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Luca Palagi. Foto I.Favè
«Quando ho visto Iolanda la mia ammirazione non ha avuto limiti. I suoi capelli: lisci e luminosi da
togliere luce al sole. I lineamenti: forti e sorridenti. Lo sguardo: solare e allegro, quell’allegria che
trovi quasi mai in Italia e quasi sempre in Brasile, da sola basterebbe per giustificare un
trasferimento permanente in questo paese. La sua voce: matura e ironica, capace di esprimere i
sentimenti così come sono vissuti, senza mediazioni. Il suo invito: “vieni dentro a prendere un
caffè, senza tante storie, ormai sei qui, sei venuto a trovarmi e quindi ti fermi un attimo in più”.
Il suo passo veloce. L’età: 85 anni. E ride Iolanda, trova divertente che un italiano sia arrivato fino
in fondo alla valle dove vive e le chieda se parla ancora italiano. Non lo parla lei, né nessuno degli
abitanti della comunità che vive qui da 5 generazioni. La nave che ha portato qui sua nonna è
affondata tornando in Italia, come a mettere il sigillo sul fatto che sarebbe stata una emigrazione
permanente. Le tre famiglie immigrate con Iolanda sono arrivate dalla Calabria (anche se lei e
nipoti hanno occhi azzurri e cognomi brianzoli) e hanno iniziato qui, in questa valle nascosta, la
loro avventura di colonizzatori. Chissà come erano luminose le stelle nel 1883 e che insidie
nascondeva la foresta, la foresta che ora non c’è più perché ci sono prati rasati dalle mucche e
perché c’è il caffè. Mi perdo a pensare a questi contadini calabresi: attraversano mezzo mondo e
cosa si mettono a coltivare? Caffè.
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Iolanda con il nipote. Foto L.Palagi
Chissà a chi è venuto in mente di fare il caffè, sarà stato lo Steve Jobs della situazione a dirgli:
“ragazzi, tra 50 anni, questa sarà la zona dove si produce piu caffè al mondo. Forza, a laurà
lazarun”. Così i campi di caffè si chiamano ancora oggi “laüra”, con la “u” stretta alla milanese e
l’accento sopra. Pianta caffè oggi e piantalo domani, hanno ricoperto tutte le montagne intorno
alla valle.
Accetto l’invito di Iolanda, ma è una delusione: non mi offre il suo caffè, ma quello solubile, che
così spesso si trova a casa dei produttori caffè! In compenso c'è la torta e il “foubà”.
Questa parola, “foubà", mi lancia in un altro viaggio, devo averla sentita in Senegal, sa di polenta,
chiedo a Iolanda: vuol dire proprio farina di mais; bisognerebbe indagare, le parole non nascono
per caso, quando ci sono intrecci di migrazioni. Forse una donna preparava il foubà in Sierra Leone
e poi sua nipote, schiava nelle piantagioni di canna da zucchero in Brasile, se la ricordava e quando
è scappata in un “quilombo” qui nel Minas Gerais, la parola è arrivata sulla tavola di Iolanda, a
rendere il suo caffè ancora piu intrigante.
“Un bel posto questo”, dico a Iolanda, capisco perché i nonni si sono fermati qui. Allora questo
posto deve essere stato un angolo incontaminato, certo un po’ buio e un po’ freddo, perché siamo
a 1000 metri di altezza e intorno le montagne sono alte e tolgono la luce, anche se non arrivano a
far ombra alle piante di caffè. Qui in Brasile la pianta di caffè viene lasciata al sole, ma poichè non
è nata per stare sotto la luce diretta ha bisogno di concime per fare il caffè. Con questa
alimentazione forzata le piante brasiliane danno in media 3 volte piu di quelle centroamericane;
finalmente qualche contadino illuminato o stanco di spendere per i concimi chimici ha pensato di
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Dal dossier “Popolazioni in movimento per #UNALTROVIVERE” - Altromercato 2016
staccare la spina e lasciarle vivere e così ha scoperto che ce la fanno da sole e che si può fare il
caffè bio anche in Brasile, anche se si perde un 30% di rendimento. Ma se il prezzo compensa la
perdita, anche qui il bio è conveniente. Iolanda queste cose le sa di sicuro, con i suoi 85 anni e un
nipote che coltiva caffè.
Siamo appena tornati dalla visita alla “laüra” del nipote, sono da poco caduti i fiori bianchi del
caffè, ma il loro profumo leggero e penetrante rimane ancora. Lui dice che il profumo diventa
inebriante una volta al giorno e che si può fare il tè con i petali, io ci credo, mi chiede se ci può
interessare. Per il momento declino, meglio se ci concentriamo sul caffè bio, dobbiamo capire chi
lo può esportare, qui c'è un’associazione che riunisce la sessantina di famiglie italobrasiliane che
vivono nella comunità e dobbiamo fare la valutazione etica preliminare.
Quando saluto Iolanda sento un morso di invidia, perché sono convinto che è il Brasile che fa
diventare allegri e perché i miei bisnonni, mezzadri senza terra delle campagne pistoiesi, sono
emigrati solo fino a Lucca, invece di salire su una nave per il Brasile.»
Luca Palagi, in viaggio per Altromercato
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Dal dossier “Popolazioni in movimento per #UNALTROVIVERE” - Altromercato 2016