Un altro mondo già esiste

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Un altro mondo già esiste
No.18 • aprile-giugno • 2014
Grécia
Rivista di Strada Trimestrale
Argentina
L’Università
Transumante
Grecia
La salute dal
basso
Messico
Gli zapatisti ispirano
il mondo
AUTONOMIE
Sudafrica
Vita contro il
nuovo apartheid
Un altro mondo già esiste
Brasile • Messico • Grecia • Russia • Sudafrica • Salvador • Italia • Argentina • Stati Uniti • Palestina
SGUARDO
GLOCALE
AUTONOMIE
Un Altro Mondo Già Esiste
DIRECTORIO
Direzione
Gloria Muñoz Ramírez
Vicedirezione
Per la rivista di strada Desinformémonos non ci sono esperienze di lotta grandi
e piccole. Quello che vediamo e cerchiamo di raccontare sono storie di ogni
dimensione che illustrino l’organizzazione dei popoli qui e adesso. Non dopo i grandi
cambiamenti e le rivoluzioni. Storie che si intessono al margine dello Stato nelle quali
organizzazioni e collettività rivendicano il diritto di decidere e indirizzare il proprio
destino.
È stato più semplice spiegare i processi autonomistici dei popoli indigeni, perché lo
spirito comunitario prevale fin dalla loro origine. Ma si parla poco della sfida di creare
comunità e autogestione al di fuori dei poteri egemonici e delle strutture di dominio
nello specifico delle metropoli dove imperano l’individualismo, la competitività,
il profitto, in sintesi, i rapporti di forza capitalisti. Per questo le esperienze che si
sviluppano controcorrente acquisiscono singolare rilevanza in questo numero.
Una caratteristica comune è che le esperienze autonomistiche si sviluppano in
ribellione, senza il permesso di nessuno, perché il potere le considera una minaccia
per la stabilità. Nella loro infinita quotidianità sono anche radicali, perché rompono
le pratiche clientelari dello Stato strutturato dall’alto verso il basso e sfuggono alla
gestione dei partiti politici che le vogliono cooptare o distruggere. Si intessono
dal basso ed in maniera orizzontale, senza leadership protagoniste né decisioni
unilaterali.
Con Un Altro Mondo Già Esiste non vogliamo fare falsi ottimismi, né generalizzare,
né fare esercizio teorico. Ci siamo assegnati il compito di raccogliere esperienze
di liberazione di popoli e collettività artefici di storie che si concretizzano in territori
diversi, da un campo di calcio in Brasile a migliaia di comunità organizzate in
Chiapas. Storie che si ripetono sia in Argentina che in Russia, in Salvador o
Sudafrica, in Grecia, Palestina, Italia e perfino Stati Uniti, nel cuore del mostro.
Sono storie collettive, vitali e creative. Sarebbe impossibile parlarne senza fare
riferimento ad uno dei loro grandi motori, ispirazione mondiale di questo altro mondo
possibile: l’autonomia delle comunità indigene zapatiste in Messico nelle quali si
costruisce un altro modo di governo, dove chi comanda, comanda ubbidendo.
La contaminazione della ribellione si diffonde nei cinque continenti. Qui, solo pochi
pezzi di un puzzle ancora da comporre.
desinformemonos.org
Adazahira Chávez
Traduzione
Annamaria Pontoglio
Grafica
atelier.mx
Hanno collaborato a questo numero:
Argentina: María Coco Magallanes, Mario
Canek Huerta, Zanón Fábrica sin Patrón e
Gruppo di lavoro a sostegno della scuola di
Fasinpat; Brasile: Gabriela Moncau e Waldo
Lao; Salvador: Ricardo Martínez Martínez;
Stati Uniti: Kilombo Intergaláctico; Grecia:
Marina Demetriadou; Italia: Alejandro González;
Messico: Jaime Quintana ed Hermann
Bellinghausen; Palestina: Gloria Muñoz;
Russia: Katerina Girich; Sudafrica: Richard
Pithouse.
Fotografía:
Gerasimos Koilakos, Gabriela Moncau, Alexander
Chemeris, Maria Novella de Luca e Valerio
Nicollosi/ Fool Frame Project, Fabiana, Wissam
Nassar/ Maan Images, Casa Mafalda, Fútbol
Rebelde, Comune Info, Teatro Valle Occupato,
Dphinfo, Occupy Cop17, Comunidad de Santa
Marta, DGH, Message from Moscow, Fasinpat,
Universidad Trashumante, Colors e Kilombo
Intergaláctico
Desinformémonos Revista Barrial, es una
publicación trimestral editada por Periodismo
de Abajo AC, en siete idiomas: español, inglés,
francés, alemán, italiano, ruso y portugués. Puede
descargarse libremente en internet y distribuirse en
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No.18 • aprile-giugno • 2014
Brasile
L’altra faccia del
calcio a San Paolo
Un collettivo di calcio ha aperto Casa Mafalda, uno spazio nel quale le persone possono divertirsi, fare sport e discutere
con i movimenti sociali. “È un pezzo di quello che chiamano un altro mondo possibile”, dicono i suoi creatori.
Testo originale: Gabriela Moncau • Traduzione: Waldo Lao • Foto: Casa Mafalda e Futbol Rebelde
S
an Paolo, Brasile. Uno spazio autonomo e
alternativo alla cultura mercificata pulsa nella città
di San Paolo. L’idea di Casa Mafalda è nata da due
squadre di calcio (una femminile e l’altra maschile)
che si chiamano Autónomos e Autónomas FC, fondate
nel 2006 ed autogestite da punk, anarchici ed attivisti
di San Paolo.
Autogestione del centro
Il gruppo ha studiato un sistema di “padrini-madrine”
della casa per raccogliere donazioni: a seconda
della somma, i donatori in cambio ricevono ore di
utilizzo della sala prove (nel caso abbiano una band),
spazi gratuiti per realizzare eventi, ingressi liberi agli
spettacoli, magliette ed altri materiali.
Nel 2011 molti spazi autogestiti simili in città hanno
chiuso per difficoltà strutturali e finanziarie. Spinto nel
vuoto provocato da queste chiusure, il club di calcio e
collettivo ha deciso quindi di mettere in pratica la sua
idea di creare uno spazio.
Sebbene Autónomos e Autónomas FC sia a capo del
progetto, altri gruppi e movimenti si sono uniti alla
causa. Brito dice che anche se hanno cominciato con
il lavoro volontario, ora “speriamo che dopo avere
pagato i debiti si possa funzionare con un sistema di
lavoro giustamente retribuito”.
Nel vecchio studio di musica che oggi accoglie Casa
Mafalda si svolgono diverse attività. Si proiettano video
sulla catarsi collettiva che il calcio provoca. Il collettivo
Arte Libertaria, che si ispira al muralismo messicano,
ha dipinto il salone principale. L’area esterna della
casa è decorata con graffiti. Si svolgono anche dibattiti
sul centro ed il suo rapporto con altri movimenti
sociali.
I principi della squadra di calcio - anticapitalista,
antifascista, antirazzista e antisessista - si riflettono
nelle attività organizzate nel centro. “Casa Mafalda sta
con i movimenti sociali, con gli amanti del calcio e con
chi è contro la mercificazione del gioco più bello del
mondo”, sottolinea Gabriel.
Casa Mafalda non ha scopi di lucro. I soldi, oltre ad
essere usati per il pagamento dei debiti e di chi lavora
lì, sarà investito per l’Auto ed i suoi progetti - tra i
quali c’è una squadra di calcio infantile, il Mondiale
Alternativo ed un giornale stampato.
Oltre a giocare a calcio, i membri dell’Auto
partecipano anche a movimenti sociali come il
Movimiento por el Pase Libre (MPL), il Frente de
Lucha por Morada (FLM), il Grupo Carnavalesco Hijos
de Santa e la Asociación Nacional de los Aficionados.
•3•
Per Gabriel, l’idea è fare di questo spazio un “pezzo di
quello che molti chiamano ‘un altro mondo possibile’,
con giustizia sociale, uguaglianza, solidarietà e
rispetto dei diritti di tutti i gruppi sociali attualmente
discriminati e brutalizzati”.
No.18 • aprile-giugno • 2014
Grecia
I l movimento della patata
L’iniziativa di vendere le patate attraverso la rete è un esempio di organizzazione e solidarietà
ad alto livello, proprio quello che vuole dimostrare l’iniziativa O topos mu: “possiamo ottenere
molte cose senza lo Stato”.
Testo originale: Marina Demetriadou • Foto: Gerasimos Koilako
P
iería, Grecia. Nella piccola città di Katerini, di
55 mila abitanti, nel nord della Grecia, è nato
il “movimento della patata”, quando un gruppo di
volontari contattò direttamente alcuni produttori di
patate del villaggio di Nevrokopi, concordando un
prezzo di 25 centesimi di euro al chilo (un terzo del
prezzo praticato dai supermercati) per 24 tonnellate
di patate e lanciò la vendita in internet per raccogliere
ordini fino ad esaurimento scorte. L’offerta ebbe molto
successo e la cosa si è ripetuta nella stessa città,
questa volta con settantacinque tonnellate di patate
ed in seguito altre città della Grecia hanno seguito
l’esempio.
O topos mu (“il mio
posto”, in greco) è
un gruppo di azione
volontaria del distretto
di Piería. Già prima
del “movimento della
patata” era una
presenza molto
importante nella
città di Katerini.
È nato nel 2007
in maniera
non ufficiale
perché, come
dicono i suoi membri, a loro
non interessava il riconoscimento legale.
È partito con quattro o cinque persone che, dopo i
grandi incendi occorsi nel sud del paese, sono andati
dai pompieri a chiedere che cosa avrebbero potuto
fare nel caso L’Olimpo, la montagna degli dei, che si
trova nella regione, si fosse trovato in una situazione
simile. “Regalo un giorno della mia estate al bosco”
è stata la prima di molte azioni che sono proseguite
con la piantumazione di alberi e la protezione della
montagna dalla speculazione ambientale e dalle
attività sportive che danneggiano la natura (come
l’eliski ed i rally).
Nel 2009 i membri di “O topos mu” si sono uniti al
movimento “non pagherò” che chiedeva l’accesso
gratuito alle strade pubbliche, senza dover pagare
pedaggi, e nell’agosto del 2011 il gruppo ha
appoggiato il movimento contro l’imposta straordinaria
del servizio elettrico ed ha formato gruppi di appoggio
per ripristinare il collegamento all’energia elettrica
PREZZI RIBASSATI
La vendita delle patate attraverso internet ha
costretto i supermercati ad abbassare i prezzi.
$1.38
Cambio del
19/03/14
Dollari
nelle case in cui era stato sospeso per non aver
pagato la nuova tariffa. Più avanti, il collettivo ha
aperto con successo un negozio di prodotti donati
affinché le famiglie senza risorse potessero avere
gratuitamente i generi alimentari. I “O topos mu”
intendono aprire un centro medico con volontari per
offrire visite e terapie gratuite.
Al chilo
A partire da 10 chili
Negozi
O Topus mu
Negozi
Altri gruppi di O topos mu
Dono un giorno della mia estate al bosco è stata
una serie di azioni ambientaliste sull’Olimpo.
Non pagherò chiedeva il libero transito sulle
strade pubbliche.
O topos mu ha appoggiato il movimento contro
la tassa straordinaria sul servizio elettrico.
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Con l’iniziativa del “movimento della patata” hanno
ottenuto un impatto immediato. Nella settimana in
cui erano iniziate le vendite via internet, uno dei
supermercati locali ha abbassato il prezzo delle patate
da 70 centesimi di euro a 35 centesimi al chilo, per un
acquisto minimo di 10 chili. Era esattamente questo
lo scopo dell’iniziativa: dare un colpo alla speculazione
dei prezzi che colpisce le tasche dei consumatori e
ricatta i produttori.
L’iniziativa è un esempio di organizzazione e
solidarietà ad alto livello. Questo è precisamente
quello che voleva dimostrare “O topos mu”: “che
possiamo ottenere molte cose senza lo Stato”.
No.18 • aprile-giugno • 2014
Piería
Salónica
Grecia
Medici, dentisti, psichiatri, analisti ed
attivisti tessono salute dal basso
Sotiris è un commerciante greco di 50 anni: “Non ho un lavoro, non ho assistenza sociale, per questo sono qui.
Questo posto è importante per quello che fa in questi momenti di crisi. Se non ci fosse, che cosa faremmo?”.
Testo originale: Gloria Muñoz Ramírez • Foto: Gabriela Moncau
S
alonicco, Grecia. A causa della crisi economica che
colpisce la Grecia dal 2007, negli ospedali non c’è il
materiale medico indispensabile o le medicine sufficienti
nemmeno per le persone che hanno l’assistenza sociale,
poiché il settore pubblico della sanità è, senza dubbio, uno
dei più colpiti dalle politiche di austerità.
Il Centro di Salute Solidale
Il primo piano dell’edificio del Sindacato dei Lavoratori
Privati è un andirivieni di medici, pazienti e gente che arriva
con i medicinali da sistemare nella farmacia. Mentre i
volontari classificano i medicinali e rispondono alle richieste
dei medici, la receptionist accompagna i pazienti in una
sala d’aspetto stracolma nella quale ormai non ci sta più
nessuno. Gli ambulatori di patologia, neurologia, psicologia e
pediatria lavorano al massimo della loro capacità, così come
quelli di odontoiatria. All’ingresso c’è uno striscione col
nome “Centro di Salute Solidale”.
Sotiris è un commerciante greco di 50 anni: “Non ho un
lavoro, non ho assistenza sociale,
per questo sono qui. Questo posto
è importante per quello che fa in
questi momenti di crisi. Se non ci
fosse, che cosa faremmo?”.
Il 7 novembre 2011 hanno aperto
il centro di salute e da quel
momento c’è il tutto esaurito. La
rete è composta da 40 dentisti
e 20 aiutanti, 30 tra psichiatri e
psicologi, 15 patologi, 20 pediatri,
30 persone all’accoglienza e 20
nella farmacia. Ed a tutto questo si
somma una rete di medici che con i loro ambulatori privati
cooperano con il centro. Anche loro assistono gratuitamente
i pazienti mandati dal centro. Sono in totale 40 gli specialisti
uniti in questo sforzo: cardiologi, ortopedici, ginecologi, di
ogni specializzazione.
•5•
La dottoressa Cristina, attivista del progetto, spiega:
“Bisogna mettere insieme 200 persone di appoggio oltre
all’aiuto che ci danno i laboratori ed i centri di radiologia. Le
necessità dei pazienti sono molte e costa molto eseguire gli
esami, per questo si è deciso di pagare le analisi, ma non le
visite mediche”.
Una delle meraviglie di questo
lavoro è che non ricevono soldi
dallo Stato, dall’Unione Europea, né
dalle multinazionali. La municipalità
aveva offerto 10 mila euro ma li
hanno rifiutati perché “non potevamo
accettare aiuti da un organismo che
ogni giorno attacca gli immigrati e li
caccia dalle piazze dove tentano di
vendere la loro merce”.
L’appoggio viene da sindacati, gruppi
culturali e politici non di partito.
L’entrata più significativa proviene dalle attività che si
organizzano, come concerti e mostre. Tutto per coprire le
spese mensili che ammontano a più di 3 mila euro, senza
che nessuno paghi assolutamente niente. “Fino ad ora ci
siamo riusciti”, dicono con orgoglio Anastasia e Cristina.
No.18 • aprile-giugno • 2014
Italia
Un “municipio” zapatista
insediato a Pisa
Ispirato dalle idee di autonomia e orizzontalità, un gruppo di persone di origini più diverse, costruisce
giorno per giorno uno spazio culturale e politico in una fabbrica distrutta dalla crisi.
Testo originale: Alejandro González • Foto: Comune Info
P
isa, Italia. Il Municipio dei Beni Comuni era un
colorificio ormai abbandonato ed ora è uno spazio
per sopravvivere alla crisi economica e ricostruire il
tessuto sociale. Nato nel 2012 da un’iniziativa del
Coordinamento Rebeldia di Pisa, è diventato uno spazio
aperto. La multinazionale J-Colors ha presentato una
denuncia dopo più di 15 anni di abbandono, ma gli
attivisti non sono disposti a permettere lo sgombero.
Francesco Biagi, membro del Coordinamento, racconta
che Rebeldia era un collettivo universitario
nato nell’ambito delle proteste contro
il G-8 a Genova, nel 2001. Nel 2003
occuparono un edificio abbandonato
dell’Università di Pisa. Dopo uno sgombero
ci fu un’altra occupazione ed altri studenti
si avvicinarono all’esperienza. Tuttavia, in
città mancava ancora uno spazio ad uso
popolare, sostiene Biagi.
Grazie alle pressioni, il sindaco di allora consegnò loro
un edificio, ma nel 2008, col cambiamento della giunta
ed a causa delle denunce presentate da Rebeldía
contro i suoi atteggiamenti razzisti, fu richiesta la
restituzione della struttura. “Così nacque l’idea di
occupare un altro spazio per conto nostro”, ricorda
l’attivista.
“Abbiamo scelto una fabbrica di vernici abbandonata
che simboleggia la crisi economica. Apparteneva ad un
industriale locale che nel 1998 fallì e fu venduta alla
multinazionale J-Colors. La fabbrica chiuse dopo pochi
mesi per trasferirsi in Cina, lasciando decine di persone
senza lavoro ed una struttura di 14 mila metri quadri in
completo abbandono”, racconta Biagi.
All’occupazione, nell’ottobre del 2012, si sono uniti
individui e collettivi impegnati nel progetto. “Da lì nasce
il Municipio dei Beni Comuni”,
riassume l’attivista. Il nome
non è casuale. “Riteniamo che
lo zapatismo sia un esempio
politico che dobbiamo rivendicare
con forza. Abbiamo voluto
chiamarlo ‘municipio’ per tenere
ben presente il principio di
democrazia diretta”.
Il bene comune è un concetto che nasce in Italia
con la campagna per rendere pubblica la gestione
dall’acqua, “ma volevamo andare più in là. Non solo
l’aria, la natura e l’acqua sono beni comuni, lo sono
anche il territorio e gli spazi sociali. La fabbrica è il
frutto di una razzia del capitalismo, poi lasciata in
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stato di abbandono e noi la occupiamo, curiamo e
trasformiamo”, dice l’attivista.
La gestione dello spazio
Le attività nel Municipio sono molte: cucina popolare,
palestra, corsi di arabo ed uno spazio per le assemblee
dei collettivi. Si tiene una riunione generale dove si
parla dell’organizzazione del centro. Oltre ai turni per
fare le pulizie, cucinare e montare le guardie, ci sono
commissioni che si occupano delle questioni logistiche.
“La cosa più bella è che ci trovi gente di tutte le età.
Il laboratorio di artigianato, quello di falegnameria ed
un altro di fabbro sono frequentati da adulti. La parte
studentesca è presente ed è importante, ma non
fondamentale”, racconta con entusiasmo Biagi. “È uno
spazio veramente occupato dalla gente. Si fanno feste
di quartiere che coinvolgono gli immigrati. Lo spazio
mette insieme anche sensibilità politiche diverse.
L’occupazione è orizzontale, per questo la pratica
zapatista è un esempio. Volevamo unire la gente che si
sente in basso e a sinistra”, racconta.
No.18 • aprile-giugno • 2014
Italia
Pisa
Si alzi il sipario: Arte autogestita
nello storico teatro occupato
Roma
Il teatro di quattro piani lungo i quali - si dice - abbia camminato Mozart, ancora una volta rompe categorie e barriere
tra la musica, il teatro e la danza, tornando ad un luogo dove i generi si confondono tra loro.
Testo originale: Alejandro González Ledesma e Gloria Muñoz Ramírez • Foto: Teatro Valle Occupato e Fabiana
R
oma, Italia. Nel centro di Roma, a circa 30 metri
dal Senato, c’è uno dei primi teatri che hanno
visto nascere lo spettacolo dell’opera. È il teatro Valle,
costruito nel 1727, maestoso e storico, chiuso nel
2010 a causa dei tagli alla cultura ed occupato dal
14 giugno del 2011 da artisti, tecnici, registi di teatro,
ballerine ed attivisti, che a partire da quel momento
hanno riacceso le luci ed alzato il sipario con
spettacoli, concerti, laboratori e centinaia di attività
che si svolgono ogni giorno in maniera autogestita.
L’entusiasmo deborda. Nessuno avrebbe mai pensato
che uno spazio storico potesse essere occupato
“illegalmente ma legittimamente” per tanto tempo.
Sono gli occupanti e gli spettatori, gli artisti e i tecnici,
i registi di cinema e teatro, i musicisti e la gente
comune che convivono in questa comunità che si è
formata intorno all’organizzazione ed alle innumerevoli
faccende che una tale impresa comporta.
Le sfide sono molte perché, riferiscono nell’intervista
collettiva all’ingresso del teatro, “lo stiamo occupando
e gestendo, facendo molto più di quello che si faceva
in questo teatro prima che fosse occupato, lavorando
sulla comunicazione, l’organizzazione e la parte
tecnica che richiede uno scenario come questo, con
una programmazione quotidiana studiata affinché
gli artisti che si esibiscono qui sostengano la lotta”.
Si tratta, in sintesi, “di costruire nel nostro paese
un modo di far politica attraverso la cooperazione,
l’orizzontalità e forme di democrazia diretta”.
Il teatro di quattro piani lungo i quali - si dice - abbia
camminato Mozart, è stato innovatore fin dalla sua
nascita e motivo di scandalo, perché gli attori, agli
inizi del XX° secolo, entravano ed uscivano di scena
in stile Bertolt Brecht, e continua a far parlare di sé.
Ancora una volta si rompono categorie e barriere tra
la musica, il teatro e la danza, tornando ad un luogo
in cui i generi si confondono tra loro. Si tratta di attori,
scrittori, compositori e ballerini uniti “cosa molto rara
in Italia, perché normalmente si lavora in piccole
compagnie isolate”.
La lotta zapatista, segnalano attori ed attivisti, “è
stato un riferimento molto forte. Molte delle nostre
forme di organizzazione vengono dal Chiapas, dal
recupero della terra, dall’organizzazione orizzontale e
dalla formazione delle scuole popolari. Ed anche da
esperienze dell’Argentina e dei Sin Tierra del Brasile,
tra le altre”.
Il mantenimento di questo monumento storico è
una questione importante. In questo momento né gli
occupanti né gli artisti sono retribuiti e si lavora alla
raccolta di fondi per mantenere lo spazio e costituire
la fondazione Teatro Valle Beni Comuni, uno status
che darebbe alcune garanzie legali all’occupazione.
•7 •
Fortunatamente l’appoggio non manca e, oltre alla
collaborazione degli spettatori, molti artisti famosi
offrono spettacoli solidali per sostenere la lotta.
Qui, tutti i giorni, si accendono le luci, si alza il sipario
e lo spettacolo continua.
Desinformémonos Rivista di Strada è possibile grazie al sostegno di:
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•8•
No.18 • aprile-giugno • 2014
Sudafrica
Contro la nuova segregazione, il movimento
AbahlalibaseMjondolo crea un’altra città
L’AbM è capace di resistere con successo agli sgomberi; costruire nuovi
insediamenti; accedere a servizi statali senza aderire a nessun partito.
Testo originale: Richard Pithouse/ Dph info • Foto: Dph info e Occupy Cop17
D
urban, Sudafrica. La repressione contro il
movimento degli abitanti delle baraccopoli
AbahlalibaseMjondolo (AbM) è pesante,
ma loro sono irremovibili dal loro diritto di
decidere e costruire dove e come vogliono
vivere, indipendentemente da partiti politici,
gruppi al potere, intellettuali e organizzazioni
non governative. E con la difesa dei loro
insediamenti e l’avvio di progetti collettivi, ci
stanno riuscendo.
Con la fine dell’apartheid, in Sudafrica è stato
garantito il diritto alla casa, ma col passare
degli anni lo Stato considera le baracche
dei più poveri una minaccia alla modernità,
insediamenti precari che devono essere
sradicati, invece di comunità che dovrebbero
essere integrate. La sua strategia è limitare
i servizi come l’acqua, l’elettricità ed il ritiro
della spazzatura; l’uso della violenza statale per
impedire la loro espansione; e la distruzione
degli insediamenti ed il ricollocamento degli
abitanti nelle periferie.
Come risposta, nelle città sono nati movimenti
sociali contro il nuovo apartheid di classe. A
Durban, nel 2005, è nato il movimento degli
abitanti AbahlalibaseMjondolo (AbM) di fronte
al tentativo di sgomberare l’insediamento di
Kennedy Road.
Si tratta di un progetto politico autonomo che
si basa sul sentimento di preoccupazione nei
confronti dell’altro; una cultura politica lenta,
profondamente democratica e deliberata; ed
una diversità impressionante di etnie, razze e
nazionalità.
L’AbM è capace di resistere con successo
agli sgomberi; costruire nuovi insediamenti;
accedere a servizi statali senza aderire a
nessun partito; implementare progetti di mutuo
soccorso; collegare (illegalmente) migliaia di
persone alla rete elettrica e idrica; opporsi
all’oppressione poliziesca; democratizzare il
governo negli insediamenti e lottare per terra e
casa tanto nei villaggi che in città.
In alcuni insediamenti l’AbM implementa
progetti di successo come asili, orti, collettivi di
sartoria, sostegno agli orfani e a chi convive con
l’AIDS. Inoltre organizza una lega calcio di 16
squadre e serate musicali di generi diversi.
L’AbM è a capo inoltre di riunioni e campagne
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alle quali le ONG, gli accademici e gli avvocati
disposti a lavorare per il movimento basandosi
sul mutuo rispetto, possono contribuire.
Gli insediamenti affiliati al movimento sono
trattati come territori dissidenti dalla polizia e
dalle forze militari. Le loro proteste sono proibite
in maniera illegale e represse. Ma nonostante le
difficoltà, i risultati dell’AbM sono considerevoli.
Ha creato la Università di AbahlalibaseMjondolo,
concordando di proteggerne l’autonomia.
Si è deciso che avrebbe trattato solo con
organizzazioni non governative quando queste
fossero preparate a lavorare col movimento
sulla base della reciprocità. Nelle parole del
presidente del movimento, S’bu Zikode: “Non
vogliamo che pensino per noi e parlino a nostro
nome. Non siamo disposti a sentir nessuno
parlare della questione dell’ordine. Né il
governo, né le ONG, nessuno. Ma siamo pronti a
parlare con chiunque”.
No.18 • aprile-giugno • 2014
Messico
Telefonia mobile zapoteca,
comunitaria e autonoma
Tra le comunità indigene di Oaxaca è nato un progetto di comunicazione completamente nuovo e funzionamento
collettivo. Fornisce il servizio alle persone che non sono redditizie per il mercato.
Testo originale: Jaime Quintana Guerrero • Foto: Alexander Chemeris
Telefonia locale
Così funziona il sistema di telefonia locale delle
comunità indigene sulla Sierra Negra di Oaxaca.
Sono state installate le infrastrutture
necessarie per fornire il segnale alla
comunità.
Il sistema ha numeri pubblici
che si collegano ad un
computer.
Il computer si collega ad un
commutatore che localizza
il telefono del numero
composto.
La chiamata si interrompe dopo
5 minuti per dare l’opportunità ad
un altro utente di effettuare una
chiamata.
O
axaca, Messico. Nelle comunità indigene della
Sierra Negra di Oaxaca esiste un sistema di
telefonia mobile comunitaria, un progetto sociale
di comunicazione unico al mondo che persegue
un modello di gestione simile a quello delle radio
comunitarie.
Questo progetto ha la sua base nella comunità zapoteca
di Telea de Castro. L’essenza è “che una comunità
possa gestire il proprio sistema”, dichiara Pedro Flores,
coordinatore dell’iniziativa.
In Messico esistono 50 mila comunità indigene senza
linea telefonica. La risposta delle grandi compagnie
telefoniche a chi da oltre dieci anni chiede il servizio,
è stata che non è fattibile economicamente investire
in zone lontane, racconta Flores, che fa parte di
Rhizomatica, collettivo gestore del progetto di
comunicazione.
Nelle comunità indigene avere un telefono di una certa
marca è diventato uno status sociale, ma è anche utile,
dice Flores: “I giovani lo usano per ascoltare musica
e guardare video. Diventa anche torcia o calcolatrice
e serve per ascoltare la radio. Abbiamo visto che ci
sono molti apparecchi ed una rete di persone che
li usa, manca solo il segnale”, afferma. La sfida del
progetto è non fomentare il consumismo. “Non vogliamo
contribuire ad un comportamento irresponsabile delle
comunità verso la tecnologia”.
Talea de Castro è felice non solo perché ha il servizio,
ma perché è suo. Hanno raccolto le risorse per
l’apparecchiatura e “si è deciso di porre dei limiti di
tempo. Dopo cinque minuti la chiamata si interrompe
per dare ad un’altra persona l’opportunità di usare il
servizio”, racconta Flores. La cosa più complicata per
configurare l’apparecchiatura sono le decisioni della
comunità”.
La comunità zapoteca, nella quale c’è una forte
emigrazione, risparmia molti soldi con questo sistema.
Esiste un numero telefonico per chiamare all’interno
della comunità ed altri per Los Angeles e Seattle, negli
Stati Uniti. Ora una persona che spendeva sei pesos per
chiamare, spende cinquanta centesimi.
“Il sistema ha numeri pubblici che si collegano ad un
computer, e questo ad un commutatore che localizza
il telefono della persona che vuole parlare”, spiega
il promotore. Il risultato è che l’uso del telefono
è diventato popolare, facilita la comunicazione
interpersonale e la risoluzione di faccende quotidiane.
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“Sono venuti quelli delle compagnie private a parlare
con la gente della comunità ed hanno detto loro
‘abbiamo saputo che avete la vostra linea telefonica
e vogliamo lanciare qui il nostro servizio’. Volevano
approfittare della rete installata per mettere i loro
telefoni nelle case, ma la risposta della comunità è stata
che non volevano che venissero qui a far soldi e che a
loro non interessava il loro servizio, perché hanno già la
propria rete”, racconta Flores.
Tra le molte sfide c’è quella legale, perché benché
la Commissione Federale dei Telefoni (COFETEL)
abbia rilasciato una concessione di due anni, per far
operare una rete chiede loro un progetto che abbracci
quattro stati. La seconda è tecnologica, perché hanno
bisogno di apparecchiature meno costose. La terza
si riferisce alla questione organizzativa, la gestione e
l’amministrazione della comunità. “Stiamo parlando
con le comunità e può funzionare come una radio
comunitaria”, sostiene Flores. Ma la sfida più grande
“sono le compagnie telefoniche”, afferma il promotore,
che ritiene che quante più comunità chiederanno il
servizio, tanto più le compagnie cercheranno di inserirsi
con maggiore impegno.
No.18 • aprile-giugno • 2014
Messico
Oaxaca
Chiapas
L’autonomia zapatista, pilastro e
ispirazione per il mondo
Oggi, ai progetti di salute ed educazione comunitaria e autonoma, si sommano i progetti produttivi, la creazione di mezzi
di comunicazione autonomi, di sistemi di trasporto, cooperative e perfino una banca anticapitalista.
Testo originale: Hermann Bellinghausen • Foto: Maria Novella de Luca e Valerio Nicollosi/ Fool Frame Project
Cinque caracol
Questa è l’ubicazione dei cinque
caracol nel territorio zapatista
C
hiapas, Messico. L’Esercito Zapatista di
Liberazione Nazionale (EZLN) no ha perso tempo.
A dicembre del 1994 il subcomandante Marcos, capo
militare e portavoce dell’organizzazione, annunciò
nella comunità di Guadalupe Tepeyac la creazione di
nuovi municipi, ribelli e autonomi.
Oggi, ai progetti di salute ed educazione comunitaria
e autonoma, si sommano i progetti produttivi, la
creazione di mezzi di comunicazione autonomi,
sistemi di trasporto, cooperative e perfino una banca
anticapitalista che fornisce un aiuto economico che va
dalle spese urgenti per la salute a quelle di appoggio.
Anni dopo, nel 2003, e nell’ambito
dell’inadempimento degli accordi di San Andrés
Larráinzar firmati col governo, nei quali si riconosceva,
tra altre cose, il diritto dei popoli indios all’autonomia,
gli zapatisti decisero di convertirli in legge nel loro
territorio. Inizia così l’esperienza autonomistica con
cinque Giunte di Buon Governo organizzate in cinque
Caracol e decine di municipi e regioni autonome
ribelli. Contro tale esperienza hanno combattuto da
allora i successivi governi federali e statali, con lo
spiegamento massiccio di truppe federali, poliziotti e
paramilitari.
L’autonomia di zapatisti tzeltal, tzotzil, chol, tojolabal,
mam e contadini del Chiapas è stata possibile per
l’estensione del loro territorio e la loro organizzazione,
e l’esistenza di un esercito proprio, dove gli
insurgentes ed i miliziani sono figli e figlie di quei
popoli. Un esercito che, rispettando la tregua a cui
si è impegnato con la società civile messicana, non
combatte, ma nemmeno depone le armi.
La salute e l’educazione, due dei pilastri
dell’autonomia e, soprattutto, il concetto del
comandare ubbidendo, principio sul quale si
organizzano i governi autonomi, ha la sua incubazione
nel periodo di conoscenza tra i popoli e la guerriglia.
Ed è parte di quello che metteranno in pratica anni
dopo.
Nel caracol “Torbellino de nuestras palabras” si lavora
incessantemente e senza affanni. Decine di indigeni,
membri del governo autonomo regionale o municipale,
oppure delle diverse commissioni, frequentano corsi,
riunioni, discussioni, incontri con altri contadini, e a
volte ricevono visitatori di diverse parti del mondo.
Secondo la Giunta di Buon Governo (JBG) Corazón
del arcoiris de la esperanza, gli “assi” più importanti
per lo sviluppo dell’autonomia sono stati la salute,
l’educazione, la produzione e, notoriamente, il lavoro
• 11 •
delle donne. E loro fanno “quello che possono” per
progredire in questi ambiti di governo.
“Noi non facciamo come fa il governo ufficiale. Lì
comanda uno o un gruppo particolare. Nell’autonomia
zapatista tutti comandano. Qui ti rendi conto che tutti
si muovono, nessuno se ne resta seduto a scrivere
alla sua scrivania. Tutti leggono, tutti scrivono, tutti
giocano. Tutti svolgono tutte le attività. Non è come
il governo ufficiale dove è il presidente quello che
comanda, ‘Voi fate questo. Voi quello’ e basta”,
spiegano le autorità di una delle cinque Giunte
zapatiste.
È per questo, tra le altre cose, che l’autonomia di
questi popoli continua ad essere un riferimento inedito
al mondo. Non esiste un’esperienza equiparabile, e
sicuramente non è importante solo perché c’è, ma
è indubbio che la sua esistenza è il motore di molte
delle lotte che si sostengono in Messico ed in molte
parti del pianeta.
No.18 • aprile-giugno • 2014
Prima del 1946
Palestina
Piano ONU 1947
1949-1967
2010
Organizzare la vita in un
campo profughi
Forse non si può chiamare autonomia quello che si crea in un campo profughi, nel proprio paese soggiogati
dallo Stato di Israele, ma lo sforzo dei palestinesi va oltre la loro sopravvivenza e creano centri culturali nel
rifugio per affrontare la quotidianità asfissiante.
Testo originale: Gloria Muñoz Ramírez • Foto: Wissam Nassar/ Maan Images e internet
N
ablus, Palestina. Fátima ha 85 anni ed è uno
dei 750 mila palestinesi che nel 1948 fuggirono
dalla “nakba” (catastrofe o incubo) con la quale si
impose dentro il loro territorio lo Stato di Israele. È
nel campo da più di 60 anni e fa parte degli oltre
7 milioni di palestinesi dispersi nel mondo (il 70%
della popolazione palestinese sul pianeta), dei quali
un milione 300 mila sopravvivono in campi profughi,
dentro e fuori dei territori occupati.
Nel quartiere antico di Nablus, a 10 minuti dal campo
di Askar, esplode una bomba in un edificio. Nihad
riceve una telefonata da Nadia e la visita alla città
antica si interrompe. “Ma questo è solo un aspetto”,
insiste Yousef Abu Serriya, segretario del comitato
locale del campo di Askar. “Bisogna raccontare anche
le cose belle, quelle che noi palestinesi facciamo
affinché la nostra storia non muoia, affinché i nostri
bambini sorridano, per organizzare la nostra vita
quotidiana.”
Il Centro di Sviluppo Sociale di Askar organizza attività
per giovani e bambini: teatro, biblioteca, matematica,
danza, musica, corsi di giornalismo, ecc. “Si fanno
soprattutto giochi per i bambini, affinché nutrano lo
spirito ed esprimano i loro sentimenti e problemi”.
Questo spazio, che si trova all’ingresso del campo,
accoglie tra i mille e mille 500 ragazzi di Askar e
dintorni.
Nel campo di Balata, il più grande della Cisgiordania,
la storia si ripete. Balata è il nome di un villaggio nei
territori occupati, ed è in suo onore che gli hanno
dato questo nome. Provenienti in maggioranza dalla
città di Jaffa, sono arrivati qui nel 1948, durante la
“nakba”. Hanno abbandonato terre e case, e qui,
dicono, “siamo come immigrati”. Attualmente ci sono
scuole, cliniche ed un po’ di sostegno, in uno spazio di
un chilometro e mezzo nel quale sopravvivono 21 mila
persone. È esattamente la stessa area destinata nel
1948, ma quasi 60 anni dopo.
Nel 1997 nel campo è stato realizzato un centro di
assistenza per bambini che ha come obbiettivo che
bambini e bambine crescano in un ambiente migliore,
svolgendo attività sportive, culturali ed artistiche,
offrendo loro momenti di gioia affinché scoprano i loro
talenti e capacità. Hanno progetti, programmi sociali
e di sostegno psicologico per i bambini con traumi,
ansie e paure a causa degli attacchi quotidiani al
campo.
In questo centro domina la cultura e si ravviva la
memoria della cultura della Palestina, come il ballo
di Dabka. “Si tratta di formare una generazione
che conosca la storia della cultura palestinese e la
faccia conoscere ad altri paesi che di qui hanno solo
l’immagine della violenza. Qui ci sono canti, balli
ed opere teatrali che mostrano la vita in Palestina
prima dell’occupazione. C’è anche spirito di allegria e
piacere”.
“La situazione è difficile, ma noi palestinesi
resistiamo”, dicono a Balata. “Resistiamo e coltiviamo
il divertimento e la cultura, cioè, la vita, benché questo
non vuol dire che rinunciamo al nostro diritto al
ritorno”, affermano, ad Askar, i profughi di Annapolis.
• 12 •
Sotto controllo palestinese
Sotto controllo israeliano
No.18 • aprile-giugno • 2014
Salvador
L’autogestione che
nasce dalla guerra
Mesa Grande
Honduras
Sta. Martha
El Salvador
Con la base di solidarietà che hanno costruito durante la loro fuga dalla guerra, gli abitanti della frontiera HondurasSalvador continuano a condurre una vita collettiva che comprende produzione, educazione e mezzi di comunicazione.
Testo originale: Ricardo Martínez Martínez • Foto: Comunidad de Santa Marta e DGH
acquisita nel periodo della lotta, sono riusciti a
mantenere un’istruzione di qualità per la popolazione.
I giovani si sentono impegnati con l’eredità lasciata
dai loro genitori.
M
esa Grande, Honduras, e Santa Marta,
Salvador. Sulla linea di confine tra Salvador
e Honduras, in zone devastate dalla guerra civile
salvadoregna, esiste oggi una catena di organizzazioni
sociali e comunitarie. Gli abitanti, tutti ex rifugiati,
hanno creato forme di autorganizzazione con
marcate pratiche collettive, prodotto del bisogno di
sopravvivenza.
lontano dai capitoli di bilancio governativi e da
ingerenze significative dei partiti politici.
Tre generazioni di rifugiati salvadoregni hanno vissuto
a Mesa Grande in condizioni difficili - mancanza di
cibo e spazi per vivere, oltre a continue minacce
militari e paramilitari -, in mezzo alle quali hanno
costruito vincoli di amicizia e solidarietà. Hanno creato
forme di lavoro collettivo per sopravvivere che hanno
mantenuto per anni, e sono poi tornati nei loro luoghi
di origine con una nuova forma di organizzazione.
“Questo progetto educativo è importante perché
è realizzato dalla comunità”, racconta Yeny, che
si è integrata in questo processo fino a diventare
educatrice popolare. La popolazione di studenti di
Santa Marta è cresciuta, c’è un liceo dal quale sono
usciti 60 studenti verso diverse università. “Il Ministero
dell’Istruzione non accettava che fossero persone
non laureate a tenere le lezioni, sebbene hanno poi
concesso i diplomi agli alunni dopo le
mobilitazioni e le proteste
della gente”.
Il ritorno in Salvador è iniziato nel 1987, quando la
situazione nei rifugi si era aggravata a causa dei
sequestri e degli omicidi selettivi. Una volta tornati
nelle proprie comunità di origine, hanno subito veri
massacri. I sopravvissuti hanno cercato rifugio in
luoghi al riparo degli insorti, come Santa Marta.
Oggi Santa Marta, con i suoi abitanti di prima e di
adesso, conserva forme di organizzazione proprie,
La popolazione ha deciso di portare avanti il processo
educativo che già praticava a Mesa Grande. Hanno
messo in pratica il modello di Educazione Popolare,
iniziato negli accampamenti delle basi di appoggio
delle diverse organizzazioni rivoluzionarie.
Gli insegnanti
che venivano
da un processo
organizzativo popolare
e dalla preparazione
• 13 •
A Santa Marta si svolgono anche altri progetti e
ci sono diversi ambiti di lavoro volontario. Ci sono
allevamenti ittici; una serra dove si coltivano cetrioli,
pomodori e peperoncini che si vendono a basso
prezzo agli abitanti; ognuno coltiva il suo pezzo di
terra e dopo aver soddisfatto i bisogni della famiglia,
ciò che resta viene diviso tra la comunità. Ci sono
anche aree ricreative e la piccola chiesa cammina
guidata dalla Teologia della Liberazione e l’Opzione
per i Poveri.
Come parte dei progetti comunitari, hanno realizzato
Radio Victoria, un’emittente locale. “Qua le comunità
hanno una lunga tradizione di lotta e resistenza,
qualcosa che non può scomparire e sappiamo come
difenderci”, conclude il giovane Elvis.
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• 14 •
No.18 • aprile-giugno • 2014
Russia
l ’Università di strada
sfida il potere
Nata per protesta di un gruppo di docenti e studenti, presto è diventata uno
spazio che sfida il potere da un luogo pubblico.
Testo originale: Katerina Girich • Foto: Message from Moscow
S
an Pietroburgo, Russia. Dopo l’improvvisa
chiusura dell’Università Europea di San Pietroburgo
nel 2008, alcuni professori decisero di organizzarsi e
tenere le lezioni in strada. La protesta si trasformò in una
contagiosa nuova modalità educativa,
un modo per appropriarsi dello spazio
pubblico ed un pretesto per riflettere
sulla situazione politica della Russia
post-sovietica.
Il primo giorno di scuola non durò
molto, ma attirò oltre 70 studenti e
professori, giornalisti ed attivisti. Anche
dopo la riapertura dell’Università, i
simposi continuarono ad “iscrivere”
nuovi studenti.
I professori che hanno mostrato
interesse per il progetto sono stati
quelli con una visione molto particolare
dell’istruzione, dell’arte contemporanea
e dei processi politici. Il nome Università
di Strada rimanda ad un luogo aperto dove ognuno può
partecipare ed in cui convivono le tradizioni antiche
- socratiche, aristoteliche, platoniche - e le nuove. Vi
partecipano famosi scienziati e filosofi. L’Università si è
guadagnata la fama di ribelle ed anticonformista.
L’idea si è fatta contagiosa. L’indebolito e mercificato
sistema scolastico è stato terreno fertile per l’educazione
di strada. Nei simposi si riflette sulla riforma della scuola,
sul movimento studentesco, sugli studi alternativi, la
resistenza civile, estetica e teoria delle
forme d’avanguardia e di attivismo dal
basso.
In pratica si tratta di una protesta,
ma con una modalità relativamente
nuova per la Russia contemporanea.
È civile ma perseverante, giocosa ma
affronta questioni serie, come il modo
di ristabilire la tradizione studentesca
dell’autorganizzazione.
Uno dei più recenti contagi è “Occupy
Abai”, nato dopo la vittoria di
Vladimir Putin, dopo le mobilitazioni
antigovernative più massicce della
storia recente della Russia capitalista.
I manifestanti si fermarono e tutto
sembrava indicare che la tempesta si fosse placata, fino
a che all’orizzonte non spuntò la sagoma di Abai.
Abai Kunanbaev è un poeta kazako poco noto, il cui
modesto monumento adorna uno dei parchi centrali
di Mosca. Durante l’investitura del presidente Putin,
• 15 •
i partecipanti del meeting oppositore si sedettero a
riposare ai piedi del monumento, a parlare e fare musica.
La riunione estemporanea si prolungò per più di un
mese. La gente andava e veniva ed il luogo riscosse la
fama di essere la sede della “scuola creativa”. Subito
ci si organizzò per le pulizie, il cibo e la propaganda in
rete. La maggioranza dei partecipanti non aveva niente
a che vedere con i partiti politici, e stava lì ad ascoltare
conferenze, cantare e convivere.
In un altro contesto, questo evento non avrebbe avuto
una tale portata politica, ma nella Russia di oggi ce l’ha.
Il governo cerca in ogni modo di controllare lo spazio
pubblico politico. Quelli che non seguono le regole
del gioco e demoliscono i discorsi del sistema attuale,
rappresentano un pericolo maggiore dell’opposizione
ufficiale con le sue manifestazioni e meeting organizzati e
studiati per bene.
Chissà che queste innocenti esplosioni di protesta
riescano a rompere le
fondamenta della Russia postsovietica.
No.18 • aprile-giugno • 2014
Argentina
Zanón, una fabbrica di ceramiche che è
anche una scuola di autogestione
In Argentina un gruppo di operai licenziati ha rilevato la propria fonte di lavoro e da un decennio opera in democrazia diretta per decidere, con l’azione
diretta per fare valere i propri diritti, e con l’unità di chi lotta per una vita migliore.
Testo originale: Zanón- Fabbrica Senza Padroni e Gruppo di Lavoro in Appoggio della Scuola a FASINPAT • Foto: Fasinpat
N
euquén, Argentina. Fasinpat (Fábrica sin Patrón),
Zanón Bajo Gestión Obrera, è una fabbrica in
Argentina che da dieci anni è sotto il controllo operaio,
costruisce relazioni sociali altre e rende concrete
esperienze in cui la solidarietà di classe è un valore
non negoziabile.
Nel 2001 il governo di De la Rua confiscò i risparmi
di migliaia di persone. L’inflazione fu insopportabile e
milioni di famiglie operaie furono gettate per strada.
Migliaia di fabbriche chiusero sotto lo sguardo
complice dei sindacati.
Gli operai di Zanón, fabbrica di ceramiche, furono
di quelli che scesero in strada a lottare e decisero
di occupare la fabbrica. Per cinque mesi, e con
l’appoggio di organizzazioni sociali, disoccupati e
giovani, si accamparono fuori della loro fonte di
lavoro sopportando minacce e repressione. Dopo
quel rapporto di forza, acquisirono l’esproprio della
fabbrica contro l’opinione
imprenditoriale e delle
combriccole sindacali.
In dieci anni gli operai che
controllano la fabbrica
hanno creato più di 220
posti di lavoro e destinano
parte della produzione alla comunità. I lavoratori
di Fasinpat riaffermano le proprie convinzioni: la
democrazia diretta per decidere, l’azione diretta per
far valere i loro diritti, e l’unità di chi lotta non solo
in difesa del posto di lavoro, ma anche per la sanità,
l’educazione, per un pezzo di terra in cui vivere, per la
casa ed un piano di opere pubbliche.
La scuola in fabbrica
Zanón sotto il controllo operaio non è solo un luogo di
lavoro. In questo spazio è nata una scuola secondaria
ed una primaria per i lavoratori non solo di questa
fabbrica, ma di altre dello stesso settore e per gli
abitanti dei quartieri vicini.
Dal 2001 gli operai di Zanón hanno rimesso in moto
la fabbrica sotto il loro controllo ed è iniziato un lavoro
molto stretto con la comunità. Sono state condivise
proteste, assemblee e spazi di dibattito.
Operai e docenti hanno analizzato i loro bisogni
e le difficoltà del sistema a rispondere al diritto
all’istruzione. Hanno deciso quindi di prendere in
mano la situazione ed immaginare tutti insieme
un’educazione che sia nella fabbrica, come spazio
collettivo di costruzione di conoscenze.
• 16 •
La scuola si chiama “Jorge Boquita Esparza”, in onore
di uno degli operai che più ha lavorato per realizzare
il progetto, e vuole esercitare un diritto dal quale i
lavoratori sono esclusi per essere imprigionati in
un determinato posto nel mercato del lavoro, come
individui senza capacità di decidere del proprio futuro.
Con questo progetto gli operai vogliono affermare
l’autogestione operaia e segnare un passo che li
avvicini alla trasformazione della realtà, a partire
da un’analisi collettiva. “Se non ci occupiamo noi
della formazione, della cultura, dell’integrità della
persona, avremo esercitato solo un nuovo e forse
migliore metodo di redistribuzione, ma niente di più”,
sostengono. L’ha già detto Paulo Freire: “non posso
pensare se anche l’altro non pensa, semplicemente
non posso pensare per un altro, né per l’altro, né
senza l’altro”.
No.18 • aprile-giugno • 2014
Argentina
Università Transumante,
cambiare il mondo domandando
Rosario
Neuquén
Non fanno bilanci politici né propongono falsi scenari. Questi “alunni” imparano e disimparano, riflettono e fanno,
teorizzano e praticano, tutto per realizzare il loro sogno: costruire qui ed ora un nuovo paese.
Testo originale: María Coco Magallanes e Mario Canek Huerta • Foto: Università Trashumante
Questo seminario è, soprattutto, un incontro di
domande, ascolti, cuori e silenzi: perché e per
cosa costruire una scuola al Transumante; e
discussioni sulle attività come le carovane ed i
laboratori che più di cento transumanti hanno
realizzato lungo circa 30 mila chilometri in
Argentina.
Non ci sono luoghi comuni nell’incontro, non
si fanno “bilanci politici”, non si propongono
falsi scenari né ci si incentra sulla critica della
dinamica politica statale e dell’alto. È un luogo
per far fluire il pensiero profondo della realtà
reale “a bassa voce”. È un dialogo di silenzi, di
saperi e apprendimenti, di pratiche territoriali,
dell’esperienza di lavoro popolare come radice di
un nuovo progetto per formare educatori popolari
per la lotta.
R
osario, Argentina. I partecipanti
all’Università Transumante - progetto
autonomo, pedagogico ed organizzativo nato nel
1998 - partono innanzitutto da una profonda
diffidenza per ogni tipo di “democrazia”. Lavorano
per recuperare il collettivo e costruire l’altro
mondo che sognano per adesso, tutto dai saperi
popolari.
Il seminario è un forum per denunciare situazioni
di repressione e carenze presenti su tutto il
territorio argentino, ma è anche un atteso ritrovo
di sogni, progetti, commissioni di lavoro e feste.
Un’occhiata all’interno di un laboratorio
rivela il funzionamento di questo
progetto politico pedagogico, in
un contesto di smantellamento,
cooptazione statale e disarticolazione
sociale, oltre alla repressione, iniziato
durante la presidenza di Menem e che
continua fino ad oggi.
Dalle nove del mattino fino alle nove
di sera, con sedute plenarie e gruppi
di lavoro, il seminario parte. Le
sessioni iniziano con esercizi ludici per
distendere i corpi, il piacere ed il tatto
personale, mai a distanza, freddo o
“disciplinare”. Gli spazi di lavoro sono
i campi dove i giovani del quartiere
giocano a calcio e spazi dove si
svolgono laboratori comunitari di arte e danza.
Allo stesso modo, ‘con chi?’ è una domanda
significativa dell’incontro, come sostiene il
fondatore dell’Università, Roberto Tato Iglesias,
“la Transumante è stata screditata da diversi
gruppi locali e nazionali a causa della sua
diffidenza per la politica dei partiti e per
sostenere la sua posizione anticapitalista”, cosa
che ha significato anche essere qualificata
come “estremista”. E questo corrisponde alla
sua forma orizzontale fatta nella pratica che è
sfociata in una “organizzazione decentralizzata”
(un rappresentante per ogni gruppo di circa dieci
persone, la maggioranza delle quali è presente al
seminario). Come riferiscono molti transumanti e
lo stesso professor Iglesias, lo zapatismo “per noi
è un riferimento politico, culturale e ideologico”.
È così che l’Università Transumante svolge
una politica pedagogica: impara, pratica,
disimpara, ascolta, riflette, riconosce, teorizza
e si prepara per tornare alla pratica: lottare per
la realizzazione del suo sogno di un altro paese
qui e adesso perché, come direbbe il professor
Tato: “Bisogna ricordare e lottare, avere memoria
e lottare, perché se non lottiamo ci fregano di
brutto!”
• 17 •
No.18 • aprile-giugno • 2014
Stati Uniti
Colors, un ristorante cooperativa
nella Grande Mela
Obiettivo di Colors è la creazione di una cooperativa di lavoratori-consumatori che
coinvolga i clienti nella promozione di un luogo di lavoro più giusto.
Testo originale: Adazahira Chávez • Foto: Colors
N
ew York, Stati Uniti. Un gruppo di lavoratori
della ristorazione che hanno perso il lavoro a
causa degli attentati dell’11 settembre 2001 a New
York, ha creato il proprio posto di lavoro. Il ristorante
cooperativa si chiama Colors e persegue un livello
di vita dignitoso per i suoi lavoratori, in un ambiente
“dove tutti hanno uguale quota di proprietà e potere
decisionale”, racconta Cathy Dang, consulente di
Colors.
la professionalità per accedere a posti di lavoro con
salari dignitosi nell’industria della ristorazione.
L’industria della ristorazione negli Stati Uniti impiega
oltre 10 milioni di lavoratori; tuttavia, meno dell’uno
percento sono sindacalizzati e questo influisce sulle
loro basse condizioni di lavoro. ROC United denuncia
che i salari in questo settore sono più bassi di quelli
di qualsiasi altro settore, e circa il 90% dei lavoratori
Attualmente esistono due locali Colors, il primo a New
York ed il secondo a Detroit. Il Colors di New York è
un ristorante cooperativa, il primo nel suo genere, di
proprietà dei lavoratori.
Colors New York apre per cene ed eventi speciali,
e qui si formano anche i lavoratori nell’ambito
del programma di formazione professionale
dell’organizzazione del lavoro Restaurante
Opportunities Center United (ROC United) di New York
e dell’Istituto CHOW (Colors Hospitality Opportunities
for Workers).
Da parte sua, Colors Detroit è un programma di ROC
Michigan che funziona come un centro di formazione
senza fini di lucro con il suo programma di formazione
professionale. È aperto per pranzo e gli studenti del
programma di formazione completano il praticantato
retribuito lavorando come camerieri, acquisendo così
non gode di indennità retribuite in caso di malattia,
assicurazione medica o ferie pagate.
In questo contesto - anche dopo l’attacco alle Torri
Gemelle - è nato Restaurante Opportunities Center
United (ROC United), fino ad ora l’unica organizzazione
negli Stati Uniti che si occupa esclusivamente dei
lavoratori di questo settore.
I lavoratori che hanno dato avvio a Colors, volevano
lavorare in ristoranti con buone condizioni di lavoro,
che pagassero i lavoratori che ricevono le mance, un
po’ più del salario minimo - che è di 2,13 dollari l’ora
• 18 •
per camerieri, baristi e fattorini - ed almeno 9 dollari
l’ora i lavoratori della cucina che non ricevono mance,
e che garantissero giornate pagate in caso di malattia
ed opportunità di carriera.
“Obiettivo di Colors è la creazione di una cooperativa
di lavoratori-consumatori che coinvolga i clienti nella
promozione di un luogo di lavoro più giusto, che
adotti buone pratiche, che includono garantire salari
dignitosi, benefici come i giorni pagati per malattia
e passaggi di carriera interni”, sostiene Cathy Dang
nell’intervista con Desinformémonos.
No.18 • aprile-giugno • 2014
Stati Uniti
New York
Cibo, casa e lavoro autonomi
nel cuore del mostro
Durham,
Carolina del
Nord
Nei quartieri afroamericani e latini del centro della città di Durham, frammentati dalla trasformazione urbana che
vuole rimpiazzarli con gente con più soldi, una collettività di immigrati, lavoratori e studenti di comunità di colore
ha creato una piccola isola che soddisfa i bisogni di base e rafforza i legami comunitari.
Testo originale: Kilombo Intergaláctico • Foto: Kilombo Intergaláctico
D
urham, Stati Uniti. In un paese dove il governo
può spiare ed arrestare i suoi cittadini senza alcun
capo d’imputazione, dove la polizia li vessa ogni giorno
per la loro razza, dove gli interventi di assistenza
sociale vengono tagliati, la povertà aumenta, la
gente perde la casa, i costi per la salute triplicano
ed un afroamericano su tre passerà per la prigione
in qualche momento della
sua vita, è nato il Kilombo
Intergaláctico, un collettivo
di studenti, immigrati e
lavoratori di origini diverse,
in maggioranza persone di
colore, che lavorano insieme
per coltivare, difendere
e ricostruire la propria
comunità.
Il nome del collettivo si deve
alle comunità di schiavi
fuggiti dal colonialismo nelle
Americhe, ed all’idea degli zapatisti sull’importanza
dell’organizzazione al di là delle ideologie e delle
identità. Il luogo si chiama El Hoyo, e comprende
appena dieci isolati della città di Durham, Carolina del
Nord, ma dentro questi blocchi esiste tutto un mondo.
In primo luogo, è stato aperto un centro sociale dove
le persone possono conoscersi ed organizzare pranzi
ed eventi comunitari. Sono poi arrivate le lezioni di
inglese e spagnolo, alfabetizzazione, matematica,
doposcuola ed una commissione di salute per
organizzare visite mediche e dentistiche gratuite.
Si è studiato un seminario politico per la comunità.
Il centro sociale è pieno di gente che frequenta le
lezioni, usa la biblioteca e internet, o semplicemente si
ritrova per pranzare.
C’è un parco recuperato
dagli abitanti che viene
usato come campo di
atletica e centro di ritrovo
delle famiglie. Il parco,
il centro sociale e le
strade formano un punto
di incontro e di senso
comunitario per la gente
del quartiere.
L’assemblea della
comunità si riunisce ogni
mese per discutere e valutare i progetti in corso ed i
piani per il futuro. Qui si è rilevato che la difficoltà di
accesso al cibo, alla casa ed al lavoro sono i fattori
principali che hanno frammentato la comunità. Così
sono stati avviati tre progetti: un orto biologico per
distribuire gratuitamente gli alimenti, un progetto di
abitazione collettiva e cooperative per dare un lavoro
senza padroni.
• 19 •
L’orto comunitario è una fonte accessibile e sana di
cibo. Dopo tentativi ed errori, a poco a poco è stato
realizzato un grande appezzamento urbano che può
fornire cibo alla comunità. Ci sono sempre cassette
di biete e cavoli da distribuire, ed è stato avviato un
allevamento di galline per fornire gli abitanti di uova
e pollo.
La commissione per la casa ha acquistato case
che vengono affittate agli abitanti stessi, e la loro
manutenzione è affidata al lavoro collettivo per ridurre
il più possibile i costi della vita quotidiana. Tutte le
case dei membri del Kilombo si trovano nella stessa
strada vicino al parco, cosa che ha creato un territorio
dove nascono diversi tipi di vita comunitaria. Abbiamo
queste poche cose che ci uniscono. È molto poco,
almeno in confronto con quelli di sopra, ma abbiamo
un elemento importante: l’organizzazione e l’impegno.
E questo, oggigiorno, è abbastanza.
In vendita presso: [email protected]