Serie Tv. Il fascino ambiguo della fiction Usa

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Serie Tv. Il fascino ambiguo della fiction Usa
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Editoriale
Se bastesse la nazionale di calcio...
Luciano Caimi
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Primo Piano
Bioetica. Il “diritto di morire” e i doveri della politica
Mario Picozzi
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Dossier: Un mondo da condividere
Popoli in cammino. La sfida e le opportunità
Antonio Golini
20
Afriche. Un passato diverso e un futuro comune
Giulio Albanese
30
Acqua. Un dono e il suo prezzo
Antonio Massarutto
38
Informazione. Perché l’accesso non basta
Francesca Pasquali
46
Migranti. L’Europa e la sua (in)coscienza
Oliviero Forti
52
Governare il mondo: si può e si deve!
Franco Monaco
60
Riconoscere per condividere. La via del bene
Pina De Simone
64
Eventi e Idee
Scienza e fede, binomio possibile
Giovanni Bachelet
70
Myanmar, mondo perduto
Feliciano Monti
76
Serie Tv. Il fascino ambiguo della fiction Usa
Piermarco Aroldi
81
Il Libro e i Libri
Bibbia. Nella lingua degli uomini
Flavio Dalla Vecchia
Spunti per una cittadinanza senza confini
Irene Di Dedda
Quando i numeri si fanno lettere
Katia Paoletti
Profili
Carlo Carretto. Povertà è libertà
Gian Carlo Sibilia
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SOMMARIO
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Continuano a mietere successi, anche nel nostro Paese, le serie
televisive americane, di ricercata qualità tecnica e raffinata
scrittura drammatica. I temi medico-ospedaliero e investigativo
accompagnano la quotidianità d’una società che ha messo al
centro dei suoi interessi il corpo e tutte le sue funzioni, e una
ricerca ossessiva di verità e significato.
Serie Tv. Il fascino ambiguo
della fiction Usa
Piermarco Aroldi
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uesta riflessione sul ruolo delle serie televisive di fiction,
quelle che fino a qualche anno fa si sarebbero chiamate
“telefilm”, prende il via da due considerazioni. La prima,
suggerita da Milly Buonanno, riguarda la produzione italiana e sostiene che sia attualmente in corso una “bella stagione” per questo particolare segmento della programmazione televisiva generalista. A
partire dalla metà degli anni Novanta, infatti, la produzione italiana di
fiction Tv ha conosciuto una crescita continua, premiata da ascolti
altrettanto positivi e caratterizzata da standard qualitativi mediamente
più alti della ordinaria programmazione generalista. Alcuni dati possono riassumere bene questa situazione: dalle 128 ore annuali offerte da
Rai e Mediaset nella stagione ’94/’95 si passa alle 726 programmate
nella stagione ’05/’06, con il risultato di raggiungere quella “massa critica” che, se di per sé non è sinonimo di qualità, ne costituisce spesso
una conditio sine qua non, almeno all’interno dei processi propri dell’industria culturale e audiovisiva;
trenta sono le società di produzione Piermarco Aroldi
che hanno realizzato, sempre nella è docente di Sociologia dei media e
stessa stagione, almeno un titolo della comunicazione presso l’Università
trasmesso, a riprova di un compar- Cattolica del “Sacro Cuore”. È
to maturo anche se fortemente vicedirettore dell’Osservatorio sulla
frammentato; gli ascolti, seppure in Comunicazione presso il medesimo
lieve calo dovuto alla perdita pro- ateneo. Tra le sue pubblicazioni: Tv
gressiva di seguito da parte dell’in- risorsa educativa, San Paolo, Cinisello
tera Tv generalista, si mantengono Balsamo 2004.
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alti, con una netta supremazia di Rai Uno che, tanto per dare un’idea,
tra i suoi dieci programmi più visti del 2006 annovera, dopo la partita
Italia-Francia dei Campionati del Mondo (23.935.000 di spettatori) e
il confronto pre-elettorale Berlusconi-Prodi (16.129.000), ben quattro
serie televisive con ascolti superiori agli 8 milioni di spettatori: prima
fra tutte, al quinto posto, Papa Luciani (10.240.000 spettatori).
La seconda considerazione, suggerita da Aldo Grasso, riguarda la
produzione statunitense più recente, quella di serie divenute oggetto di
cult da parte di nicchie di pubblico sempre più esigenti e qualificate, da
E.R. in poi, attraverso Sex and the City, Friends, 24, West Wings, Lost,
Desperate Housewives, I Soprano, fino a Dr. House: si tratta di serie di
altissima qualità, quanto di meglio non solo la televisione ma l’intera
industria dell’intrattenimento possa attualmente offrire. E che, infatti,
in Italia sono sì trasmesse anche dalla Tv generalista ma hanno come
luogo d’elezione la Tv satellitare, a pagamento. Ciò che colpisce nelle
produzioni d’oltreoceano è la complessità e la padronanza della scrittura drammatica, la stratificazione dei rimandi letterari e delle citazioni
colte, la capacità di coniugare serialità e tensione emotiva in racconti
che funzionano alla perfezione; talvolta, soprattutto nelle forme più
vicine al dramma che alla commedia, attingendo a psicologie contrastate e approfondite a livello quasi letterario e a un linguaggio originale che nulla ha da invidiare a quello cinematografico.
In comune alle due aree di produzione c’è che la fiction seriale televisiva costituisce, al momento, il genere audiovisivo che più di ogni
altro – reality compreso – è in grado di dare forma e parola (e dunque
comprensibilità, o parvenza di ordine e prevedibilità) alla nostra esperienza individuale e alla nostra convivenza sociale: le identità collettive,
la “storia condivisa” che ci unisce, le inquietudini del presente, le parabole individuali delle biografie – comuni o eccezionali – con cui confrontare la nostra esistenza quotidiana. Ma qui si gioca anche la
profonda differenza tra i due stili produttivi e narrativi.
Per quanto riguarda la produzione italiana, infatti, sarà sufficiente
ricordare come serie e miniserie siano state il luogo recente di un’epica
popolare e nazionale, capace di rievocare il destino di intere generazioni (La meglio gioventù, Raccontami), la vicenda di eroi additati come
esemplari, sia laici (Gino Bartali, Callas e Onassis, Fausto Coppi, Il
Grande Torino) che segnati dalla santità (Giovanni Paolo II, Padre Pio,
Madre Teresa), le trasformazioni del sentimento familiare (da Un medico in famiglia a I Cesaroni, fino al Padre delle spose) o dell’eterno sogno
d’amore (Elisa di Rivombrosa).
Sul fronte statunitense, invece, il successo di serie come E.R Medici
in prima linea, Lost, Desperate Housewives, C.S.I. o Dr. House è un
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segnale potente di come la quotidianità possa essere riletta attraverso
la lente del dramma, con l’accentuazione particolare, e forse tutta
americana, della tensione insolubile tra individuo e squadra, tra il
protagonismo del collettivo e la necessità dell’affermazione individuale: uno schema narrativo che si presta, in modo speciale, a raccontare
l’età dell’adolescenza, una classe d’età che è stata quasi letteralmente
ricostruita discorsivamente dal sotto-genere del “teen drama”. Da
Beverly Hills a O.C., da Dawson’s Creek a One Tree Hill e Una mamma
per amica, la prima giovinezza costituisce una “condizione moratoria”
in cui sentimenti e comportamenti propri di giovani adulti vengono
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attribuiti a protagonisti adolescenti per la gioia di un pubblico di preadolescenti. Ma è attraverso questa narrazione, più che attraverso gli
strumenti della cultura scolastica o dell’educazione familiare, che avviene spesso l’educazione sentimentale delle giovani generazioni.
Alcuni dei sotto-generi più fortunati del fenomeno di matrice statunitense sembrano poi tracciare coincidenze particolarmente significative con gli snodi tematici che meglio intercettano il sentire comune
di questi anni: tra tutti, la dimensione medico-sanitaria, da una parte,
e quella poliziesco-investigativa dall’altra. Si tratta, con tutta evidenza,
di due ambientazioni che da sempre esercitano una particolare attrazione sul pubblico dei telespettatori, e i cui epigoni sono da leggere sullo
sfondo di una tradizione ampiamente consolidata; ma si tratta anche di
due luoghi simbolici (l’ospedale come spazio fisico e sociale deputato
alla lotta contro la debolezza umana: malattia, morte, dolore, paura,
meschinità; l’indagine poliziesca come il luogo processuale del disvelamento progressivo del mistero fino alla conquista della verità) in particolare sintonia con la rimozione sociale e culturale del dolore e della
morte, da una parte, e con la metafora del crimine come cifra segreta
dell’agire umano che, per dirla fin troppo semplicisticamente, costituiscono le due facce della medesima sensibilità contemporanea: la fiducia
scientista e razionalista nella medicina e nella tecnica come garanti
della qualità della vita e la sostituzione della categoria della colpa e del
peccato con quella del delitto e della pena.
Ma è dove questi due sotto-generi, il medico-ospedaliero e il poliziesco-investigativo, si intrecciano e si ibridano a vicenda che la fiction
televisiva targata Usa si presta a riassumere alcune delle paure e delle
speranze più tipiche dei nostri giorni. I casi più interessanti sono le
varie versioni di C.S.I. (New York, Miami etc.), l’analogo N.C.I.S., in
cui l’indagine poliziesca si fa forte degli strumenti della ricerca scientifica, da una parte; E.R. e soprattutto Dr. House, dove la pratica medicosanitaria si tinge di giallo e ogni paziente diventa un “caso” da risolvere
attraverso l’uso di ogni strumento diagnostico, anche quello meno
ortodosso, dall’altra.
Non si tratta di un fenomeno completamente nuovo: basti pensare
a due serie come Quincy, prodotta fra il 1976 e il 1983, con Jack
Klugman nei panni di un brillante anatomopatologo e Detective in corsia con il “vecchio” Dick van Dyke, realizzata tra il 1993 e il 2001, per
assistere a una convergenza delle due pratiche investigative, quelle
medica e quella poliziesca; ma sono piuttosto i toni in cui si declina
oggi questa analogia che rendono la sintesi tra la figura del medico e
quella del detective particolarmente stimolante; al centro dell’attenzione di entrambe, infatti, resta un condensato di umanità che sembra
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costituire la vera ossessione di questi anni: il corpo umano.
Il corpo malato; il corpo impazzito che si ribella contro le leggi stesse del suo potenziale vitale; il corpo che cela segreti inconfessabili; il
corpo senza vita e spesso smembrato, sezionato, esposto. Attraverso la
sua intima visibilità (sonde microscopiche, ricostruzioni al computer,
raggi X, sezioni ingrandite) o attraverso il suo rovesciamento (l’interno
reso esterno, le secrezioni, il suo trattamento secondo l’estetica splatter,
solo un po’ addomesticata per il piccolo schermo), il corpo viene messo
a distanza, spersonalizzato, consumato. Nello stesso tempo, però, non
diviene cosa, pura materia o pura biologia: esso è sempre promessa e
minaccia, luogo di una possibile identificazione o di una imminente
rivelazione circa la realtà delle cose, prefigurazione e anticipazione di
una condizione altrimenti evitata: una sorta di memento, totalmente
depotenziato della propria valenza morale o spirituale, analogo a quello con cui flirta parte della sensibilità artistica e figurativa di questi ultimi anni.
A dispetto delle apparenze e della loro cura, contro ogni riduzione
superficiale operata dalla spettacolarizzazione della realtà (i cosiddetti
reality show), al fondo di ogni processo di estetizzazione (e non a caso la
chirurgia estetica come ambito metaforico del disvelamento delle ipocrisie umane è il tema di un’altra serie di successo, il cinico Nip &
Tuck), il corpo umano, così come raccontato dalla fiction televisiva più
ricercata e drammaticamente ben costruita di questi ultimi anni, non
mente. Resta lì, pronto a incastrarci inesorabilmente con la sua finitezza, la sua ottusa resistenza, il suo principio di realtà.
Note biografiche
M. Buonanno (a cura di), La bella stagione. La fiction italiana, l’Italia nella fiction, Rai Eri, Roma 2007.
A. Grasso, Buona maestra. Perché i telefilm sono diventati più importanti del
cinema e della televisione, Mondadori, Milano 2007.
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