Un altro mondo già esiste
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Un altro mondo già esiste
No.18 • aprile-giugno • 2014 Grécia Rivista di Strada Trimestrale Argentina L’Università Transumante Grecia La salute dal basso Messico Gli zapatisti ispirano il mondo AUTONOMIE Sudafrica Vita contro il nuovo apartheid Un altro mondo già esiste Brasile • Messico • Grecia • Russia • Sudafrica • Salvador • Italia • Argentina • Stati Uniti • Palestina SGUARDO GLOCALE AUTONOMIE Un Altro Mondo Già Esiste DIRECTORIO Direzione Gloria Muñoz Ramírez Vicedirezione Per la rivista di strada Desinformémonos non ci sono esperienze di lotta grandi e piccole. Quello che vediamo e cerchiamo di raccontare sono storie di ogni dimensione che illustrino l’organizzazione dei popoli qui e adesso. Non dopo i grandi cambiamenti e le rivoluzioni. Storie che si intessono al margine dello Stato nelle quali organizzazioni e collettività rivendicano il diritto di decidere e indirizzare il proprio destino. È stato più semplice spiegare i processi autonomistici dei popoli indigeni, perché lo spirito comunitario prevale fin dalla loro origine. Ma si parla poco della sfida di creare comunità e autogestione al di fuori dei poteri egemonici e delle strutture di dominio nello specifico delle metropoli dove imperano l’individualismo, la competitività, il profitto, in sintesi, i rapporti di forza capitalisti. Per questo le esperienze che si sviluppano controcorrente acquisiscono singolare rilevanza in questo numero. Una caratteristica comune è che le esperienze autonomistiche si sviluppano in ribellione, senza il permesso di nessuno, perché il potere le considera una minaccia per la stabilità. Nella loro infinita quotidianità sono anche radicali, perché rompono le pratiche clientelari dello Stato strutturato dall’alto verso il basso e sfuggono alla gestione dei partiti politici che le vogliono cooptare o distruggere. Si intessono dal basso ed in maniera orizzontale, senza leadership protagoniste né decisioni unilaterali. Con Un Altro Mondo Già Esiste non vogliamo fare falsi ottimismi, né generalizzare, né fare esercizio teorico. Ci siamo assegnati il compito di raccogliere esperienze di liberazione di popoli e collettività artefici di storie che si concretizzano in territori diversi, da un campo di calcio in Brasile a migliaia di comunità organizzate in Chiapas. Storie che si ripetono sia in Argentina che in Russia, in Salvador o Sudafrica, in Grecia, Palestina, Italia e perfino Stati Uniti, nel cuore del mostro. Sono storie collettive, vitali e creative. Sarebbe impossibile parlarne senza fare riferimento ad uno dei loro grandi motori, ispirazione mondiale di questo altro mondo possibile: l’autonomia delle comunità indigene zapatiste in Messico nelle quali si costruisce un altro modo di governo, dove chi comanda, comanda ubbidendo. La contaminazione della ribellione si diffonde nei cinque continenti. Qui, solo pochi pezzi di un puzzle ancora da comporre. desinformemonos.org Adazahira Chávez Traduzione Annamaria Pontoglio Grafica atelier.mx Hanno collaborato a questo numero: Argentina: María Coco Magallanes, Mario Canek Huerta, Zanón Fábrica sin Patrón e Gruppo di lavoro a sostegno della scuola di Fasinpat; Brasile: Gabriela Moncau e Waldo Lao; Salvador: Ricardo Martínez Martínez; Stati Uniti: Kilombo Intergaláctico; Grecia: Marina Demetriadou; Italia: Alejandro González; Messico: Jaime Quintana ed Hermann Bellinghausen; Palestina: Gloria Muñoz; Russia: Katerina Girich; Sudafrica: Richard Pithouse. Fotografía: Gerasimos Koilakos, Gabriela Moncau, Alexander Chemeris, Maria Novella de Luca e Valerio Nicollosi/ Fool Frame Project, Fabiana, Wissam Nassar/ Maan Images, Casa Mafalda, Fútbol Rebelde, Comune Info, Teatro Valle Occupato, Dphinfo, Occupy Cop17, Comunidad de Santa Marta, DGH, Message from Moscow, Fasinpat, Universidad Trashumante, Colors e Kilombo Intergaláctico Desinformémonos Revista Barrial, es una publicación trimestral editada por Periodismo de Abajo AC, en siete idiomas: español, inglés, francés, alemán, italiano, ruso y portugués. Puede descargarse libremente en internet y distribuirse en formato revista, pegarse como periódico mural en espacios libres y/o repartirse como hoja-volante. Esta revista está bajo una licencia de Creative Commons (CC-BY-NC-SA 2.5 MX), los textos y fotos se distribuyen bajo la misma. Algunos derechos reservados aluden al contenido de autor. [email protected] No.18 • aprile-giugno • 2014 Brasile L’altra faccia del calcio a San Paolo Un collettivo di calcio ha aperto Casa Mafalda, uno spazio nel quale le persone possono divertirsi, fare sport e discutere con i movimenti sociali. “È un pezzo di quello che chiamano un altro mondo possibile”, dicono i suoi creatori. Testo originale: Gabriela Moncau • Traduzione: Waldo Lao • Foto: Casa Mafalda e Futbol Rebelde S an Paolo, Brasile. Uno spazio autonomo e alternativo alla cultura mercificata pulsa nella città di San Paolo. L’idea di Casa Mafalda è nata da due squadre di calcio (una femminile e l’altra maschile) che si chiamano Autónomos e Autónomas FC, fondate nel 2006 ed autogestite da punk, anarchici ed attivisti di San Paolo. Autogestione del centro Il gruppo ha studiato un sistema di “padrini-madrine” della casa per raccogliere donazioni: a seconda della somma, i donatori in cambio ricevono ore di utilizzo della sala prove (nel caso abbiano una band), spazi gratuiti per realizzare eventi, ingressi liberi agli spettacoli, magliette ed altri materiali. Nel 2011 molti spazi autogestiti simili in città hanno chiuso per difficoltà strutturali e finanziarie. Spinto nel vuoto provocato da queste chiusure, il club di calcio e collettivo ha deciso quindi di mettere in pratica la sua idea di creare uno spazio. Sebbene Autónomos e Autónomas FC sia a capo del progetto, altri gruppi e movimenti si sono uniti alla causa. Brito dice che anche se hanno cominciato con il lavoro volontario, ora “speriamo che dopo avere pagato i debiti si possa funzionare con un sistema di lavoro giustamente retribuito”. Nel vecchio studio di musica che oggi accoglie Casa Mafalda si svolgono diverse attività. Si proiettano video sulla catarsi collettiva che il calcio provoca. Il collettivo Arte Libertaria, che si ispira al muralismo messicano, ha dipinto il salone principale. L’area esterna della casa è decorata con graffiti. Si svolgono anche dibattiti sul centro ed il suo rapporto con altri movimenti sociali. I principi della squadra di calcio - anticapitalista, antifascista, antirazzista e antisessista - si riflettono nelle attività organizzate nel centro. “Casa Mafalda sta con i movimenti sociali, con gli amanti del calcio e con chi è contro la mercificazione del gioco più bello del mondo”, sottolinea Gabriel. Casa Mafalda non ha scopi di lucro. I soldi, oltre ad essere usati per il pagamento dei debiti e di chi lavora lì, sarà investito per l’Auto ed i suoi progetti - tra i quali c’è una squadra di calcio infantile, il Mondiale Alternativo ed un giornale stampato. Oltre a giocare a calcio, i membri dell’Auto partecipano anche a movimenti sociali come il Movimiento por el Pase Libre (MPL), il Frente de Lucha por Morada (FLM), il Grupo Carnavalesco Hijos de Santa e la Asociación Nacional de los Aficionados. •3• Per Gabriel, l’idea è fare di questo spazio un “pezzo di quello che molti chiamano ‘un altro mondo possibile’, con giustizia sociale, uguaglianza, solidarietà e rispetto dei diritti di tutti i gruppi sociali attualmente discriminati e brutalizzati”. No.18 • aprile-giugno • 2014 Grecia I l movimento della patata L’iniziativa di vendere le patate attraverso la rete è un esempio di organizzazione e solidarietà ad alto livello, proprio quello che vuole dimostrare l’iniziativa O topos mu: “possiamo ottenere molte cose senza lo Stato”. Testo originale: Marina Demetriadou • Foto: Gerasimos Koilako P iería, Grecia. Nella piccola città di Katerini, di 55 mila abitanti, nel nord della Grecia, è nato il “movimento della patata”, quando un gruppo di volontari contattò direttamente alcuni produttori di patate del villaggio di Nevrokopi, concordando un prezzo di 25 centesimi di euro al chilo (un terzo del prezzo praticato dai supermercati) per 24 tonnellate di patate e lanciò la vendita in internet per raccogliere ordini fino ad esaurimento scorte. L’offerta ebbe molto successo e la cosa si è ripetuta nella stessa città, questa volta con settantacinque tonnellate di patate ed in seguito altre città della Grecia hanno seguito l’esempio. O topos mu (“il mio posto”, in greco) è un gruppo di azione volontaria del distretto di Piería. Già prima del “movimento della patata” era una presenza molto importante nella città di Katerini. È nato nel 2007 in maniera non ufficiale perché, come dicono i suoi membri, a loro non interessava il riconoscimento legale. È partito con quattro o cinque persone che, dopo i grandi incendi occorsi nel sud del paese, sono andati dai pompieri a chiedere che cosa avrebbero potuto fare nel caso L’Olimpo, la montagna degli dei, che si trova nella regione, si fosse trovato in una situazione simile. “Regalo un giorno della mia estate al bosco” è stata la prima di molte azioni che sono proseguite con la piantumazione di alberi e la protezione della montagna dalla speculazione ambientale e dalle attività sportive che danneggiano la natura (come l’eliski ed i rally). Nel 2009 i membri di “O topos mu” si sono uniti al movimento “non pagherò” che chiedeva l’accesso gratuito alle strade pubbliche, senza dover pagare pedaggi, e nell’agosto del 2011 il gruppo ha appoggiato il movimento contro l’imposta straordinaria del servizio elettrico ed ha formato gruppi di appoggio per ripristinare il collegamento all’energia elettrica PREZZI RIBASSATI La vendita delle patate attraverso internet ha costretto i supermercati ad abbassare i prezzi. $1.38 Cambio del 19/03/14 Dollari nelle case in cui era stato sospeso per non aver pagato la nuova tariffa. Più avanti, il collettivo ha aperto con successo un negozio di prodotti donati affinché le famiglie senza risorse potessero avere gratuitamente i generi alimentari. I “O topos mu” intendono aprire un centro medico con volontari per offrire visite e terapie gratuite. Al chilo A partire da 10 chili Negozi O Topus mu Negozi Altri gruppi di O topos mu Dono un giorno della mia estate al bosco è stata una serie di azioni ambientaliste sull’Olimpo. Non pagherò chiedeva il libero transito sulle strade pubbliche. O topos mu ha appoggiato il movimento contro la tassa straordinaria sul servizio elettrico. •4• Con l’iniziativa del “movimento della patata” hanno ottenuto un impatto immediato. Nella settimana in cui erano iniziate le vendite via internet, uno dei supermercati locali ha abbassato il prezzo delle patate da 70 centesimi di euro a 35 centesimi al chilo, per un acquisto minimo di 10 chili. Era esattamente questo lo scopo dell’iniziativa: dare un colpo alla speculazione dei prezzi che colpisce le tasche dei consumatori e ricatta i produttori. L’iniziativa è un esempio di organizzazione e solidarietà ad alto livello. Questo è precisamente quello che voleva dimostrare “O topos mu”: “che possiamo ottenere molte cose senza lo Stato”. No.18 • aprile-giugno • 2014 Piería Salónica Grecia Medici, dentisti, psichiatri, analisti ed attivisti tessono salute dal basso Sotiris è un commerciante greco di 50 anni: “Non ho un lavoro, non ho assistenza sociale, per questo sono qui. Questo posto è importante per quello che fa in questi momenti di crisi. Se non ci fosse, che cosa faremmo?”. Testo originale: Gloria Muñoz Ramírez • Foto: Gabriela Moncau S alonicco, Grecia. A causa della crisi economica che colpisce la Grecia dal 2007, negli ospedali non c’è il materiale medico indispensabile o le medicine sufficienti nemmeno per le persone che hanno l’assistenza sociale, poiché il settore pubblico della sanità è, senza dubbio, uno dei più colpiti dalle politiche di austerità. Il Centro di Salute Solidale Il primo piano dell’edificio del Sindacato dei Lavoratori Privati è un andirivieni di medici, pazienti e gente che arriva con i medicinali da sistemare nella farmacia. Mentre i volontari classificano i medicinali e rispondono alle richieste dei medici, la receptionist accompagna i pazienti in una sala d’aspetto stracolma nella quale ormai non ci sta più nessuno. Gli ambulatori di patologia, neurologia, psicologia e pediatria lavorano al massimo della loro capacità, così come quelli di odontoiatria. All’ingresso c’è uno striscione col nome “Centro di Salute Solidale”. Sotiris è un commerciante greco di 50 anni: “Non ho un lavoro, non ho assistenza sociale, per questo sono qui. Questo posto è importante per quello che fa in questi momenti di crisi. Se non ci fosse, che cosa faremmo?”. Il 7 novembre 2011 hanno aperto il centro di salute e da quel momento c’è il tutto esaurito. La rete è composta da 40 dentisti e 20 aiutanti, 30 tra psichiatri e psicologi, 15 patologi, 20 pediatri, 30 persone all’accoglienza e 20 nella farmacia. Ed a tutto questo si somma una rete di medici che con i loro ambulatori privati cooperano con il centro. Anche loro assistono gratuitamente i pazienti mandati dal centro. Sono in totale 40 gli specialisti uniti in questo sforzo: cardiologi, ortopedici, ginecologi, di ogni specializzazione. •5• La dottoressa Cristina, attivista del progetto, spiega: “Bisogna mettere insieme 200 persone di appoggio oltre all’aiuto che ci danno i laboratori ed i centri di radiologia. Le necessità dei pazienti sono molte e costa molto eseguire gli esami, per questo si è deciso di pagare le analisi, ma non le visite mediche”. Una delle meraviglie di questo lavoro è che non ricevono soldi dallo Stato, dall’Unione Europea, né dalle multinazionali. La municipalità aveva offerto 10 mila euro ma li hanno rifiutati perché “non potevamo accettare aiuti da un organismo che ogni giorno attacca gli immigrati e li caccia dalle piazze dove tentano di vendere la loro merce”. L’appoggio viene da sindacati, gruppi culturali e politici non di partito. L’entrata più significativa proviene dalle attività che si organizzano, come concerti e mostre. Tutto per coprire le spese mensili che ammontano a più di 3 mila euro, senza che nessuno paghi assolutamente niente. “Fino ad ora ci siamo riusciti”, dicono con orgoglio Anastasia e Cristina. No.18 • aprile-giugno • 2014 Italia Un “municipio” zapatista insediato a Pisa Ispirato dalle idee di autonomia e orizzontalità, un gruppo di persone di origini più diverse, costruisce giorno per giorno uno spazio culturale e politico in una fabbrica distrutta dalla crisi. Testo originale: Alejandro González • Foto: Comune Info P isa, Italia. Il Municipio dei Beni Comuni era un colorificio ormai abbandonato ed ora è uno spazio per sopravvivere alla crisi economica e ricostruire il tessuto sociale. Nato nel 2012 da un’iniziativa del Coordinamento Rebeldia di Pisa, è diventato uno spazio aperto. La multinazionale J-Colors ha presentato una denuncia dopo più di 15 anni di abbandono, ma gli attivisti non sono disposti a permettere lo sgombero. Francesco Biagi, membro del Coordinamento, racconta che Rebeldia era un collettivo universitario nato nell’ambito delle proteste contro il G-8 a Genova, nel 2001. Nel 2003 occuparono un edificio abbandonato dell’Università di Pisa. Dopo uno sgombero ci fu un’altra occupazione ed altri studenti si avvicinarono all’esperienza. Tuttavia, in città mancava ancora uno spazio ad uso popolare, sostiene Biagi. Grazie alle pressioni, il sindaco di allora consegnò loro un edificio, ma nel 2008, col cambiamento della giunta ed a causa delle denunce presentate da Rebeldía contro i suoi atteggiamenti razzisti, fu richiesta la restituzione della struttura. “Così nacque l’idea di occupare un altro spazio per conto nostro”, ricorda l’attivista. “Abbiamo scelto una fabbrica di vernici abbandonata che simboleggia la crisi economica. Apparteneva ad un industriale locale che nel 1998 fallì e fu venduta alla multinazionale J-Colors. La fabbrica chiuse dopo pochi mesi per trasferirsi in Cina, lasciando decine di persone senza lavoro ed una struttura di 14 mila metri quadri in completo abbandono”, racconta Biagi. All’occupazione, nell’ottobre del 2012, si sono uniti individui e collettivi impegnati nel progetto. “Da lì nasce il Municipio dei Beni Comuni”, riassume l’attivista. Il nome non è casuale. “Riteniamo che lo zapatismo sia un esempio politico che dobbiamo rivendicare con forza. Abbiamo voluto chiamarlo ‘municipio’ per tenere ben presente il principio di democrazia diretta”. Il bene comune è un concetto che nasce in Italia con la campagna per rendere pubblica la gestione dall’acqua, “ma volevamo andare più in là. Non solo l’aria, la natura e l’acqua sono beni comuni, lo sono anche il territorio e gli spazi sociali. La fabbrica è il frutto di una razzia del capitalismo, poi lasciata in •6 • stato di abbandono e noi la occupiamo, curiamo e trasformiamo”, dice l’attivista. La gestione dello spazio Le attività nel Municipio sono molte: cucina popolare, palestra, corsi di arabo ed uno spazio per le assemblee dei collettivi. Si tiene una riunione generale dove si parla dell’organizzazione del centro. Oltre ai turni per fare le pulizie, cucinare e montare le guardie, ci sono commissioni che si occupano delle questioni logistiche. “La cosa più bella è che ci trovi gente di tutte le età. Il laboratorio di artigianato, quello di falegnameria ed un altro di fabbro sono frequentati da adulti. La parte studentesca è presente ed è importante, ma non fondamentale”, racconta con entusiasmo Biagi. “È uno spazio veramente occupato dalla gente. Si fanno feste di quartiere che coinvolgono gli immigrati. Lo spazio mette insieme anche sensibilità politiche diverse. L’occupazione è orizzontale, per questo la pratica zapatista è un esempio. Volevamo unire la gente che si sente in basso e a sinistra”, racconta. No.18 • aprile-giugno • 2014 Italia Pisa Si alzi il sipario: Arte autogestita nello storico teatro occupato Roma Il teatro di quattro piani lungo i quali - si dice - abbia camminato Mozart, ancora una volta rompe categorie e barriere tra la musica, il teatro e la danza, tornando ad un luogo dove i generi si confondono tra loro. Testo originale: Alejandro González Ledesma e Gloria Muñoz Ramírez • Foto: Teatro Valle Occupato e Fabiana R oma, Italia. Nel centro di Roma, a circa 30 metri dal Senato, c’è uno dei primi teatri che hanno visto nascere lo spettacolo dell’opera. È il teatro Valle, costruito nel 1727, maestoso e storico, chiuso nel 2010 a causa dei tagli alla cultura ed occupato dal 14 giugno del 2011 da artisti, tecnici, registi di teatro, ballerine ed attivisti, che a partire da quel momento hanno riacceso le luci ed alzato il sipario con spettacoli, concerti, laboratori e centinaia di attività che si svolgono ogni giorno in maniera autogestita. L’entusiasmo deborda. Nessuno avrebbe mai pensato che uno spazio storico potesse essere occupato “illegalmente ma legittimamente” per tanto tempo. Sono gli occupanti e gli spettatori, gli artisti e i tecnici, i registi di cinema e teatro, i musicisti e la gente comune che convivono in questa comunità che si è formata intorno all’organizzazione ed alle innumerevoli faccende che una tale impresa comporta. Le sfide sono molte perché, riferiscono nell’intervista collettiva all’ingresso del teatro, “lo stiamo occupando e gestendo, facendo molto più di quello che si faceva in questo teatro prima che fosse occupato, lavorando sulla comunicazione, l’organizzazione e la parte tecnica che richiede uno scenario come questo, con una programmazione quotidiana studiata affinché gli artisti che si esibiscono qui sostengano la lotta”. Si tratta, in sintesi, “di costruire nel nostro paese un modo di far politica attraverso la cooperazione, l’orizzontalità e forme di democrazia diretta”. Il teatro di quattro piani lungo i quali - si dice - abbia camminato Mozart, è stato innovatore fin dalla sua nascita e motivo di scandalo, perché gli attori, agli inizi del XX° secolo, entravano ed uscivano di scena in stile Bertolt Brecht, e continua a far parlare di sé. Ancora una volta si rompono categorie e barriere tra la musica, il teatro e la danza, tornando ad un luogo in cui i generi si confondono tra loro. Si tratta di attori, scrittori, compositori e ballerini uniti “cosa molto rara in Italia, perché normalmente si lavora in piccole compagnie isolate”. La lotta zapatista, segnalano attori ed attivisti, “è stato un riferimento molto forte. Molte delle nostre forme di organizzazione vengono dal Chiapas, dal recupero della terra, dall’organizzazione orizzontale e dalla formazione delle scuole popolari. Ed anche da esperienze dell’Argentina e dei Sin Tierra del Brasile, tra le altre”. Il mantenimento di questo monumento storico è una questione importante. In questo momento né gli occupanti né gli artisti sono retribuiti e si lavora alla raccolta di fondi per mantenere lo spazio e costituire la fondazione Teatro Valle Beni Comuni, uno status che darebbe alcune garanzie legali all’occupazione. •7 • Fortunatamente l’appoggio non manca e, oltre alla collaborazione degli spettatori, molti artisti famosi offrono spettacoli solidali per sostenere la lotta. Qui, tutti i giorni, si accendono le luci, si alza il sipario e lo spettacolo continua. Desinformémonos Rivista di Strada è possibile grazie al sostegno di: [email protected] Cádiz No. 152 Colonia Álamos, Delegación Benito Juárez En Campeche, México [email protected] www.casabalche.com facebook: Maya Vinic espacio + comunidad CGT Valencia y CGT Murcia. [email protected] •8• No.18 • aprile-giugno • 2014 Sudafrica Contro la nuova segregazione, il movimento AbahlalibaseMjondolo crea un’altra città L’AbM è capace di resistere con successo agli sgomberi; costruire nuovi insediamenti; accedere a servizi statali senza aderire a nessun partito. Testo originale: Richard Pithouse/ Dph info • Foto: Dph info e Occupy Cop17 D urban, Sudafrica. La repressione contro il movimento degli abitanti delle baraccopoli AbahlalibaseMjondolo (AbM) è pesante, ma loro sono irremovibili dal loro diritto di decidere e costruire dove e come vogliono vivere, indipendentemente da partiti politici, gruppi al potere, intellettuali e organizzazioni non governative. E con la difesa dei loro insediamenti e l’avvio di progetti collettivi, ci stanno riuscendo. Con la fine dell’apartheid, in Sudafrica è stato garantito il diritto alla casa, ma col passare degli anni lo Stato considera le baracche dei più poveri una minaccia alla modernità, insediamenti precari che devono essere sradicati, invece di comunità che dovrebbero essere integrate. La sua strategia è limitare i servizi come l’acqua, l’elettricità ed il ritiro della spazzatura; l’uso della violenza statale per impedire la loro espansione; e la distruzione degli insediamenti ed il ricollocamento degli abitanti nelle periferie. Come risposta, nelle città sono nati movimenti sociali contro il nuovo apartheid di classe. A Durban, nel 2005, è nato il movimento degli abitanti AbahlalibaseMjondolo (AbM) di fronte al tentativo di sgomberare l’insediamento di Kennedy Road. Si tratta di un progetto politico autonomo che si basa sul sentimento di preoccupazione nei confronti dell’altro; una cultura politica lenta, profondamente democratica e deliberata; ed una diversità impressionante di etnie, razze e nazionalità. L’AbM è capace di resistere con successo agli sgomberi; costruire nuovi insediamenti; accedere a servizi statali senza aderire a nessun partito; implementare progetti di mutuo soccorso; collegare (illegalmente) migliaia di persone alla rete elettrica e idrica; opporsi all’oppressione poliziesca; democratizzare il governo negli insediamenti e lottare per terra e casa tanto nei villaggi che in città. In alcuni insediamenti l’AbM implementa progetti di successo come asili, orti, collettivi di sartoria, sostegno agli orfani e a chi convive con l’AIDS. Inoltre organizza una lega calcio di 16 squadre e serate musicali di generi diversi. L’AbM è a capo inoltre di riunioni e campagne •9• alle quali le ONG, gli accademici e gli avvocati disposti a lavorare per il movimento basandosi sul mutuo rispetto, possono contribuire. Gli insediamenti affiliati al movimento sono trattati come territori dissidenti dalla polizia e dalle forze militari. Le loro proteste sono proibite in maniera illegale e represse. Ma nonostante le difficoltà, i risultati dell’AbM sono considerevoli. Ha creato la Università di AbahlalibaseMjondolo, concordando di proteggerne l’autonomia. Si è deciso che avrebbe trattato solo con organizzazioni non governative quando queste fossero preparate a lavorare col movimento sulla base della reciprocità. Nelle parole del presidente del movimento, S’bu Zikode: “Non vogliamo che pensino per noi e parlino a nostro nome. Non siamo disposti a sentir nessuno parlare della questione dell’ordine. Né il governo, né le ONG, nessuno. Ma siamo pronti a parlare con chiunque”. No.18 • aprile-giugno • 2014 Messico Telefonia mobile zapoteca, comunitaria e autonoma Tra le comunità indigene di Oaxaca è nato un progetto di comunicazione completamente nuovo e funzionamento collettivo. Fornisce il servizio alle persone che non sono redditizie per il mercato. Testo originale: Jaime Quintana Guerrero • Foto: Alexander Chemeris Telefonia locale Così funziona il sistema di telefonia locale delle comunità indigene sulla Sierra Negra di Oaxaca. Sono state installate le infrastrutture necessarie per fornire il segnale alla comunità. Il sistema ha numeri pubblici che si collegano ad un computer. Il computer si collega ad un commutatore che localizza il telefono del numero composto. La chiamata si interrompe dopo 5 minuti per dare l’opportunità ad un altro utente di effettuare una chiamata. O axaca, Messico. Nelle comunità indigene della Sierra Negra di Oaxaca esiste un sistema di telefonia mobile comunitaria, un progetto sociale di comunicazione unico al mondo che persegue un modello di gestione simile a quello delle radio comunitarie. Questo progetto ha la sua base nella comunità zapoteca di Telea de Castro. L’essenza è “che una comunità possa gestire il proprio sistema”, dichiara Pedro Flores, coordinatore dell’iniziativa. In Messico esistono 50 mila comunità indigene senza linea telefonica. La risposta delle grandi compagnie telefoniche a chi da oltre dieci anni chiede il servizio, è stata che non è fattibile economicamente investire in zone lontane, racconta Flores, che fa parte di Rhizomatica, collettivo gestore del progetto di comunicazione. Nelle comunità indigene avere un telefono di una certa marca è diventato uno status sociale, ma è anche utile, dice Flores: “I giovani lo usano per ascoltare musica e guardare video. Diventa anche torcia o calcolatrice e serve per ascoltare la radio. Abbiamo visto che ci sono molti apparecchi ed una rete di persone che li usa, manca solo il segnale”, afferma. La sfida del progetto è non fomentare il consumismo. “Non vogliamo contribuire ad un comportamento irresponsabile delle comunità verso la tecnologia”. Talea de Castro è felice non solo perché ha il servizio, ma perché è suo. Hanno raccolto le risorse per l’apparecchiatura e “si è deciso di porre dei limiti di tempo. Dopo cinque minuti la chiamata si interrompe per dare ad un’altra persona l’opportunità di usare il servizio”, racconta Flores. La cosa più complicata per configurare l’apparecchiatura sono le decisioni della comunità”. La comunità zapoteca, nella quale c’è una forte emigrazione, risparmia molti soldi con questo sistema. Esiste un numero telefonico per chiamare all’interno della comunità ed altri per Los Angeles e Seattle, negli Stati Uniti. Ora una persona che spendeva sei pesos per chiamare, spende cinquanta centesimi. “Il sistema ha numeri pubblici che si collegano ad un computer, e questo ad un commutatore che localizza il telefono della persona che vuole parlare”, spiega il promotore. Il risultato è che l’uso del telefono è diventato popolare, facilita la comunicazione interpersonale e la risoluzione di faccende quotidiane. • 10 • “Sono venuti quelli delle compagnie private a parlare con la gente della comunità ed hanno detto loro ‘abbiamo saputo che avete la vostra linea telefonica e vogliamo lanciare qui il nostro servizio’. Volevano approfittare della rete installata per mettere i loro telefoni nelle case, ma la risposta della comunità è stata che non volevano che venissero qui a far soldi e che a loro non interessava il loro servizio, perché hanno già la propria rete”, racconta Flores. Tra le molte sfide c’è quella legale, perché benché la Commissione Federale dei Telefoni (COFETEL) abbia rilasciato una concessione di due anni, per far operare una rete chiede loro un progetto che abbracci quattro stati. La seconda è tecnologica, perché hanno bisogno di apparecchiature meno costose. La terza si riferisce alla questione organizzativa, la gestione e l’amministrazione della comunità. “Stiamo parlando con le comunità e può funzionare come una radio comunitaria”, sostiene Flores. Ma la sfida più grande “sono le compagnie telefoniche”, afferma il promotore, che ritiene che quante più comunità chiederanno il servizio, tanto più le compagnie cercheranno di inserirsi con maggiore impegno. No.18 • aprile-giugno • 2014 Messico Oaxaca Chiapas L’autonomia zapatista, pilastro e ispirazione per il mondo Oggi, ai progetti di salute ed educazione comunitaria e autonoma, si sommano i progetti produttivi, la creazione di mezzi di comunicazione autonomi, di sistemi di trasporto, cooperative e perfino una banca anticapitalista. Testo originale: Hermann Bellinghausen • Foto: Maria Novella de Luca e Valerio Nicollosi/ Fool Frame Project Cinque caracol Questa è l’ubicazione dei cinque caracol nel territorio zapatista C hiapas, Messico. L’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale (EZLN) no ha perso tempo. A dicembre del 1994 il subcomandante Marcos, capo militare e portavoce dell’organizzazione, annunciò nella comunità di Guadalupe Tepeyac la creazione di nuovi municipi, ribelli e autonomi. Oggi, ai progetti di salute ed educazione comunitaria e autonoma, si sommano i progetti produttivi, la creazione di mezzi di comunicazione autonomi, sistemi di trasporto, cooperative e perfino una banca anticapitalista che fornisce un aiuto economico che va dalle spese urgenti per la salute a quelle di appoggio. Anni dopo, nel 2003, e nell’ambito dell’inadempimento degli accordi di San Andrés Larráinzar firmati col governo, nei quali si riconosceva, tra altre cose, il diritto dei popoli indios all’autonomia, gli zapatisti decisero di convertirli in legge nel loro territorio. Inizia così l’esperienza autonomistica con cinque Giunte di Buon Governo organizzate in cinque Caracol e decine di municipi e regioni autonome ribelli. Contro tale esperienza hanno combattuto da allora i successivi governi federali e statali, con lo spiegamento massiccio di truppe federali, poliziotti e paramilitari. L’autonomia di zapatisti tzeltal, tzotzil, chol, tojolabal, mam e contadini del Chiapas è stata possibile per l’estensione del loro territorio e la loro organizzazione, e l’esistenza di un esercito proprio, dove gli insurgentes ed i miliziani sono figli e figlie di quei popoli. Un esercito che, rispettando la tregua a cui si è impegnato con la società civile messicana, non combatte, ma nemmeno depone le armi. La salute e l’educazione, due dei pilastri dell’autonomia e, soprattutto, il concetto del comandare ubbidendo, principio sul quale si organizzano i governi autonomi, ha la sua incubazione nel periodo di conoscenza tra i popoli e la guerriglia. Ed è parte di quello che metteranno in pratica anni dopo. Nel caracol “Torbellino de nuestras palabras” si lavora incessantemente e senza affanni. Decine di indigeni, membri del governo autonomo regionale o municipale, oppure delle diverse commissioni, frequentano corsi, riunioni, discussioni, incontri con altri contadini, e a volte ricevono visitatori di diverse parti del mondo. Secondo la Giunta di Buon Governo (JBG) Corazón del arcoiris de la esperanza, gli “assi” più importanti per lo sviluppo dell’autonomia sono stati la salute, l’educazione, la produzione e, notoriamente, il lavoro • 11 • delle donne. E loro fanno “quello che possono” per progredire in questi ambiti di governo. “Noi non facciamo come fa il governo ufficiale. Lì comanda uno o un gruppo particolare. Nell’autonomia zapatista tutti comandano. Qui ti rendi conto che tutti si muovono, nessuno se ne resta seduto a scrivere alla sua scrivania. Tutti leggono, tutti scrivono, tutti giocano. Tutti svolgono tutte le attività. Non è come il governo ufficiale dove è il presidente quello che comanda, ‘Voi fate questo. Voi quello’ e basta”, spiegano le autorità di una delle cinque Giunte zapatiste. È per questo, tra le altre cose, che l’autonomia di questi popoli continua ad essere un riferimento inedito al mondo. Non esiste un’esperienza equiparabile, e sicuramente non è importante solo perché c’è, ma è indubbio che la sua esistenza è il motore di molte delle lotte che si sostengono in Messico ed in molte parti del pianeta. No.18 • aprile-giugno • 2014 Prima del 1946 Palestina Piano ONU 1947 1949-1967 2010 Organizzare la vita in un campo profughi Forse non si può chiamare autonomia quello che si crea in un campo profughi, nel proprio paese soggiogati dallo Stato di Israele, ma lo sforzo dei palestinesi va oltre la loro sopravvivenza e creano centri culturali nel rifugio per affrontare la quotidianità asfissiante. Testo originale: Gloria Muñoz Ramírez • Foto: Wissam Nassar/ Maan Images e internet N ablus, Palestina. Fátima ha 85 anni ed è uno dei 750 mila palestinesi che nel 1948 fuggirono dalla “nakba” (catastrofe o incubo) con la quale si impose dentro il loro territorio lo Stato di Israele. È nel campo da più di 60 anni e fa parte degli oltre 7 milioni di palestinesi dispersi nel mondo (il 70% della popolazione palestinese sul pianeta), dei quali un milione 300 mila sopravvivono in campi profughi, dentro e fuori dei territori occupati. Nel quartiere antico di Nablus, a 10 minuti dal campo di Askar, esplode una bomba in un edificio. Nihad riceve una telefonata da Nadia e la visita alla città antica si interrompe. “Ma questo è solo un aspetto”, insiste Yousef Abu Serriya, segretario del comitato locale del campo di Askar. “Bisogna raccontare anche le cose belle, quelle che noi palestinesi facciamo affinché la nostra storia non muoia, affinché i nostri bambini sorridano, per organizzare la nostra vita quotidiana.” Il Centro di Sviluppo Sociale di Askar organizza attività per giovani e bambini: teatro, biblioteca, matematica, danza, musica, corsi di giornalismo, ecc. “Si fanno soprattutto giochi per i bambini, affinché nutrano lo spirito ed esprimano i loro sentimenti e problemi”. Questo spazio, che si trova all’ingresso del campo, accoglie tra i mille e mille 500 ragazzi di Askar e dintorni. Nel campo di Balata, il più grande della Cisgiordania, la storia si ripete. Balata è il nome di un villaggio nei territori occupati, ed è in suo onore che gli hanno dato questo nome. Provenienti in maggioranza dalla città di Jaffa, sono arrivati qui nel 1948, durante la “nakba”. Hanno abbandonato terre e case, e qui, dicono, “siamo come immigrati”. Attualmente ci sono scuole, cliniche ed un po’ di sostegno, in uno spazio di un chilometro e mezzo nel quale sopravvivono 21 mila persone. È esattamente la stessa area destinata nel 1948, ma quasi 60 anni dopo. Nel 1997 nel campo è stato realizzato un centro di assistenza per bambini che ha come obbiettivo che bambini e bambine crescano in un ambiente migliore, svolgendo attività sportive, culturali ed artistiche, offrendo loro momenti di gioia affinché scoprano i loro talenti e capacità. Hanno progetti, programmi sociali e di sostegno psicologico per i bambini con traumi, ansie e paure a causa degli attacchi quotidiani al campo. In questo centro domina la cultura e si ravviva la memoria della cultura della Palestina, come il ballo di Dabka. “Si tratta di formare una generazione che conosca la storia della cultura palestinese e la faccia conoscere ad altri paesi che di qui hanno solo l’immagine della violenza. Qui ci sono canti, balli ed opere teatrali che mostrano la vita in Palestina prima dell’occupazione. C’è anche spirito di allegria e piacere”. “La situazione è difficile, ma noi palestinesi resistiamo”, dicono a Balata. “Resistiamo e coltiviamo il divertimento e la cultura, cioè, la vita, benché questo non vuol dire che rinunciamo al nostro diritto al ritorno”, affermano, ad Askar, i profughi di Annapolis. • 12 • Sotto controllo palestinese Sotto controllo israeliano No.18 • aprile-giugno • 2014 Salvador L’autogestione che nasce dalla guerra Mesa Grande Honduras Sta. Martha El Salvador Con la base di solidarietà che hanno costruito durante la loro fuga dalla guerra, gli abitanti della frontiera HondurasSalvador continuano a condurre una vita collettiva che comprende produzione, educazione e mezzi di comunicazione. Testo originale: Ricardo Martínez Martínez • Foto: Comunidad de Santa Marta e DGH acquisita nel periodo della lotta, sono riusciti a mantenere un’istruzione di qualità per la popolazione. I giovani si sentono impegnati con l’eredità lasciata dai loro genitori. M esa Grande, Honduras, e Santa Marta, Salvador. Sulla linea di confine tra Salvador e Honduras, in zone devastate dalla guerra civile salvadoregna, esiste oggi una catena di organizzazioni sociali e comunitarie. Gli abitanti, tutti ex rifugiati, hanno creato forme di autorganizzazione con marcate pratiche collettive, prodotto del bisogno di sopravvivenza. lontano dai capitoli di bilancio governativi e da ingerenze significative dei partiti politici. Tre generazioni di rifugiati salvadoregni hanno vissuto a Mesa Grande in condizioni difficili - mancanza di cibo e spazi per vivere, oltre a continue minacce militari e paramilitari -, in mezzo alle quali hanno costruito vincoli di amicizia e solidarietà. Hanno creato forme di lavoro collettivo per sopravvivere che hanno mantenuto per anni, e sono poi tornati nei loro luoghi di origine con una nuova forma di organizzazione. “Questo progetto educativo è importante perché è realizzato dalla comunità”, racconta Yeny, che si è integrata in questo processo fino a diventare educatrice popolare. La popolazione di studenti di Santa Marta è cresciuta, c’è un liceo dal quale sono usciti 60 studenti verso diverse università. “Il Ministero dell’Istruzione non accettava che fossero persone non laureate a tenere le lezioni, sebbene hanno poi concesso i diplomi agli alunni dopo le mobilitazioni e le proteste della gente”. Il ritorno in Salvador è iniziato nel 1987, quando la situazione nei rifugi si era aggravata a causa dei sequestri e degli omicidi selettivi. Una volta tornati nelle proprie comunità di origine, hanno subito veri massacri. I sopravvissuti hanno cercato rifugio in luoghi al riparo degli insorti, come Santa Marta. Oggi Santa Marta, con i suoi abitanti di prima e di adesso, conserva forme di organizzazione proprie, La popolazione ha deciso di portare avanti il processo educativo che già praticava a Mesa Grande. Hanno messo in pratica il modello di Educazione Popolare, iniziato negli accampamenti delle basi di appoggio delle diverse organizzazioni rivoluzionarie. Gli insegnanti che venivano da un processo organizzativo popolare e dalla preparazione • 13 • A Santa Marta si svolgono anche altri progetti e ci sono diversi ambiti di lavoro volontario. Ci sono allevamenti ittici; una serra dove si coltivano cetrioli, pomodori e peperoncini che si vendono a basso prezzo agli abitanti; ognuno coltiva il suo pezzo di terra e dopo aver soddisfatto i bisogni della famiglia, ciò che resta viene diviso tra la comunità. Ci sono anche aree ricreative e la piccola chiesa cammina guidata dalla Teologia della Liberazione e l’Opzione per i Poveri. Come parte dei progetti comunitari, hanno realizzato Radio Victoria, un’emittente locale. “Qua le comunità hanno una lunga tradizione di lotta e resistenza, qualcosa che non può scomparire e sappiamo come difenderci”, conclude il giovane Elvis. UNISCITI A NOI SOSTEGNO ECONOMICO Desinformémonos ha bisogno del tuo sostegno economico per andare avanti. Unisciti a noi in questa impresa. COLLABORAZIONI Se hai una storia, un video, fotografie o registrazioni audio che vuoi condividere con Desinformémonos, contattaci. DIFFUSIONE Unisciti a noi stampando e diffondendo la rivista di strada in formato PDF! • 14 • No.18 • aprile-giugno • 2014 Russia l ’Università di strada sfida il potere Nata per protesta di un gruppo di docenti e studenti, presto è diventata uno spazio che sfida il potere da un luogo pubblico. Testo originale: Katerina Girich • Foto: Message from Moscow S an Pietroburgo, Russia. Dopo l’improvvisa chiusura dell’Università Europea di San Pietroburgo nel 2008, alcuni professori decisero di organizzarsi e tenere le lezioni in strada. La protesta si trasformò in una contagiosa nuova modalità educativa, un modo per appropriarsi dello spazio pubblico ed un pretesto per riflettere sulla situazione politica della Russia post-sovietica. Il primo giorno di scuola non durò molto, ma attirò oltre 70 studenti e professori, giornalisti ed attivisti. Anche dopo la riapertura dell’Università, i simposi continuarono ad “iscrivere” nuovi studenti. I professori che hanno mostrato interesse per il progetto sono stati quelli con una visione molto particolare dell’istruzione, dell’arte contemporanea e dei processi politici. Il nome Università di Strada rimanda ad un luogo aperto dove ognuno può partecipare ed in cui convivono le tradizioni antiche - socratiche, aristoteliche, platoniche - e le nuove. Vi partecipano famosi scienziati e filosofi. L’Università si è guadagnata la fama di ribelle ed anticonformista. L’idea si è fatta contagiosa. L’indebolito e mercificato sistema scolastico è stato terreno fertile per l’educazione di strada. Nei simposi si riflette sulla riforma della scuola, sul movimento studentesco, sugli studi alternativi, la resistenza civile, estetica e teoria delle forme d’avanguardia e di attivismo dal basso. In pratica si tratta di una protesta, ma con una modalità relativamente nuova per la Russia contemporanea. È civile ma perseverante, giocosa ma affronta questioni serie, come il modo di ristabilire la tradizione studentesca dell’autorganizzazione. Uno dei più recenti contagi è “Occupy Abai”, nato dopo la vittoria di Vladimir Putin, dopo le mobilitazioni antigovernative più massicce della storia recente della Russia capitalista. I manifestanti si fermarono e tutto sembrava indicare che la tempesta si fosse placata, fino a che all’orizzonte non spuntò la sagoma di Abai. Abai Kunanbaev è un poeta kazako poco noto, il cui modesto monumento adorna uno dei parchi centrali di Mosca. Durante l’investitura del presidente Putin, • 15 • i partecipanti del meeting oppositore si sedettero a riposare ai piedi del monumento, a parlare e fare musica. La riunione estemporanea si prolungò per più di un mese. La gente andava e veniva ed il luogo riscosse la fama di essere la sede della “scuola creativa”. Subito ci si organizzò per le pulizie, il cibo e la propaganda in rete. La maggioranza dei partecipanti non aveva niente a che vedere con i partiti politici, e stava lì ad ascoltare conferenze, cantare e convivere. In un altro contesto, questo evento non avrebbe avuto una tale portata politica, ma nella Russia di oggi ce l’ha. Il governo cerca in ogni modo di controllare lo spazio pubblico politico. Quelli che non seguono le regole del gioco e demoliscono i discorsi del sistema attuale, rappresentano un pericolo maggiore dell’opposizione ufficiale con le sue manifestazioni e meeting organizzati e studiati per bene. Chissà che queste innocenti esplosioni di protesta riescano a rompere le fondamenta della Russia postsovietica. No.18 • aprile-giugno • 2014 Argentina Zanón, una fabbrica di ceramiche che è anche una scuola di autogestione In Argentina un gruppo di operai licenziati ha rilevato la propria fonte di lavoro e da un decennio opera in democrazia diretta per decidere, con l’azione diretta per fare valere i propri diritti, e con l’unità di chi lotta per una vita migliore. Testo originale: Zanón- Fabbrica Senza Padroni e Gruppo di Lavoro in Appoggio della Scuola a FASINPAT • Foto: Fasinpat N euquén, Argentina. Fasinpat (Fábrica sin Patrón), Zanón Bajo Gestión Obrera, è una fabbrica in Argentina che da dieci anni è sotto il controllo operaio, costruisce relazioni sociali altre e rende concrete esperienze in cui la solidarietà di classe è un valore non negoziabile. Nel 2001 il governo di De la Rua confiscò i risparmi di migliaia di persone. L’inflazione fu insopportabile e milioni di famiglie operaie furono gettate per strada. Migliaia di fabbriche chiusero sotto lo sguardo complice dei sindacati. Gli operai di Zanón, fabbrica di ceramiche, furono di quelli che scesero in strada a lottare e decisero di occupare la fabbrica. Per cinque mesi, e con l’appoggio di organizzazioni sociali, disoccupati e giovani, si accamparono fuori della loro fonte di lavoro sopportando minacce e repressione. Dopo quel rapporto di forza, acquisirono l’esproprio della fabbrica contro l’opinione imprenditoriale e delle combriccole sindacali. In dieci anni gli operai che controllano la fabbrica hanno creato più di 220 posti di lavoro e destinano parte della produzione alla comunità. I lavoratori di Fasinpat riaffermano le proprie convinzioni: la democrazia diretta per decidere, l’azione diretta per far valere i loro diritti, e l’unità di chi lotta non solo in difesa del posto di lavoro, ma anche per la sanità, l’educazione, per un pezzo di terra in cui vivere, per la casa ed un piano di opere pubbliche. La scuola in fabbrica Zanón sotto il controllo operaio non è solo un luogo di lavoro. In questo spazio è nata una scuola secondaria ed una primaria per i lavoratori non solo di questa fabbrica, ma di altre dello stesso settore e per gli abitanti dei quartieri vicini. Dal 2001 gli operai di Zanón hanno rimesso in moto la fabbrica sotto il loro controllo ed è iniziato un lavoro molto stretto con la comunità. Sono state condivise proteste, assemblee e spazi di dibattito. Operai e docenti hanno analizzato i loro bisogni e le difficoltà del sistema a rispondere al diritto all’istruzione. Hanno deciso quindi di prendere in mano la situazione ed immaginare tutti insieme un’educazione che sia nella fabbrica, come spazio collettivo di costruzione di conoscenze. • 16 • La scuola si chiama “Jorge Boquita Esparza”, in onore di uno degli operai che più ha lavorato per realizzare il progetto, e vuole esercitare un diritto dal quale i lavoratori sono esclusi per essere imprigionati in un determinato posto nel mercato del lavoro, come individui senza capacità di decidere del proprio futuro. Con questo progetto gli operai vogliono affermare l’autogestione operaia e segnare un passo che li avvicini alla trasformazione della realtà, a partire da un’analisi collettiva. “Se non ci occupiamo noi della formazione, della cultura, dell’integrità della persona, avremo esercitato solo un nuovo e forse migliore metodo di redistribuzione, ma niente di più”, sostengono. L’ha già detto Paulo Freire: “non posso pensare se anche l’altro non pensa, semplicemente non posso pensare per un altro, né per l’altro, né senza l’altro”. No.18 • aprile-giugno • 2014 Argentina Università Transumante, cambiare il mondo domandando Rosario Neuquén Non fanno bilanci politici né propongono falsi scenari. Questi “alunni” imparano e disimparano, riflettono e fanno, teorizzano e praticano, tutto per realizzare il loro sogno: costruire qui ed ora un nuovo paese. Testo originale: María Coco Magallanes e Mario Canek Huerta • Foto: Università Trashumante Questo seminario è, soprattutto, un incontro di domande, ascolti, cuori e silenzi: perché e per cosa costruire una scuola al Transumante; e discussioni sulle attività come le carovane ed i laboratori che più di cento transumanti hanno realizzato lungo circa 30 mila chilometri in Argentina. Non ci sono luoghi comuni nell’incontro, non si fanno “bilanci politici”, non si propongono falsi scenari né ci si incentra sulla critica della dinamica politica statale e dell’alto. È un luogo per far fluire il pensiero profondo della realtà reale “a bassa voce”. È un dialogo di silenzi, di saperi e apprendimenti, di pratiche territoriali, dell’esperienza di lavoro popolare come radice di un nuovo progetto per formare educatori popolari per la lotta. R osario, Argentina. I partecipanti all’Università Transumante - progetto autonomo, pedagogico ed organizzativo nato nel 1998 - partono innanzitutto da una profonda diffidenza per ogni tipo di “democrazia”. Lavorano per recuperare il collettivo e costruire l’altro mondo che sognano per adesso, tutto dai saperi popolari. Il seminario è un forum per denunciare situazioni di repressione e carenze presenti su tutto il territorio argentino, ma è anche un atteso ritrovo di sogni, progetti, commissioni di lavoro e feste. Un’occhiata all’interno di un laboratorio rivela il funzionamento di questo progetto politico pedagogico, in un contesto di smantellamento, cooptazione statale e disarticolazione sociale, oltre alla repressione, iniziato durante la presidenza di Menem e che continua fino ad oggi. Dalle nove del mattino fino alle nove di sera, con sedute plenarie e gruppi di lavoro, il seminario parte. Le sessioni iniziano con esercizi ludici per distendere i corpi, il piacere ed il tatto personale, mai a distanza, freddo o “disciplinare”. Gli spazi di lavoro sono i campi dove i giovani del quartiere giocano a calcio e spazi dove si svolgono laboratori comunitari di arte e danza. Allo stesso modo, ‘con chi?’ è una domanda significativa dell’incontro, come sostiene il fondatore dell’Università, Roberto Tato Iglesias, “la Transumante è stata screditata da diversi gruppi locali e nazionali a causa della sua diffidenza per la politica dei partiti e per sostenere la sua posizione anticapitalista”, cosa che ha significato anche essere qualificata come “estremista”. E questo corrisponde alla sua forma orizzontale fatta nella pratica che è sfociata in una “organizzazione decentralizzata” (un rappresentante per ogni gruppo di circa dieci persone, la maggioranza delle quali è presente al seminario). Come riferiscono molti transumanti e lo stesso professor Iglesias, lo zapatismo “per noi è un riferimento politico, culturale e ideologico”. È così che l’Università Transumante svolge una politica pedagogica: impara, pratica, disimpara, ascolta, riflette, riconosce, teorizza e si prepara per tornare alla pratica: lottare per la realizzazione del suo sogno di un altro paese qui e adesso perché, come direbbe il professor Tato: “Bisogna ricordare e lottare, avere memoria e lottare, perché se non lottiamo ci fregano di brutto!” • 17 • No.18 • aprile-giugno • 2014 Stati Uniti Colors, un ristorante cooperativa nella Grande Mela Obiettivo di Colors è la creazione di una cooperativa di lavoratori-consumatori che coinvolga i clienti nella promozione di un luogo di lavoro più giusto. Testo originale: Adazahira Chávez • Foto: Colors N ew York, Stati Uniti. Un gruppo di lavoratori della ristorazione che hanno perso il lavoro a causa degli attentati dell’11 settembre 2001 a New York, ha creato il proprio posto di lavoro. Il ristorante cooperativa si chiama Colors e persegue un livello di vita dignitoso per i suoi lavoratori, in un ambiente “dove tutti hanno uguale quota di proprietà e potere decisionale”, racconta Cathy Dang, consulente di Colors. la professionalità per accedere a posti di lavoro con salari dignitosi nell’industria della ristorazione. L’industria della ristorazione negli Stati Uniti impiega oltre 10 milioni di lavoratori; tuttavia, meno dell’uno percento sono sindacalizzati e questo influisce sulle loro basse condizioni di lavoro. ROC United denuncia che i salari in questo settore sono più bassi di quelli di qualsiasi altro settore, e circa il 90% dei lavoratori Attualmente esistono due locali Colors, il primo a New York ed il secondo a Detroit. Il Colors di New York è un ristorante cooperativa, il primo nel suo genere, di proprietà dei lavoratori. Colors New York apre per cene ed eventi speciali, e qui si formano anche i lavoratori nell’ambito del programma di formazione professionale dell’organizzazione del lavoro Restaurante Opportunities Center United (ROC United) di New York e dell’Istituto CHOW (Colors Hospitality Opportunities for Workers). Da parte sua, Colors Detroit è un programma di ROC Michigan che funziona come un centro di formazione senza fini di lucro con il suo programma di formazione professionale. È aperto per pranzo e gli studenti del programma di formazione completano il praticantato retribuito lavorando come camerieri, acquisendo così non gode di indennità retribuite in caso di malattia, assicurazione medica o ferie pagate. In questo contesto - anche dopo l’attacco alle Torri Gemelle - è nato Restaurante Opportunities Center United (ROC United), fino ad ora l’unica organizzazione negli Stati Uniti che si occupa esclusivamente dei lavoratori di questo settore. I lavoratori che hanno dato avvio a Colors, volevano lavorare in ristoranti con buone condizioni di lavoro, che pagassero i lavoratori che ricevono le mance, un po’ più del salario minimo - che è di 2,13 dollari l’ora • 18 • per camerieri, baristi e fattorini - ed almeno 9 dollari l’ora i lavoratori della cucina che non ricevono mance, e che garantissero giornate pagate in caso di malattia ed opportunità di carriera. “Obiettivo di Colors è la creazione di una cooperativa di lavoratori-consumatori che coinvolga i clienti nella promozione di un luogo di lavoro più giusto, che adotti buone pratiche, che includono garantire salari dignitosi, benefici come i giorni pagati per malattia e passaggi di carriera interni”, sostiene Cathy Dang nell’intervista con Desinformémonos. No.18 • aprile-giugno • 2014 Stati Uniti New York Cibo, casa e lavoro autonomi nel cuore del mostro Durham, Carolina del Nord Nei quartieri afroamericani e latini del centro della città di Durham, frammentati dalla trasformazione urbana che vuole rimpiazzarli con gente con più soldi, una collettività di immigrati, lavoratori e studenti di comunità di colore ha creato una piccola isola che soddisfa i bisogni di base e rafforza i legami comunitari. Testo originale: Kilombo Intergaláctico • Foto: Kilombo Intergaláctico D urham, Stati Uniti. In un paese dove il governo può spiare ed arrestare i suoi cittadini senza alcun capo d’imputazione, dove la polizia li vessa ogni giorno per la loro razza, dove gli interventi di assistenza sociale vengono tagliati, la povertà aumenta, la gente perde la casa, i costi per la salute triplicano ed un afroamericano su tre passerà per la prigione in qualche momento della sua vita, è nato il Kilombo Intergaláctico, un collettivo di studenti, immigrati e lavoratori di origini diverse, in maggioranza persone di colore, che lavorano insieme per coltivare, difendere e ricostruire la propria comunità. Il nome del collettivo si deve alle comunità di schiavi fuggiti dal colonialismo nelle Americhe, ed all’idea degli zapatisti sull’importanza dell’organizzazione al di là delle ideologie e delle identità. Il luogo si chiama El Hoyo, e comprende appena dieci isolati della città di Durham, Carolina del Nord, ma dentro questi blocchi esiste tutto un mondo. In primo luogo, è stato aperto un centro sociale dove le persone possono conoscersi ed organizzare pranzi ed eventi comunitari. Sono poi arrivate le lezioni di inglese e spagnolo, alfabetizzazione, matematica, doposcuola ed una commissione di salute per organizzare visite mediche e dentistiche gratuite. Si è studiato un seminario politico per la comunità. Il centro sociale è pieno di gente che frequenta le lezioni, usa la biblioteca e internet, o semplicemente si ritrova per pranzare. C’è un parco recuperato dagli abitanti che viene usato come campo di atletica e centro di ritrovo delle famiglie. Il parco, il centro sociale e le strade formano un punto di incontro e di senso comunitario per la gente del quartiere. L’assemblea della comunità si riunisce ogni mese per discutere e valutare i progetti in corso ed i piani per il futuro. Qui si è rilevato che la difficoltà di accesso al cibo, alla casa ed al lavoro sono i fattori principali che hanno frammentato la comunità. Così sono stati avviati tre progetti: un orto biologico per distribuire gratuitamente gli alimenti, un progetto di abitazione collettiva e cooperative per dare un lavoro senza padroni. • 19 • L’orto comunitario è una fonte accessibile e sana di cibo. Dopo tentativi ed errori, a poco a poco è stato realizzato un grande appezzamento urbano che può fornire cibo alla comunità. Ci sono sempre cassette di biete e cavoli da distribuire, ed è stato avviato un allevamento di galline per fornire gli abitanti di uova e pollo. La commissione per la casa ha acquistato case che vengono affittate agli abitanti stessi, e la loro manutenzione è affidata al lavoro collettivo per ridurre il più possibile i costi della vita quotidiana. Tutte le case dei membri del Kilombo si trovano nella stessa strada vicino al parco, cosa che ha creato un territorio dove nascono diversi tipi di vita comunitaria. Abbiamo queste poche cose che ci uniscono. È molto poco, almeno in confronto con quelli di sopra, ma abbiamo un elemento importante: l’organizzazione e l’impegno. E questo, oggigiorno, è abbastanza. In vendita presso: [email protected]