ACIDO MURIATICO e COCA COLA

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ACIDO MURIATICO e COCA COLA
ACIDO MURIATICO e COCA COLA
Chiara Boscaro
Con l'accendino non funzionava, ma il gas, se continuava così, lì ci mancava poco che esplodeva
tutto.
Aprì lo stipo, ne estrasse una scatola impolverata e ci soffiò sopra.
C'era sopra Piazza San Pietro, cioè, sulla scatola ma sotto la polvere.
Aveva proprio voglia di un buon tè caldo. Gli spifferi le grattavano le giunture e aveva proprio
voglia di un tè bollente. Insomma caldo. Almeno non freddo, cioè. Aprì la scatola e scavò un po' e
poi ne trovò uno buono e lo sfregò contro il fianco di San Pietro.
Se quel cavolo di fornello si accendeva.
Si strinse la vestaglia attorno alle ossa e aprì un po’ di finestra. L'ultima volta, a gas spalancato e
insistendo con il pulsante rosso, ci era riuscita. Cento punti e la bambolina in omaggio. Non poteva
chiedere al vicino. Erano le due del mattino. Si sarebbe preoccupato, e poi irritato, e poi avrebbe
chiamato la polizia, o un'ambulanza. A quel punto poteva chiedergli pure la porta di Brandeburgo
dentro un mandarino e cinquantamila euro in monete da sette centesimi. Schiacciò il pulsante rosso
un’altra decina di volte e alla fine il fuoco, una fiammella appena, fece le bolle e scoppiettò. Non gli
diede il tempo di ripensarci, e ci piazzò sopra il pentolino.
Poteva richiudere la finestra.
Accese il televisore. Cercava un telegiornale locale, doveva essercene uno nelle rotazioni notturne,
tra i porno acrobatici indonesiani, il poker e le televendite di vedutisti pseudo-politicizzati, ma non
lo trovò. Niente esaltanti dichiarazioni dell'assessore ai lavori pubblici, per quella notte. Fece
spallucce e spense la lucina blu dello scatolotto digitale.
Aveva poco tempo.
Chiuse la finestra e tolse il pentolino dal fornello. Il fuoco sibilò indispettito. A quell'ora, nella
vecchia casa di ringhiera, avevano fatto tutti la doccia e lavato i denti e lavato i pavimenti e i
maglioni da lavare a mano e quelli da lavare in lavatrice, e di acqua calda, al terzo piano, ne restava
poca. Riempì la pentola più grande che aveva e la mise su a scaldare. Doveva ricordarsi di prendere
del tè al 24 ore su 24 in Stazione Centrale, pensò, mentre buttava nella tazza l’ultima bustina. Di
rubarne al bar lì sotto, per un po', non se ne parlava. Gli abruzzesi l'avevano bandita dal loro regno.
Ci aveva anche provato, a cambiare bar, ma il gioco non valeva la candela, era più un discorso di
sfida che di vantaggio economico. Mentre il té prendeva il colore giusto si disincastrò dal cucinino,
chiuse la porta e aprì quella del bagnetto. Casa sua era riassumibile in una formula numerica,
duepercinqueugualeventimetriquadri su tre locali: cucinino, bagnetto e camerettabarrasalottino. Il
più dei mobili era sovrapposto. Il tavolo sopra il letto, lo specchio sopra il water, il fornello sopra il
frigo.
A lei piaceva.
Nel bagnetto si era concessa il lusso di una vaschetta da bagno, di quelle con il gradino, che non
aveva bisogno poi di molto altro. Sciacquò la ceramica e tappò lo scarico, appoggiò la tazza appena
sul bordo e si accertò di avere a portata di mano un asciugamano e i vestiti pesanti che usava per
lavorare, che l'inverno era freddo, a Milano, e quelle notti erano pure impestate di nebbia come non
ne ricordava da anni. E l'umidità si attaccava alle ossa e poi non se ne andava più. E lei cominciava
ad avere la sua età.
Tolse la pentola dal fuoco e chiuse le porte del caso. Si spogliò. Con un pezzo di sapone, in bilico
nella vaschetta, grattò tutti i punti critici. Tremava. Tirò su la pentola e si sciacquò in un colpo solo,
via lo sporco i dubbi gli acciacchi. Lo aveva imparato da piccola. Una secchiata di acqua bollente
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lavava via ogni cosa e lasciava la pelle viola e calda per tutta la giornata.
Tutta la nottata.
Si sedette nel paciugo rimasto sul fondo, a pensare. Aveva ricevuto due segnalazioni, una da Porta
Romana e una da Gorla, ma doveva passare dal 24 ore su 24 a prendere il tè che era finito, e aveva
notato una cosa che non le piaceva anche lì vicino, proprio dietro casa.
Non era poco.
Doveva sbrigarsi, se voleva finire prima dell'alba.
Lasciare le cose a metà non era previsto.
Non l'aveva mai fatto.
Aveva iniziato con la pensione, e meno male che una volta si andava in pensione presto, che adesso
un giovane non poteva neanche sperarci, nè prima né dopo, di andare in pensione. La pensione per
lei era stata un inizio. Aveva lavorato sui treni per tutta la vita. Era quella che passava con il carrello
urlando paninibibitecafféacquasucchifruttabiscottipanini. Non le piaceva tanto, quella parte
dell'urlare, ma sui treni vedeva anche un sacco di persone, e quello invece le piaceva.
Le piacevano le persone, manageragazziningitafamiglieinvacanza e tutti tutti i pendolari, le piaceva
come si pigiavano in seconda classe, accostamenti impensabili nella vita reale, le piaceva come le
pelli strusciavano, scambiandosi odori, spintonando negli scompartimenti.
Quando l'avevano mandata in pensione si era sentita vuota.
Si trascinava per le strade cercando masse, vagava per le stazioni annusando i pendolari, si infilava
nelle manifestazioni di ogni colore, ordine e grado, ma non era la stessa cosa. Lì, coi piedi per terra,
la gente era sempre nervosa, non si adattava alle situazioni, litigava, sbuffava, non attaccava più
bottone.
Alle
manifestazioni,
c'erano
pure
lì
quelli
che
gridavano
paninibibitecafféacquasucchifruttabiscottipanini, come aveva fatto lei ai suoi tempi, ma se una
ragazza sveniva per il sole forte non le offrivano mai una bottiglietta d'acqua e anzi si
allontanavano, per paura che i vigili li trovassero a vendere senza licenza. Mentre tutti d'intorno
gridavano parolacce e insulti e schifezze che gli altri, i loro nemici, dovevano fargli. E leccare, e
spompinare, e culi, cazzi, bocche, vaffa, e santi madonne padreterni. Per non parlare dei sassi che
volavano, e degli altri che stavano nella manifestazione opposta e gridavano allo stesso modo.
Tutto gridava schifezze, in quella città.
I cartelloni pubblicitari, i vicini di casa, le pantegane della Darsena, i pescatori che tiravano su le
pantegane dalla Darsena e poi si vantavano con gli amici al bar. E pure gli amici gridavano. I muri
gridavano. E mica lontano. Davanti a casa sua, lì davanti all'unica finestra dei suoi
ventimetriquadricalpestabili, per sei mesi aveva subito quel "COMUNISTI DI MERDA". Viola.
Enorme. Brutto. Che lei non era neanche così comunista. Aveva fatto delle cose con il sindacato, sì,
ma comunista comunista no. Se fosse stata comunista avrebbe avuto il diritto di rispondere al
maleducato della scritta, ma rispondergli per le rime proprio. E invece così, non sapeva che fare.
Non poteva denunciarlo. E chi denunciava? Poteva chiamare il partito comunista, ma quale
chiamava, sull’elenco ce ne erano quattro. E poi erano già un po’ abbacchiati così, i comunisti, una
scritta del genere li avrebbe demoralizzati ancora di più.
Eh, già.
Quella era stata la prima volta.
Si alzò di colpo dalla vaschetta, cercando a tentoni l'asciugamano e gocciolando come un cane
fradicio. Aveva lasciato gli occhiali in cucina, e senza non ci vedeva niente, ma proprio niente. Si
buttò l'asciugamano sulla testa mentre arrancava dentro i quattro stracci di sempre, ma sempre
fedeli. Agguantò l’asciugacapelli, bruciò i capelli superstiti e scese in cortile. Si era impadronita di
una specie di sgabuzzino, lì sotto. Nessuno aveva rognato. Ci teneva la bicicletta, una graziella
arrugginita che era appartenuta al defunto marito.
Pace all’anima sua.
Gli attrezzi del mestiere stavano in una cassetta della frutta che legava al portapacchi della bici,
sempre e subito pronti all'uso. Si chiuse il cancello dietro le spalle e si bloccò a guardare il Pavese
che stagnava davanti ai locali in chiusura. Era cambiato parecchio, da quando avevano preso
l’appartamentino lì, il nido che a malapena conteneva i loro slanci amorosi. La nebbia ogni tanto
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tornava, e si mangiava tutto, le luci, i rumori e pure gli ultimi balordi della notte.
E pure lei.
Prese per la Magolfa. La cosa che non le tornava stava in via Alessandria, a un ponte di distanza da
lì. Se ne era accorta la notte precedente, rientrando. Era sul muro esterno di una casa nuova appena
dietro via Vigevano, una di quelle case per pubblicitari e architetti e tutta quella gente dei comitati
per salvare la Darsena, quelli che disegnavano panchine e seminavano l’erba sui marciapiedi. Il
muro della casa era stato imbiancato da poco, e così l'aveva notato subito. "FROCIO, LA NATURA
E IL MONDO TI RIPUDIANO". In rosso, stampatello, lettere di almeno cinquanta centimetri e
pure tutti i punti sulle i. L'avevano fatto con le bombolette, ma lei era preparata. Negli anni aveva
elaborato una ricetta personale e segretissima, un cocktail letale che quando lo preparava doveva
tenere le finestre aperte per due giorni, ma che aveva la meglio su vernici, smalti, pennarellli, scotch
incatramato, gomme da masticare fossili, scarichi otturati e pure le bombolette. Una volta gliene era
caduto un misurino sul pavimento, e la piastrella si era bucata.
Ci inciampava sempre.
Scese dalla bicicletta, la appoggiò al muro schivando le cacche di cane e versò poche gocce di
mistura infernale sulla paglietta abrasiva.
Non doveva essere un gigante, l'artista. La scritta era in basso. Lei se lo ricordava ancora, quando
aveva avuto a che fare con il Gatto di Lambrate, il simpaticone che si arrampicava sui tetti e
riempiva di porcherie maschiliste la vista di quelli che passavano in treno, e invece qui, zac, cinque
minuti e il muro era come nuovo. Normalmente per un lavoro perfetto avrebbe pulito tutta la parete
anche dalla sporcizia del tempo, ma la casa era nuova e il muro candido. E di sospette linee troppo
pulite, neanche l'ombra.
Missione compiuta.
Inforcò la bici, schivando sempre le cacche che non le piacevano tanto. Lo capiva che era stupido.
Era tutta roba naturale, certo, ma a lei la roba troppo naturale non l'attirava neanche un po',
soprattutto se si attaccava alle scarpe. Le faceva schifo anche staccarla dalle suole.
Piuttosto trascinava i piedi per chilometri, nell’erba, nei sassi, ma lì le mani non ce le metteva.
Ci mise poco ad arrviare in via Salasco. L'unico problema era la pavimentazione stradale, che in
Bligny era a piastrelloni e fastidiosissima. La via stava proprio di fianco alla Bocconi, una stradina
stretta che di giorno ospitava un'accademia teatrale e di notte i maniaci. Ce ne era uno anche adesso,
in impermeabile e maschera da gatto. Fece per spalancare l'impermeabile e mostrale l'ammennicolo,
come tutti i maniaci, ma lei aveva di meglio da fare e tirò dritto. Il maniaco miagolò deluso e
strisciò via con la coda tra le gambe. L'artista qui era stato più fine. “A LAVORARE STRONSI" era
dipinto a caratteri CUBITALI direttamente sull'asfalto, proprio di fronte al cancello dell'accademia.
Un amante delle belle lettere.
Lei appoggiò la graziella alla cancellata, considerando la ciminiera di mattoni e l'edificio azzurrino
dell'accademia, che le ricordava tanto uno di quei battelli del Missisipi, di quelli dei film di
giocatori di poker e donnine allegre. Prima c'era da isolare la zona con il nastro rosso e bianco, che
fissò alla cancellata a un lampione a due divieti di sosta. Aveva bisogno di un bel po' d'acqua, per
l'operazione, ma dove la trovava l'acqua, a quell'ora? Dentro l'accademia non poteva entrare, era
allarmata. E al maniaco non era il caso di chiedere. Ma nemmeno a quelli dei palazzi lì intorno. Poi
si ricordò. Lì dietro c'era un ARCI, un circolo dove si ballava il tango fino all’alba. Lì dovevano per
forza avercelo, un rubinetto. Lasciò giù il nastro, che tanto non passava nessuno, e fece di corsa le
poche centinaia di metri fino alla romagnola ex-Società di Mutuo Soccorso per l’Educazione dei
Metallurgici, ora Circolo Arci Bellezza. C’era luce, come previsto. Si infilò su per le scale e oltre la
porta a vetri, marciando verso il bancone. Si scorgevano sul fondo coppie scure e intrecciate,
sfioravano appena il pavimento. Chiese due secchi d'acqua e promise al peruviano di turno che li
riportava subito. Nessuno nel frattempo aveva osato infrangere il suo nastro bianco e rosso.
Nessuno passava di lì, a quell'ora, la gente aveva di meglio da fare, aveva da dormire e da fare
all’amore e da vomitare negli angoli. Versò nei secchi un misurino del preparato speciale e aspettò
qualche secondo, che i due liquidi trovassero il giusto abbraccio. La mistura riluceva nel buio come
olio, pronta ad aggredire le brutture della città. Ringhiava. Lanciò il contenuto del primo secchio su
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tutta la superficie della scritta. Aspettò un minuto buono, che tutta la vernice si sciogliesse e si
rimescolasse in macchie sanguigne sull'asfalto, e con la seconda secchiata spinse tutto verso un
tombino.
Ottima mira.
Non una goccia, né di detersivo né di vernice, aveva anche solo sfiorato le auto parcheggiate. Ne
notò una al posto degli handicappati e senza contrassegno. Se i vigili arrivavano prima del
proprietario, per il proprietario la vedeva brutta. Lei ghignò.
Fatti suoi, così imparava, a rubare il posto agli handicappati.
Un campanile suonò in lontananza. Guardò l'orologio, mancavano neanche tre ore all'alba. Doveva
correre. La prossima tappa era Gorla, non proprio a due passi. Decise di tagliare per il centro,
passando da Piazza Duomo. Le piaceva il Duomo quando non c'era nessuno. Pareva un castello
della città dei morti. In galleria non c'erano turisti, non un tecnico della Scala in sciopero, nemmeno
uno stilista disperato, e tutti i piccioni riposavano sotto le insegne del caffé Zucca, di Biffi, del
Savini e del Mac Donald's. Filò via per Palestro, per Porta Venezia, sotto le luminarie natalizie di
Buenos Aires, per Loreto con i suoi quadranti digitali e le sue banche, e poi viale Monza,
interminabile. Nessun semaforo la fermava, nessuna discoteca sudamericana la rallentava. Sopra la
testa le scorrevano lampioni e striscioni di fiere dell'antiquariato e sexy shop, ma lei aveva occhi
solo per la strada. Le avevano detto che era verso la Martesana, dopo il quartierino indiano sulla
sinistra e prima dello Zelig sulla destra.
Doveva svoltare alla ciclabile che costeggiava il Naviglio.
L'aveva fatta, una volta, in primavera.
Una bella passeggiata.
La sua meta era di là dal ponte, vicino al monumento dei Martiri di Gorla. Lì c’era una villa su cui
aveva fantasticato, quella volta in primavera. Si era immaginata a piedi nudi nel giardino di quella
villa, con una vita nella pancia, una volta.
E qualcuno ora aveva sacrilegato il suo sogno.
Una svastica, sola, nera, incisa nel legno del portone.
Chissà perché, poi.
Le incisioni erano la cosa più rognosa. Non c'era detersivo che teneva, lì c’era da riempire i solchi e
dissimularli.
Sembrava un portone vecchio, un po' rugoso, e aveva qualche bolla in basso, e forse qualche
spiffero, ma era bello. Fosse stata casa sua, ci avrebbe messo uno di quei serpentoni di stoffa, quelli
per parare l'aria, e sarebbe stata contenta del suo portone bello e solido.
Sapeva cosa fare per quel legno. Aveva ancora un tubetto di roba dei cinesi. Era pasta di legno.
Cioè, era una plastica, ma sembrava legno, in crema. Bastava spremere il tubetto nei solchi e
pareggiare tutto con la spatola. Si ricordava, ne aveva ancora un po', doveva essere rimasto in fondo
alla cassetta. La rovesciò lì sui gradini, trovò il tubetto striminzito e ci salì sopra. Così era più
comoda, non doveva neanche stare in punta di piedi. Strizzò fuori la poca crema sopravvissuta e la
spalmò in un artistico effetto finto-rovinato. Era legno vecchio, non poteva farlo meglio
dell'originale.
La crema si asciugava in quindici minuti.
Scese al ponte e rimase a respirare l'aria umida, e i versi dell'acqua, e il verde quasi fluorescente
delle alghe. E pensare che Milano era stata una città di canali e conche, come Venezia. L’aveva visto
in un negozio di libri usati. Al posto delle circonvallazioni c'era acqua, la Darsena era un porto e un
drago pascolava nel laghetto accanto alla Statale, che però era un ospedale e c’erano i maiali di
Sant’Antonio. C'era acqua dappertutto, a Milano, prima che lei ci nascesse.
Le sarebbe piaciuto vederla.
Tornò al portone, tastò le correzioni con il mignolo. Erano asciutte.
Bene.
Era quasi l'alba, e prima che cominciassero le imprese delle pulizie e i giornalai doveva ancora
passare dalla Stazione Centrale. Ci arrivò che il sole spuntava, cacciando via il sonno da un pegaso
appollaiato sulla facciata.
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Il 24 ore su 24 era sul lato della fermata dei tram, e c'era la coda.
Mentre aspettava il suo turno alla cassa, con una scatola di tè, un fusto di candeggina e due panini al
sesamo sottobraccio, guardava fuori il tizio al banco della frutta tropicale. Si chiedeva chi mai
poteva comprarla, quella frutta. Poi qualcuno le infilò un gomito nel fianco. Davanti aveva il vuoto,
e dietro una fila di tossicchianti operai slavi. Tirò fuori il portafoglio. Le avanzavano un po’ di
monete, forse riusciva pure a tornare a casa in metro.
Anzi.
“Mi dà anche un gratta e vinci?”
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