Il nuovo apprendistato italiano: regolazione, diffusione e distanza

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Il nuovo apprendistato italiano: regolazione, diffusione e distanza
Il nuovo apprendistato italiano: regolazione, diffusione e distanza dal
modello tedesco
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Autore: Ruggero Cefalo, Università degli Studi di Urbino “Carlo Bo”, Dipartimento di Economia,
Società, Diritto, PhD student (tutor: Professor Yuri Kazepov), junior researcher nel progetto
Europeo INSPIRES (Innovative Social Policies for Inclusive and Resilient Labour Markets in
Europe) - via Saffi 42 – 61029 Urbino, Italy.
e-mail: [email protected], [email protected]
Abstract
Il contratto di apprendistato in Italia è stato recentemente oggetto di importanti modifiche,
culminate nell’adozione del Testo Unico dell’Apprendistato (2011) e nella successiva strategia di
promozione del “nuovo apprendistato” come principale canale di ingresso per i giovani nel mercato
del lavoro. Tuttavia, la diffusione di tale contratto nel contesto italiano risulta ancora limitata
specialmente per le due forme di apprendistato che maggiormente insistono sull’alternanza scuolalavoro. Nel presente articolo, saranno ripercorsi i principali mutamenti del quadro normativo che
hanno portato alla definizione del nuovo apprendistato con l’approvazione del Testo Unico e i
successivi sviluppi fino al decreto legislativo 81/2015. Sarà inoltre analizzata la diffusione del
contratto di apprendistato in Italia, sottolineandone le rilevanti criticità e le forti disomogeneità
territoriali. Nella terza parte dell’articolo, il sistema di apprendistato italiano sarà posto a confronto
con il modello di apprendistato vigente in Germania, all’interno del sistema duale di formazione
professionale. Dalla comparazione si trarranno indicazioni riguardo alle particolarità di carattere
contestuale e alle criticità del caso italiano.
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1. Introduzione
Come contratto a causa mista che coniuga esigenze di formazione e inserimento lavorativo,
l’apprendistato mira a favorire l’integrazione dei giovani nel mercato del lavoro fornendo loro
abilità e competenze necessarie a svolgere occupazioni qualificate. Questo obiettivo è perseguito
mediante un legame variamente declinabile con il sistema dell’educazione e della formazione
professionale (iniziale o continua), che comporta un’alternanza tra formazione esterna e più
specifica formazione interna all’impresa (Commissione Europea, 2012).
Le ampie potenzialità in termini occupazionali e di sviluppo del capitale umano si riflettono tuttavia
anche nella complessità che caratterizza tale istituto. La configurazione specifica dell’apprendistato
e il suo impatto sulle fasce più giovani della forza-lavoro variano infatti fortemente a seconda del
paese considerato, in quanto influenzata da condizioni strutturali di contesto che rimandano alla
relazione tra sistema educativo, mercato del lavoro e sistema di welfare (Kazepov & Ranci, 2015).
A partire dalla seconda metà degli anni Novanta, l’apprendistato ha progressivamente occupato una
posizione centrale nel campo delle politiche del lavoro italiane, in risposta agli alti livelli di
disoccupazione giovanile e dispersione scolastica (Anastasia, 2013). L’apprendistato tradizionale è
stato estensivamente riformato, traendo ispirazione dai modelli dei paesi dell’Europa Centrale e, in
particolare negli ultimi anni, dal sistema duale tedesco, ricevendo una compiuta configurazione
sistemica dopo l’intervento con intento di sintesi, regolazione e rilancio effettuato dal Testo Unico
dell’Apprendistato (decreto legislativo 167/2011). Il recente Decreto legislativo 81/2015, quarto
atto legislativo che compone il Jobs Act, costituisce l’ultima delle ripetute modifiche strutturali che
hanno interessato quest’istituto contrattuale con l’obiettivo di rilanciarne la diffusione. Nonostante
le importanti aspettative che hanno accompagnato infatti questa misura di policy, considerata lo
strumento fondamentale per la gestione dell’ingresso dei giovani nel mercato del lavoro, la
dinamica espansiva innescatasi dalla fine degli anni ’90 si è interrotta tra il 2008 e il 2009, sostituita
da una perdurante contrazione del numero di apprendisti.
Nel presente articolo, saranno ripercorsi i principali mutamenti del quadro normativo che hanno
portato alla definizione del nuovo apprendistato con l’approvazione del Testo Unico e i successivi
sviluppi fino al decreto legislativo 81/2015. Sarà inoltre analizzata la diffusione del contratto di
apprendistato in Italia, sottolineandone le criticità e le forti disomogeneità territoriali ma anche
cercando di tracciare un quadro di quelle che sono le caratteristiche attuali del sistema di
apprendistato diffuso oggi in Italia. Nella terza parte dell’articolo, il sistema di apprendistato
italiano così delineato sarà posto a confronto con il sistema duale di formazione professionale della
Germania. In particolare, a partire dalla letteratura scientifica sul tema, ci si concentrerà su alcune
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condizioni strutturali necessarie al funzionamento di tale sistema e ci si chiederà quindi se il
contesto italiano e il modello di apprendistato attualmente diffuso presentino presupposti favorevoli
alla costituzione di un sistema duale di formazione e lavoro.
Oltre ai dati provenienti dai periodici rapporti di monitoraggio dell’Isfol e dal Sistema delle
Comunicazioni Obbligatorie, le riflessioni sviluppate nel presente articolo si basano sulle interviste
a stakeholders ed esperti del mercato del lavoro italiano realizzate per il progetto di ricerca Inspires
- Innovative Social Policies for Inclusive and Resilient Labour Markets in Europe, co-finanziato
dalla Commissione Europea nell’ambito del Settimo Programma Quadro.
2. Costituzione e riforma del sistema italiano di apprendistato
In Italia l’istituto dell’apprendistato ha una lunga storia, essendo stato introdotto nell’ordinamento
italiano dalla legge 25/55, come speciale rapporto di lavoro per il quale all’apprendista assunto
dovevano essere impartiti, da parte dell’imprenditore, gli insegnamenti necessari per divenire
lavoratore qualificato all’interno dell’azienda. Con la progressiva deindustrializzazione del sistema
economico l’istituto ha conosciuto un lungo e progressivo declino, passando da 831.613 apprendisti
occupati nel 1969 a 393.138 nel 1997 (Isfol, 2013).
Nella seconda metà degli anni ’90 tuttavia, gli alti tassi di disoccupazione giovanile (oltre il 30%)
così come le difficoltà strutturali caratterizzanti la transizione dal sistema educativo al mercato del
lavoro, hanno condotto ad una rinascita dell’interesse verso tale tipologia contrattuale (Kazepov &
Ranci, 2015). Nel 1997 la legge Treu ha elevato il limite di età per l’assunzione da 20 a 24 o 26
anni abolendo inoltre i vincoli settoriali al suo utilizzo. La conseguente espansione del numero di
apprendisti fece emergere l’esigenza di regolamentare differenti percorsi per gruppi di potenziali
utenti, ad esempio i minori d’età. In quest’ottica, la legge 30/2003 e il decreto 276/03 modificarono
profondamente l’istituto: da un lato, la platea è stata ampliata ulteriormente essendo ammessi i
giovani fino a 29 anni; dall’altro, si è verificata un’importante espansione qualitativa
dell’apprendistato verso le fasce più qualificate, i laureati. In particolare, la riforma Biagi ha
previsto la differenziazione in tre livelli dell’apprendistato (accanto ad essi sopravvivrà ancora
l’apprendistato tradizionale regolato dalla legge Treu), introducendo una caratteristica strutturale
del sistema italiano destinata a durare tutt’oggi: contratto di apprendistato per l’espletamento del
diritto-dovere di istruzione e formazione (qualificante), contratto di apprendistato finalizzato al
conseguimento di una qualifica professionale (professionalizzante), contratto di apprendistato per
l’acquisizione di un diploma o per percorsi di alta formazione (specializzante).
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La riforma dell’apprendistato è parte di un più ampio intervento sulle transizioni tra educazione e
formazione, da un lato, e mercato del lavoro dall’altro, finalizzato a innalzare l’inclusività del
mondo del lavoro rispetto ai nuovi entranti facilitandone l’ingresso e l’inserimento (Ministero del
Lavoro e delle Politiche Sociali, 2001). In quest’ottica, l’apprendistato viene considerato uno
strumento cruciale in quanto principale contratto di formazione e lavoro, atto al raggiungimento di
un titolo di studio e di una qualifica professionale al contempo. Piuttosto che strumento di
placement marcatamente aziendale del lavoratore nella specifica impresa, l’obiettivo (condiviso
negli anni seguenti dalle successive riforme, almeno dal punto di vista della retorica di principio) è
quello di assegnare all’apprendistato un respiro ben più ampio, come strumento di formazione
finalizzato all’integrazione nel mercato del lavoro nel suo complesso. Rispetto alla possibilità di
ottenere tramite il contratto di apprendistato anche titoli di studio più elevati (diploma di scuola
superiore e laurea universitaria), ambiziosa fonte di ispirazione è costituita innanzitutto dalle
sperimentazioni di quel periodo in Francia in materia di alto apprendistato.
Occorre sottolineare, tuttavia, come nella differenziazione introdotta dalla Legge Biagi convivano
tipologie contrattuali strutturate in modo differente dal punto di vista dell’integrazione tra
componente formativa ed esperienza lavorativa: l’apprendistato di secondo livello, finalizzato a una
qualifica contrattuale e maggiormente distaccato dal sistema di istruzione e formazione (quindi con
caratteristiche più tradizionali); l’apprendistato scolastico di primo e terzo livello, mirati al
conseguimento di un titolo di studio per mezzo di un’alternanza scuola-lavoro (Garofalo, 2014).
La riforma Biagi si inscrive all’interno di una dinamica espansiva dell’istituto, tuttavia la complessa
architettura istituzionale che prefigura si scontra con forti difficoltà di implementazione. Questi
elementi di criticità sono stati inoltre acuiti dall’impatto della crisi economica, che tra 2008 e 2009
ha contribuito in modo determinante all’inversione della tendenza espansiva perdurante da oltre un
decennio. In seguito il decreto legislativo 167 del 2011, risultato di mesi di lunghe negoziazioni tra
Governo, regioni e parti sociali, ha riformato la disciplina dell'apprendistato, abrogando la
normativa preesistente e riunendo in un Testo Unico tutte le precedenti norme che erano intervenute
nella regolazione dell’istituto. L’intento della riforma sistemica apportata dal Testo Unico era di
rilanciare l’apprendistato attraverso la costituzione di un sistema di “nuovo apprendistato” italiano
coerente e comprensivo. Il TU ribadisce la centralità dell’apprendistato nelle strategie di
inserimento lavorativo, definendolo un contratto di lavoro a tempo indeterminato finalizzato al
duplice obiettivo (causa mista) della formazione e occupazione dei giovani. Occorre notare,
tuttavia, che al termine del periodo di formazione il datore di lavoro può recedere dal contratto
senza ulteriori implicazioni. La strategia di promozione dell’istituto è connessa innanzitutto a
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incentivi di carattere economico (riduzione dei contributi a carico del datore di lavoro, possibilità di
sotto-inquadramento dell’apprendista nella determinazione del salario).
Il decreto mantiene la struttura tripartita introdotta dalla legge Biagi, pur procedendo a una parziale
riorganizzazione delle tipologie (Treellle, 2013):

Apprendistato per la qualifica e il diploma professionale, finalizzato al conseguimento della
qualifica o del diploma professionale di competenza regionale durante lo sviluppo di
un’esperienza lavorativa in un’azienda. È destinato a giovani dai 15 ai 25 anni per una
durata di 3 o 4 anni, a seconda della specifica area professionale considerate e delle
competenze richieste. Il monte ore di formazione esterna, pur variando a seconda delle
regioni, si attesta generalmente sulle 400 ore annue.

Apprendistato professionalizzante o contratto di mestiere destinato a giovani dai 18 ai 29
anni e finalizzato al conseguimento di una qualifica contrattuale definita dalla contrattazione
collettiva, per una durata dai 3 ai 5 anni. L’elemento centrale è in questo caso la formazione
on-the-job, che dovrebbe fornire all’apprendista competenze tecniche specifiche, integrate
da una formazione esterna per l’acquisizione di competenze di base e trasversali. La
formazione esterna dovrebbe essere fornita dalle regioni per un monte ore complessivo pari
a 120 ore annue (sarà ridotto a 120 ore in tre anni da successivi provvedimenti), le parti
sociali dovrebbero inoltre avere un ruolo rilevante nella definizione delle modalità
e
nell’effettiva gestione dell’attività formativa.

Apprendistato di alta formazione e di ricerca, destinato ai giovani tra i 18 ed i 29 anni di età
e finalizzato al conseguimento di un diploma di istruzione secondaria superiore, di titoli di
studio universitari e dell’alta formazione (compresi i dottorati di ricerca), della
specializzazione degli Istituti tecnici superiori, nonché al praticantato per l’accesso alle
professioni ordinistiche o per esperienze professionali di ricerca. Il monte ore di formazione
esterna è definito a livello regionale oppure, in assenza della regolamentazione regionale,
dalle convenzioni stipulate dai datori di lavoro con le diverse istituzioni formative.
Viene inoltre introdotta una quarta categoria, di carattere residuale, che consente l’uso del contratto
di apprendistato anche per la riqualificazione di lavoratori in mobilità.
L’elemento più rilevante del TU risiede probabilmente nella introduzione di un sistema di
governance multilivello dell’apprendistato attraverso la costituzione di un network di cooperazione
tra Governo centrale, regioni e parti sociali (Teoldi e Garibaldi, 2012; Pastore, 2014).
Il sistema del “nuovo apprendistato” introdotto dal TU ha rivestito un ruolo centrale anche nella
successiva riforma del mercato del lavoro a seguito della legge 92/2012, in quanto “canale
privilegiato di accesso dei giovani al mondo del lavoro”. La legge stabilisce la durata minima del
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contratto di apprendistato, include gli apprendisti come potenziali beneficiari della nuova
Assicurazione Sociale per l’Impiego, fissa il rispetto di alcuni vincoli per l’assunzione di nuovi
apprendisti da parte dei datori di lavoro (rispetto di determinati rapporti tra apprendisti e lavoratori
qualificati, stabilizzazione di quote di apprendisti). Specialmente questi ultimi vincoli di
stabilizzazione incontrarono significative opposizioni dal lato delle imprese. La componente
formativa fu anch’essa modificata: gli obblighi formativi sono fortemente ridotti per l’apprendistato
di secondo livello (da 120 ore l’anno a 120 ore durante i tre anni di durata del periodo formativo) e
la formazione esterna è limitata alla formazione generale e trasversale, escludendo le competenze
tecniche e professionali.
Le modifiche della 92/2012 non esauriscono gli interventi in materia di apprendistato progettati dal
Ministro Fornero. Tra il 2012 e il 2013, sulle basi di una collaborazione con l’allora Ministro del
Lavoro tedesco Ursula Von der Leyen, di ripetuti incontri e missioni di studio in Germania, il
Ministero del Lavoro ha elaborato infatti un programma di interventi specifici e commisurati alle tre
tipologie di apprendistato al fine di: promuovere l’apprendistato come strumento privilegiato per la
creazione di impiego in lavori qualificati per le fasce più giovani della popolazione; accrescere la
convenienza del contratto di apprendistato per le imprese attraverso incentivi economici; rafforzare
la rete di attori e servizi coinvolti nella governance del sistema. L’obiettivo del governo era inoltre
quello di esercitare un ruolo centrale di coordinamento rispetto alla varietà delle procedure
amministrative caratterizzanti le regolazioni regionali in materia di apprendistato (per
l’implementazione della normativa, il TU rimandava infatti alla legislazione regionale). La
caratterizzazione socio-culturale dell’apprendistato in Italia rispetto a quella diffusa in altri paesi e
le problematiche connesse all’implementazione erano considerate i principali ostacoli alla
diffusione e al rilancio dell’istituto. Ciò che preme sottolineare in questa sede è la continuità rispetto
alla logica sistemica introdotta dal TU, che caratterizzava tale strategia, per la verità di breve durata,
che non si è poi ripetuto nei periodi successive. Dopo il governo Monti infatti, l’apprendistato non è
più stato al centro di un insieme coordinato di interventi e la via scelta è stata invece piuttosto quella
dei continui interventi normativi di modifica e ritorno, minando fortemente la stabilità dell’istituto
(Tiraboschi, 2015).
Negli anni successivi alla Riforma Fornero, visto il trend ancora calante delle assunzioni in
apprendistato e l’assenza dell’auspicata ripresa dell’istituto, si sono succeduti numerosi interventi e
modifiche legislative, intrecciandosi con la sempre maggiore attenzione attribuita a livello europeo
all’apprendistato come strumento di politica attiva e investimento sociale in grado di combattere la
disoccupazione giovanile e la dispersione scolastica attraverso un percorso di sviluppo del capitale
umano (Commissione Europea, 2012, 2013). Agendo su un sistema ancora lontano dall’essersi
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consolidato soprattutto dal punto di vista della regolamentazione regionale e della cooperazione tra
regioni e attori della contrattazione collettiva, gli interventi legislativi hanno mirato innanzitutto alla
semplificazione delle procedure e al progressivo alleggerimento degli obblighi formativi in capo
all’impresa, nonché alla riduzione dei vincoli di stabilizzazione. In questa direzione si sono mossi i
decreti legge 76/2013 (decreto Giovannini-Letta) e la legge 78/2014, conversione del decreto
34/2014 noto come decreto Poletti. La volontà di incentivare le assunzioni in apprendistato agendo
essenzialmente sulle leve della convenienza economica, delle semplificazioni e riduzione della
componente formativa (tendenza quest’ultima rintracciabile già dalla legge Fornero per quanto
riguarda l’apprendistato professionalizzante) sembra potersi leggere come un passo indietro rispetto
all’ambiziosa concezione dell’apprendistato come strumento di formazione finalizzato alla
preparazione a lavori altamente qualificati, nonché dall’obiettivo dell’occupabilità a medio e lungo
termine dell’individuo. Ad essere privilegiato è invece l’interesse specifico dell’impresa, in un
perdurante clima di diffusa diffidenza verso l’introduzione di una stabile componente formativa
all’interno del processo produttivo. Come vedremo nei paragrafi successivi, questa connotazione
marcatamente aziendale dell’apprendistato all’italiana è perfettamente espresso dal dominio
dell’apprendistato
professionalizzante
rispetto
alle
forme
di
apprendistato
scolastico,
sostanzialmente introdotte dal 2003 ma ancora ferme, ad eccezione di alcune buone pratiche locali,
allo stadio di sperimentazioni (Di Monaco & Pilutti, 2012; Isfol, 2015).
Questo è dunque il contesto in cui interviene il decreto legislativo 15 giugno 2015 n. 81, recante la
disciplina organica dei contratti di lavoro al fine del riordino e revisione delle tipologie contrattuali
flessibili, che intacca nuovamente la logica sistemica del Testo Unico e introduce rilevanti
modifiche atte soprattutto alla riorganizzazione e promozione dell’apprendistato di I e III livello
(Tiraboschi, 2015). Il decreto comporta l’abrogazione del TU del 2011, fatta salva la disciplina
transitoria, e modifica l’articolazione interna delle tre tipologie di apprendistato, concentrandosi in
particolare su quelli che vengono ora denominati apprendistato per la qualifica e il diploma
professionale, il diploma di istruzione secondaria superiore e il certificato di specializzazione
tecnica superiore, apprendistato di alta formazione e ricerca. L’ampliamento delle finalità del I
livello si estende al conseguimento, oltre ai titoli triennali e quadriennali del sistema IeFP, ai titoli
di scuola secondaria superiore e a percorsi i IFTS. Il terzo livello conosce una corrispondente
riduzione, divenendo finalizzato al conseguimento di titoli dell’istruzione universitaria, ITS, attività
di ricerca e accesso a professioni ordinistiche. Elemento comune è la riduzione dei costi (riduzione
delle retribuzioni degli apprendisti, dal cui calcolo vengono escluse le ore di formazione).
L’obiettivo esplicito è quello della costituzione di un sistema duale integrato di formazione e
lavoro, incentivando il ricorso all’apprendistato di I e III livello (attraverso la riduzione delle
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retribuzioni e gli incentivi) rispetto a quello professionalizzante. Colpisce, tuttavia, come tale
intervento concentrato sull’apprendistato scolastico avvenga in un perdurante regime di separazione
tra scuola e lavoro, mancando l’occasione di integrazione sistemica tra le due aree. La riforma de
“La Buona Scuola” (legge 107/2015), nella sua versione definitiva, vede stralciato il riferimento
all’apprendistato e punta invece all’istituzione di un regime di alternanza scuola-lavoro, rinunciando
a quello che poteva essere un importante passo di integrazione dell’unico contratto a causa mista
formazione-lavoro nel sistema educativo italiano. Inizialmente inserito come strumento contrattuale
per mettere in pratica la metodologia dell’alternanza scuola-lavoro l’apprendistato (anche quello
c.d. “scolastico”) è ora infatti interamente regolato nell’appunto già citato decreto 81/2015, testo di
riforma delle tipologie contrattuali (Massagli, 2015).
Il decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81 rappresenta solo l’ultimo dei numerosi interventi
legislativi che, dopo il Testo Unico del 2011, sono intervenuti sulla cornice legale che regola
l’istituto, compromettendo la costituzione di un quadro normativo e istituzionale stabile e, di
conseguenza, rischiando di paralizzare l’azione di operatori economici e delle parti sociali chiamate
a trasporre le regole generali nella contrattazione collettiva di settore. Tali riforme sono state
accusate di mancanza di progettualità di ampio respiro, laddove le dimensioni dell’incentivo
economico/contributivo e la funzione sociale di disoccupazione giovanile sono state continuamente
privilegiate rispetto alla dimensione culturale che coinvolge l’importanza e la qualità della
formazione e della costruzione di competenze necessarie ad un mercato del lavoro sempre più
globalizzato e tecnologicamente avanzato (Massagli & Tiraboschi, 2015). I continui cambiamenti
normativi si sono così intrecciati alle criticità più profonde e di matrice anche culturale che
caratterizzano la nostra società, ostacolando lo sviluppo di un sistema di apprendistato stabile e
diffuso, in cui tale contratto rappresenti un effettivo strumento di investimento sociale per la
valorizzazione e sviluppo del capitale umano.
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3. La diffusione del “nuovo apprendistato” in Italia
Come detto, in risposta alla crisi dell’apprendistato negli anni ‘80 e ’90 ha inizio a partire dal 1997
una traiettoria di riforma e conseguente espansione dell’istituto fino al picco fatto registrare nel
2008 dal numero medio di contratti in apprendistato (644.592)1. La crisi economica ha poi
contribuito all’innesco di una pesante dinamica di contrazione: nonostante le importanti aspettative
degli attori politici e le continue riforme il declino di tale tipologia contrattuale è proseguito almeno
fino al 2014 (Isfol, 2015).
In questo senso, il XV rapporto Isfol (riferito agli anni 2013-2014) non evidenzia stabili inversioni
di tendenza: con qualche eccezione (ripresa del numero avviamenti di contratti in apprendistato nel
secondo semestre del 2014 rispetto al 2013) la cui tenuta andrà però valutata nel tempo, i numeri
continuano ad essere scoraggianti. Il rapporto fotografa ovviamente una situazione antecedente
all’entrata in vigore del decreto 81, e può quindi inizialmente apparire fuori sincrono rispetto ai
rapidi sviluppi normativi. In realtà, le modifiche apportate dal decreto e l’abrogazione del Testo
Unico, oltre a riguardare solo marginalmente il ben più diffuso apprendistato di secondo livello,
prevedono l’emanazione di un successivo decreto governativo per la definitiva configurazione degli
apprendistati “scolastici” (cui dovranno seguire gli adeguamenti normativi regionali). Fino ad
allora, durante il regime transitorio, varranno ancora le disposizioni del Testo Unico (Tiraboschi,
2015). Il rapporto Isfol risulta allora particolarmente utile nel contestualizzare l’attuale situazione
dell’apprendistato, discutendone mancanze e debolezze, al fine di comprendere se i cambiamenti
introdotti configurano, per il momento solo sul piano normativo, una risposta a tali lacune.
Lo stock medio dei lavoratori occupati in apprendistato risulta ancora in contrazione, seguendo un
trend che ha avuto inizio nel 2009. Nonostante le forti differenziazioni regionali, questo trend
accomuna sia le regioni del Centro-Nord, dove l’apprendistato è maggiormente diffuso, sia le
regioni del Sud del paese (Isfol, 2015).
1
Come sottolineato da Di Monaco & Pilutti (2012), I dati relative al numero di apprendisti non dovrebbero essere usati
come proxy per l’occupazione in apprendistato, poiché rappresentano un dato di flusso (persone che sono passate
attraverso tale condizione, sia pure per un breve periodo di tempo). Per questo motivo, Isfol (2012) propone un
indicatore maggiormente dettagliato, ovvero il numero medio di contratti di apprendistato (ottenuto dalla divisione per
12 del numero di contratti di apprendistato registrati mese per mese).
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Grafico 1: andamento dell’occupazione in apprendistato (numero medio di contratti), macro area di contribuzione,
1998-2013
Apprendistato in Italia
(numero medio di contratti)
700.000
600.000
500.000
Nord Italia
400.000
Centro Italia
300.000
Sud Italia
Italia
200.000
100.000
0
1998
2000
2002
2004
2006
2008
2010
2012
Fonte: nostra elaborazione su dati Isfol, varie pubblicazioni
Il peso dell’apprendistato sul totale dei rapporti di lavoro avviati continua ad essere molto bassa
(intorno al 2-3%, si veda in proposito: Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, 2014), e il
tasso di copertura della formazione pubblica resta fermo al 32% degli apprendisti occupati. Anche
in questo caso, i dati complessivi a livello nazionale nascondono tuttavia una forte segmentazione
su base territoriale, dal momento che il tasso di copertura delle attività formative si attesta intorno al
40% nel nord del paese, mentre cala bruscamente nel Centro e soprattutto nelle regioni meridionali.
Inoltre, i dati relativi alla durata effettiva dei contratti di apprendistato evidenziano la volatilità che
contraddistingue questo strumento contrattuale: solo il 16,5% delle cessazioni avviene al termine
del periodo formativo, una quota rilevante si verifica già entro il terzo mese (8,5% nella media dei
trimestri 2013), generalmente coincidente con il periodo di prova, ma soprattutto solo il 49,3% dei
contratti supera l’anno di durata (49,3%).
Guardando alle tipologie contrattuali coinvolte e alle caratteristiche degli apprendisti è possibile
trarre ulteriori indicazioni rispetto alla configurazione dell’apprendistato all’italiana. Innanzitutto,
nel 2014 si è finalmente concluso il lungo processo di recepimento e adeguamento delle normative
regionali anche per l’apprendistato di I e III livello (Italia Lavoro, 2015). Ciò è avvenuto tuttavia
con importanti differenziazioni territoriali sia nei tempi sia nei contenuti, mentre una quota rilevante
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di amministrazioni regionali non ha comunque dato attuazione alle proprie discipline attraverso
l’emanazione di Avvisi, bandi, Linee guida volti alla definizione di una offerta formativa pubblica
per gli apprendisti e all’individuazione dei soggetti attuatori (Isfol, 2015). Tutto questo riflette il già
citato quadro di forte frammentazione territoriale nell’utilizzo dell’apprendistato, la cui diffusione si
concentra nell’Italia settentrionale (soprattutto nel Nord-Ovest) e in misura minore al Centro,
mentre appare molto più limitata nel Mezzogiorno.
Il sistema tripartito (apprendistato per la qualifica o il diploma professionale, apprendistato
professionalizzante o di mestiere, apprendistato di alta formazione e ricerca) soffre di un estremo
squilibrio laddove la tipologia di contratto professionalizzante copre oltre il 90% dei contratti di
apprendistato, mentre nel restante 10% confluiscono i contratti ancora in essere regolati dalla legge
Treu, e le altre due tipologie di apprendistato. Nel 2013, l’apprendistato per la qualifica e il diploma
professionale contava 3.405 iscritti, di cui 3.000 solo nella provincia di Bolzano, che ha sviluppato
una propria struttura in larga autonomia seguendo sostanzialmente l’organizzazione del sistema
duale tedesco. L’apprendistato di Alta formazione e ricerca, sempre nel 2013 ha fatto invece
registrare 503 iscritti.
La diffusione marginale del I e III livello è connessa anche alla concorrenza con l’apprendistato
professionalizzante che, a parità di esenzioni contributive e vantaggi fiscali, rappresenta uno
strumento maggiormente flessibile per le imprese, soprattutto visti i minori obblighi formativi
(Treellle, 2013). In questo senso, è significativo che tale contratto mostri dopo il 2008 una
diminuzione molto contenuta rispetto alle altre tipologie di apprendistato, ed anzi un leggero
aumento del numero medio di contratti a partire dal 2012. Ciò è probabilmente dovuto anche ai vari
interventi normativi che hanno perseguito l’obiettivo di sostenere tale forma contrattuale attraverso
la riduzione della componente formativa e la semplificazione delle procedure, principalmente dal
lato dell’impresa. Dal punto di vista degli equilibri reciproci tra le differenti tipologie di
apprendistato, come sottolineato nei paragrafi precedenti, la riforma apportata dal decreto 81/2015
introduce importanti cambiamenti, individuando nella diminuzione delle retribuzioni e negli
incentivi economici alle imprese la leva per aumentare la competitività e la diffusione degli
apprendistati scolastici rispetto a quello professionalizzante.
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Grafico 2: andamento dell’occupazione in apprendistato professionalizzante e altre forme di apprendistato (numero
medio di contratti), 2007-2013
Apprendistato professionalizzante
Altre forme di apprendistato
450.000
400.000
350.000
300.000
250.000
200.000
150.000
100.000
50.000
0
450.000
400.000
350.000
300.000
250.000
200.000
150.000
100.000
50.000
0
2007 2008 2009 2010 2011 2012 2013
2007 2008 2009 2010 2011 2012 2013
Nord Italia
Centro Italia
Nord Italia
Centro Italia
Sud Italia
Italia
Sud Italia
Italia
Fonte: nostra elaborazione su dati Isfol, varie pubblicazioni
Per quanto riguarda la composizione per età della popolazione lavorativa in apprendistato, ad una
persistente prevalenza di apprendisti assunti tra i 20 e i 24 anni si affianca una crescita della
componente di 25-29 anni e una diminuzione di quella di 15-19 anni. La scarsa capacità di questo
istituto di fungere da effettivo canale di ingresso nel mercato del lavoro per i più giovani e per
coloro che non hanno compiuto un percorso scolastico di livello secondario-superiore (considerato
il livello minimo per un accesso soddisfacente e consapevole non solo al mondo del lavoro, ma
anche alla società intesa in senso più ampio, come inclusione e partecipazione, si veda in proposito
OECD, 2014) è evidenziata anche dal bassissimo e per giunta calante numero di apprendisti
minorenni, in drastica diminuzione negli ultimi anni (da 7.568 nel 2010 a 2.592 nel 2013). In merito
all’incidenza degli apprendisti minori sul totale apprendisti, i giovani minori rappresentano nel 2013
una quota marginale pari allo 0,6% del totale degli apprendisti (Isfol, 2015).
Il quadro complessivo restituito dai dati è dunque quello di un sistema fortemente squilibrato,
laddove il “nuovo apprendistato” così come era stato regolato dal TU risulta dominato
dall’apprendistato di II livello mentre, al di là delle previsioni e degli auspici normativi, ad oggi le
due forme di apprendistato scolastico risultano avere una diffusione marginale, spesso ancora legata
a sperimentazioni e buone pratiche locali che stentano tuttavia a istituzionalizzarsi. Le
caratteristiche attuali del sistema di apprendistato italiano sono dunque sostanzialmente riferibili
all’apprendistato professionalizzante: esso si connota per una dimensione marcatamente
12
aziendalistica più che occupazionale (Di Monaco & Pilutti, 2012), per l’assenza di una compiuta
integrazione con il sistema educativo, per un’utenza sempre più composta da giovani adulti, per una
tendenza alla semplificazione degli obblighi formativi dell’impresa e all’indebolimento della
componente formativa come evidenziato dai recenti sviluppi di riforma di tale tipologia
contrattuale.
Le riforme succedutesi negli ultimi anni hanno condiviso il comune obiettivo di fare
dell’apprendistato il principale canale di ingresso dei giovani nel mercato del lavoro, nonché un
mezzo per combattere gli alti tassi di dispersione scolastica e disoccupazione giovanile che
caratterizzano il contesto italiano. Dal punto di vista dell’impatto occupazionale, i dati dimostrano
tuttavia come il sistema di apprendistato italiano non sia risultato uno strumento di policy efficace
nell’aumentare la resilienza del mercato del lavoro riducendo l’esposizione al rischio dei gruppi più
vulnerabili (nello specifico i giovani). Se ci riferiamo infatti alla definizione di resilienza come
capacità di reagire ad una situazione negativa proveniente dall’esterno, tornando autonomamente
alla situazione precedente l’evento (Giovannini, 2015; Bigos et al., 2013), possiamo concludere
come l’apprendistato non abbia rappresentato una misura di policy resiliente nel contrastare le
difficoltà incontrate dai giovani nel mercato del lavoro italiano: il suddetto movimento di reazione e
ripristino delle condizioni antecedenti lo shock (la crisi economica) non traspare dai dati a nostra
disposizione. Infatti, dopo il 2008 il declino dell’istituto si accompagna alle dinamiche di aumento
della disoccupazione giovanile, della quota dei NEET e di diminuzione del tasso di occupazione
giovanile.
13
Grafico 3: confronto tra serie temporali riferite a tasso di occupazione, NEET, numero medio di contratti di
apprendistato (numeri indice, 2005 = 100), 1998-2014
130,0
Legge
Treu
Legge
Biagi
Testo Legge Decreto Decreto
Unico Fornero Giov. Poletti
120,0
110,0
100,0
90,0
80,0
70,0
60,0
50,0
1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008 2009 2010 2011 2012 2013 2014
Tasso di occupazione (15-24)
Tasso di NEET (15-29)
Apprendistato (tutte le tipologie)
Fonte: nostra elaborazione su dati Isfol e dati Istat
La misura appare scarsamente incisiva nell’agevolare l’ingresso dei giovani nel mercato del lavoro,
né sembra costituire uno strumento di innalzamento delle competenze possedute degli apprendisti in
un contesto complessivo di miglioramento dello stock di capitale umano. Ciò è particolarmente
evidente vista la debolezza dei due apprendistati “scolastici”, ovvero che comportano un’effettiva
integrazione tra sistema educativo e mercato del lavoro attraverso una composizione di un percorso
formativo ampio e strutturato alternato a esperienze di lavoro e formazione in azienda.
4. La lunga rincorsa al modello tedesco
Complice anche lo stato di salute dell’economia tedesca e gli alti tassi di occupazione negli strati
più giovani della popolazione in età lavorativa, il modello tedesco di apprendistato (il sistema duale
di formazione e lavoro, filiera del più ampio sistema di istruzione e formazione professionale)
riceve una sempre maggior attenzione a livello internazionale ed è indicato come principale
14
esempio di buona pratica da esportare e a cui ispirarsi nell’istituzione di efficaci sistemi nazionali di
apprendistato (Wieland, 2015).
Nel 2013 il sistema duale in Germania coinvolgeva un totale di 1.430.000 apprendisti, con 530.000
nuovi contratti stipulati ed un’età media, all’inizio del percorso di apprendistato, di 19,5 anni
(Bundesministerium für Bildung und Forschung, 2014).
Tabella 1: confronto tra la tipologia di apprendistato maggiormente diffusa in Italia (professionalizzante) e
l’apprendistato in Germania (sistema duale), anni 2012-2013
Italia
Apprendistato professionalizzante
Germania
Apprendistato per la qualifica
Numero di apprendisti
470.000
1.430.000
Nuovi contratti ogni
anno
270.000 (stima)
530.000
18-29
16-29
Durata del contratto
3-5 anni
Mediamente 3 anni
Livello della qualifica
EQF 3-4
EQF 3-4
Retribuzione
Inquadramento 1-2 livelli inferiori rispetto
alla mansione professionale/ 80-90% della
retribuzione di lavoratori qualificati di pari
livello
25-33% della retribuzione di un operaio
qualificato
Profili formativi
Definiti dagli accordi di categoria
Definiti dall’ordinamento nazionale
Qualifiche rilasciate
Qualifiche contrattuali previste dal CCNL
Definite 344 qualifiche professionali a
livello nazionale
Ore di
esterna
120 in tre anni, regolamentate a livello
regionale
400 all’anno (in media), regolamentate a
livello nazionale e regionale
Formazione interna
Definita dagli accordi di categoria
Durata
e
contenuti
dall’ordinamento nazionale
Partecipazione
sociali
parti
Forte ruolo delle imprese e delle parti
sociali, soprattutto a livello contrattuale
Forte coinvolgimento nell’organizzazione
del sistema, nella definizione degli standard
di qualifica, nel controllo dei risultati
Responsabilità
finali
esami
Piena responsabilità dell’impresa per
l’attribuzione della qualifica contrattuale
Camera di Commercio (prove teoriche e
pratiche fissate a livello nazionale)
Rilevanti sgravi contributivi
incentivi all’assunzione
Nessuno sgravio contributivo o fiscale,
incentivi per imprese che assumono giovani
a rischio
Età di riferimento
formazione
Finanziamento
pubblico alle imprese
e
Fonte: nostra elaborazione su Treellle, 2013
15
fiscali,
disciplinati
Il richiamo al modello tedesco rappresenta una costante della retorica cha accompagna il dibattito
sull’apprendistato in Italia, nonché il principale punto di riferimento delle più recenti disposizioni
normative in materia: il decreto 81 esplicita in proposito di voler costituire una via italiana al
modello duale che caratterizza il sistema VET della Germania. Non sempre il dibattito sviluppatosi
ha tuttavia espresso consapevolezza del profondo radicamento di tale modello nel contesto
economico e socio-culturale della Germania e delle conseguenti difficoltà di esportazione in
situazioni e contesti differenti (Treellle, 2013; Weiss, 2014). Nel presente paragrafo non
scenderemo nei dettagli del sistema duale di istruzione e formazione professionale ma, basandoci
sulla letteratura scientifica in materia (si vedano, tra i numerosi contributi disponibili: Bosch, 2010;
Ballarino e Checchi, 2013; Solga et al., 2014), ci soffermeremo su alcune condizioni strutturali del
sistema duale e, attraverso il confronto con il “nuovo apprendistato” italiano, ci chiederemo se
l’esportazione o comunque la costituzione di un modello duale all’italiana rappresenti un obiettivo
effettivamente raggiungibile. Seguiremo dunque una metodologia di confronto per contrasto, che
caratterizza la sociologia storica comparativa (Skocpol, 1984), per cercare di comprendere se gli
elementi che stanno alla base del successo del sistema duale in termini di livelli di occupazione
giovanile e accesso a professioni qualificate, siano o meno presenti nel contesto italiano
caratterizzato, come detto, dalla prevalente diffusione dell’apprendistato professionalizzante. Si
ritiene infatti che tali aspetti, riguardanti il contesto socio-culturale di riferimento e il
coordinamento tra sistema educativo, mercato del lavoro e sistema di welfare (Kazepov & Ranci,
2015), rappresentino condizioni strutturali rilevanti per la costituzione effettiva di una via italiana al
modello duale, obiettivo espresso esplicitamente dal decreto legislativo 81/2015.
4.1. Dualità e dualismo
Il primo elemento da considerare riguarda la dualità, intesa come radicamento della formazione
degli apprendisti sia nelle aziende sia nel sistema scolastico statale di educazione e formazione
professionale (Lohmar & Eckhardt, 2013). Gli apprendisti generalmente trascorrono due giorni a
settimana negli istituti professionali (dove ricevono insegnamenti di carattere generale e basi
teoriche relative alle occupazioni di riferimento), questo periodo di tempo rappresenta una recente
estensione della formazione esterna dovuta ad un aumento del livello di conoscenze teoriche
richieste agli apprendisti (Bosch, 2010). Per quanto riguarda la formazione interna, le grande
aziende sono solitamente dotate di appositi centri di formazione, mentre per le aziende mediopiccole acquisisce maggiore importanza la formazione direttamente on the job. È anche diffusa la
pratica di costituire centri di formazione esterni grazie alla collaborazione tra imprese.
16
La compiuta integrazione tra sistema educativo e apprendistato rappresenta la spina dorsale del
modello tedesco ed è invece un elemento sostanzialmente mancante nel caso italiano: le difficoltà
dell’istituto si riflettono anche nell’incapacità di penetrazione nel sistema scolastico secondario
superiore e nell’istruzione superiore (università e ITS). Questa articolazione verso l’alto e verso il
basso, verso i più giovani e verso i dottorandi e i ricercatori rappresentava l’ambizione già della
riforma Biagi, dopo il periodo espansivo inaugurato dalla riforma Treu. In quell’ottica,
l’apprendistato era concepito sia come strumento per la lotta agli abbandoni scolastici prematuri,
secondo quella che è la vulgata del modello tedesco (che in realtà presenta molte più sfaccettature);
sia come strumento per gettare ponti duraturi tra istruzione e lavoro per mestieri di alta qualità e
formazione, secondo i tratti innovativi dell’apprendistato francese all’inizio degli anni Duemila (ma
non solo, visti i recenti sviluppi della formazione duale in Germania). Le esigenze che hanno
portato alla differenziazione dei livelli di apprendistato non sono stati però sufficienti a trainare lo
sviluppo dei contratti di primo e terzo livello. In questo senso, il recente decreto spinge verso la
promozione di queste forme scolastiche di apprendistato utilizzando tuttavia una leva
esclusivamente economica, la cui efficacia potrà essere valutata solo in futuro. Ciò che è certo,
tuttavia, è che il nuovo apprendistato non rappresenta ancora un elemento integrato nel sistema di
istruzione, come dimostrato anche dall’assenza di riferimenti nel testo definitivo della legge
107/2015, “La Buona Scuola”, per la riforma e riorganizzazione del sistema di istruzione e
formazione (Tiraboschi, 2015).
4.2. Attori coinvolti e valore dell’apprendistato
Il secondo elemento da considerare riguarda la complessa architettura relazionale di attori che
intervengono nel sistema duale, a partire dal ruolo delle parti sociali e delle camere di commercio,
dell’industria e dell’artigianato nel controllo e gestione della formazione. Nella governance di tale
sistema di alternanza rientrano poi ovviamente il governo federale, i governi statali, gli istituti
professionali, i centri per l’impiego. In particolare risulta spesso poco tematizzato il ruolo delle
camere di commercio, cui spetta la responsabilità delle supervisione del processo di formazione, la
conduzione degli esami intermedi e finali.
In Germania il sistema duale poggia su una complessa infrastruttura di collaborazione consensuale
tra attori profondamente radicata nella cultura e nel sistema socio-economico del paese. Si tratta di
una struttura consolidata e sedimentatasi negli anni, che è stata anche criticata per lentezza e
burocratizzazione, su cui riposa tuttavia la garanzia di qualità della formazione e conseguentemente
di opportunità positive sul mercato del lavoro (Commissione Europea, 2013). Il coordinamento del
17
settore economico e dell’educazione richiede un’architettura complessa e altamente formalizzata
che non deriva semplicemente dalle norme, ma da più ampie tradizioni culturali e dialogo che
interessano, ad esempio, imprese e sindacati. Il sistema duale è stato istituito nel 1969 e da allora ha
mantenuto un impianto coerente, pur attraverso modifiche (l’ultima principale riforma risale al
2004-2005) finalizzate a mantenere il passo con gli sviluppi dell’economia e delle società moderne.
Non è certo la semplificazione la sua qualità distintiva (basti pensare agli attori coinvolti: sistema
educativo, imprese, sindacati, camere di commercio, centri per l’impiego, Länder e stato federale)
quanto piuttosto la paziente stabilizzazione nel tempo di un meccanismo oliato e consolidato,
rispetto al quale gli interventi legislativi recenti hanno agito in ottica di supporto e promozione,
senza intaccarne tuttavia la delicata e complessa logica sistemica. Non necessariamente quindi la
tendenza alla semplificazione che ha caratterizzato gli ultimi sviluppi normativi in Italia rappresenta
una garanzia di successo: l’alleggerimento degli obblighi procedurali e formativi potrebbe andare
anche a discapito dei controlli e delle garanzie di qualità in materia di formazione. Inoltre, la
debolezza del sistema italiano è anche inevitabilmente connesso e all’assenza di necessari e
sedimentati presupposti culturali. In Germania, nonostante le relazioni tra sindacati e associazioni
datoriali siano divenute più conflittuali, il tradizionale e radicato principio del consenso continua a
mantenersi saldo nell’ambito del sistema duale poiché gli interessi di entrambe le parti convergono
nell’attribuire valore a un sistema formativo in grado di formare lavoratori altamente qualificati con
forti vantaggi competitivi sul lungo periodo per le imprese; di garantire l’accesso a professioni
qualificate e ben retribuite per gli individui membri dei sindacati.
Nel sistema italiano, la valorizzazione innanzitutto culturale dell’apprendistato continua a mancare.
L’individuazione di questo gap culturale dell’apprendistato ha caratterizzato la strategia di
promozione dell’istituto progettata dal Ministero Fornero, finalizzata a contrastare la concezione
dell’apprendistato come contratto scarsamente appetibile e diretto soprattutto a lavori low-skilled,
necessitanti un basso livello di competenza. La concezione prevalente nel mondo delle imprese e in
generale nella nostra società italiana si riferisce infatti ad una versione informale di tale contratto,
secondo cui la formazione esterna all’impresa e la necessità di documentazione della stessa
vengono considerate tendenzialmente come impedimenti burocratici o addirittura ostacoli al
processo produttivo. Come sottolineato in precedenza, le ripetute modifiche degli ultimi anni hanno
condotto al depotenziamento, e non allo sviluppo, della logica sistemica introdotta dal Testo Unico
del 2011: i continui interventi legislativi impediscono la costituzione di un quadro normativo
istituzionale stabile che possa fungere da riferimento per gli adeguamenti normativi regionali, per le
azioni di operatori economici e del sistema di relazioni industriali chiamati a trasporre le regole
generali nella contrattazione collettiva di settore, per gli operatori del sistema educativo nel caso
18
dell’apprendistato di primo e secondo livello (Massagli & Tiraboschi, 2015). L’irrisolto gap
culturale dell’apprendistato all’italiana è perfettamente espresso dalla supremazia del secondo
livello dell’apprendistato professionalizzante, dal continuo depotenziamento della dimensione
formativa, dall’espulsione dell’istituto dal testo de “La Buona Scuola”. Si tratta dell’idea per cui
l’apprendistato rappresenti principalmente un canale di inserimento nel mondo del lavoro per chi ha
avuto difficoltà nel suo percorso scolastico (i cosiddetti low achievers o gli early school leavers) e
che di conseguenza riguarda occupazioni o mestieri a basso livello di qualificazione, i cui contenuti
fondamentali si possano apprendere semplicemente tramite l’affiancamento e osservazione del
collega con più esperienza. La radice di questo gap sta anche nella profonda separazione tra
educazione e lavoro nel nostro paese, di cui il fallimento dell’alternanza scuola-lavoro e
dell’apprendistato scolastico rappresenta una logica conseguenza. Si tratta di un problema radicato
nel nostro sistema culturale e sociale, che ritroviamo ad esempio nella tendenze a lungo dominanti
della
liceizzazione
dell’istruzione
secondaria,
con
marginalizzazione
della
formazione
professionale, specialmente di competenza regionale; e della conformazione unitaria dell’istruzione
superiore, con la sostanziale assenza di istituti non universitari (Trivellato & Triventi, 2015). Alla
separazione italiana si contrappone la già citata dualità del modello tedesco, dove la formazione
appare fortemente radicata sia nel sistema scolastico statale (gli apprendisti trascorrono due giorni a
settimana negli istituti professionali), sia nelle imprese (formazione sul posto di lavoro derivante da
una combinazione di esperienza lavorativa e in centri di formazione gestiti dalle imprese).
4.3. Occupazione e capitalizzazione delle competenze
Un terzo elemento riguarda il concetto di occupazione e di “occupational labour market”:
l’obiettivo della formazione nel sistema duale è infatti fornire all’individuo le abilità necessarie per
lavorare e agire in modo competente in ambiente di lavoro (Lohmar & Eckhardt, 2013). Le
certificazioni ottenute attestano il possesso di abilità che non sono specifiche rispetto all’azienda
formativa, ma si riferiscono alla più ampia occupazione per cui si è svolta la formazione. Questa
precondizione attribuisce al lavoratore importanti prospettive di capitalizzazione delle competenze
ottenute e di mobilità tra aziende differenti, all’interno della stessa occupazione o filone
occupazionale (Bosch, 2010). La certificazione qualitativa della competenze acquisite è mirato a
favorire il riconoscimento delle stesse da parte di altri attori economici e la possibilità di mobilità
del lavoratore tra differenti aziende, innescando una carriera fatta di progressi all’interno della
professione per la quale si è ricevuta la formazione. Requisito necessario è l’esistenza di un
repertorio di circa 350 professioni riconosciute come necessitanti formazione formale (e
19
conseguenti standard formativi e professionali) a livello nazionale, in continuo aggiornamento per
via dell’azione congiunta delle parti sociali e del governo federale. Ancora una volta, si tratta di un
elemento altamente formalizzato basato su procedure consensuali, laddove il ruolo dello stato è per
lo più quello di riconoscere e realizzare il compromesso raggiunto tra lavoratori e datori di lavoro
(Solga et al., 2014).
In Italia, questo nodo fondamentale di congiunzione tra formazione e lavoro continua a mancare. La
strada era stata intrapresa dal Testo Unico e dal decreto 13/2013, che ha istituito il Repertorio
nazionale dei titoli di istruzione e formazione e delle qualificazioni professionali. A tale repertorio,
che non è tuttavia ancora operativo, dovrà essere incluso il Repertorio delle qualificazioni
conseguite in apprendistato, il cui processo di costruzione da parte di un organismo tecnico è in
corso a partire dai profili professionali dell’apprendistato definiti nei contratti collettivi nazionali di
lavoro (Isfol, 2015). La frammentarietà di tali profili (Di Monaco & Pilutti, 2012) e l’inadeguatezza
delle metodologie adottate rispetto alle previsioni del Testo Unico rischiano di minare in partenza
tale percorso, rendendo il repertorio nazionale un elemento ritualistico di scarsa efficacia effettiva
(Pastore, 2014; Tiraboschi, 2015).
La costituzione di un quadro istituzionale coerente di riconoscimento e certificazione delle
competenze acquisite durante l’esperienza di formazione-lavoro costituisce una condizione
necessaria al funzionamento del sistema di apprendistato, in quanto prerequisito della possibilità di
mobilità tra aziende e progressione all’interno dell’occupazione per la quale si è stati formati. In
caso contrario, l’apprendistato rischia di diventare soltanto un mezzo per abbassare il costo del
lavoro dal lato dell’impresa mentre dal lato dell’offerta di lavoro il contratto perde di attrattività per
i giovani e il suo potenziale positivo per la competitività economica risulta irrealizzato.
Dobbiamo dunque registrare la perdurante assenza di un repertorio nazionale delle competenze,
capace di collegare figure professionali a corrispondenti standard formativi e criteri di valutazione.
Da quanto detto deriva la descrizione di un apprendistato spiccatamente aziendale finalizzato al
conseguimento di qualifiche contrattuali e competenze fortemente firm-specific che ostacola
processi più ampi di capitalizzazione delle competenze acquisite (Casano, 2015).
5. Conclusioni
Nel presente contributo abbiamo delineato le principali caratteristiche dell’attuale sistema italiano
del “nuovo apprendistato”. Tale obiettivo è stato perseguito attraverso: la ricostruzione del processo
di riforma che ha interessato l’istituto dalla fine degli anni Novanta fino ad arrivare al recente
decreto legislativo 81/2015; l’analisi dei dati relativi alla diffusione del contratto di apprendistato
20
(differenti tipologie contrattuali, caratteristiche dell’utenza) in Italia. In seguito, considerando
l’ambizione del suddetto decreto di costituire una via italiana al modello duale di formazione e
lavoro, abbiamo proposto un confronto con il sistema duale tedesco. In particolare, ci siamo chiesti
se nel contesto italiano e nell’attuale configurazione del nostro modello di apprendistato
(caratterizzata dalla prevalenza dell’apprendistato professionalizzante) sussistano alcune condizioni
strutturali considerate come prerequisiti fondamentali al funzionamento del sistema di apprendistato
vigente in Germania.
Il confronto ha evidenziato l’importante distanza tra i due paesi rispetto ai seguenti punti:

L’integrazione dell’apprendistato nel sistema di istruzione e formazione professionale.

L’esistenza di una cornice istituzionale consolidata e radicata, e di una forte valorizzazione
culturale dell’apprendistato.

L’esistenza di un sistema di certificazione delle competenze che consenta di riconoscere e
capitalizzare la formazione ricevuta dall’apprendista all’interno di un mercato del lavoro
occupazionale.
Gli elementi segnalati fanno crescere il dubbio che l’importazione “sulla carta” di una buona pratica
culturalmente e socialmente radicata in un particolare contesto, attraverso il ricorso a continui
richiami di principio e modifiche legislative possa davvero risultare una soluzione percorribile. I
dati periodici del monitoraggio Isfol gettano infatti ombre sui possibili sviluppi di riforme
finalizzate
al
repentino
passaggio
da
un
istituto
costruito
attorno
al
risparmio
economico/contributivo e alla funzione sociale di contrasto alla disoccupazione giovanile, ad uno
strumento di investimento in competenze e abilità professionali finalizzato ad un’occupazione di
qualità.
Se anche la recente normativa mostra una chiara volontà di promozione dell’apprendistato
scolastico, ciò non avviene sulla base di una coerente ristrutturazione del rapporto tra sistema
educativo e mondo del lavoro, ma piuttosto parallelamente ad essa. Resta inoltre aperto il problema
della struttura di implementazione, rimandato a un successivo decreto, questione rispetto alla quale
il Testo Unico aveva introdotto rilevanti innovazioni, ma che è stata poi ampiamente tralasciata dai
successivi interventi legislativi (Massagli & Tiraboschi, 2015). In un contesto in cui appare
particolarmente complesso realizzare investimenti efficaci nel sociale a causa della mancanza di
necessarie precondizioni strutturali (Kazepov & Ranci, 2015) e in cui anche il time-frame (Bonoli,
2007) caratterizzato dalla depressione economica e dai vincoli dell’austerità risulta particolarmente
sfavorevole, si è proceduto attraverso continue modifiche togliendo certezze agli operatori, invece
di implementare una normativa largamente condivisa e la logica sistemica del “nuovo
apprendistato” introdotta dal Testo Unico. Questo ha impedito la costruzione di una stabile
21
architettura istituzionale (Commissione Europea, 2013), da innestare necessariamente sulle
caratteristiche del nostro contesto economico, sociale e culturale, nell’ambito della quale
implementare un sistema di incontro tra domanda e offerta di lavoro incentrato sulle competenze e
la formazione dei giovani.
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