due anni, ma era già molto sviluppato intellettualmente.
Cantava con molto vigore una canzone: «Abbasso i frati, abbasso i preti», poi
cantava in italiano: «Il sole mio sta in fronte a te» e una canzoncina francese,
dove c'entrava un mulino.
(Lettere dal carcere, 26 marzo 1927, a Teresina Gramsci)
Io stesso non ho nessuna razza
Anche in Sardegna l'ebreo è concepito in vari modi: c'è l'espressione «arbeu»
che significa un mostro di bruttezza e di cattiveria, leggendario; c'è il «giudeo»
che ha ammazzato Gesú Cristo, ma ancora c'è il buono e il cattivo giudeo, perché
196
Lassa sa figu, puzzone / lassa de la picculare / si figu cheres pappare / prantadinde una prantone
(cfr. testimonianza Teresina Gramsci in Gramsci Vivo.
197
il pietoso Niccodemo ha aiutato Maria a discendere il figlio dalla croce. Ma per
il sardo «i giudei» non son legati al tempo attuale; se gli dicono che un tale è
giudeo, domanda se è come Niccodemo, ma in generale crede che voglia dire un
cristiano cattivo come quelli che vollero la morte di Cristo. E c'è ancora il
termine «marranu» dall'espressione marrano che in Ispagna si dava agli ebrei
che avevano finto di convertirsi e in sardo ha espressione genericamente
ingiuriosa. Al contrario dei cosacchi i sardi che non sono stati propagandati, non
distinguono gli ebrei dagli altri uomini. – Così ho liquidato, per conto mio, la
quistione, né mi lascerò più indurre a iniziarne delle altre. La quistione delle
razze fuori dell'antropologia e degli studi preistorici non mi interessa. (..) Io
stesso non ho nessuna razza: mio padre è di origine albanese recente (la famiglia
scappò dall'Epiro dopo o durante le guerre del 1821 e si italianizzò
rapidamente); mia nonna era una Gonzalez e discendeva da qualche famiglia
italo - spagnola dell'Italia meridionale (come ne rimasero tante dopo la
cessazione del dominio spagnolo); mia madre è sarda per il padre e per la madre
e la Sardegna fu unita al Piemonte solo nel 1847 dopo essere stata un feudo
personale e un patrimonio dei principi piemontesi, che la ebbero in cambio della
Sicilia che era troppo lontana e meno difendibile. Tuttavia la mia cultura è
italiana fondamentalmente e questo è il mio mondo: non mi sono mai accorto di
essere dilaniato tra due mondi, sebbene ciò sia stato scritto nel «Giornale
d'Italia» del marzo 1920, dove in un articolo di due colonne si spiegava la mia
attività politica a Torino, tra l'altro, con l'essere io sardo e non piemontese o
siciliano ecc. L'essere io oriundo albanese non fu messo in gioco perché anche
Crispi era albanese, educato in un collegio albanese e che parlava l'albanese.
D'altronde in Italia queste quistioni non sono mai state poste e nessuno in
Liguria si spaventa se un marinaio si porta al paese una moglie negra. Non
vanno a toccarla col dito insalivato per vedere se il nero va via né credono che le
lenzuola rimarranno tinte di nero.
(Lettere dal carcere, 12 ottobre 1931, a Tania Schucht)
La gallina punica
Ho ricevuto la lettera di Mea e mi ha molto divertito la storia del signor Sias che
interpreta con l'aiuto di vari dizionari le lettere delle galline. Bisogna
consigliargli di fare la fotografia dell'uovo, di ingrandirla e di spedire
198
l'ingrandimento al prof. Taramelli presso il Museo di Cagliari. Può darsi infatti
che la lingua impiegata dalla gallina per scrivere la sua missiva sia il punico, se
la gallina discende dalle galline del tempo dei cartaginesi e che riveli il posto
dove è nascosto qualche tesoro in monete del tempo «antigoriu» e chissà perciò
quanto preziose.
(Lettere dal carcere, 4 aprile 1932, alla madre)
A Torino manca la linea tramviaria n°13
Non so quanti torinesi si siano domandati il perché, mentre esistono e funzionano
le linee tranviarie n. 12 e 14, non esista e funzioni una linea n. 13. Eppure
sarebbe interessante conoscere a chi sia dovuto il molto intelligente
provvedimento, che deve aver salvato i torinesi da chi sa quali orribili disastri, e
gli uffici dello stato civile da chi sa quale aumento di lavoro per la recrudescenza
di mortalità che un tram numero 13 avrebbe provocato. (..) Per me il fatto è
occasione di umiltà. Ho riso tante volte sulle superstizioni meridionali, ho, da
buon settentrionale, sicuro del fatto mio, manifestato tante volte il senso di
superiorità che sentivo su tutta quella gente del sud arretrata, senza molla di
progresso, che via! vedere che anche a Torino si ha paura del 13, non può che
umiliarmi. O non avevano i seguaci di certe teorie antropologiche, che ebbero il
loro focolaio d'infezione proprio a Torino, dimostrato ferocemente che la
superstizione era appunto una delle prove dell'inferiorità irriducibile dei
meridionali, che mai avrebbero potuto aspirare a raggiungere l'alto grado di
civiltà raggiunta nel nord?
(Umiltà - Sotto la mole, 10 gennaio 1916)
Misurando il cranio dei sardi…
Un mese di soggiorno in Sardegna: banchetti, bicchierate, strette di mano,
entusiasmo per l'italiano illustre che ha fatto il sacrifizio di portare la sua
preziosa persona fra i briganti, i mendicanti, i pastori vestiti di pelli dell'isola. E
l'italiano illustre ritornato in terra ferma si atteggia a Cristoforo Colombo e
scopre qualcosa, tanto per dimostrare che non ha perduto il suo tempo. (..) Ecco:
i sardi passano per lo più per incivili, barbari, sanguinari, ecc., ma non lo sono
evidentemente quanto è necessario per mandare a quel paese gli scopritori di
199
buona volontà. Un ufficiale, andato a Cagliari nel 1910 per reprimere uno
sciopero, compiange le donne sarde destinate a divenire legittime metà degli
scimmioni vestiti di pelli non conciate, e sente in sé (testuale) ridestarsi il genio
della specie (quella non vestita di pelli), che vuole porsi all'opera per migliorare
la razza. Giuseppe Sergi in quindici giorni si sbafa una quantità di banchetti,
misura una cinquantina di crani, e conclude per l'infermità psicofisica degli
sciagurati sardi, e via di questo passo.
(Gli scopritori - Sotto la mole, 24 maggio 1916)
Bellu schesc'e dottori!
Il giudice Emanuele Pili non è senza storia, come gli uomini e i popoli felici. Ma
la storia del giudice Emanuele Pili ha una lacuna; iniziatasi col protagonista
autore drammatico, riprende ora col protagonista «ragionatore» di sentenze, e
riprende con una gloriosa e strenua pugna: il «ragionamento» della sentenza per
i fatti di Torino, che nell'ultimo numero della «Gazzetta dei tribunali» il
misuratore di crani prof. Vitige Tirelli qualifica «dotta». Benedetto Croce ha
scritto: «Chi ha pratica dei tribunali sa che molto spesso un magistrato, presa la
decisione e stabilita la sentenza, incarica un suo più gio197 [dodici righe e mezzo
censurate]. E il giudice giovane ha fatto sfoggio di dottrina; e il giudice giovane
— poiché nella prima gioventù aspirava alla gloria di Talia e dedicava le sue
fresche energie intellettuali a scrivere commedie nei vari dialetti di Sardegna e
non poté studiare tutti i risultati delle ultime ricerche sulla natura del diritto e
delle costituzioni — ha ragionato [una riga censurata] nella sentenza dei fatti di
Torino, rovistando nei vecchi cassettoni, rimettendo alla luce tutti gli imparaticci
scolastici del primo anno universitario, quando ancora si frequentano le lezioni e
si prendono gli appunti. [Venticinque righe censurate]. Gli sono estranee le
correnti del pensiero moderno che hanno ringiovanito tutta la dottrina dello
Stato e del Giure — superando le concezioni puerilmente metafisiche della
dottrina tradizionale, degli imparaticci da scoletta universitaria — colla
197
Il testo del primo passo censurato è il seguente: «Chi ha pratica dei tribunali sa che molto spesso
un magistrato, presa la decisione e stabilita la sentenza, incarica un suo più giovane collega di
"ragionarla", ossia di apporre una parvenza di ragionamento a ciò che non è intrinsecamente e
puramente prodotto di logica, ma è voluntas di un determinato provvedimento. Questo procedere, se
ha il suo uso nella cerchia pratica o giuridica, è affatto escluso da quella della logica e della scienza»
(B. Croce, Logica come scienza del concetto puro, Bari 1917, pp. 87-88).
200
riduzione dello Stato e del Giure a pura attività pratica, svolta come dialettica
della volontà di potenza e non più pietistico richiamo alle leggi naturali, ai
sacrari inconoscibili dell'istinto avito, alla banale retorica dei compilatori delle
storiette per la scuola elementare. Il «ragionamento» del giudice Pili è solo una
filastroccola di banalità retoriche, di gonfiezze presuntuose: esso è il ridicolo
parto di un fossile intellettuale, il quale non riesce a concepire che lo Stato
italiano almeno giuridicamente (e come giudice questa apparenza della realtà
doveva solo importare al «giovane» da tribunale) è costituzionale, ed è
parlamentare per tradizione (l'on. Sonnino è gran parte dello Stato attuale, ma
crediamo che il suo articolo Torniamo allo Statuto! non sia ancora diventato
legge fondamentale del popolo italiano): [cinque righe censurate]. La «dottrina»
del giovane da tribunale infatti si consolida (!) in esclamazioni enfatiche contro
chi ha «resistito» o è accusato di aver resistito: non cerca (come era suo
compito) di dimostrare, alla stregua delle prove concrete e sicure, un delitto per
passare l'esatta commisurazione alla sua entità di una pena contemplata nel
codice. No, il «giovane» vuole sfoggiare, come una contadina ricca del
Campidano di Cagliari le vesti multicolori che hanno servito alle sue antenate
per le nozze e per decine e decine di anni sono rimaste seppellite in un vecchio
cassettone a fregi bestiali e floreali tra lo spigo e una dozzina di limoni: e sfoggia
tutti i vecchiumi, tutti gli scolaticci dei vespasiani giuridici chiusi per misura
d'igiene pubblica. Il giudice Emanuele Pili ha scritto una commedia dialettale:
Bellu schesc' e dottori! (che bel pezzo di... dottore!) L'esclamazione potrebbe
essere la conclusione critica della lettura di una sentenza, così com'è il titolo di
una commedia.
(Bellu schesc'e dottori! - Sotto la mole, 20 ottobre 1918)
Il carro sardo a buoi
Carissima compagna, nonché sorella, ci troviamo riuniti nella stanza n°5
Sovietskie nomerà (numeri sovietici N.d.R.) è l’una del mattino, pensiamo al
carretto198 e siamo invidiosi che lei possa giocare, mentre noi siamo costretti a
fare dei discorsi nei congressi dei cinovniky (burocrati N.d.R.), a tradurli e a
198
Gramsci fu ricoverato per un certo periodo nella casa di cura Sieriebriani Bor dove conobbe Julia.
Qui costruisce un carro sardo a buoi di cui parla nelle lettere 57-58-59 della fine del 1922.
201
farne la recensione per i giornali. Hai iniziato il lavoro di costruzione dei buoi?
(..) viva il carretto, viva la ruota, il raggio evviva, evviva Pan! Scritta il giorno 16
ottobre 1922 con la stilografica che macchia le dita. (..) Ho pensato di compiere,
a Sieriebriani Bor, una grande funzione: il battesimo del carretto! Lei sarà
madrina, la compagna Eugenia dovrà infondergli il principio del moto, io,
modestamente mi accontenterò di rappresentare la parte dell’artiere.
(Lettere 1908-1926, n°57-58, ottobre-dicembre 1922)
Gramsci fa il fascista sardo!
Avevo messo in serbo tanti ricordi per dirteli a voce, vicino, e non so decidermi a
scriverli.(..) il mio viaggio in ferrovia da Tarvis a Milano via Venezia; della mia
conversazione con un fascista che voleva annettere all’Italia Nizza, la Savoia,
Malta, il Canton Ticino e al quale feci perdere la testa facendo la parte del
nazionalista sardo e dimostrandogli scientificamente che l’Italia fascista avrebbe
perduto la Sardegna; il disgraziato non sapeva rispondere ai miei argomenti da
fascista sardo e si contorceva disperatamente per convincermi che avevo torto:
mi sono divertito un mondo.199
(Lettere 1908-1926, n°138, Roma, 21 luglio 1924)
Tiu iscorza alluttu
Vorrei che tu mi mandassi, sai che cosa? La predica di fra' Antiogu a su populu
de Masuddas. Ad Oristano si potrà comprare, perché ultimamente l'aveva
ristampata Patrizio Carta nella sua famosa tipografia. Poiché ho tanto tempo da
perdere, voglio comporre sullo stesso stile un poema dove farò entrare tutti gli
illustri personaggi che ho conosciuto da bambino: tiu Remundu Gana con
Ganosu e Ganolla, maistru Andriolu e tiu Millanu, tiu Micheli Bobboi, tiu Iscorza
alluttu, Pippetto, Corroncu, Santu Jacu zilighertari ecc. ecc. Mi divertirò molto e
199
A metà maggio del 1924 il P.C. tiene clandestinamente una conferenza sulle montagne del
Comasco alla quale parteciparono 11 componenti del Comitato Centrale e 46 segretari di federazione,
la relazione fu tenuta da Togliatti. La cosa divertente è che, nelle parole di Gramsci “il convegno
illegale del partito fu tenuto come passeggiata turistica in montagna dei dipendenti di un’azienda di
Milano. Tutto il giorno discussione sulle tendenze, sulla tattica e durante il pasto alla casa di rifugio,
piena di gitanti discorsi fascisti, inni a Mussolini, commedia generale per non destare sospetti e non
essere disturbati nelle riunioni tenute in bellissime vallette bianche di narcisi”.
202
poi reciterò il poema ai bambini, fra qualche anno. Penso che adesso il mondo si
è incivilito e le scene che abbiamo visto noi da bambini ora non si vedono più. Ti
ricordi quella mendicante di Mogoro che ci aveva promesso di venirci a prendere
con due cavalli bianchi e due cavalli neri per andare a scoprire il tesoro difeso
dalla musca maghedda e che noi l'abbiamo attesa per mesi e mesi? Adesso i
bambini non credono più a queste storie e perciò è bene cantarle; se ci
trovassimo con Mario potremmo rifare una gara poetica! Mi sono ricordato di
tiu Iscorza alluttu, come pudicamente diceva zia Grazia: vive ancora? ti ricordi
quanto ci faceva ridere col suo cavallo che aveva la coda solo la domenica? Hai
visto quante cose ricordo? Scommetto che sono riuscito a farti ridere. Saluta
affettuosamente tutti. Ti abbraccio teneramente. Nino.
(Lettere dal carcere, 27 giugno 1927 n°35 alla madre)
Donna bisodia
La frase: «Una nave che esce dal porto, ballando con passo scozzese – è lo stesso
che prendere un morto e pagarlo alla fine del mese» – non è un indovinello, ma
una bizzarria senza significato che serve per prendere in giro quei tipi che
affastellano parole senza senso credendo di dire chissà quali cose profonde e di
misterioso significato. Così avveniva a molti tipi di villaggio (ti ricordi il signor
Camedda?) che per fare sfoggio di cultura, raccattavano dai romanzi popolari
delle grandi frasi e poi le facevano entrare a dritta e a traversa nella
conversazione per far stupire i contadini. Allo stesso modo le beghine ripetono il
latino delle preghiere contenute nella Filotea: ti ricordi che zia Grazia credeva
fosse esistita una «donna Bisodia» molto pia, tanto che il suo nome veniva
sempre ripetuto nel Pater noster? Era il «dona nobis hodie» che lei, come molte
altre, leggeva «donna Bisodia» e impersonava in una dama del tempo passato,
quando tutti andavano in Chiesa e c'era ancora un po' di religione in questo
mondo. – Si potrebbe scrivere una novella su questa «donna Bisodia»
immaginaria che era portata a modello: quante volte zia Grazia avrà detto a
Grazietta, a Emma e anche a te forse: «Ah, tu non sei certo come donna
Bisodia!» quando non volevate andare a confessarvi per l'obbligo pasquale.
Adesso tu potrai raccontare ai tuoi bambini questa storia.
(Lettere dal carcere, 16 novembre 1931 n°224 alla sorella Teresina)
203
Sfuriata alla redazione de l’Unità
Non è esatto che io abbia fatto trasmettere la mia nota di servizio da un
trombettiere fascista. È questa una ipotesi gratuita, scaturita dal nulla del vostro
cervello eccitato a vuoto! Ho consegnato la nota al compagno Cocchi, con
l’espressa raccomandazione di trasmetterla personalmente e di distruggere
l’originale, ciò che il Cocchi mi ha assicurato di aver scrupolosamente fatto. (..)
Voglio concludere. Voglio mantenermi calmo e sereno, nonostante tutto. Perché
nonostante tutto, sono sicuro che voi siete migliori di quanto possa apparire dalle
vostre parole e dai vostri atti parziali. (..) per quanto le mie forze e le mie
capacità lo consentono voglio aiutarvi a migliorare; perciò neanche questa volta,
come invece pare a voi, io mi sono irritato.200
(Lettere 1908-1926, n°187, Roma, 27 ottobre 1926)
Un po’ di anticlericalismo per i contadini caduti nel misticismo
Ho pensato che il nostro partito dovrebbe far nascere per conto suo il vecchio
giornaletto del Psi “Il Seme” come quindicinale o mensile. Dovrebbe essere fatto
come il vecchio, con contenuto rammodernato, ma dello stesso tipo, costare non
più di un soldo, in modo che possa diffondersi tra i contadini più poveri, avere
molte vignette semplici, molti articoletti ecc. dovrebbe essere rivolto a
polarizzare la parola d’ordine del governo operaio e contadino, a riprendere un
po’ di campagna anticlericale che mi pare necessaria, perché penso che quattro
anni di reazione devono aver nuovamente gettato le masse della campagna nel
misticismo superstizioso, e alla nostra propaganda generale.
(Lettere 1908-1926, n°110, a Togliatti, Vienna, 27 marzo 1924)
200
Questa lettera non fu mai recapitata perché Gramsci la portava in tasca al momento dell’arresto l’8
novembre 1926. Il nervosismo della corrispondenza con la redazione del giornale è dovuto al fatto che
con l’applicazione delle leggi “fascistissime” ormai la censura e la distruzione del quotidiano l’Unità
erano all’ordine del giorno. Il quotidiano veniva sequestrato con dei pretesti anche quando riportava
articoli già pubblicati su altri giornali non censurati. Addirittura in un’occasione l’Unità uscì
riportando per intero i testi di un altro quotidiano non censurato, ma fu ugualmente sequestrata.
Gramsci non era un tipo iracondo, aveva una grande umanità e capiva come i redattori del giornale
non avendo compiuto studi superiori incontrassero enormi difficoltà che cercavano di colmare con un
impegno e una dedizione totali.
204
Un bozzetto di Filippo Figari
Nel 1909 mio fratello aveva disegnato per la camera del lavoro di Cagliari un
bozzetto di tessera in cui erano rappresentati un contadino ed un minatore che si
stringono la mano attorniati dai loro bambini. A Gramsci piacque molto e voleva
che gliela dessi, disse che poteva essere adoperata come tessera per l’Ordine
Nuovo. Quei due personaggi rappresentavano forse il suo ideale, l’unità dei
lavoratori dei campi e degli operai non solo sardi ma di tutto il mondo.
Purtroppo io non capii l’importanza della sua richiesta e gli dissi di no. Fu
quella l’ultima volta che vidi Gramsci.
(Testimonianza di Renato Figari, in Gramsci Vivo)
Gramsci che suona l’organetto
Pensionanti della signora Doloretta Porcu, saremo stati sei o sette. Stavamo
all’ultimo piano, ci si arrivava con un’unica rampa di scalini molto alti e ripidi.
Antonio Gramsci saliva lentamente, gli veniva l’affanno. Poi si chiudeva in
camera, senza familiarizzare con noi. Sono entrato nella sua stanzetta solo un
paio di volte. Era disadorna, con odore di formaggio, e libri e carte alla rinfusa.
Una sera tutti i pensionanti fummo invitati ad andare da lui. Venivano dalla
stanza canti e suoni. Trovammo un bel po’ di gente sconosciuta, per lo più gente
dei paesi. Cantavano, qualcuno ballava. Ed in mezzo c’era Gramsci intento a
eseguire danze popolari sarde con un organetto a mantice.
(Testimonianza di Dini Frau, in Vita di Antonio Gramsci)
Fitness
Aveva bisogno di fare esercizi fisici, ma gli mancavano gli attrezzi necessari. Con
Mario, l’altro fratello, portarono nel nostro piccolo giardino delle grosse pietre
con un lavoro paziente e preciso le scolpirono fino a ricavarne due palle rotonde,
quasi perfettamente levigate, e di peso uguale. Le unirono con un’asta di legno e
le usavano come manubri. Sono conservate al Museo della Casa Gramsci, qui a
Ghilarza.
(Testimonianza di Teresina Gramsci, in Gramsci vivo)
205
Il maestro Arturo Toscanini suona per gli operai
Gramsci si proponeva di portare avanti anche un’azione culturale di massa e
quando Toscanini venne al Teatro Regio di Torino, si diede tanto da fare per
ottenere tramite l’Alleanza cooperativa uno spettacolo a prezzi ridotti. Si offriva
anche a noi operai la possibilità di ascoltare e capire la musica sinfonica. Noi
vendemmo i biglietti in tutti i circoli, in tutte le Case del Popolo e anche tramite
l’Ordine Nuovo. Ricordo quella serata a teatro, c’erano tutti i compagni delle
fabbriche. Ascoltammo in silenzio il concerto diretto da Toscanini; alla fine
dell’esecuzione applaudimmo: gli artisti, il maestro e l’orchestra si alzarono in
piedi. Ancora oggi a ricordarla quella scena mi commuove.
(Testimonianza di Vincenzo Bianco, in Gramsci vivo)
Sulle opere di Grazia Deledda un giudizio feroce
Il suo ufficio, alla redazione del giornale, sembrava la stiva di una nave sotto
carico; ma in un angolo, bene in ordine, c’erano le opere della Deledda, almeno
quelle che fino allora erano state pubblicate. Soprattutto per l’aspetto descrittivo
della sua terra, Gramsci dava sull’opera di Grazia Deledda un giudizio feroce.
Considerava quella prosa buona solo per appagare la curiosità estemporanea
della piccola borghesia, ma deleteria per come vi si affrontavano i problemi della
Barbagia. Tornammo più volte su questo argomento, anche perché io, che non
avevo letto i libri della Deledda, e che, comunque, non avevo la preparazione per
giudicarli, desideravo molto di conoscerli non tanto come fatto letterario, ma per
il loro contenuto politico e sociale. E perciò ponevo continuamente a Gramsci
domande su questo argomento. Quando, nella primavera del 1922, Gramsci partì
per Mosca, le opere della Deledda erano ancora la, in quell’angolo del suo
ufficio coperte da una patina di polvere. La direzione dell’Ordine Nuovo fu
assunta da Alfonso Leonetti, fino a quando negli ultimi giorni di ottobre dello
stesso anno, gli uomini del commissario Norcia, non gli squadristi di
Brandimarte, invasero e saccheggiarono il giornale.
(Testimonianza di Peppino Frongia, in Gramsci vivo)
206
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Quaderni del carcere, a cura di V. Gerratana, Editori Riuniti, 1996, 6 voll.
Il Risorgimento a cura di V. Gerratana, Ed. Riuniti, 1996.
Gli intellettuali e l’organizzazione della cultura, Ed. Riuniti, 1996.
Il materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce, Ed. Riuniti, 1996.
Letteratura e vita nazionale, Ed. Riuniti, 1996.
Note sul Machiavelli, sulla politica e sullo Stato moderno, Ed. Riuniti, 1996.
Passato e presente, Editori Riuniti, 1996.
Il vaticano e l’Italia, a cura di E. Fubini, Editori Riuniti, 1961.
La questione meridionale, a cura di F. De Felice e V. Parlato. – Roma, Ed.
Riuniti, 1966.
Scritti politici, Vol. I, a cura di Paolo Spriano. – Roma, Editori Riuniti, 1973.
Scritti politici, Vol. II, a cura di Paolo Spriano. – Roma, Editori Riuniti, 1973.
Sul fascismo, a cura di Enzo Santarelli. – Roma, Editori riuniti, 1973.
Sotto la mole 1916-1920 – Torino, Einaudi, 1960.
Cronache torinesi 1913-1917, a cura di S. Caprioglio, Einaudi, 1980.
Tesi di Lione - III Congresso del Partito Comunista Italiano (1926).
Il vaticano e l’Italia, a cura di E. Fubini, Editori Riuniti, 1961.
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Immagini
Se si considera che Gramsci ha svolto per lunghi anni l’attività di giornalista
avendo fin da giovane una certa notorietà, che fu eletto Deputato al Parlamento
nel 1924 e che fu segretario del Partito Comunista d’Italia, nonché dirigente di
spicco del Comintern, le immagini della sua personale iconografia sono
sorprendentemente poche. Esiste un unico frammento video di pochissimi
secondi. In queste pagine riportiamo alcune immagini seguendo il percorso e le
tappe della sua vita.
Gli occhiali rotondi di Gramsci, di cui riportiamo una foto di quelli conservati alla Casa Museo
Gramsci di Ghilarza, sono in un certo senso una delle icone del ‘900
213
Gramsci a 15 anni nel 1906 all’epoca frequentava il Ginnasio di Santu Lussurgiu (1905-1908)
214
Gramsci in una notissima fotografia del 1920
215
Gramsci nel 1922
216
Foto di gruppo con Gramsci del Comitato di redazione de l’Ordine Nuovo
Prima pagina del numero dell’Ordine Nuovo del 1 maggio 1919 di cui Gramsci era segretario di
redazione. A lato la foto simbolo del XXVII congresso socialista nel quale sarebbe avvenuta la
scissione di Livorno del 1921 di cui Gramsci fu uno dei protagonisti.
Documento identificativo del Comintern (13-9-1922) di cui Gramsci divenne membro del
Comitato Esecutivo nel giugno 1922. Resterà a Mosca dal maggio 1922 al novembre 1923.
217
Gramsci a Vienna nel novembre del 1923. Ritornerà in Italia nel maggio del 1924 grazie
all’immunità parlamentare poiché eletto Deputato nella circoscrizione Veneto.
8 novembre 1926, in spregio all’immunità
parlamentare Gramsci viene arrestato e
condotto al Carcere di Regina Coeli a Roma
in isolamento assoluto. A lato la firma
autografa ed il rilievo delle impronte
digitali.
218
Gramsci (a sinistra in seconda fila) con un gruppo di carcerati ad Ustica nel 1927
Foto segnaletica databile fra il 1933 ed il 1935 durante il soggiorno alla clinica Cusumano di
Formia
219
La cella di Gramsci nel penitenziario di Turi vicino Bari
Il carcere di Turi, (vicino Bari) dove Gramsci fu recluso dal 19 luglio del 1928 al 19 novembre
del 1933. Nel gennaio avrà il permesso e l’occorrente per scrivere e comincerà la redazione dei
Quaderni. I libri cui aveva accesso passavano al controllo della censura.
220
Il primo quaderno è datato otto febbraio 1929 e contiene l’ambizioso piano di studi fra cui al
punto nove si legge: “La quistione meridionale e la quistione delle isole”
221
Romain Rolland scrittore e drammaturgo
francese, premio Nobel per la letteratura
nel 1915 pubblicò nel 1933 - 1934 un
pamphlet contro il fascismo che fu tradotto
in diverse lingue. Nella copertina una foto
di Antonio Gramsci.
Sotto: un manifesto che accusava il
fascismo dell’assassinio di Gramsci e la
prima pagina de l’Unità.
222
La condizione carceraria avrà conseguenze
pesanti sulla salute di Gramsci. Il 17
dicembre 1933 verrà trasferito alla clinica
Cusumano in Formia dove rimarrà fino al
24 agosto 1935. Successivamente a causa del
peggioramento delle condizioni di salute
verrà trasferito a Roma alla clinica
Quisisana. Il 21 aprile Gramsci verrà
liberato, ma morirà la mattina del 27 per
emorragia cerebrale.
Julia Schucht, moglie di Gramsci con i figli Delio e Giuliano
Nella foto a lato, in alto, il piccolo
Giuliano che nacque a Mosca il 30
agosto 1926. Gramsci verrà
arrestato l’otto novembre e
passerà il resto della vita in carcere
e non conoscerà mai se non in
fotografia il suo secondogenito.
Sotto: Tatiana Schucht, sorella di
Julia moglie di G., che porterà i
quaderni del carcere con sé a
Mosca.
223
Dopo la morte la salma di Gramsci fu cremata e sepolta al Cimitero del Verano. In seguito dopo
la Liberazione le ceneri saranno traslate al cimitero acattolico al Campo Cestio di Roma.
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Locandina del convegno di Ossi.
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Febbraio 2009
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