Il nuovo apprendistato italiano: regolazione, diffusione e distanza
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Il nuovo apprendistato italiano: regolazione, diffusione e distanza
Il nuovo apprendistato italiano: regolazione, diffusione e distanza dal modello tedesco First very draft version Autore: Ruggero Cefalo, Università degli Studi di Urbino “Carlo Bo”, Dipartimento di Economia, Società, Diritto, PhD student (tutor: Professor Yuri Kazepov), junior researcher nel progetto Europeo INSPIRES (Innovative Social Policies for Inclusive and Resilient Labour Markets in Europe) - via Saffi 42 – 61029 Urbino, Italy. e-mail: [email protected], [email protected] Abstract Il contratto di apprendistato in Italia è stato recentemente oggetto di importanti modifiche, culminate nell’adozione del Testo Unico dell’Apprendistato (2011) e nella successiva strategia di promozione del “nuovo apprendistato” come principale canale di ingresso per i giovani nel mercato del lavoro. Tuttavia, la diffusione di tale contratto nel contesto italiano risulta ancora limitata specialmente per le due forme di apprendistato che maggiormente insistono sull’alternanza scuolalavoro. Nel presente articolo, saranno ripercorsi i principali mutamenti del quadro normativo che hanno portato alla definizione del nuovo apprendistato con l’approvazione del Testo Unico e i successivi sviluppi fino al decreto legislativo 81/2015. Sarà inoltre analizzata la diffusione del contratto di apprendistato in Italia, sottolineandone le rilevanti criticità e le forti disomogeneità territoriali. Nella terza parte dell’articolo, il sistema di apprendistato italiano sarà posto a confronto con il modello di apprendistato vigente in Germania, all’interno del sistema duale di formazione professionale. Dalla comparazione si trarranno indicazioni riguardo alle particolarità di carattere contestuale e alle criticità del caso italiano. 1 1. Introduzione Come contratto a causa mista che coniuga esigenze di formazione e inserimento lavorativo, l’apprendistato mira a favorire l’integrazione dei giovani nel mercato del lavoro fornendo loro abilità e competenze necessarie a svolgere occupazioni qualificate. Questo obiettivo è perseguito mediante un legame variamente declinabile con il sistema dell’educazione e della formazione professionale (iniziale o continua), che comporta un’alternanza tra formazione esterna e più specifica formazione interna all’impresa (Commissione Europea, 2012). Le ampie potenzialità in termini occupazionali e di sviluppo del capitale umano si riflettono tuttavia anche nella complessità che caratterizza tale istituto. La configurazione specifica dell’apprendistato e il suo impatto sulle fasce più giovani della forza-lavoro variano infatti fortemente a seconda del paese considerato, in quanto influenzata da condizioni strutturali di contesto che rimandano alla relazione tra sistema educativo, mercato del lavoro e sistema di welfare (Kazepov & Ranci, 2015). A partire dalla seconda metà degli anni Novanta, l’apprendistato ha progressivamente occupato una posizione centrale nel campo delle politiche del lavoro italiane, in risposta agli alti livelli di disoccupazione giovanile e dispersione scolastica (Anastasia, 2013). L’apprendistato tradizionale è stato estensivamente riformato, traendo ispirazione dai modelli dei paesi dell’Europa Centrale e, in particolare negli ultimi anni, dal sistema duale tedesco, ricevendo una compiuta configurazione sistemica dopo l’intervento con intento di sintesi, regolazione e rilancio effettuato dal Testo Unico dell’Apprendistato (decreto legislativo 167/2011). Il recente Decreto legislativo 81/2015, quarto atto legislativo che compone il Jobs Act, costituisce l’ultima delle ripetute modifiche strutturali che hanno interessato quest’istituto contrattuale con l’obiettivo di rilanciarne la diffusione. Nonostante le importanti aspettative che hanno accompagnato infatti questa misura di policy, considerata lo strumento fondamentale per la gestione dell’ingresso dei giovani nel mercato del lavoro, la dinamica espansiva innescatasi dalla fine degli anni ’90 si è interrotta tra il 2008 e il 2009, sostituita da una perdurante contrazione del numero di apprendisti. Nel presente articolo, saranno ripercorsi i principali mutamenti del quadro normativo che hanno portato alla definizione del nuovo apprendistato con l’approvazione del Testo Unico e i successivi sviluppi fino al decreto legislativo 81/2015. Sarà inoltre analizzata la diffusione del contratto di apprendistato in Italia, sottolineandone le criticità e le forti disomogeneità territoriali ma anche cercando di tracciare un quadro di quelle che sono le caratteristiche attuali del sistema di apprendistato diffuso oggi in Italia. Nella terza parte dell’articolo, il sistema di apprendistato italiano così delineato sarà posto a confronto con il sistema duale di formazione professionale della Germania. In particolare, a partire dalla letteratura scientifica sul tema, ci si concentrerà su alcune 2 condizioni strutturali necessarie al funzionamento di tale sistema e ci si chiederà quindi se il contesto italiano e il modello di apprendistato attualmente diffuso presentino presupposti favorevoli alla costituzione di un sistema duale di formazione e lavoro. Oltre ai dati provenienti dai periodici rapporti di monitoraggio dell’Isfol e dal Sistema delle Comunicazioni Obbligatorie, le riflessioni sviluppate nel presente articolo si basano sulle interviste a stakeholders ed esperti del mercato del lavoro italiano realizzate per il progetto di ricerca Inspires - Innovative Social Policies for Inclusive and Resilient Labour Markets in Europe, co-finanziato dalla Commissione Europea nell’ambito del Settimo Programma Quadro. 2. Costituzione e riforma del sistema italiano di apprendistato In Italia l’istituto dell’apprendistato ha una lunga storia, essendo stato introdotto nell’ordinamento italiano dalla legge 25/55, come speciale rapporto di lavoro per il quale all’apprendista assunto dovevano essere impartiti, da parte dell’imprenditore, gli insegnamenti necessari per divenire lavoratore qualificato all’interno dell’azienda. Con la progressiva deindustrializzazione del sistema economico l’istituto ha conosciuto un lungo e progressivo declino, passando da 831.613 apprendisti occupati nel 1969 a 393.138 nel 1997 (Isfol, 2013). Nella seconda metà degli anni ’90 tuttavia, gli alti tassi di disoccupazione giovanile (oltre il 30%) così come le difficoltà strutturali caratterizzanti la transizione dal sistema educativo al mercato del lavoro, hanno condotto ad una rinascita dell’interesse verso tale tipologia contrattuale (Kazepov & Ranci, 2015). Nel 1997 la legge Treu ha elevato il limite di età per l’assunzione da 20 a 24 o 26 anni abolendo inoltre i vincoli settoriali al suo utilizzo. La conseguente espansione del numero di apprendisti fece emergere l’esigenza di regolamentare differenti percorsi per gruppi di potenziali utenti, ad esempio i minori d’età. In quest’ottica, la legge 30/2003 e il decreto 276/03 modificarono profondamente l’istituto: da un lato, la platea è stata ampliata ulteriormente essendo ammessi i giovani fino a 29 anni; dall’altro, si è verificata un’importante espansione qualitativa dell’apprendistato verso le fasce più qualificate, i laureati. In particolare, la riforma Biagi ha previsto la differenziazione in tre livelli dell’apprendistato (accanto ad essi sopravvivrà ancora l’apprendistato tradizionale regolato dalla legge Treu), introducendo una caratteristica strutturale del sistema italiano destinata a durare tutt’oggi: contratto di apprendistato per l’espletamento del diritto-dovere di istruzione e formazione (qualificante), contratto di apprendistato finalizzato al conseguimento di una qualifica professionale (professionalizzante), contratto di apprendistato per l’acquisizione di un diploma o per percorsi di alta formazione (specializzante). 3 La riforma dell’apprendistato è parte di un più ampio intervento sulle transizioni tra educazione e formazione, da un lato, e mercato del lavoro dall’altro, finalizzato a innalzare l’inclusività del mondo del lavoro rispetto ai nuovi entranti facilitandone l’ingresso e l’inserimento (Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, 2001). In quest’ottica, l’apprendistato viene considerato uno strumento cruciale in quanto principale contratto di formazione e lavoro, atto al raggiungimento di un titolo di studio e di una qualifica professionale al contempo. Piuttosto che strumento di placement marcatamente aziendale del lavoratore nella specifica impresa, l’obiettivo (condiviso negli anni seguenti dalle successive riforme, almeno dal punto di vista della retorica di principio) è quello di assegnare all’apprendistato un respiro ben più ampio, come strumento di formazione finalizzato all’integrazione nel mercato del lavoro nel suo complesso. Rispetto alla possibilità di ottenere tramite il contratto di apprendistato anche titoli di studio più elevati (diploma di scuola superiore e laurea universitaria), ambiziosa fonte di ispirazione è costituita innanzitutto dalle sperimentazioni di quel periodo in Francia in materia di alto apprendistato. Occorre sottolineare, tuttavia, come nella differenziazione introdotta dalla Legge Biagi convivano tipologie contrattuali strutturate in modo differente dal punto di vista dell’integrazione tra componente formativa ed esperienza lavorativa: l’apprendistato di secondo livello, finalizzato a una qualifica contrattuale e maggiormente distaccato dal sistema di istruzione e formazione (quindi con caratteristiche più tradizionali); l’apprendistato scolastico di primo e terzo livello, mirati al conseguimento di un titolo di studio per mezzo di un’alternanza scuola-lavoro (Garofalo, 2014). La riforma Biagi si inscrive all’interno di una dinamica espansiva dell’istituto, tuttavia la complessa architettura istituzionale che prefigura si scontra con forti difficoltà di implementazione. Questi elementi di criticità sono stati inoltre acuiti dall’impatto della crisi economica, che tra 2008 e 2009 ha contribuito in modo determinante all’inversione della tendenza espansiva perdurante da oltre un decennio. In seguito il decreto legislativo 167 del 2011, risultato di mesi di lunghe negoziazioni tra Governo, regioni e parti sociali, ha riformato la disciplina dell'apprendistato, abrogando la normativa preesistente e riunendo in un Testo Unico tutte le precedenti norme che erano intervenute nella regolazione dell’istituto. L’intento della riforma sistemica apportata dal Testo Unico era di rilanciare l’apprendistato attraverso la costituzione di un sistema di “nuovo apprendistato” italiano coerente e comprensivo. Il TU ribadisce la centralità dell’apprendistato nelle strategie di inserimento lavorativo, definendolo un contratto di lavoro a tempo indeterminato finalizzato al duplice obiettivo (causa mista) della formazione e occupazione dei giovani. Occorre notare, tuttavia, che al termine del periodo di formazione il datore di lavoro può recedere dal contratto senza ulteriori implicazioni. La strategia di promozione dell’istituto è connessa innanzitutto a 4 incentivi di carattere economico (riduzione dei contributi a carico del datore di lavoro, possibilità di sotto-inquadramento dell’apprendista nella determinazione del salario). Il decreto mantiene la struttura tripartita introdotta dalla legge Biagi, pur procedendo a una parziale riorganizzazione delle tipologie (Treellle, 2013): Apprendistato per la qualifica e il diploma professionale, finalizzato al conseguimento della qualifica o del diploma professionale di competenza regionale durante lo sviluppo di un’esperienza lavorativa in un’azienda. È destinato a giovani dai 15 ai 25 anni per una durata di 3 o 4 anni, a seconda della specifica area professionale considerate e delle competenze richieste. Il monte ore di formazione esterna, pur variando a seconda delle regioni, si attesta generalmente sulle 400 ore annue. Apprendistato professionalizzante o contratto di mestiere destinato a giovani dai 18 ai 29 anni e finalizzato al conseguimento di una qualifica contrattuale definita dalla contrattazione collettiva, per una durata dai 3 ai 5 anni. L’elemento centrale è in questo caso la formazione on-the-job, che dovrebbe fornire all’apprendista competenze tecniche specifiche, integrate da una formazione esterna per l’acquisizione di competenze di base e trasversali. La formazione esterna dovrebbe essere fornita dalle regioni per un monte ore complessivo pari a 120 ore annue (sarà ridotto a 120 ore in tre anni da successivi provvedimenti), le parti sociali dovrebbero inoltre avere un ruolo rilevante nella definizione delle modalità e nell’effettiva gestione dell’attività formativa. Apprendistato di alta formazione e di ricerca, destinato ai giovani tra i 18 ed i 29 anni di età e finalizzato al conseguimento di un diploma di istruzione secondaria superiore, di titoli di studio universitari e dell’alta formazione (compresi i dottorati di ricerca), della specializzazione degli Istituti tecnici superiori, nonché al praticantato per l’accesso alle professioni ordinistiche o per esperienze professionali di ricerca. Il monte ore di formazione esterna è definito a livello regionale oppure, in assenza della regolamentazione regionale, dalle convenzioni stipulate dai datori di lavoro con le diverse istituzioni formative. Viene inoltre introdotta una quarta categoria, di carattere residuale, che consente l’uso del contratto di apprendistato anche per la riqualificazione di lavoratori in mobilità. L’elemento più rilevante del TU risiede probabilmente nella introduzione di un sistema di governance multilivello dell’apprendistato attraverso la costituzione di un network di cooperazione tra Governo centrale, regioni e parti sociali (Teoldi e Garibaldi, 2012; Pastore, 2014). Il sistema del “nuovo apprendistato” introdotto dal TU ha rivestito un ruolo centrale anche nella successiva riforma del mercato del lavoro a seguito della legge 92/2012, in quanto “canale privilegiato di accesso dei giovani al mondo del lavoro”. La legge stabilisce la durata minima del 5 contratto di apprendistato, include gli apprendisti come potenziali beneficiari della nuova Assicurazione Sociale per l’Impiego, fissa il rispetto di alcuni vincoli per l’assunzione di nuovi apprendisti da parte dei datori di lavoro (rispetto di determinati rapporti tra apprendisti e lavoratori qualificati, stabilizzazione di quote di apprendisti). Specialmente questi ultimi vincoli di stabilizzazione incontrarono significative opposizioni dal lato delle imprese. La componente formativa fu anch’essa modificata: gli obblighi formativi sono fortemente ridotti per l’apprendistato di secondo livello (da 120 ore l’anno a 120 ore durante i tre anni di durata del periodo formativo) e la formazione esterna è limitata alla formazione generale e trasversale, escludendo le competenze tecniche e professionali. Le modifiche della 92/2012 non esauriscono gli interventi in materia di apprendistato progettati dal Ministro Fornero. Tra il 2012 e il 2013, sulle basi di una collaborazione con l’allora Ministro del Lavoro tedesco Ursula Von der Leyen, di ripetuti incontri e missioni di studio in Germania, il Ministero del Lavoro ha elaborato infatti un programma di interventi specifici e commisurati alle tre tipologie di apprendistato al fine di: promuovere l’apprendistato come strumento privilegiato per la creazione di impiego in lavori qualificati per le fasce più giovani della popolazione; accrescere la convenienza del contratto di apprendistato per le imprese attraverso incentivi economici; rafforzare la rete di attori e servizi coinvolti nella governance del sistema. L’obiettivo del governo era inoltre quello di esercitare un ruolo centrale di coordinamento rispetto alla varietà delle procedure amministrative caratterizzanti le regolazioni regionali in materia di apprendistato (per l’implementazione della normativa, il TU rimandava infatti alla legislazione regionale). La caratterizzazione socio-culturale dell’apprendistato in Italia rispetto a quella diffusa in altri paesi e le problematiche connesse all’implementazione erano considerate i principali ostacoli alla diffusione e al rilancio dell’istituto. Ciò che preme sottolineare in questa sede è la continuità rispetto alla logica sistemica introdotta dal TU, che caratterizzava tale strategia, per la verità di breve durata, che non si è poi ripetuto nei periodi successive. Dopo il governo Monti infatti, l’apprendistato non è più stato al centro di un insieme coordinato di interventi e la via scelta è stata invece piuttosto quella dei continui interventi normativi di modifica e ritorno, minando fortemente la stabilità dell’istituto (Tiraboschi, 2015). Negli anni successivi alla Riforma Fornero, visto il trend ancora calante delle assunzioni in apprendistato e l’assenza dell’auspicata ripresa dell’istituto, si sono succeduti numerosi interventi e modifiche legislative, intrecciandosi con la sempre maggiore attenzione attribuita a livello europeo all’apprendistato come strumento di politica attiva e investimento sociale in grado di combattere la disoccupazione giovanile e la dispersione scolastica attraverso un percorso di sviluppo del capitale umano (Commissione Europea, 2012, 2013). Agendo su un sistema ancora lontano dall’essersi 6 consolidato soprattutto dal punto di vista della regolamentazione regionale e della cooperazione tra regioni e attori della contrattazione collettiva, gli interventi legislativi hanno mirato innanzitutto alla semplificazione delle procedure e al progressivo alleggerimento degli obblighi formativi in capo all’impresa, nonché alla riduzione dei vincoli di stabilizzazione. In questa direzione si sono mossi i decreti legge 76/2013 (decreto Giovannini-Letta) e la legge 78/2014, conversione del decreto 34/2014 noto come decreto Poletti. La volontà di incentivare le assunzioni in apprendistato agendo essenzialmente sulle leve della convenienza economica, delle semplificazioni e riduzione della componente formativa (tendenza quest’ultima rintracciabile già dalla legge Fornero per quanto riguarda l’apprendistato professionalizzante) sembra potersi leggere come un passo indietro rispetto all’ambiziosa concezione dell’apprendistato come strumento di formazione finalizzato alla preparazione a lavori altamente qualificati, nonché dall’obiettivo dell’occupabilità a medio e lungo termine dell’individuo. Ad essere privilegiato è invece l’interesse specifico dell’impresa, in un perdurante clima di diffusa diffidenza verso l’introduzione di una stabile componente formativa all’interno del processo produttivo. Come vedremo nei paragrafi successivi, questa connotazione marcatamente aziendale dell’apprendistato all’italiana è perfettamente espresso dal dominio dell’apprendistato professionalizzante rispetto alle forme di apprendistato scolastico, sostanzialmente introdotte dal 2003 ma ancora ferme, ad eccezione di alcune buone pratiche locali, allo stadio di sperimentazioni (Di Monaco & Pilutti, 2012; Isfol, 2015). Questo è dunque il contesto in cui interviene il decreto legislativo 15 giugno 2015 n. 81, recante la disciplina organica dei contratti di lavoro al fine del riordino e revisione delle tipologie contrattuali flessibili, che intacca nuovamente la logica sistemica del Testo Unico e introduce rilevanti modifiche atte soprattutto alla riorganizzazione e promozione dell’apprendistato di I e III livello (Tiraboschi, 2015). Il decreto comporta l’abrogazione del TU del 2011, fatta salva la disciplina transitoria, e modifica l’articolazione interna delle tre tipologie di apprendistato, concentrandosi in particolare su quelli che vengono ora denominati apprendistato per la qualifica e il diploma professionale, il diploma di istruzione secondaria superiore e il certificato di specializzazione tecnica superiore, apprendistato di alta formazione e ricerca. L’ampliamento delle finalità del I livello si estende al conseguimento, oltre ai titoli triennali e quadriennali del sistema IeFP, ai titoli di scuola secondaria superiore e a percorsi i IFTS. Il terzo livello conosce una corrispondente riduzione, divenendo finalizzato al conseguimento di titoli dell’istruzione universitaria, ITS, attività di ricerca e accesso a professioni ordinistiche. Elemento comune è la riduzione dei costi (riduzione delle retribuzioni degli apprendisti, dal cui calcolo vengono escluse le ore di formazione). L’obiettivo esplicito è quello della costituzione di un sistema duale integrato di formazione e lavoro, incentivando il ricorso all’apprendistato di I e III livello (attraverso la riduzione delle 7 retribuzioni e gli incentivi) rispetto a quello professionalizzante. Colpisce, tuttavia, come tale intervento concentrato sull’apprendistato scolastico avvenga in un perdurante regime di separazione tra scuola e lavoro, mancando l’occasione di integrazione sistemica tra le due aree. La riforma de “La Buona Scuola” (legge 107/2015), nella sua versione definitiva, vede stralciato il riferimento all’apprendistato e punta invece all’istituzione di un regime di alternanza scuola-lavoro, rinunciando a quello che poteva essere un importante passo di integrazione dell’unico contratto a causa mista formazione-lavoro nel sistema educativo italiano. Inizialmente inserito come strumento contrattuale per mettere in pratica la metodologia dell’alternanza scuola-lavoro l’apprendistato (anche quello c.d. “scolastico”) è ora infatti interamente regolato nell’appunto già citato decreto 81/2015, testo di riforma delle tipologie contrattuali (Massagli, 2015). Il decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81 rappresenta solo l’ultimo dei numerosi interventi legislativi che, dopo il Testo Unico del 2011, sono intervenuti sulla cornice legale che regola l’istituto, compromettendo la costituzione di un quadro normativo e istituzionale stabile e, di conseguenza, rischiando di paralizzare l’azione di operatori economici e delle parti sociali chiamate a trasporre le regole generali nella contrattazione collettiva di settore. Tali riforme sono state accusate di mancanza di progettualità di ampio respiro, laddove le dimensioni dell’incentivo economico/contributivo e la funzione sociale di disoccupazione giovanile sono state continuamente privilegiate rispetto alla dimensione culturale che coinvolge l’importanza e la qualità della formazione e della costruzione di competenze necessarie ad un mercato del lavoro sempre più globalizzato e tecnologicamente avanzato (Massagli & Tiraboschi, 2015). I continui cambiamenti normativi si sono così intrecciati alle criticità più profonde e di matrice anche culturale che caratterizzano la nostra società, ostacolando lo sviluppo di un sistema di apprendistato stabile e diffuso, in cui tale contratto rappresenti un effettivo strumento di investimento sociale per la valorizzazione e sviluppo del capitale umano. 8 3. La diffusione del “nuovo apprendistato” in Italia Come detto, in risposta alla crisi dell’apprendistato negli anni ‘80 e ’90 ha inizio a partire dal 1997 una traiettoria di riforma e conseguente espansione dell’istituto fino al picco fatto registrare nel 2008 dal numero medio di contratti in apprendistato (644.592)1. La crisi economica ha poi contribuito all’innesco di una pesante dinamica di contrazione: nonostante le importanti aspettative degli attori politici e le continue riforme il declino di tale tipologia contrattuale è proseguito almeno fino al 2014 (Isfol, 2015). In questo senso, il XV rapporto Isfol (riferito agli anni 2013-2014) non evidenzia stabili inversioni di tendenza: con qualche eccezione (ripresa del numero avviamenti di contratti in apprendistato nel secondo semestre del 2014 rispetto al 2013) la cui tenuta andrà però valutata nel tempo, i numeri continuano ad essere scoraggianti. Il rapporto fotografa ovviamente una situazione antecedente all’entrata in vigore del decreto 81, e può quindi inizialmente apparire fuori sincrono rispetto ai rapidi sviluppi normativi. In realtà, le modifiche apportate dal decreto e l’abrogazione del Testo Unico, oltre a riguardare solo marginalmente il ben più diffuso apprendistato di secondo livello, prevedono l’emanazione di un successivo decreto governativo per la definitiva configurazione degli apprendistati “scolastici” (cui dovranno seguire gli adeguamenti normativi regionali). Fino ad allora, durante il regime transitorio, varranno ancora le disposizioni del Testo Unico (Tiraboschi, 2015). Il rapporto Isfol risulta allora particolarmente utile nel contestualizzare l’attuale situazione dell’apprendistato, discutendone mancanze e debolezze, al fine di comprendere se i cambiamenti introdotti configurano, per il momento solo sul piano normativo, una risposta a tali lacune. Lo stock medio dei lavoratori occupati in apprendistato risulta ancora in contrazione, seguendo un trend che ha avuto inizio nel 2009. Nonostante le forti differenziazioni regionali, questo trend accomuna sia le regioni del Centro-Nord, dove l’apprendistato è maggiormente diffuso, sia le regioni del Sud del paese (Isfol, 2015). 1 Come sottolineato da Di Monaco & Pilutti (2012), I dati relative al numero di apprendisti non dovrebbero essere usati come proxy per l’occupazione in apprendistato, poiché rappresentano un dato di flusso (persone che sono passate attraverso tale condizione, sia pure per un breve periodo di tempo). Per questo motivo, Isfol (2012) propone un indicatore maggiormente dettagliato, ovvero il numero medio di contratti di apprendistato (ottenuto dalla divisione per 12 del numero di contratti di apprendistato registrati mese per mese). 9 Grafico 1: andamento dell’occupazione in apprendistato (numero medio di contratti), macro area di contribuzione, 1998-2013 Apprendistato in Italia (numero medio di contratti) 700.000 600.000 500.000 Nord Italia 400.000 Centro Italia 300.000 Sud Italia Italia 200.000 100.000 0 1998 2000 2002 2004 2006 2008 2010 2012 Fonte: nostra elaborazione su dati Isfol, varie pubblicazioni Il peso dell’apprendistato sul totale dei rapporti di lavoro avviati continua ad essere molto bassa (intorno al 2-3%, si veda in proposito: Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, 2014), e il tasso di copertura della formazione pubblica resta fermo al 32% degli apprendisti occupati. Anche in questo caso, i dati complessivi a livello nazionale nascondono tuttavia una forte segmentazione su base territoriale, dal momento che il tasso di copertura delle attività formative si attesta intorno al 40% nel nord del paese, mentre cala bruscamente nel Centro e soprattutto nelle regioni meridionali. Inoltre, i dati relativi alla durata effettiva dei contratti di apprendistato evidenziano la volatilità che contraddistingue questo strumento contrattuale: solo il 16,5% delle cessazioni avviene al termine del periodo formativo, una quota rilevante si verifica già entro il terzo mese (8,5% nella media dei trimestri 2013), generalmente coincidente con il periodo di prova, ma soprattutto solo il 49,3% dei contratti supera l’anno di durata (49,3%). Guardando alle tipologie contrattuali coinvolte e alle caratteristiche degli apprendisti è possibile trarre ulteriori indicazioni rispetto alla configurazione dell’apprendistato all’italiana. Innanzitutto, nel 2014 si è finalmente concluso il lungo processo di recepimento e adeguamento delle normative regionali anche per l’apprendistato di I e III livello (Italia Lavoro, 2015). Ciò è avvenuto tuttavia con importanti differenziazioni territoriali sia nei tempi sia nei contenuti, mentre una quota rilevante 10 di amministrazioni regionali non ha comunque dato attuazione alle proprie discipline attraverso l’emanazione di Avvisi, bandi, Linee guida volti alla definizione di una offerta formativa pubblica per gli apprendisti e all’individuazione dei soggetti attuatori (Isfol, 2015). Tutto questo riflette il già citato quadro di forte frammentazione territoriale nell’utilizzo dell’apprendistato, la cui diffusione si concentra nell’Italia settentrionale (soprattutto nel Nord-Ovest) e in misura minore al Centro, mentre appare molto più limitata nel Mezzogiorno. Il sistema tripartito (apprendistato per la qualifica o il diploma professionale, apprendistato professionalizzante o di mestiere, apprendistato di alta formazione e ricerca) soffre di un estremo squilibrio laddove la tipologia di contratto professionalizzante copre oltre il 90% dei contratti di apprendistato, mentre nel restante 10% confluiscono i contratti ancora in essere regolati dalla legge Treu, e le altre due tipologie di apprendistato. Nel 2013, l’apprendistato per la qualifica e il diploma professionale contava 3.405 iscritti, di cui 3.000 solo nella provincia di Bolzano, che ha sviluppato una propria struttura in larga autonomia seguendo sostanzialmente l’organizzazione del sistema duale tedesco. L’apprendistato di Alta formazione e ricerca, sempre nel 2013 ha fatto invece registrare 503 iscritti. La diffusione marginale del I e III livello è connessa anche alla concorrenza con l’apprendistato professionalizzante che, a parità di esenzioni contributive e vantaggi fiscali, rappresenta uno strumento maggiormente flessibile per le imprese, soprattutto visti i minori obblighi formativi (Treellle, 2013). In questo senso, è significativo che tale contratto mostri dopo il 2008 una diminuzione molto contenuta rispetto alle altre tipologie di apprendistato, ed anzi un leggero aumento del numero medio di contratti a partire dal 2012. Ciò è probabilmente dovuto anche ai vari interventi normativi che hanno perseguito l’obiettivo di sostenere tale forma contrattuale attraverso la riduzione della componente formativa e la semplificazione delle procedure, principalmente dal lato dell’impresa. Dal punto di vista degli equilibri reciproci tra le differenti tipologie di apprendistato, come sottolineato nei paragrafi precedenti, la riforma apportata dal decreto 81/2015 introduce importanti cambiamenti, individuando nella diminuzione delle retribuzioni e negli incentivi economici alle imprese la leva per aumentare la competitività e la diffusione degli apprendistati scolastici rispetto a quello professionalizzante. 11 Grafico 2: andamento dell’occupazione in apprendistato professionalizzante e altre forme di apprendistato (numero medio di contratti), 2007-2013 Apprendistato professionalizzante Altre forme di apprendistato 450.000 400.000 350.000 300.000 250.000 200.000 150.000 100.000 50.000 0 450.000 400.000 350.000 300.000 250.000 200.000 150.000 100.000 50.000 0 2007 2008 2009 2010 2011 2012 2013 2007 2008 2009 2010 2011 2012 2013 Nord Italia Centro Italia Nord Italia Centro Italia Sud Italia Italia Sud Italia Italia Fonte: nostra elaborazione su dati Isfol, varie pubblicazioni Per quanto riguarda la composizione per età della popolazione lavorativa in apprendistato, ad una persistente prevalenza di apprendisti assunti tra i 20 e i 24 anni si affianca una crescita della componente di 25-29 anni e una diminuzione di quella di 15-19 anni. La scarsa capacità di questo istituto di fungere da effettivo canale di ingresso nel mercato del lavoro per i più giovani e per coloro che non hanno compiuto un percorso scolastico di livello secondario-superiore (considerato il livello minimo per un accesso soddisfacente e consapevole non solo al mondo del lavoro, ma anche alla società intesa in senso più ampio, come inclusione e partecipazione, si veda in proposito OECD, 2014) è evidenziata anche dal bassissimo e per giunta calante numero di apprendisti minorenni, in drastica diminuzione negli ultimi anni (da 7.568 nel 2010 a 2.592 nel 2013). In merito all’incidenza degli apprendisti minori sul totale apprendisti, i giovani minori rappresentano nel 2013 una quota marginale pari allo 0,6% del totale degli apprendisti (Isfol, 2015). Il quadro complessivo restituito dai dati è dunque quello di un sistema fortemente squilibrato, laddove il “nuovo apprendistato” così come era stato regolato dal TU risulta dominato dall’apprendistato di II livello mentre, al di là delle previsioni e degli auspici normativi, ad oggi le due forme di apprendistato scolastico risultano avere una diffusione marginale, spesso ancora legata a sperimentazioni e buone pratiche locali che stentano tuttavia a istituzionalizzarsi. Le caratteristiche attuali del sistema di apprendistato italiano sono dunque sostanzialmente riferibili all’apprendistato professionalizzante: esso si connota per una dimensione marcatamente 12 aziendalistica più che occupazionale (Di Monaco & Pilutti, 2012), per l’assenza di una compiuta integrazione con il sistema educativo, per un’utenza sempre più composta da giovani adulti, per una tendenza alla semplificazione degli obblighi formativi dell’impresa e all’indebolimento della componente formativa come evidenziato dai recenti sviluppi di riforma di tale tipologia contrattuale. Le riforme succedutesi negli ultimi anni hanno condiviso il comune obiettivo di fare dell’apprendistato il principale canale di ingresso dei giovani nel mercato del lavoro, nonché un mezzo per combattere gli alti tassi di dispersione scolastica e disoccupazione giovanile che caratterizzano il contesto italiano. Dal punto di vista dell’impatto occupazionale, i dati dimostrano tuttavia come il sistema di apprendistato italiano non sia risultato uno strumento di policy efficace nell’aumentare la resilienza del mercato del lavoro riducendo l’esposizione al rischio dei gruppi più vulnerabili (nello specifico i giovani). Se ci riferiamo infatti alla definizione di resilienza come capacità di reagire ad una situazione negativa proveniente dall’esterno, tornando autonomamente alla situazione precedente l’evento (Giovannini, 2015; Bigos et al., 2013), possiamo concludere come l’apprendistato non abbia rappresentato una misura di policy resiliente nel contrastare le difficoltà incontrate dai giovani nel mercato del lavoro italiano: il suddetto movimento di reazione e ripristino delle condizioni antecedenti lo shock (la crisi economica) non traspare dai dati a nostra disposizione. Infatti, dopo il 2008 il declino dell’istituto si accompagna alle dinamiche di aumento della disoccupazione giovanile, della quota dei NEET e di diminuzione del tasso di occupazione giovanile. 13 Grafico 3: confronto tra serie temporali riferite a tasso di occupazione, NEET, numero medio di contratti di apprendistato (numeri indice, 2005 = 100), 1998-2014 130,0 Legge Treu Legge Biagi Testo Legge Decreto Decreto Unico Fornero Giov. Poletti 120,0 110,0 100,0 90,0 80,0 70,0 60,0 50,0 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008 2009 2010 2011 2012 2013 2014 Tasso di occupazione (15-24) Tasso di NEET (15-29) Apprendistato (tutte le tipologie) Fonte: nostra elaborazione su dati Isfol e dati Istat La misura appare scarsamente incisiva nell’agevolare l’ingresso dei giovani nel mercato del lavoro, né sembra costituire uno strumento di innalzamento delle competenze possedute degli apprendisti in un contesto complessivo di miglioramento dello stock di capitale umano. Ciò è particolarmente evidente vista la debolezza dei due apprendistati “scolastici”, ovvero che comportano un’effettiva integrazione tra sistema educativo e mercato del lavoro attraverso una composizione di un percorso formativo ampio e strutturato alternato a esperienze di lavoro e formazione in azienda. 4. La lunga rincorsa al modello tedesco Complice anche lo stato di salute dell’economia tedesca e gli alti tassi di occupazione negli strati più giovani della popolazione in età lavorativa, il modello tedesco di apprendistato (il sistema duale di formazione e lavoro, filiera del più ampio sistema di istruzione e formazione professionale) riceve una sempre maggior attenzione a livello internazionale ed è indicato come principale 14 esempio di buona pratica da esportare e a cui ispirarsi nell’istituzione di efficaci sistemi nazionali di apprendistato (Wieland, 2015). Nel 2013 il sistema duale in Germania coinvolgeva un totale di 1.430.000 apprendisti, con 530.000 nuovi contratti stipulati ed un’età media, all’inizio del percorso di apprendistato, di 19,5 anni (Bundesministerium für Bildung und Forschung, 2014). Tabella 1: confronto tra la tipologia di apprendistato maggiormente diffusa in Italia (professionalizzante) e l’apprendistato in Germania (sistema duale), anni 2012-2013 Italia Apprendistato professionalizzante Germania Apprendistato per la qualifica Numero di apprendisti 470.000 1.430.000 Nuovi contratti ogni anno 270.000 (stima) 530.000 18-29 16-29 Durata del contratto 3-5 anni Mediamente 3 anni Livello della qualifica EQF 3-4 EQF 3-4 Retribuzione Inquadramento 1-2 livelli inferiori rispetto alla mansione professionale/ 80-90% della retribuzione di lavoratori qualificati di pari livello 25-33% della retribuzione di un operaio qualificato Profili formativi Definiti dagli accordi di categoria Definiti dall’ordinamento nazionale Qualifiche rilasciate Qualifiche contrattuali previste dal CCNL Definite 344 qualifiche professionali a livello nazionale Ore di esterna 120 in tre anni, regolamentate a livello regionale 400 all’anno (in media), regolamentate a livello nazionale e regionale Formazione interna Definita dagli accordi di categoria Durata e contenuti dall’ordinamento nazionale Partecipazione sociali parti Forte ruolo delle imprese e delle parti sociali, soprattutto a livello contrattuale Forte coinvolgimento nell’organizzazione del sistema, nella definizione degli standard di qualifica, nel controllo dei risultati Responsabilità finali esami Piena responsabilità dell’impresa per l’attribuzione della qualifica contrattuale Camera di Commercio (prove teoriche e pratiche fissate a livello nazionale) Rilevanti sgravi contributivi incentivi all’assunzione Nessuno sgravio contributivo o fiscale, incentivi per imprese che assumono giovani a rischio Età di riferimento formazione Finanziamento pubblico alle imprese e Fonte: nostra elaborazione su Treellle, 2013 15 fiscali, disciplinati Il richiamo al modello tedesco rappresenta una costante della retorica cha accompagna il dibattito sull’apprendistato in Italia, nonché il principale punto di riferimento delle più recenti disposizioni normative in materia: il decreto 81 esplicita in proposito di voler costituire una via italiana al modello duale che caratterizza il sistema VET della Germania. Non sempre il dibattito sviluppatosi ha tuttavia espresso consapevolezza del profondo radicamento di tale modello nel contesto economico e socio-culturale della Germania e delle conseguenti difficoltà di esportazione in situazioni e contesti differenti (Treellle, 2013; Weiss, 2014). Nel presente paragrafo non scenderemo nei dettagli del sistema duale di istruzione e formazione professionale ma, basandoci sulla letteratura scientifica in materia (si vedano, tra i numerosi contributi disponibili: Bosch, 2010; Ballarino e Checchi, 2013; Solga et al., 2014), ci soffermeremo su alcune condizioni strutturali del sistema duale e, attraverso il confronto con il “nuovo apprendistato” italiano, ci chiederemo se l’esportazione o comunque la costituzione di un modello duale all’italiana rappresenti un obiettivo effettivamente raggiungibile. Seguiremo dunque una metodologia di confronto per contrasto, che caratterizza la sociologia storica comparativa (Skocpol, 1984), per cercare di comprendere se gli elementi che stanno alla base del successo del sistema duale in termini di livelli di occupazione giovanile e accesso a professioni qualificate, siano o meno presenti nel contesto italiano caratterizzato, come detto, dalla prevalente diffusione dell’apprendistato professionalizzante. Si ritiene infatti che tali aspetti, riguardanti il contesto socio-culturale di riferimento e il coordinamento tra sistema educativo, mercato del lavoro e sistema di welfare (Kazepov & Ranci, 2015), rappresentino condizioni strutturali rilevanti per la costituzione effettiva di una via italiana al modello duale, obiettivo espresso esplicitamente dal decreto legislativo 81/2015. 4.1. Dualità e dualismo Il primo elemento da considerare riguarda la dualità, intesa come radicamento della formazione degli apprendisti sia nelle aziende sia nel sistema scolastico statale di educazione e formazione professionale (Lohmar & Eckhardt, 2013). Gli apprendisti generalmente trascorrono due giorni a settimana negli istituti professionali (dove ricevono insegnamenti di carattere generale e basi teoriche relative alle occupazioni di riferimento), questo periodo di tempo rappresenta una recente estensione della formazione esterna dovuta ad un aumento del livello di conoscenze teoriche richieste agli apprendisti (Bosch, 2010). Per quanto riguarda la formazione interna, le grande aziende sono solitamente dotate di appositi centri di formazione, mentre per le aziende mediopiccole acquisisce maggiore importanza la formazione direttamente on the job. È anche diffusa la pratica di costituire centri di formazione esterni grazie alla collaborazione tra imprese. 16 La compiuta integrazione tra sistema educativo e apprendistato rappresenta la spina dorsale del modello tedesco ed è invece un elemento sostanzialmente mancante nel caso italiano: le difficoltà dell’istituto si riflettono anche nell’incapacità di penetrazione nel sistema scolastico secondario superiore e nell’istruzione superiore (università e ITS). Questa articolazione verso l’alto e verso il basso, verso i più giovani e verso i dottorandi e i ricercatori rappresentava l’ambizione già della riforma Biagi, dopo il periodo espansivo inaugurato dalla riforma Treu. In quell’ottica, l’apprendistato era concepito sia come strumento per la lotta agli abbandoni scolastici prematuri, secondo quella che è la vulgata del modello tedesco (che in realtà presenta molte più sfaccettature); sia come strumento per gettare ponti duraturi tra istruzione e lavoro per mestieri di alta qualità e formazione, secondo i tratti innovativi dell’apprendistato francese all’inizio degli anni Duemila (ma non solo, visti i recenti sviluppi della formazione duale in Germania). Le esigenze che hanno portato alla differenziazione dei livelli di apprendistato non sono stati però sufficienti a trainare lo sviluppo dei contratti di primo e terzo livello. In questo senso, il recente decreto spinge verso la promozione di queste forme scolastiche di apprendistato utilizzando tuttavia una leva esclusivamente economica, la cui efficacia potrà essere valutata solo in futuro. Ciò che è certo, tuttavia, è che il nuovo apprendistato non rappresenta ancora un elemento integrato nel sistema di istruzione, come dimostrato anche dall’assenza di riferimenti nel testo definitivo della legge 107/2015, “La Buona Scuola”, per la riforma e riorganizzazione del sistema di istruzione e formazione (Tiraboschi, 2015). 4.2. Attori coinvolti e valore dell’apprendistato Il secondo elemento da considerare riguarda la complessa architettura relazionale di attori che intervengono nel sistema duale, a partire dal ruolo delle parti sociali e delle camere di commercio, dell’industria e dell’artigianato nel controllo e gestione della formazione. Nella governance di tale sistema di alternanza rientrano poi ovviamente il governo federale, i governi statali, gli istituti professionali, i centri per l’impiego. In particolare risulta spesso poco tematizzato il ruolo delle camere di commercio, cui spetta la responsabilità delle supervisione del processo di formazione, la conduzione degli esami intermedi e finali. In Germania il sistema duale poggia su una complessa infrastruttura di collaborazione consensuale tra attori profondamente radicata nella cultura e nel sistema socio-economico del paese. Si tratta di una struttura consolidata e sedimentatasi negli anni, che è stata anche criticata per lentezza e burocratizzazione, su cui riposa tuttavia la garanzia di qualità della formazione e conseguentemente di opportunità positive sul mercato del lavoro (Commissione Europea, 2013). Il coordinamento del 17 settore economico e dell’educazione richiede un’architettura complessa e altamente formalizzata che non deriva semplicemente dalle norme, ma da più ampie tradizioni culturali e dialogo che interessano, ad esempio, imprese e sindacati. Il sistema duale è stato istituito nel 1969 e da allora ha mantenuto un impianto coerente, pur attraverso modifiche (l’ultima principale riforma risale al 2004-2005) finalizzate a mantenere il passo con gli sviluppi dell’economia e delle società moderne. Non è certo la semplificazione la sua qualità distintiva (basti pensare agli attori coinvolti: sistema educativo, imprese, sindacati, camere di commercio, centri per l’impiego, Länder e stato federale) quanto piuttosto la paziente stabilizzazione nel tempo di un meccanismo oliato e consolidato, rispetto al quale gli interventi legislativi recenti hanno agito in ottica di supporto e promozione, senza intaccarne tuttavia la delicata e complessa logica sistemica. Non necessariamente quindi la tendenza alla semplificazione che ha caratterizzato gli ultimi sviluppi normativi in Italia rappresenta una garanzia di successo: l’alleggerimento degli obblighi procedurali e formativi potrebbe andare anche a discapito dei controlli e delle garanzie di qualità in materia di formazione. Inoltre, la debolezza del sistema italiano è anche inevitabilmente connesso e all’assenza di necessari e sedimentati presupposti culturali. In Germania, nonostante le relazioni tra sindacati e associazioni datoriali siano divenute più conflittuali, il tradizionale e radicato principio del consenso continua a mantenersi saldo nell’ambito del sistema duale poiché gli interessi di entrambe le parti convergono nell’attribuire valore a un sistema formativo in grado di formare lavoratori altamente qualificati con forti vantaggi competitivi sul lungo periodo per le imprese; di garantire l’accesso a professioni qualificate e ben retribuite per gli individui membri dei sindacati. Nel sistema italiano, la valorizzazione innanzitutto culturale dell’apprendistato continua a mancare. L’individuazione di questo gap culturale dell’apprendistato ha caratterizzato la strategia di promozione dell’istituto progettata dal Ministero Fornero, finalizzata a contrastare la concezione dell’apprendistato come contratto scarsamente appetibile e diretto soprattutto a lavori low-skilled, necessitanti un basso livello di competenza. La concezione prevalente nel mondo delle imprese e in generale nella nostra società italiana si riferisce infatti ad una versione informale di tale contratto, secondo cui la formazione esterna all’impresa e la necessità di documentazione della stessa vengono considerate tendenzialmente come impedimenti burocratici o addirittura ostacoli al processo produttivo. Come sottolineato in precedenza, le ripetute modifiche degli ultimi anni hanno condotto al depotenziamento, e non allo sviluppo, della logica sistemica introdotta dal Testo Unico del 2011: i continui interventi legislativi impediscono la costituzione di un quadro normativo istituzionale stabile che possa fungere da riferimento per gli adeguamenti normativi regionali, per le azioni di operatori economici e del sistema di relazioni industriali chiamati a trasporre le regole generali nella contrattazione collettiva di settore, per gli operatori del sistema educativo nel caso 18 dell’apprendistato di primo e secondo livello (Massagli & Tiraboschi, 2015). L’irrisolto gap culturale dell’apprendistato all’italiana è perfettamente espresso dalla supremazia del secondo livello dell’apprendistato professionalizzante, dal continuo depotenziamento della dimensione formativa, dall’espulsione dell’istituto dal testo de “La Buona Scuola”. Si tratta dell’idea per cui l’apprendistato rappresenti principalmente un canale di inserimento nel mondo del lavoro per chi ha avuto difficoltà nel suo percorso scolastico (i cosiddetti low achievers o gli early school leavers) e che di conseguenza riguarda occupazioni o mestieri a basso livello di qualificazione, i cui contenuti fondamentali si possano apprendere semplicemente tramite l’affiancamento e osservazione del collega con più esperienza. La radice di questo gap sta anche nella profonda separazione tra educazione e lavoro nel nostro paese, di cui il fallimento dell’alternanza scuola-lavoro e dell’apprendistato scolastico rappresenta una logica conseguenza. Si tratta di un problema radicato nel nostro sistema culturale e sociale, che ritroviamo ad esempio nella tendenze a lungo dominanti della liceizzazione dell’istruzione secondaria, con marginalizzazione della formazione professionale, specialmente di competenza regionale; e della conformazione unitaria dell’istruzione superiore, con la sostanziale assenza di istituti non universitari (Trivellato & Triventi, 2015). Alla separazione italiana si contrappone la già citata dualità del modello tedesco, dove la formazione appare fortemente radicata sia nel sistema scolastico statale (gli apprendisti trascorrono due giorni a settimana negli istituti professionali), sia nelle imprese (formazione sul posto di lavoro derivante da una combinazione di esperienza lavorativa e in centri di formazione gestiti dalle imprese). 4.3. Occupazione e capitalizzazione delle competenze Un terzo elemento riguarda il concetto di occupazione e di “occupational labour market”: l’obiettivo della formazione nel sistema duale è infatti fornire all’individuo le abilità necessarie per lavorare e agire in modo competente in ambiente di lavoro (Lohmar & Eckhardt, 2013). Le certificazioni ottenute attestano il possesso di abilità che non sono specifiche rispetto all’azienda formativa, ma si riferiscono alla più ampia occupazione per cui si è svolta la formazione. Questa precondizione attribuisce al lavoratore importanti prospettive di capitalizzazione delle competenze ottenute e di mobilità tra aziende differenti, all’interno della stessa occupazione o filone occupazionale (Bosch, 2010). La certificazione qualitativa della competenze acquisite è mirato a favorire il riconoscimento delle stesse da parte di altri attori economici e la possibilità di mobilità del lavoratore tra differenti aziende, innescando una carriera fatta di progressi all’interno della professione per la quale si è ricevuta la formazione. Requisito necessario è l’esistenza di un repertorio di circa 350 professioni riconosciute come necessitanti formazione formale (e 19 conseguenti standard formativi e professionali) a livello nazionale, in continuo aggiornamento per via dell’azione congiunta delle parti sociali e del governo federale. Ancora una volta, si tratta di un elemento altamente formalizzato basato su procedure consensuali, laddove il ruolo dello stato è per lo più quello di riconoscere e realizzare il compromesso raggiunto tra lavoratori e datori di lavoro (Solga et al., 2014). In Italia, questo nodo fondamentale di congiunzione tra formazione e lavoro continua a mancare. La strada era stata intrapresa dal Testo Unico e dal decreto 13/2013, che ha istituito il Repertorio nazionale dei titoli di istruzione e formazione e delle qualificazioni professionali. A tale repertorio, che non è tuttavia ancora operativo, dovrà essere incluso il Repertorio delle qualificazioni conseguite in apprendistato, il cui processo di costruzione da parte di un organismo tecnico è in corso a partire dai profili professionali dell’apprendistato definiti nei contratti collettivi nazionali di lavoro (Isfol, 2015). La frammentarietà di tali profili (Di Monaco & Pilutti, 2012) e l’inadeguatezza delle metodologie adottate rispetto alle previsioni del Testo Unico rischiano di minare in partenza tale percorso, rendendo il repertorio nazionale un elemento ritualistico di scarsa efficacia effettiva (Pastore, 2014; Tiraboschi, 2015). La costituzione di un quadro istituzionale coerente di riconoscimento e certificazione delle competenze acquisite durante l’esperienza di formazione-lavoro costituisce una condizione necessaria al funzionamento del sistema di apprendistato, in quanto prerequisito della possibilità di mobilità tra aziende e progressione all’interno dell’occupazione per la quale si è stati formati. In caso contrario, l’apprendistato rischia di diventare soltanto un mezzo per abbassare il costo del lavoro dal lato dell’impresa mentre dal lato dell’offerta di lavoro il contratto perde di attrattività per i giovani e il suo potenziale positivo per la competitività economica risulta irrealizzato. Dobbiamo dunque registrare la perdurante assenza di un repertorio nazionale delle competenze, capace di collegare figure professionali a corrispondenti standard formativi e criteri di valutazione. Da quanto detto deriva la descrizione di un apprendistato spiccatamente aziendale finalizzato al conseguimento di qualifiche contrattuali e competenze fortemente firm-specific che ostacola processi più ampi di capitalizzazione delle competenze acquisite (Casano, 2015). 5. Conclusioni Nel presente contributo abbiamo delineato le principali caratteristiche dell’attuale sistema italiano del “nuovo apprendistato”. Tale obiettivo è stato perseguito attraverso: la ricostruzione del processo di riforma che ha interessato l’istituto dalla fine degli anni Novanta fino ad arrivare al recente decreto legislativo 81/2015; l’analisi dei dati relativi alla diffusione del contratto di apprendistato 20 (differenti tipologie contrattuali, caratteristiche dell’utenza) in Italia. In seguito, considerando l’ambizione del suddetto decreto di costituire una via italiana al modello duale di formazione e lavoro, abbiamo proposto un confronto con il sistema duale tedesco. In particolare, ci siamo chiesti se nel contesto italiano e nell’attuale configurazione del nostro modello di apprendistato (caratterizzata dalla prevalenza dell’apprendistato professionalizzante) sussistano alcune condizioni strutturali considerate come prerequisiti fondamentali al funzionamento del sistema di apprendistato vigente in Germania. Il confronto ha evidenziato l’importante distanza tra i due paesi rispetto ai seguenti punti: L’integrazione dell’apprendistato nel sistema di istruzione e formazione professionale. L’esistenza di una cornice istituzionale consolidata e radicata, e di una forte valorizzazione culturale dell’apprendistato. L’esistenza di un sistema di certificazione delle competenze che consenta di riconoscere e capitalizzare la formazione ricevuta dall’apprendista all’interno di un mercato del lavoro occupazionale. Gli elementi segnalati fanno crescere il dubbio che l’importazione “sulla carta” di una buona pratica culturalmente e socialmente radicata in un particolare contesto, attraverso il ricorso a continui richiami di principio e modifiche legislative possa davvero risultare una soluzione percorribile. I dati periodici del monitoraggio Isfol gettano infatti ombre sui possibili sviluppi di riforme finalizzate al repentino passaggio da un istituto costruito attorno al risparmio economico/contributivo e alla funzione sociale di contrasto alla disoccupazione giovanile, ad uno strumento di investimento in competenze e abilità professionali finalizzato ad un’occupazione di qualità. Se anche la recente normativa mostra una chiara volontà di promozione dell’apprendistato scolastico, ciò non avviene sulla base di una coerente ristrutturazione del rapporto tra sistema educativo e mondo del lavoro, ma piuttosto parallelamente ad essa. Resta inoltre aperto il problema della struttura di implementazione, rimandato a un successivo decreto, questione rispetto alla quale il Testo Unico aveva introdotto rilevanti innovazioni, ma che è stata poi ampiamente tralasciata dai successivi interventi legislativi (Massagli & Tiraboschi, 2015). In un contesto in cui appare particolarmente complesso realizzare investimenti efficaci nel sociale a causa della mancanza di necessarie precondizioni strutturali (Kazepov & Ranci, 2015) e in cui anche il time-frame (Bonoli, 2007) caratterizzato dalla depressione economica e dai vincoli dell’austerità risulta particolarmente sfavorevole, si è proceduto attraverso continue modifiche togliendo certezze agli operatori, invece di implementare una normativa largamente condivisa e la logica sistemica del “nuovo apprendistato” introdotta dal Testo Unico. Questo ha impedito la costruzione di una stabile 21 architettura istituzionale (Commissione Europea, 2013), da innestare necessariamente sulle caratteristiche del nostro contesto economico, sociale e culturale, nell’ambito della quale implementare un sistema di incontro tra domanda e offerta di lavoro incentrato sulle competenze e la formazione dei giovani. References Anastasia, B. (2013). Limiti e opportunità (reali) dell’apprendistato in Il Mulino 5, 816-823. Ballarino, G., & Checchi, D. (2013). La Germania può essere un termine di paragone per l’Italia? Istruzione e formazione in un’economia di mercato coordinata. In Rivista di Politica Economica, 1, 39-74. Bigos M., Quaran W., Fenger M., Koster F., Macini P., Van der Veen R., (2013). Review Essay on Labour Market Resilience, INSPIRES Working paper series no. 1 Bonoli, G. (2007). 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