IL PROBLEMA DEL DEBITO PUBBLICO IN ITALIA E L`USO DELLA

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IL PROBLEMA DEL DEBITO PUBBLICO IN ITALIA E L`USO DELLA
MAURO GIUSTI
IL PROBLEMA DEL DEBITO PUBBLICO IN ITALIA E
L’USO DELLA COSIDDETTA FINANZA CREATIVA: IL CASO
DELLA “NUOVA” CASSA DEPOSITI E PRESTITI
Sommario: 1. L’insostenibile espansione dell’indebitamento italiano: le origini. – 2. I
disavanzi strutturali. – 3. I rimedi tardivi alle cause strutturali della crisi. – 4.
L’espediente della Cassa Depositi e Prestiti.
1. L’insostenibile espansione dell’indebitamento italiano: le origini
Il debito pubblico complessivo di uno Stato – o, più estensivamente, di tutti
i soggetti pubblici di quello Stato – si forma per sommatoria successiva dei disavanzi annuali di bilancio delle amministrazioni pubbliche (centrali, locali previdenziali), quando questi non sono occasionali ma iterativi.
Alla nascita del Regno d’Italia (1861) l’indebitamento complessivo balzò in
dieci anni dal 36 per cento all’80 per cento del PIL, a causa della necessità di
espandere la spesa per opere pubbliche, di accollarsi i debiti di alcuni stati
preunitari (ad es. dello Stato pontificio nel 1871), di finanziare le spese militari
per l’ultima guerra di indipendenza (1866). Con la vendita di beni demaniali ed
una seria riforma fiscale si ebbe un rientro del debito di circa venti punti percentuali, ma nel 1890 un colossale programma di necessari investimenti pubblici fece ampiamente superare al debito la soglia del 100 per cento del PIL, sia
pure senza ricorrere all’emissione di moneta.
Solo con provvedimenti azzardati (abbandono del vincolo della copertura
aurea della moneta cartacea circolante e poi – 1906 – la c.d. conversione della
rendita, che impose il cambio forzato dei titoli del debito ad un tasso ridotto) il
rapporto debito/PIL scese al 75/80 per cento. Alla fine della prima guerra
mondiale, però, le spese militari avevano riportato il debito al 150 per cento del
PIL, ma il governo fascista già dal 1922 L 1926 lo fece calare al 50 per cento,
con misure violente quali la riduzione delle spese pubbliche e dei salari e con la
cancellazione del debito estero da parte di Gran Bretagna e Stati Uniti.
L’isolamento internazionale dell’Italia a seguito dell’embargo (1936) della
Società delle nazioni per l’occupazione dell’Etiopia impedì di attingere a prestiti
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esteri e obbligò a prestiti forzosi, con tassi pari a un quarto del tasso
d’inflazione, la cui “esplosione” risolse al momento il problema del debito
pubblico.
Negli anni della ricostruzione postbellica e poi del c.d. miracolo economico
(1947-1963) il livello dell’indebitamento, divenuto in gran parte a breve termine, si mantenne al livello del 30 per cento del PIL.
2. I disavanzi strutturali
Gli squilibri nella bilancia commerciale conseguenti alla forte espansione
economica imposero restrizioni monetarie compensative, senza abbandonare
politiche di bilancio espansive, con un incessante aumento delle spese di investimento, ma anche di quelle correnti e soprattutto di quelle per il Welfare, che
determinarono l’insorgenza sistematica di disavanzi primari finanziati anche
con la sottoscrizione dei titoli di Stato, a tassi internazionali crescenti, da parte
della Banca d’Italia, con l’emissione di moneta. Questo fenomeno si ridusse alquanto con l’adesione allo SME.
L’aumento dell’inflazione e l’arresto della crescita imposero una prima svalutazione della moneta, strumento estemporaneo che fu usato più volte per evitare misure restrittive sostanziali, consentendo di insistere su specie sociali crescenti (pensioni, sanità).
La politica di deficit spending, che assicura un consenso politico bipartisan,
giunse a finanziare in disavanzo tutte le spese per investimenti, per intero. Le
banche furono vincolate ad investire in titoli di stato una parte dei depositi; i
privati furono allettati da interessi crescenti; si giunse a pagare gli aumenti salariali in titoli di Stato non negoziabili: lo stock del debito salì rapidamente al 60
per cento del PIL nel 1980, al 100 per cento nel 1990.
3. I rimedi tardivi alle cause strutturali della crisi
In assenza, fino al 1978, di qualsiasi limite giuridico all’ indebitamento dello
Stato, l’abbandono di ogni vincolo di bilancio e il mantenimento di un alto grado di sicurezza sociale, rinviando il problema al momento (lontano) di restituzione del debito, impedirono di percepire la necessità di un aggiustamento dei
conti pubblici, che fu iniziato solo nel 1992, dieci anni dopo che altri paesi europei, grazie all’adozione dei criteri del Trattato di Maastricht: i partiti politici
dell’epoca (oggi scomparsi) li subirono come un fatto ineluttabile, di cui non
volevano prendersi la responsabilità.
Molti governi succedutisi dopo la crisi della Prima Repubblica (1992) si impegnarono nel contenimento del debito, con forti controlli sulle spese e anche
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con imposte straordinarie: nel 1997 il rapporto scende dal 123 al 120 per cento
e ricompaiono gli avanzi primari.
All’alternanza col governo di centro-destra, il rapporto debito/PIL era circa
al 111 per cento.
Poiché il nuovo governo escludeva assolutamente ogni inasprimento delle
imposte statali, il Ministro dell’economia e delle finanze escogitò nuove forme
di entrata una tantum,quali i condoni fiscali, valutari e previdenziali; le dimissioni
mobiliari; le “cartolarizzazioni” (securitizations), provocando una discesa del rapporto al 106,5 (2004), che – con la crescita zero – risale al 108 per cento nel
2005.
In questo sforzo di contenimento si è giunti a ridurre l’indebitamento, sottraendo i debiti di alcune organizzazioni di diritto pubblico al settore statale,
semplicemente mutandone la natura giuridica in società per azioni, i debiti delle
quali non rientrano nei vincoli percentuali di Maastricht. È il caso prima
dell’ANAS (strade statali) e poi della Cassa Depositi e Prestiti.
4. L’ espediente della Cassa Depositi e Prestiti
Quando viene privatizzata (legge 326/2003, collegata alla Legge finanziaria
per il 2004) la Cassa aveva la natura giuridica di azienda autonoma, con bilancio
allegato al bilancio dello Stato.
In origine (1898) la Cassa era invece un organo dell’ amministrazione centrale dello Stato, addirittura una Direzione Generale del Ministero del tesoro. Il
suo compito principale fu quello di gestire ed impiegare le enormi risorse derivanti dalla raccolta del “risparmio postale” (1875), cioè dai depositi remunerati
collocati dai privati presso gli uffici postali presenti in tutti gli 8.000 comuni del
paese. I prestiti, concessi con criteri economico-politici, si rivolsero essenzialmente agli enti locali (comuni, province) con mutui a lungo termine, a differenza del modello francese (Caisse de Dèpot et Consignations), che dal 1816 si limitava
a mettere a frutto i depositi obbligatori ricevuti dallo Stato a vario titolo.
La CDP italiana venne presto indotta ad investire in titoli del debito pubblico emessi dallo Stato larga parte delle risorse affidatele, peraltro coperte da garanzia dello Stato stesso; dal 1997 la Cassa, grazie ad un rating AAA, venne anche autorizzata ed emettere propri titoli di debito (obbligazioni), in tal modo
accrescendo il peso della Cassa nell’ indebitamento pubblico complessivo.
Trasformandola per legge in società per azioni, dapprima a capitale totalmente statale (Ministero dell’economia e finanze), poi ceduto al 30 per cento ad
alcune fondazioni di origine bancaria formalmente private, si è ottenuto di colpo il risultato di alleggerire sia il deficit (con i proventi della vendita) sia il debito
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complessivo, poiché il peso delle emissioni obbligazionari della CDP resa privata è uscito dal computo del debito pubblico.
Ciò ha giovato al rispetto dei parametri di Maastricht, ma è un espediente
non ripetibile.
Tra l’altro, contraddittoriamente, mentre si privatizzava la Cassa, le si dava
facoltà di acquisire imponenti partecipazioni azionarie in imprese ex-pubbliche
(35 per cento di Poste Italiane s.p.a., 10 per cento di ENI s.p.a., 35 per cento di
Terna s.p.a., che gestisce la rete elettrica, 100 per cento di Infrastrutture s.p.a.,
ecc).
Si è parlato di rinascita dell’IRI, con allusione al soppresso ente-holding delle
partecipazioni azionarie dello Stato.
Il nuovo governo di centro-sinistra non intende smantellare la “nuova” Cassa, ma si propone di smettere di usarla come strumento di ingegneria finanziaria, atto ad abbattere artificiosamente il debito pubblico. In realtà, con misure a
rischio di impopolarità (maggior tassazione delle rendite finanziarie e delle rendite immobiliari; ripristino dell’ imposta sulle successioni) tenterà per prima
cosa di ridurre il deficit ed ottenere un avanzo primario, per puntare ad un rientro sotto il 100 per cento del rapporto debito/PIL entro la fine della legislatura.
Questo obiettivo è possibile (il Belgio lo ha ridotto dal 138 per cento del
1993 al 93 per cento del 2005), ma non è sicuro, in presenza di irrisolvibili problemi strutturali e di competitività per l’ economia nazionale.
Poco realizzabile sembra anche la proposta dell’ex Ministro, Prof. Guarino,
di cedere tutto il patrimonio pubblico (beni immobili, anche quelli artistici, crediti, partecipazioni azionarie, ecc.), conferendolo ad una superholding privata capace di valorizzarlo al massimo, procacciando utili allo Stato anche con indebitamento privato. Il debito globale scenderebbe al 70-80 per cento del PIL, ma
al prezzo di disfarsi per sempre di un patrimonio di 500 miliardi di Euro. E
poi?
In un quadro generale di tassi in rialzo e di crescita lenta, inseguire il raggiungimento degli “stupidi” (PRODI) parametri di Maastricht, accettati “con
incoscienza” (AMATO) per conseguire i vantaggi dell’Euro, potrebbe perfino
rivelarsi impossibile, se non rinegoziando caso per caso, nazione per nazione, le
condizioni di appartenenza alla UE allargata.