elif shafak la città ai confni del cielo

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elif shafak la città ai confni del cielo
elif shafak
la città ai confni del cielo
Traduzione di Beatrice Masini
Proprietà letteraria riservata
© 2014 Elif Shafak
The moral right of the author has been asserted
All rights reserved
© 2014 RCS Libri S.p.A., Milano
ISBN 978-88-17-07564-0
Titolo originale dell’opera:
The ArchiTecT’s ApprenTice
Prima edizione: settembre 2014
Realizzazione editoriale: Librofficina, Roma
La città ai confni del cielo
Per gli apprendisti di ogni dove
– nessuno ci ha detto che l’amore
è l’arte più diffcile da padroneggiare
Al primo sguardo ti ho amato con mille cuori
… Lasciate pensare ai fanatici che amare è peccato
Non importa,
Lasciatemi bruciare nel fuoco infernale di quel peccato
Mihri hatun, poetessa ottomana del sedicesimo secolo
Ho frugato il mondo e non ho trovato nulla degno dell’amore,
e dunque sono un’estranea tra i miei fratelli
esiliata dalla loro compagnia.
Mirabai, poetessa hindu del sedicesimo secolo
Di tutte le genti create da Dio e corrotte da Sheitan, furono solo
in pochi a scoprire il Centro dell’Universo, dove non esiste né bene
né male, né passato né futuro, né io né tu, né guerra né ragione di
far guerra, ma solo un infnito mare di calma. Ciò che vi trovarono
era così bello che persero la capacità di parlare.
Gli angeli, impietositi, diedero loro due possibilità. Se avessero
voluto riavere la loro voce, avrebbero dovuto dimenticare tutto ciò
che avevano visto, ma una sensazione di vuoto sarebbe rimasta in
fondo al loro cuore. Se preferivano ricordare la bellezza, tuttavia, le
loro menti si sarebbero così confuse da non saper distinguere la verità dal miraggio. Così i pochi che si erano imbattuti in quel luogo
segreto che nessuna mappa riporta fecero ritorno con un senso di
nostalgia per qualcosa che non sapevano defnire, o con miriadi di
domande da fare. Coloro che ambivano alla completezza vennero
chiamati amanti, e coloro che aspiravano alla conoscenza allievi.
Era questo che il maestro Sinan aveva l’abitudine di raccontare a noi quattro, i suoi apprendisti. Ci osservava da vicino, la
testa inclinata da una parte, come se cercasse di vedere attraverso
le nostre anime. Io sapevo di essere vanitoso, e la vanità non era
opportuna per un ragazzo semplice come me, ma tutte le volte che
il mio maestro raccontava questa storia io ero convinto che le sue
parole fossero per me più che per gli altri. Il suo sguardo indugiava
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E Lif SH AfAk
per un istante di troppo sul mio volto, come se si aspettasse qualcosa da me. Io distoglievo gli occhi, timoroso di deluderlo, timoroso della cosa che non potevo dargli, anche se non capii mai di
che cosa si trattasse. Chissà che cosa mi leggeva negli occhi. Aveva
previsto che non sarei stato secondo a nessuno quanto a capacità
d’imparare, ma che nella mia goffaggine avrei fallito miseramente
in amore?
Vorrei potermi guardare indietro e poter dire che ho imparato
ad amare quanto ho amato imparare. Ma se mento, potrebbe esserci un calderone che ribolle per me all’inferno domani, e chi può
garantirmi che domani non sia già alla mia porta, ora che sono
vecchio come una quercia, e ancora non consegnato alla tomba?
Eravamo in sei: il maestro, gli apprendisti e l’elefante bianco.
Costruimmo tutto insieme. Moschee, ponti, madrase, caravanserragli, ricoveri, acquedotti… È successo così tanto tempo fa che la
mia mente smussa anche i tratti più spigolosi, sciogliendo i ricordi
in dolore liquido. Le forme che galleggiano dentro la mia testa tutte
le volte che torno a quei giorni avrebbero benissimo potuto essere
state disegnate più tardi, per alleviare la colpa di aver dimenticato
le loro facce. Eppure ricordo le promesse che facemmo, e poi non
mantenemmo, una per una. È strano come i volti, concreti e visibili
come sono, evaporino, mentre le parole, fatte di respiro, rimangano.
Sono scivolati via. Uno alla volta. Perché loro siano periti e io
sia sopravvissuto fno a questa fragile età, Dio solo lo sa. Penso a
Istanbul tutti i giorni. In questo momento c’è gente che attraversa i
cortili delle moschee, senza sapere, senza vedere. Preferisce pensare
che le costruzioni tutto attorno siano lì dal tempo di Noè. Invece
no. Le abbiamo edifcate noi; musulmani e cristiani, artigiani e
schiavi, umani e animali, giorno dopo giorno. Ma Istanbul è una
città incline a dimenticare. Le cose sono scritte sull’acqua, laggiù,
tranne le opere del mio maestro, che sono scritte nella pietra.
L A c it tà A i co Nfi Ni d EL ci ELo
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Sotto una certa pietra ho sepolto un segreto. Molto tempo è passato, ma dev’essere ancora là, in attesa di essere svelato. Chissà se
qualcuno lo troverà mai. Se sì, capiranno? Nessuno lo sa, ma alla
base di uno degli edifci costruiti dal mio padrone è nascosto il
centro dell’universo.
Agra, India, 1632
Istanbul, 22 dicembre 1574
Era passata la mezzanotte quando udì un ringhio feroce salire dalle viscere del buio. Lo riconobbe subito: veniva dal felino
più grande del palazzo del sultano, una tigre del caspio con gli
occhi d’ambra e la pelliccia dorata. il suo cuore perse un battito
mentre si chiedeva che cosa – o chi – avesse potuto disturbare
la belva. dovevano essere tutti profondamente addormentati a
un’ora così tarda: gli umani, gli animali, i djinn. Nella città delle
sette colline, oltre ai guardiani che facevano la ronda lungo le
strade, solo due generi di persone erano sveglie: coloro che pregavano e i peccatori.
Anche Jahan era sveglio: lavorava.
«Lavorare è preghiera per quelli come noi» diceva spesso il
suo maestro. «È il nostro modo di comunicare con dio.»
«E Lui come fa a risponderci?» aveva chiesto una volta Jahan,
molto tempo prima, quando era più giovane.
«dandoci più lavoro, ovvio.»
A crederci, voleva dire che il suo legame con l’onnipotente si stava facendo stretto, aveva pensato Jahan, dal momento
che faticava il doppio per fare due lavori invece che uno. Era un
mahout e un progettista. coltivava due talenti, eppure aveva un