Una pura formalità In I cantieri dell`italianistica. Ricerca, didattica e

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Una pura formalità In I cantieri dell`italianistica. Ricerca, didattica e
CARMELA CITRO
Una pura formalità
In
I cantieri dell’italianistica. Ricerca, didattica e organizzazione agli inizi del XXI secolo.
Atti del XVIII congresso dell’ADI – Associazione degli Italianisti
(Padova, 10-13 settembre 2014), a cura di Guido Baldassarri,
Valeria Di Iasio, Giovanni Ferroni, Ester Pietrobon,
Roma, Adi editore, 2016
Isbn: 9788846746504
Come citare:
Url = http://www.italianisti.it/Atti-diCongresso?pg=cms&ext=p&cms_codsec=14&cms_codcms=776
[data consultazione: gg/mm/aaaa]
© Adi editore 2016
I cantieri dell’Italianistica
CARMELA CITRO
Una pura formalità
Una pura formalità (rivisitazione dell'omonimo film di Giuseppe Tornatore, del 1994) è un raro esempio di opera
cinematografica, trasformata in letteratura teatrale, e poi portata in scena in una piéce di notevole pregio. Glauco Mauri,
drammaturgo, attore, regista sempre attento e sensibile ai mutevoli cambiamenti della società contemporanea, più volte nella
sua carriera ha realizzato versioni teatrali di opere letterarie, ma solo l’incontro con il film di Tornatore, così intenso, con un
ritmo scenico sconvolto da continue emozioni che racchiude una lancinante e commossa visione della vita, lo spinge nella
direzione di poter considerare la possibilità di trasformare una scrittura cinematografica in una scrittura teatrale, che si
arricchirà di particolari che meglio avvicinano i personaggi del Commissario e di Onoff, protagonisti del film, alla personalità
dei due attori in scena. L’attività cinematografica di Tornatore e quella drammaturgica di Mauri sembrano procedere su un
comune binario perché entrambe hanno come meta quella di comprendere quel viaggio a volte stupendo e a volte terribile che è
la vita.
Una pura formalità, lavoro teatrale tratto dall’omonimo film di Giuseppe Tornatore, che nella
scorsa stagione di prosa ha riscosso plausi e dal pubblico e dalla critica, è un raro esempio di
opera cinematografica trasformata in letteratura teatrale, e in seguito in trasposizione scenica di
notevole pregio.
A compiere questa delicata e complessa operazione è stato Glauco Mauri, drammaturgo,
attore, regista sempre attento e sensibile ai mutevoli cambiamenti della società contemporanea,
e di continuo alla ricerca di ‘opere’ intrise di contenuti capaci di coinvolgere lo spettatore in
maniera sostanziale. Nel suo intento il teatro deve svolgere una funzione maieutica, nel senso
che il pubblico, assistendo dal vivo ad una storia raccontata da esseri umani ad altri esseri
umani, deve avere la possibilità di identificarsi completamente con quanto accade in scena. Il
teatro, con le sue favole, ha insita la capacità di saper tirare fuori dall’anima, dalla coscienza
degli astanti domande mai da essi formulate, vibrazioni mai avvertite. Mauri è convinto che il
teatro debba servire a rendere le persone, sì più colte, ma soprattutto più ricche di umanità.
Il Maestro più volte, nel corso della sua attività teatrale, ha realizzato diverse trasposizioni
sceniche, tratte da importanti opere letterarie, come Delitto e Castigo di Dostoevskij e il Faust di
Goethe, ma è la prima volta che l’artista si impegna in una versione teatrale tratta da un film.
Qual è stato il germe che ha dato vita a questa delicata e impeccabile messa in scena?
Quando Mauri vide per la prima volta Una pura Formalità, inizialmente, non ne rimase colpito in
maniera ‘completamente positiva’, allineandosi col giudizio dei critici allorché Tornatore
presentò il suo lavoro, in concorso, al 47° festival di Cannes.
Il film, in quell’occasione, fu accolto, per la sua inquietante novità, con una certa difficoltà da
parte della critica. Oggi, invece, è considerato uno dei suoi film più belli in assoluto, un ‘piccolo
capolavoro’. Ne erano protagonisti Gérard Depardieu nel ruolo dello scrittore Onoff
(interpretato nella versione teatrale da Roberto Sturno) e Roman Polanski il Commissario (nella
trasposizione scenica è Glauco Mauri a vestirne i panni), con un giovanissimo Sergio Rubini e
l’indimenticato Tano Cimarosa.
Tornatore, in verità, contrariamente ai giudizi ottenuti in quel contesto, è stato sempre
convinto della qualità del suo lavoro cinematografico, come si evince dalle intense parole
riportate di seguito, che testimoniano un evidente contrasto emotivo tra l’esaltante travaglio
creativo del film e la lacerazione per la freddezza con cui era stata giudicata l’opera dal pubblico
e dalla stampa dell’epoca:
Una pura formalità – dice Tornatore – è stato un amore a prima vista. Un vero colpo di
fulmine. L’anomalo regalo di un’infinita notte d’insonnia. Un film del tutto diverso rispetto
ai miei lavori precedenti nei quali ‘la storia’ era la base di tutto. Più che su ‘ una storia’
questa volta ho lavorato su ‘ una condizione’ dell’essere umano.
Credo infatti che questo film sia nato proprio da quello, su quello e contro quello stato
d’animo sospeso tra il fare il non fare; l’essere e il non essere, in cui si vive nel ‘limbo’ che
congiunge l’ultimo ciak dell’ultimo film al primo ciak del film successivo.
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Una dolorosissima avventura che mi ha fatto ‘rinascere’.
Sebbene non abbia riscosso alcun successo, sia stato quasi totalmente ignorato o frainteso
dal pubblico e dalla stampa, e in alcune circostanze anche deriso, sono orgoglioso di averlo
fatto. Lo ritengo senz’altro il mio miglior film.1
Un’affermazione, come si percepisce, molto decisa, nella quale Tornatore sottolinea di aver
lavorato non su una semplice ‘storia’, bensì sulla ‘condizione dell’essere umano’, su
quell’affascinante materia rappresentata dalla complessità della psiche umana.
Questa scelta artistica si coniuga perfettamente con la poetica di Glauco Mauri, il quale ha
iniziato a focalizzare la sua attenzione sull’opera incentrandola sul rapporto tra gli uomini, tema
che, da anni, è alla base del suo lavoro teatrale. Egli, didatti, è convinto che gli uomini si parlino
poco, forse perché hanno paura di capire, nonostante egli sia del parere che la vera dignità
dell’uomo stia tutta nel sapersi interrogare e nel sapersi parlare. Sono sue parole:
Quello che mi ha colpito, studiando quest’opera, che inizialmente mi aveva lasciato
perplesso, è stato il rapporto tra il Commissario e Onoff.
Avevo già affrontato Delitto e Castigo come regista e interprete del ruolo di Porfirij, il
commissario che interrogava Raskol’nikov, e il rapporto tra questi due nuovi personaggi mi
ha talmente emozionato perché mi ha ricordato molto i personaggi di Dostovskij.
Parlai con Tornatore che rimase alquanto colpito da questa mia idea, anche se fu subito
d’accordo e al contempo curioso di vedere come si sarebbe sviluppato il lavoro.
Sono convinto che ogni autore debba mantenere un rispetto per l’opera che va a
realizzare in una nuova veste, ma al contempo ha anche la libertà di interpretarla a modo
suo, con i propri sentimenti e la propria sensibilità.
Personalmente ho cercato di mantenere il massimo rispetto nei confronti della
sceneggiatura, ma approfondendo sempre più la lettura del testo sono sorte in me nuove
sfumature poetiche che hanno fatto germogliare nel mio animo emozioni inaspettate, che
man mano diventavano sempre più mie.
Questo mi ha persuaso, ancora una volta, che la funzione di un interprete sia proprio
quella di farle emergere e alla fine condividerle con gli altri.2
L’opera di Tornatore presenta una sceneggiatura perfetta incentrata su un ragionamento
geometrico e una scomposizione matematica. Gli interrogativi che il regista si pone per dare
avvio al suo lavoro risultano essere molto complicati, potremmo definirli quasi inquietanti: «È
possibile raccontare una storia che si snoda tra lo stato della vita e quello della morte, nella
frazione di tempo infinitesimale all’interno della quale l’essere umano non è più vivo ma non è
ancora morto? Un caso estremo, un racconto mai scritto. E un giallo in cui l’assassino e
l’assassinato sono la stessa persona?»3
Da questi profondi ed intensi quesiti nasce un racconto ricco di metafore, di simboli, di indizi,
di spunti letterari di primissimo ordine, di dialoghi costruiti sapientemente, racconto che viene
tradotto in un meccanismo cinematografico, definito a dir poco perfetto. Lo spettatore è avvinto
sin dalla prima sequenza, ‘una lunga soggettiva’ con cui entra nel film e per tutta la sua durata
resta lì, inchiodato su una sedia dello sgangherato Commissariato di Polizia, spazio in cui la
maggior parte dell’azione si svolge, e diventa testimone diretto del lungo ‘duello’ verbale tra i
due abili interpreti: un corpulento Gèrard Depardieu, lo scrittore Onoff, e Roman Polanski, il
Commissario, implacabile conduttore di un lungo ed estenuante interrogatorio.
Il film, come si diceva, si esprime attraverso tanti simboli. Tra questi sicuramente il più
manifesto è la pioggia, protagonista e vera e propria colonna sonora diegetica che accompagna,
dall’inizio alla fine, il film. Pioggia scrosciante, acusticamente molto presente anche con il
G. TORNATORE, in libretto di sala di Una pura formalità, versione teatrale e regia di Glauco Mauri,
Roma, Comunicare s.r.l., 6 e 8.
2 Da un’intervista rilasciatami da Glauco Mauri, camerino Eleonora Duse, Teatro La Pergola, Firenze, 30
gennaio 2014.
3 N. PANZERA, in libretto di sala Una pura formalità…., 8.
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contrappunto di tanta acqua che gocciola all’interno del Commissariato e che scandisce
aritmicamente il passare del tempo non segnato invece da un orologio alla parete privo di
lancette: l’acqua, da sempre è ritenuta fonte di purificazione; metafora, in molte religioni, della
transizione tra il mondo dei vivi e quello dei morti.
Un altro simbolismo si riscontra nell'alternarsi di buio e luce. Contrasto tra il mistero e la sua
risoluzione. Quando nel tessuto della trama il mistero è fitto, la luce è scarsa o manca del tutto.
Quando la storia si disvela, il buio, la notte, lasciano il posto alla luce, all’alba, momento d’attesa
per un nuovo giorno, un giorno migliore.
Uno dei momenti più intensi del film è il tentativo di fuga di Onoff (nome che indica
l'On/Off, acceso /spento, quasi un richiamo a luce e buio), che avviene nel momento in cui la
luce va via: i poliziotti sotto una pioggia incessante, con torce elettriche frugano nel buio, vanno
alla ricerca del fuggitivo che riescono a individuare solo grazie ad un fulmine che proietta la sua
ombra. Una sequenza intensa e rivelatrice appunto del profondo valore simbolico che
Tornatore assegna, nella storia, al contrasto tra buio e luce.
Un altro elemento, che trova significativo spazio nel racconto e che consentirà di svelare le
origini di Onoff, è il latte, che fra l'altro viene offerto allo scrittore al suo arrivo al
Commissariato come atto di gentilezza. Il latte è il primo contatto dei bambini appena nati con
il mondo esterno; di fatto, questo elemento scandisce, e non solo simbolicamente, l’inizio di una
nuova vita.
Il film è poi intriso di una dimensione molto cara a Tornatore, la memoria, filo conduttore
dell’opera. Un tema che si dipana lungo tutta la storia. Un’identità persa e riscoperta attraverso
il ricordo, flashback costruiti con un montaggio rapidissimo, autentici squarci che si aprono nella
mente del protagonista che attraverso essi, progressivamente ritrova se stesso, il suo passato, i
suoi gesti. Nel film un dialogo è rivelatore del rapporto con la memoria, quando il commissario,
rivolgendosi ad Onoff e citando una frase del suo libro più importante, recita: <<Per non
morire d’angoscia o di vergogna gli uomini sono eternamente condannati a dimenticare le cose
sgradevoli della loro vita e più sono sgradevoli e prima si apprestano a dimenticarle>>. E Onoff
ne aveva di cose da dimenticare: le origini, la crisi creativa, il controverso rapporto con uno dei
suoi più celebrati romanzi Il palazzo delle nove frontiere e con un barbone di nome Faubin.
E non a caso il titolo della canzone, il cui motivo ritorna a più riprese durante il film, ma che
viene cantata integralmente solo alla fine da Onoff (Gérard Depardieu), è Ricordare. La sua
prima frase, estremamente emblematica, è: ‘Ricordare, ricordare è come un po’ morire’.
Moltissimi sono anche i richiami letterari che istintivamente emergono dalla visione del film.
Onoff che si ‘inventa’ una personalità per nascondere le sue origini ricorda Pirandello e il suo
Mattia Pascal. L’interrogatorio e l’accorata difesa richiamano invece Franz Kafka e il suo Il
processo. Pure sono presenti reminiscenze cinematografiche, come nella creazione di una suspence,
che ricorda molto da vicino due capolavori assoluti del regista Alfred Hitchcock, Io ti salverò e Il
sospetto.
Giuseppe Tornatore, altresì, si regala nostalgicamente anche qualche autocitazione. Onoff, nel
corso del lungo interrogatorio a cui è sottoposto, vede riversare sulla scrivania una montagna di
sue fotografie e confessa che esse sono la testimonianza di una strana abitudine che ha avuto per
quasi tutta la vita. «Portavo sempre con me una piccola macchina fotografica. Raccoglievo i
volti di chiunque incontrassi, ovunque andassi. Un modo bizzarro di tenere un diario. In quelle
foto ci sono tutti i miei amici, i miei avversari, le persone che amo e ho amato, e quelle che non
ho saputo o non ho voluto amare. Gente che mi ha stretto la mano e mi ha sorriso, e quelli che
mi hanno solo guardato senza dire niente». Questa sorta di monologo risulta uno dei momenti
più lirici del film, forse perché dettata dal vissuto dello stesso Tornatore, che, sedicenne, era
solito, nella sua amata Bagheria, camminare con la macchina fotografica Rolleicord al collo e
fotografare e ritrarre con passione chiunque incontrasse.
In un altro monologo Onoff/Depardieu (impeccabilmente doppiato nella versione italiana da
Corrado Pani, mentre Roman Polanski è affidato a Leo Gullotta) confessa l’anomala storia di un
barbone di nome Faubin e alcune verità si svelano, a cominciare dal suo vero nome, Biagio
Febbraio. Parole misurate, che a poco a poco aggiungono tassello su tassello e che conducono
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alla risoluzione del mistero, lasciando però intravedere tanto travaglio, una vita di successo e un
passato le cui ombre vincono il presente.
Da qualche anno questo piccolo (per durata) capolavoro di Giuseppe Tornatore, dopo tanta
indifferenza, comincia ad essere pienamente compreso ed amato. E il Maestro Mauri è
sicuramente uno dei suoi più sensibili estimatori, sia per la tematica così vicina a tante sue
proposte teatrali, sia per la sua duttilità drammaturgica, considerando che, per esempio, senza
ombra di dubbio sono intrinseche nel testo le tre unità aristoteliche di luogo, di tempo e di
azione.
Lungimiranti sono state le parole che Franco Cristaldi, produttore del film Nuovo cinema
paradiso, rivolgeva a Tornatore per incoraggiarlo: «Un giorno farai un film che andrà malissimo,
e alla fine della tua carriera diranno tutti che era il tuo capolavoro». Queste parole sono risultate
profetiche anche senza un preciso rispetto dei tempi. Una pura formalità è già, a detta di molti, il
capolavoro di Giuseppe Tornatore, ma il regista non è alla fine della carriera, al contrario
continua a regalare, film dopo film, storie ed emozioni sempre più intense.4
L’antefatto che dà avvio alla trasposizione teatrale di Una pura formalità effettuata da Glauco
Mauri, molto fedele all’opera di Tornatore è: in una notte di tempesta, in un bosco echeggia un
colpo di pistola e vi giace un cadavere. Un uomo corre dissennato sotto una pioggia battente,
fino a quando raggiunge una strada ed incontra alcuni gendarmi che gli chiedono i documenti.
Frugandosi in tasca si rende conto che probabilmente li ha dimenticati in un’altra giacca.
L’intera vicenda si svolgerà in un fatiscente, arido e solitario distretto di polizia, in una
squallida stanza. Risulta facile pensare che, in fondo, una stanza è una stanza. Ma c’è qualcosa
di inquietante tutto è sbilenco, la prospettiva irregolare, libri e faldoni ingrigiti dagli anni, sui
muri misteriosi graffiti composti da tanti nomi, sulle scrivanie penne che non scrivono, una
macchina da scrivere che lascia fogli in bianco e un orologio senza lancette, come se il tempo si
fosse fermato. È in questo strano ambiente che si consuma la notte della verità di Onoff, in un
serrato interrogatorio a cui il Commissario lo sottopone.
Più che essere un’indagine per omicidio, si potrebbe parlare di un interrogatorio continuo, di
un dialogo che avviene tra due simulatori, con digressioni poetiche, con componenti proprie di
un thriller, con buio e luci.
Dal punto di vista della progettualità drammaturgica e scenica la traduzione in coordinate
teatrali di Una pura formalità di Giuseppe Tornatore condotta da Glauco Mauri risulta essere un
esemplare di sintesi dialettica, stringente e stringata, sul filo di quella che Pisolini avrebbe
definito la corrispondenza ‘loica’ tra linearità dialettica del confronto a due e visceralità delle sue
implicazioni esistenziali.5
Il lavoro, oltretutto, è realizzato, come già detto, nella più rigorosa osservanza delle unità
aristoteliche di luogo, di spazio e di tempo, spontaneamente ricalcate dalla sceneggiatura del
film.
A tal proposito Mauri afferma:
Il film si svolge quasi interamente nello stanzone del Commissario di Polizia, e questo, dal
punto di vista della regia, mi ha aiutato molto: l’impostazione cinematografica è già
teatrale. Per cui ho cercato di far rivivere tutta la forza drammatica della sceneggiatura
modificandone quelle parti che si presentavano con dei connotati troppo cinematografici,
preservandone al tempo stesso quell’intensità che dall’inizio ci avvolge nel suo misterioso
intreccio.
Il cinema ha le sue ricchezze espressive, il teatro ne ha altre che sono sue proprie. E su un
palcoscenico, nel nostro caso, la parola assume un valore non solo di racconto ma anche di
invito alla fantasia e alle domande. Domande necessarie all’uomo per aiutarlo a cercare di
comprendere quel viaggio a volte stupendo e a volte terribile, ma sempre affascinante che è
la vita.
4Cfr.
5
PANZERA…, 8-14.
Cfr. A. PIZZUTO, Pura formalità, Sipario.it, 4 aprile 2014.
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Anche a questo serve il Teatro!.6
La trasposizione del Maestro, quindi, è incentrata sul confronto tra l’uomo dello stato, il
Commissario, alla strenua ricerca della verità e il suo antagonista, un autore di successo, Onoff
(nome, come si è già visto, che è una crasi tra le due paroli inglesi che significano, in una
terminologia di uso comune, acceso e spento) in crisi per mancanza di ispirazione, il quale mette
a nudo fragilità e debolezze, passioni e dubbi fin troppo umani, e lo fa in un drammatico
crescendo, con un colpo teatrale finale dove i pezzi lacerati di una vita si compongono in una
serenità inaspettata e commovente, un capovolgimento radicale di quello che sembrava un
giallo.
Come si può immaginare, lo spettatore viene a trovarsi di fronte a un viaggio nei labirinti della
mente e del cuore. Una pura formalità gioca sull’ambiguità dell’indagine poliziesca e della
dimensione del sogno, in un’atmosfera surreale, densa di pathos, in cui un uomo lotta
apparentemente contro il destino, o forse contro se stesso, prigioniero dei suoi incubi e delle sue
paure. Il susseguirsi delle domande, in cui si alternano bonomia e sospetto, sembra obbedire a
uno schema casuale; ma, implacabilmente, il cerchio si chiude, affiorano prove e documenti, si
svelano segreti anche inconfessabili e lo scrittore, inventore di trame avvincenti e maestro di
stile, particolarmente amato dallo stesso Commissario, che conosce a memoria tutte le sue
opere, per sottrarsi a questi insidiosi tranelli, che gli vengono tirati con grande maestria dal suo
antagonista, finisce con l’impigliarsi in una matassa di involontari e improbabili bugie.
Certamente la complessità della psiche umana è una realtà affascinante, che offre lo spunto per
un’analisi dei comportamenti e degli istinti. Testimone e nel contempo imputato in una sorta di
processo kafkiano, prigioniero di un meccanismo inarrestabile, Onoff è costretto a fare i conti
con se stesso e il proprio passato. Il dilemma della scelta si ripete davanti a ogni interrogativo,
l’avversario coglie ogni segnale di debolezza, affonda la lama della ragione nei nodi più dolorosi;
come un alter ego lucido e cosciente, scava tra i ricordi per far affiorare preziosi o insignificanti
brandelli di un’esistenza.
Un semplice interrogatorio di routine, una pura formalità, come dice il titolo, si trasforma via
via in un’indagine più complessa e il legame tra il commissario e il testimone si fa sempre più
stretto (situazione che richiama il confronto immediato con Delitto e Castigo e i personaggi
dostovskiani), sul filo della suspence, tra rapidi capovolgimenti di prospettiva. Tocca a noi dover o
poter intuire, decidere se lo scrittore sia colpevole o innocente, e di quale delitto si è macchiato.
Il Commissario incarna la figura di un moderno maieuta socratico, capace con la forza e la
seduzione delle parole di indurre il suo interlocutore a cercare dentro di sé le risposte, portando
alla luce verità celate o rimosse, in un cammino verso la conoscenza il cui intento è forse
terapeutico, ma il cui esito potrebbe rivelarsi fatale come la comprensione di un omicidio. A tal
proposito risulta essere emblematica una battuta, già citata, scritta da Onoff in uno dei suoi
romanzi che il Commissario gli recita a memoria durante l’interrogatorio: «[…] Gli uomini, per
non morire d’angoscia e di vergogna, sono eternamente costretti a dimenticare le cose
sgradevoli della loro vita, e più sono sgradevoli, più si apprestano a dimenticarle. […]».7
Secondo Glauco Mauri:
Questo testo vuol far capire agli spettatori che bisogna avere il coraggio di aprirsi e di
conoscersi, perché solo così possiamo davvero comprendere cos’è la nostra esistenza. È
difficile riuscire a guardarsi dentro, come uno specchio dell’anima, e capire quali sono i
nostri errori, le cose brutte e le cose belle che abbiamo fatto. Anche se è più facile
nascondersi è necessario invece affrontare i nostri lati più intimi, per arrivare alla propria
verità, all’essenza della vita. In particolar modo Una pura formalità contiene una grande
comprensibilità umana: un uomo che aiuta un altro uomo a conoscere se stesso e la propria
vita, un individuo che aiuta chi gli sta accanto a capirsi profondamente.8
Da un’intervista rilasciatami da G. Mauri…
MAURI, Una pura formalità…, 46.
8 Da un’intervista rilasciatami da G. Mauri….
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Questo spettacolo, più degli altri, ci mostra quale sottile ed importante valenza possano avere
tutti gli elementi che concorrono all’allestimento della messa in scena, fondendosi con grande
armonia tra loro, e come ognuno di esso risulti essere protagonista indissolubile dell’opera
creata.
A partire dalla scena analizziamo con le parole di Glauco Mauri il modo in cui tutto ciò
accade, in maniera naturale e impeccabile:
Una squallida stanza di uno squallido Commissariato di Polizia. Si direbbe facile, in
fondo, ma occorre pensare che in questo luogo tutto si è fermato, tempo compreso, le alte
mura grigie sono piene di graffiti che ricordano nomi di centinaia di persone che sono
passate di là e che hanno compiuto lo stesso viaggio che si appresta a compiere Onoff. Fare
di questa stanza un ‘luogo’ dove realtà e mistero possano convivere, era un vero problema.
Giuliano9 ha accettato la sfida e già durante le prove, quando per la prima volta abbiamo
montato la scena sul palcoscenico, ho avuto la sensazione che qualcosa di buono era nato.
Una scena che fa sentire gli attori emozionalmente coinvolti dal luogo del racconto e li
aiuta così a dare vita ai loro personaggi è una scena certamente giusta.
E io penso che tutto ciò che è giusto è anche bello!
E’ risaputo che tutto si svolge in un Commissariato di Polizia e la storia ha tutti i requisiti
di un vero thriller. Ma con il procedere del racconto, inquietanti, assurdi particolari mi
fanno dubitare e pongono a me e ai miei compagni di viaggio diversi interrogativi.
C’è un Commissario e ci sono degli agenti, ma chi sono veramente queste persone?
Tutto nell’aspetto dei personaggi sembra aderire alla realtà: il commissario è sobriamente
vestito come un vero commissario e gli agenti indossano uniformi, anche se non
tradizionali, come dei veri agenti. Anche gli abiti di Onoff sebbene sporchi di fango e
fradici di pioggia, pur nella loro trasandatezza, sono quelli di una realtà quotidiana.
All’inizio si pensava di essere più fantasiosi ma abbiamo verificato che questo non aiutava
alla chiarezza della storia ma, anzi, ne avrebbe complicato la comprensione.
Tutto deve apparire vero. E allora?
La nostra costumista, Irene Monti, ha dovuto imbrigliare la propria fantasia e mettersi, con
onestà professionale, al servizio del testo. Creare un’armonia tra tonalità di colore dei
personaggi e la grigia e cupa atmosfera della scena ha certamente contribuito al misterioso
realismo del racconto.
Inoltre, c’è da dire che in uno spettacolo la musica non deve essere un commento
all’azione, ma un interprete della favola che si sta raccontando.
Ciò è molto importante, perché ogni spettacolo ha la sua atmosfera e la musica, arte
sublime, ci aiuta a crearla.
In Una pura formalità c’è un motivo di base che è una musica inconsueta: la pioggia!
Il rumore incessante della pioggia, il cupo brontolio di tuoni lontani diventa la drammatica
compagna della lunga notte di Una pura formalità
A rompere questo tappeto sonoro c’è una strana canzone: Ricordare, ricordare è un po’ come
morire che ad un certo punto si trasforma in una dolce melodia di sogno.
Sono profondamente grato al Maestro Germano Mazzocchetti, nostro preziosissimo
collaboratore, di avere contribuito con la sua sensibile discrezione al nostro spettacolo.
Ultimo elemento fondamentale in una messa in scena teatrale sono le luci.
Nello strano commissariato di Una pura formalità a causa del temporale le linee elettriche
saltano più volte ed è un continuo passare dal buio alla luce. Questa alternanza, tra luce e
buio è la compagna del lungo interrogatorio che si svolge nella notte tormentata di Una pura
formalità. La terne provvisorie attaccate alle pareti gettano lame di luce che proiettano le
ombre dei personaggi sulle grigie mura creando un atmosfera di una strana realtà. A volte
invece le torce degli agenti forano il buio come crudeli strumenti di tortura. Poi
improvvisamente, quasi accecante, ritorna la luce e la storia procede in una continua
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Giuliano Spinelli, scenografo dello spettacolo.
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tensione alla faticosa ricerca di un passato che si vuole dimenticare, solo alla fine tutto si
placherà: la pioggia finisce all’improvviso e un sereno silenzio diventa musica e anche la
luce finalmente si distende in un quieto soffuso chiarore sino a diventare splendente nel
momento in cui Onoff è finalmente pronto a lasciare quel luogo pronto ad affrontare il suo
nuovo viaggio. 10
Quest’opera credo rappresenti, oltre quanto è stato detto, anche il desiderio più grande che
attraversa la mente e l’inconscio dell’uomo, uno dei piaceri più sottili e anche tra i più macabri
che si possano immaginare, forse più del desiderio faustiano di poter tornare giovani, cioè quello
di poter avere l’opportunità di prendere parte al proprio funerale, o il poter vedere la propria
tomba, per osservare i commenti dei partecipanti, o per capire cosa resta di noi quando non ci
saremo più.
Una tal cosa è sicuramente impossibile, può accadere solo in letteratura, come ad esempio è
successo a Mattia Pascal che, per ben due volte, vede il proprio sepolcro e ne viene rigenerato.
In Una pura formalità lo scrittore Onoff non si sa bene cosa vede, forse il sacrario della propria
esistenza, o il simulacro di un’identità che non ha mai avuto; precisiamo che Onoff è il nome
d’arte, il suo vero nome è Biagio Febbraio, un trovatello nato per l’appunto un giorno di
febbraio, il 3, che nel calendario cristiano commemora proprio San Biagio. Forse egli vede lo
specchio distorto del suo universo narrativo, o ancora un universo narrativo talmente grande e
affascinante da averlo inglobato fino al punto di credere che sia stata proprio la sua penna ad
averlo creato.
Uccidere sé stessi può essere un sogno ma anche un incubo e Onoff non sembra essere così
malvagio verso se stesso, anzi egli viaggia nel bosco oscuro della sua esistenza guidato da
qualcosa di astratto a lui ignoto. Alla fine di questo viaggio, probabilmente, lo scrittore è stato
restituito a sé stesso, forse continuerà a vagare in terra straniera, ma in una terra più luminosa.
Come si diceva all’inizio, gli intenti dei due registi, Glauco Mauri e Giuseppe Tornatore,
coincidono; entrambi hanno in comune, seppure ciascuno con proprie peculiarità, la voglia di
comprendere appieno il viaggio intimo che ogni singolo uomo percorre attraverso gli
accadimenti della propria esistenza per avere una visione più profonda e completa della sua vita.
Chiedendo al Maestro Mauri qual è la differenza sostanziale tra la sua versione di Una pura
formalità e quella del regista siciliano, egli risponde semplicemente: «Nella mia versione teatrale
c’è un approfondimento più umano tra l’uomo e l’uomo».11
Una tale affermazione dimostra come la trasposizione di un’opera letteraria a opera
cinematografica, o viceversa come nel nostro caso, tanto più è valida quanto più dona a un
interprete la possibilità di scoprire sfumature umane e poetiche in essa nascoste, senza alcuna
subordinazione di un’arte verso l’altra.
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MAURI, Una pura formalità…, 46.
Da un’intervita rilasciatami da G. Mauri…
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