Il PIL NON BASTA PIÚ?

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Il PIL NON BASTA PIÚ?
Il PIL NON BASTA PIÚ?
di Giacomina DINGEO
Il PIL, universalmente utilizzato come strumento di misurazione standardizzato della ricchezza prodotta, non
basta per mettere in rilievo quanto un Paese sia “verde”. Per tener conto di parametri anche qualitativi gli
studiosi hanno elaborato l’EPI (Environmental Performance Index).
La storia del PIL
Tradizionalmente lo sviluppo economico di un Paese viene fatto coincidere con la crescita, a sua
volta calcolata con il PIL.
Adam Smith nel suo ponderoso saggio Un’ indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle
nazioni afferma che obiettivi dell’economia politica sono: assicurare a tutta la popolazione un
reddito di sussistenza e garantire allo Stato entrate tali che esso possa provvedere alla produzione di
servizi pubblici, servizi, peraltro, che nell’analisi smithiana, non hanno la portata poi concepita dai
costruttori dello Stato sociale.
Adam Smith (1723-1790)
Scozzese di Kirkcaldy, appartenente all’illuminismo scozzese, professore di filosofia morale, pubblica nel
1759 La teoria dei sentimenti morali, in cui propone la “morale della simpatia” vale a dire che ciascun
individuo compie azioni, guidato dal giudizio che di queste dà uno spettatore imparziale. Ciò perché, a detta
di Smith, ogni essere umano, che è membro della società, ha bisogno dell’approvazione degli altri. Nel 1776
pubblica la ricchezza delle nazioni.
Se non diretto fondatore dell’economia politica, ne è considerato senza dubbio il sistematico organizzatore.
Fondamentale in lui è l’idea del vincolo irrinunciabile tra etica ed economia.
Tuttavia, per avere un indicatore universalmente accettato quale misuratore dello sviluppo
economico, si deve attendere il periodo immediatamente successivo alla crisi del 1929, conosciuta
come Wall Street crash.
Wall Street crash
Il crollo della Borsa di Wall Street, a New York, porta la data del 29 ottobre 1929.
Si giunse molto vicini al tracollo del capitalismo. Immuni ne rimasero solo l’URSS socialista e il Giappone
“medievale”, organizzato ancora sulla base dello shogunato, una sorta di feudalesimo giapponese spostato
nel XX secolo.
Seguì un terribile (e lungo) periodo in cui tutti gli indici economici crollarono a picco e la disoccupazione
andò alle stelle. Non c’erano ammortizzatori sociali che attutissero il colpo, specie per i lavoratori
dipendenti. La Grande Crisi rappresentò la fine della fiducia nelle capacità del sistema economico
capitalistico di rapidamente tornare all’equilibrio di piena occupazione.
In conseguenza di quella “tragedia mondiale”, colui il quale verrà eletto per quattro mandati alla
Presidenza della Repubblica degli Stati uniti d’America, Franklin Delano Roosvelt, si rivolge al
Dipartimento per il Commercio e chiede che gli preparino un indicatore, un mezzo di misurazione
standardizzato, che consenta di avere sempre sottomano uno strumento affidabile per verificare le
condizioni economiche generali del Paese.
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Franklin Delano Roosevelt (1882-1945)
Democratico, eletto presidente degli USA nel 1932, rieletto nel 1936, 1940 e 1944.
Padre del New deal, letteralmente nuovo corso, cioè una diversa concezione dell’economia, non più intesa
come basata sul mercato, con uno Stato relegato al semplice ruolo di emanatore di leggi e produttore di pochi
servizi pubblici essenziali, ma inteso come soggetto attivo dell’economia, che interviene a sostegno delle
classi sociali meno abbienti.
Viene elaborato il PIL, alla cui determinazione contribuisce in modo significativo l’economista
ebreo di origine bielorussa Simon Kuznets , che dal 1921 vive negli USA.
PIL
Acronimo di prodotto interno lordo (GNP, Gross National Product, in inglese).
Può essere definito come il valore dei beni e servizi finali prodotti da operatori nazionali o stranieri, purchè
sul territorio dello Stato considerato. Questo valore viene calcolato a prezzi di mercato. Ovviamente il
calcolo non include il valore dei beni intermedi, altrimenti si avrebbe una illusoria duplicazione della
ricchezza prodotta. Il PIL viene altresì calcolato come somma del valore aggiunto dei settori produttivi.
Simon Kutznets (1901- 1985)
Di origine ebraica, nato in una cittadina russa, oggi bielorussa, si trasferì nel 1921 negli Usa.
Mise in relazione la crescita economica con la distribuzione del reddito. Egli pensava che la crescita fosse
necessaria per ridurre le disuguaglianze. Nella curva di Kutznets, da lui elaborata, mise in relazione
l’aumento dell’occupazione, della crescita e dei salari. Tuttavia, per quanto artefice dell’invenzione del PIL,
fu sempre piuttosto critico nell’atteggiamento di misurare il benessere di una popolazione basandosi sul solo
reddito pro-capite. Ha vinto il Nobel per l’economia nel 1971.
Oggi sviluppo e crescita non sono più considerati come concetti perfettamente sovrapponibili. Nel
concetto di sviluppo rientra anche quello di crescita, ma non solo. Lo sviluppo si connota di altri
elementi di natura qualitativa, quali quelli culturali, sanitari, ambientali, assistenziali, che tuttavia
sono legati alla ricchezza, cioè alla crescita. Quest’ultima viene misurata in termini di reddito procapite, vale a dire che si divide il PIL per il numero dei residenti (la popolazione) di un Paese. Ne
consegue che sviluppo (o benessere) e crescita finiscono per essere inscindibilmente collegati, come
due facce di una stessa medaglia.
Se il PIL, da un anno all’altro, non aumenta, giornali, politici, economisti ne fanno un tema di
dibattito pubblico e si ingegnano per capire come farlo crescere. In realtà, non è da trascurare il
fatto che il reddito pro-capite sia una media che niente dice su come il reddito venga distribuito tra
le varie fasce della popolazione. Il PIL può crescere anche a fronte dell’aumento percentuale della
popolazione in condizioni di miseria! Ma non solo. Il PIL cresce anche se ci sono sprechi, consumi
inutili, produzione di gas e altre sostanze inquinanti, distruzione immotivata (e spesso criminale) di
risorse. Il P.I.L. cresce se c’è una guerra. Come ha detto Bob Kennedy, il PIL «Cresce con la
produzione di napalm, missili e testate nucleari…non tiene conto della salute delle nostre
famiglie… Misura tutto,… eccetto ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta».
Lo stesso Kuznets, alla fine degli anni 1940, in polemica col Dipartimento per il Commercio, rifiuta
l’uso strumentale del PIL quale misuratore del benessere.
Robert Kennedy (1925 -1968)
Fratello del presidente John Fitzgerald Kennedy, assassinato a Dallas il 22 novembre 1963, ministro della
giustizia nel governo di questi. A sua volta assassinato in un albergo di Los Angeles il 6 giugno 1968, al
termine di un comizio tenuto durante la campagna elettorale delle primarie presidenziali del partito
democratico.
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Le più recenti elaborazioni di indici di misurazione della crescita e dello
sviluppo
Le critiche all’uso del PIL, per quanto puntuali, non hanno minimamente scalfito le certezze dei
politici sia dei Paesi ricchi, che hanno continuato a considerarlo un imperativo categorico, sia dei
Paesi poveri, smaniosi di seguire lo stesso percorso di “sviluppo” dei Paesi ricchi. La Cina ne è un
esempio illuminante.
Le stesse modalità di contabilizzazione della ricchezza prodotta nei vari Paesi continuano a basarsi
sul PIL: il Fondo Monetario Internazionale e l’OCSE lo usano come bussola, anche per
“bacchettare” i Paesi meno virtuosi nella crescita.
Nel frattempo, però, anche importanti analisti politici americani, quali Clifford Cobb e Johnatan
Rowe, hanno definito il PIL «una calcolatrice in grado di fare le addizioni, ma non le sottrazioni».
Ne è conseguito che alcuni economisti hanno elaborato altri indici di misurazione della ricchezza
capaci di tenere conto di parametri qualitativi più afferenti al benessere che, evidentemente, non
coincide solo con la maggior disponibilità di reddito.
Alcuni esempi di questi nuovi indici di misurazione standardizzata sono:
- l’Indice del Benessere Economico Sostenibile (ISEW, in inglese), un «PIL modificato» nel
quale i costi per sicurezza, salute e inquinamento sono sottratti dal totale, definito anche PIL
verde;
- l’Indicatore di Progresso Genuino (GPI);
- l'Indice di Sviluppo Umano (HDI) dell'ONU, usato per la classificazione dei Paesi, a seconda
che essi sia sviluppati o no;
- l'Indice di Benessere Economico (IEWB).
La stessa Unione Europea ha dato vita a un gruppo di lavoro, formato da economisti ed esperti, il
cui compito è quello di individuare un indicatore di sviluppo sostenibile, che tenga conto di variabili
non sono economiche, quali il grado di istruzione, la salute e la qualità ambientale.
HDI
Acronimo che sta per le parole inglesi Human Development Index , è il risultato del lavoro di un gruppo di
economisti all’interno dell’UNPD (United Nations Development Program), l’agenzia dell’ONU che si
occupa dello sviluppo dal 1965.
Si calcola in relazione a numerosi elementi, a partire proprio dall’immancabile reddito pro-capite. A
ciascuno di essi viene attribuito un punteggio in ragione di un intervallo di valori assegnato a ciascun fattore,
che va da un minimo ad un massimo predeterminato. L’HDI ha valori compresi tra 0 e 1, tanto minore o
maggiore è l’indice di sviluppo del paese considerato.
A ben vedere l’HDI ha consentito di uscire dalle distorsioni prodotte dal solo parametro del reddito procapite, molto diffuso e usato in passato.
I Paesi arabi, grandi produttori di petrolio, erano ai vertici dei Paesi più sviluppati, se il parametro è l’indice
del reddito pro-capite. In realtà si trattava di ricchezza goduta da emiri e sovrani che, spalmando in media i
loro immensi patrimoni personali foraggiati dalla vendita del petrolio, finivano per collocare i loro Paesi, su
cui spesso governano in modo assolutistico, tra i più ricchi (e sviluppati) nel mondo. Con il nuovo indice, un
po’ più tarato su parametri qualitativi, hanno perso soltanto qualche posizione, dato che anche nel nuovo
indice gran peso è attribuito al PIL pro-capite.
Nasce l’EPI
Ideato dallo Yale’s Center for Law & Environmental Policy e dal Columbia’s Center for
International Earth Science information Network, l’EPI (acronimo inglese di Environmental
Performance Index), indice di performance ambientale, è il parametro che contiene e sintetizza
tutte le attività e i provvedimenti di un Paese rispetto all’ambiente. Il suo range di variazione va da
0 (Paesi in assoluto che meno tutelano l’ambiente) a 100 (Paesi più virtuosi in materia di protezione
e tutela ambientale).
Il valore di sintesi, poco attento al PIL tradizionale, prende in considerazione per ogni Paese, e
sintetizza nel valore finale, ben 25 categorie di riferimento, tra cui le emissioni del gas serra per
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eccellenza, cioè l’anidride carbonica (CO2), l’estensione delle foreste, la qualità dell’acqua
disponibile, la qualità delle risorse naturali, che certamente sono cartine di tornasole per la
valutazione dello stato di salute ambientale di una Nazione. Ma anche parametri quali il rispetto dei
trattati internazionali, l’inquinamento dell’aria nelle case, o il (più curioso) numero di stabilimenti
per la lavorazione del pesce presenti sul territorio dello Stato.
Il valore che se ne ricava indica quanto sia ospitale per persone, animali e piante l’ambiente di un
Paese, quali Paesi siano più verdi e quali meno verdi, a seconda che il valore dell’EPI sia più vicino
a 100 o a 0.
I dati disponibili per la determinazione di questo indice di nuovo conio sono ritenuti attendibili,
come ad esempio quelli relativi all’emissione di CO2, disponibili grazie all’International Panel on
Climate Change (IPCC) delle Nazioni Unite.
Grazie all’EPI è stata stilata la classifica dei Paesi della Terra che hanno fornito dati.
I risultati vedono al primo posto la Svizzera con un EPI pari a 95,5; a seguire i Paesi scandinavi
(Svezia, Norvegia e Finlandia); il piccolo e sorprendente Costa Rica al quinto posto con 90,5.
L’Italia è al ventiquattresimo posto con 84,5; sotto di noi gli Stati Uniti d’America, situati al
trentanovesimo posto con 81.
Il Paese più inospitale del mondo, sempre applicando l’indice di performance ambientale, è il Niger,
Stato africano che ha dato come risultato solo 6.
A leggere attentamente i dati, non esiste una relazione stretta tra reddito pro-capite e EPI. L’EPI,
infatti non ne tiene conto, tant’è che la Tanzania (Paese povero secondo i parametri reddituali) si
colloca al centotredicesimo posto, meglio dei ricchissimi Emirati Arabi Uniti. E questo grazie al
fatto che l’EPI ha preso in considerazione per il Paese africano il patrimonio biologico, ben protetto
e ricchissimo di una straordinaria flora, la stabilità del governo che ha varato importanti riforme in
materia di caccia di frodo e che ha avviato uno sviluppo economico ecologicamente compatibile.
EPI al posto del PIL?
L’elaborazione dell’EPI segna la fine di un’epoca? Farà mettere in soffitta il PIL come vecchio
arnese superato e ormai inservibile? Forse è presto per dirlo, perché le resistenze, specie politiche,
sono ancora molte.
Ogni campagna elettorale, in qualsiasi Paese, parla di crescita, sviluppo, ricchezza, potere
d’acquisto delle famiglie come di obiettivi imprescindibili della buona politica. Che, più spesso, si
riducono solo a promesse pre-elettorali.
Il fatto è che dovrebbe essere ripensato l’intero sistema economico, nella sua organizzazione, alla
luce delle tematiche ambientali che pongono problemi tanto drammatici quanto non più rinviabili.
Tuttavia, per quanto sostituire l’EPI al PIL possa sembrare come iniziare a riparare la casa dal tetto,
è importante che gli economisti abbiano iniziato a proporre alternative a un modo di calcolare lo
“stato di salute” dei Paesi, dando priorità ai parametri qualitativi e marginalizzando quello
quantitativo che è stato (e lo è tuttora) adorato come un totem dalla politica e vissuto come una
ossessione dai governi.
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