il bambino che si faceva strada mangiando

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il bambino che si faceva strada mangiando
IL BAMBINO CHE SI FACEVA STRADA MANGIANDO:
FALLIMENTO DELLA FUNZIONE RIFLESSIVA, DISTURBO
DELLA
CONDOTTA
ALIMENTARE
E
INSTABILITÀ
PSICOMOTORIA IN UN BAMBINO IN ETÀ PRESCOLARE
Dr.ssa Chiara Giustini 1
“…e così (il pentolino) continua a fare la pappa, e la pappa trabocca e cresce,
e riempie la cucina e tutta la casa, e l’altra casa ancora, e poi la strada,
come se volesse saziare tutto il mondo ed è solo un grosso guaio
e nessuno sa come cavarsela [...] e chi volle tornare in città,
dovette farsi strada mangiando ”.
J. e W. Grimm, “La pappa dolce”
Nella favola de “La pappa dolce” dei fratelli Grimm, una bambina e la sua mamma
sono povere e patiscono spesso la fame. La bambina allora si reca nel bosco, dove
una vecchia le dona un pentolino magico. Al pronunciare della parola magica il
pentolino comincia a produrre una squisitia pappa, dolce e nutriente, con cui mamma
e bambina possono finalmente sfamarsi. Un giorno però la bambina si assenta, e la
mamma ordina al pentolino di cucinare la pappa. Tuttavia, ella non conosce la parola
magica per fermarlo, e quello continua a cuocere pappa in continuazione, finché non
trabocca e invade prima la casa, poi tutta città, creando enormi danni.
L’incontro con Emanuele, un bambino di cinque anni che frequenta una scuola
materna di Roma, in cui ho svolto la mia attività di osservazione, mi ha fatto tornare
in mente questa favola.
Nel presente elaborato desidero ri-narrare la storia dell’esperienza con questo
bimbo, avvalendomi dei contributi teorici e clinici che orientano la mia formazione e
che mi hanno permesso di fare chiarezza su alcuni aspetti alla base del nucleo di
sofferenza di Emanuele.
Le insegnanti mi forniscono una breve descrizione del contesto familiare ed
ambientale del bambino.
Emanuele soffre di un non ben specificato disturbo alle adenoidi; dagli accenni che
le insegnanti fanno alle apnee notturne che il bambino manifesta, individuo, da una
ricerca sull’argomento, che probabilmente si tratta di ipertrofia adenoidea.
A causa di tale patologia organica, il bimbo ha già subito numerose cure ed
affronterà un prossimo intervento.
Le insegnanti non riescono a stabilire se è in virtù della difficoltà di respiro che il
bambino male articola le parole e che assume una tipica espressione a bocca aperta,
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C.i.Ps.Ps.i.a - Centro Italiano di Psicoterapia Psicoanalitica per l’Infanzia e l’Adolescenza - Scuola di
Specializzazione in Psicoterapia Psicoanalitica per l’Infanzia e l’Adolescenza
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in cui i denti superiori poggiano appena sul labbro inferiore. Dalla mia ricerca,
apprendo che l’ingrossamento delle adenoidi provoca più frequentemente disturbi
della fonazione (il bambino parla "col naso") ed alterazioni della struttura osteoarticolare oro-faringea con sviluppo della cosiddetta facies adenoidea, caratterizzata
da bocca semiaperta, labbro superiore sollevato, naso affilato ed espressione
"addormentata". Tali elementi sembrano essere tutti presenti nel caso di Emanuele.
La adenoidectomia (asportazione delle adenoidi) è indicata solo in quei casi in cui sia
presente una grave ostruzione o infezioni. Ne deduco che Emanuele ha una forma
acuta della malattia. In tali situazioni, è frequente la manifestazione di altri sintomi,
quali enuresi (perdita di urine nel sonno), pavor nocturnus (episodi in cui il bambino si
sveglia improvvisamente, come terrorizzato ed in preda ad incubi), cefalee mattutine
e stancabilità diurna.
Apprenderò in seguito che anche il papà del bimbo ha sofferto dello stesso problema
ed ha a sua volta affrontato un’operazione.
La famigliola, a cui si aggiunge una sorellina più piccola verso cui Emanuele prova
un attaccamento “quasi morboso”, vive inoltre una difficile realtà socio-economica.
I genitori sono entrambi disoccupati e pare che abbiano subito già diversi traslochi,
vivendo talvolta in case occupate. A causa di questo i servizi sociali si sono mobilitati;
il comune ha offerto loro un alloggio e anche dal punto di vista lavorativo sembra che
la situazione stia gradatamente migliorando. Mi viene segnalata una certa riluttanza
da parte del padre del bimbo a ricevere l’aiuto dei servizi sociali. Ciononostante, sono
seguiti dall’assistente sociale dell’Asl di riferimento della scuola materna, con la quale
sembrano aver stabilito un rapporto di fiducia.
Le informazioni che vengono qui riferite, mi sono state fornite in modo
estremamente frammentato.
Solo verso il termine delle mie osservazioni, ad esempio, apprendo che durante le
ore di scuola, Emanuele ha espresso enormi difficoltà nel farsi accudire dal punto di
vista fisico. Quando doveva essere aiutato a pulirsi in bagno, richiedeva la presenza
esclusiva della bidella che durante l’inserimento era stata la referente per le pratiche
igieniche. Se ad esempio ad aiutarlo era la maestra, solo dopo svariate manovre il
bimbo accettava un parziale aiuto, spesso sporcandosi le mani con le feci.
Un altro elemento che segnala la trascuratezza anche sul piano fisico e che
emergerà tardivamente è l’acre odore di urina che talvolta il bambino emana, anche
se è appena arrivato a scuola.
La prima volta che vidi Emanuele fu lanciando un’occhiata alla classe dall’ingresso,
in cui stavo discutendo con le insegnanti le modalità con cui le mie osservazioni si
sarebbero svolte.
Di quel primo contatto, ricordo che mi colpì subito il suo pallore, la postura molle
delle spalle e la bocca aperta. Mi accorsi inoltre che il bambino era piuttosto pingue.
Sono pochi elementi questi, eppure, come indicato da Isaacs, l’attenzione ai dettagli
sono tra i principi metodologici che costituiscono un legame tra metodi osservativi e
tecnica analitica.
In particolare, Crocetti sottolinea la significatività degli indicatori corporei nel
focalizzare lo stato del Sé del bambino.
Il Sé è una potenzialità ereditata, una predisposizione al rapportarsi al mondo che è
evidente negli strumenti conoscitivi, espressivi e comunicativi di cui l’infante è dotato
sin dalla nascita. Questo Sé inizialmente integrato, per rimanere tale deve essere
custodito e protetto dagli urti di realtà dalla madre, che in virtù della propria
“preoccupazione materna primaria”, mette la propria mente emozionale al servizio
dei bisogni del bambino che non ha ancora un apparato mentale in grado di affrontare
l’esperienza attraverso l’uso del significato.
Il neonato, quindi, ha bisogno di una “pelle” psicologica, di un “contenitore” e di un
“riconoscimento” da parte del sistema-ambiente che, rispondendo ai suoi bisogni e
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alle sue manifestazioni espressive, funga da collegamento tra le varie componenti del
Sé; in tale ambiente egli trova conferma della continuità e dei confini della sua
esistenza. Parallelamente, ciò svolge anche la fondamentale funzione di permettere la
graduale integrazione dell’Io nascente.
Nello specifico, la rêverie materna, sostenuta dalla funzione di holding e di handling,
filtra gli elementi grezzi – o beta, per dirla con Bion – e li restituisce al bambino
rielaborati, in modo tale che egli possa tollerarli. Questa funzione è particolarmente
evidente quando la mamma verbalizza con una particolare coloritura vocale gli stati
fisici ed emotivi al bambino; ciò favoriscono il realizzarsi di un primo processo
d’integrazione somato-psichica. L’insediamento della psiche nel corpo, quindi, è una
conquista dovuta al maturare della funzione mentale.
Nella storia di Emanuele emergono diversi aspetti che lasciano ipotizzare un
fallimento della funzione riflessiva, che ha in qualche modo impedito al bambino un
movimento verso le funzioni mentali.
Come vedremo in seguito, anche l’istituzione ha colluso nel mantenere il bambino in
uno stato regressivo.
Non ho dovuto attendere molto perché le difficoltà di Emanuele mi si rivelassero in
tutta la loro prorompenza.
Già dalla mia prima osservazione, infatti, ho modo di assistere alle modalità con le
quali il bambino esprime i suoi disagi:
“Oggi è il compleanno di Davide e la maestra Michela propone di eleggerlo
“responsabile degli zainetti”. Emanuele protesta a gran voce: “No! Oggi è il mio
compleanno!” Inutili le obiezioni della maestra; il bambino insiste che oggi è proprio il
suo compleanno.
Michela: “No, amore, oggi non è il tuo compleanno; controlliamo quand’è….è a
Febbraio, tra tanti giorni…quando sarà il tuo compleanno toccherà a te fare il
responsabile”.
L’intervento sembra
momentaneamente calmarlo. Dopo poco, la maestra
distribuisce tra i bambini le leccornie che la mamma di Davide ha portato per
festeggiare il piccolo. Emanuele aspetta ansiosamente le patatine; si volta verso
Michela e continua a chiedere, sempre più insistente:“A me?”
Arrivano le patatine sul tavolo ed Emanuele ne fa incetta; è così vorace che gli altri
bambini fanno appena in tempo a prenderne qualcuna.
La maestra si accorge della scorpacciata e riprende il piccolo: “Emanuele! Ne hai
mangiate troppe, ora non ne avrai più! La pancia mangia poche patatine!”
Emanuele, sottovoce, ribatte: “La pancia ne mangia tante, invece”.
Questa sequenza è esemplificativa della modalità di alimentarsi che Emanuele
riproporrà nel corso delle osservazioni. Essa sembra essere associata ad altre
manifestazioni che rendono evidente la scarsa tolleranza delle frustrazioni da parte del
bambino.
E’ noto che la metodologia osservativa indica l’investimento libidico sul corpo come
parametro fondamentale per una crescita armonica.
Emanuele non sembra godere di ciò che mangia; il cibo è consumato con una
velocità impressionante. Inoltre, dalle osservazioni emerge un’indifferenziazione nella
scelta dei gusti: il bimbo trangugia tutto ciò che gli viene offerto o che riesce ad
ottenere. Per ciò che attiene la scarsa capacità di incontrare dei limiti, essa conferma
l’integrazione non ancora sufficiente per rapportarsi al mondo esterno. E’ come se il
bambino vivesse l’ostacolo come un attacco profondo. Emanuele sembra non avere
interiorizzato degli oggetti buoni rassicuranti che gli forniscano la capacità di autorassicurazione.
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Questo elemento trova un’ulteriore conferma nel racconto delle insegnanti e
successivamente, nell’osservazione dell’estrema difficoltà con cui il bambino si separa
dalla madre all’entrata in classe.
In tali occasioni il bambino appare come estremamente angosciato; richiede molte
rassicurazioni da parte della madre e dell’insegnante, che spesso vengono modulate
attraverso l’uso del cibo.
Più che con l’elaborazione verbale dell’adulto, infatti, le angosce sembrano
acquietarsi più spesso con una manciata di caramelle che il bambino consuma
immediatamente.
Cosa succede in Emanuele? Come si traduce questo in termini di risonanza interna e
successivamente di ragionamento clinico?
Attingendo ancora una volta al sostanziale contributo di Winnicott, il pensiero va
immediatamente a quello stato di fusionalità, o meglio di indifferenziazione adesiva,
che avvolge la coppia madre-bambino nei primi periodi di vita di quest’ultimo. Il
neonato ha bisogno di essere fuso e confuso con la madre per poter sperimentare
l’illusione che il seno sia parte di lui, ovvero: "... la madre pone il seno laddove il
bambino è pronto a crearlo, e nel momento giusto".
L’esperienza dell’illusione, quindi, consiste nel paradosso d’illusione del neonato di
aver creato il seno, oggetto che era lì in attesa di essere creato e di essere investito di
carica. A partire dall’illusione di aver creato il mondo, l’individuo si avventura a
scoprire ciò che lo circonda, nell’accettazione della realtà.
Citando Winnicott: “L’inizio delle relazioni oggettuali è complesso e non può avvenire
a meno che l’ambiente non presenti l’oggetto in modo tale che il bambino in realtà lo
crei. Lo schema è il seguente: l’infante sviluppa una vaga attesa che ha origine in un
bisogno non formulato; la madre responsiva presenta un oggetto o una manipolazione
che risponde alle di lui esigenze e così lui comincia ad aver bisogno proprio di ciò che
la madre presenta. In questo modo l’infante comincia ad aver fiducia di poter creare
gli oggetti e il mondo reale. La madre concede al figlio un breve periodo in cui
l’onnipotenza
è
un
dato
della
sua
esperienza.”
L'illusione permette al bambino di esprimere una creatività primaria personale e la
madre favorirà poi, progressivamente, una graduale disillusione consentendo
l’individuazione del bambino.
Alla presentazione dell’oggetto corrisponde la relazione oggettuale.
Quest’ultima viene descritta da Winnicott nel suo costruirsi gradualmente,
strettamente correlata a come avviene ed evolve la presentazione dell’oggetto da
parte della madre. Pertanto va considerata sia nella sua fase originaria, in cui, come
abbiamo visto in precedenza, l’oggetto è presentato in modo tale che è il bambino che
lo crea, che in quelle che la seguono.
Questa esperienza di onnipotenza è essenziale nello sviluppo perché mette le basi
della fiducia che stanno alla base di una vita normale. Là dove c’è fiducia, lo spazio fra
il me e il non me, fra l’oggetto percepito soggettivamente e l’oggetto percepito
oggettivamente, può essere sempre colmato nei diversi stadi della vita. Questo spazio
può diventare un’area infinita in cui si esercita prima la creatività del gioco e poi il
fruire della cultura.
Ciò inoltre permette l’integrazione dell’Io, ossia la strutturazione dell’individuo come
unità.
Secondo Winnicott, una madre adeguata diminuisce nel tempo il pieno adattamento
ai bisogni del figlio. In seguito alla frustrazione di essi, il bambino è spinto ad
abbandonare la fase di dipendenza assoluta caratterizzata dall’illusione di creare
l’oggetto quando e nel luogo che egli desidera, per passare alla fase di dipendenza
relativa.
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Il bambino, quindi, man mano che la madre presenta l’oggetto, prima lo crea, poi se
lo rappresenta; queste sono le tappe fondamentali che gli consentiranno di incontrare
la realtà in modo personale.
Tuttavia, esistono delle condizioni in cui, per ragioni di diverso ordine, - come ad
esempio, l’incompetenza genitoriale o lo svantaggio socioeconomico - la madre non
abbia sufficientemente facilitato quest’incontro con la realtà, ad esempio tenendo
troppo a lungo il figlio nell’onnipotenza e impedendo l’esplorazione attiva
dell’ambiente.
Le origini del disagio, quindi, sembrano risalire ad un fallimento della funzione “riflessiva”, ovvero della capacità materna e ambientale di “ripiegare la mente”
emozionale in direzione dei bisogni profondi di sostegno e graduale emancipazione del
bambino.
Le difficoltà che il bambino esperisce nel suo emanciparsi dalla matrice simbiotica,
sembrano riaffiorare in tutta la loro complessità nei disturbi della condotta alimentare,
nei quali il nucleo dinamico sembra essere costituito proprio dalla mancata
sintonizzazione tra le esigenze evolutive e il desiderio di fusione.
In letteratura, vari autori concordano nel considerare il cibo come il simbolo
privilegiato della relazione affettiva primaria e l’atto nutritivo, metafora dello scambio
d’amore, paradigma di un atto comunicativo pre-logico intensamente emotivo.
I processi mentali e le dinamiche emotive si appoggiano dunque alle funzioni
corporee, alle vicende istintive legate alla fame e ai bisogni fisiologici. Ciò significa che
le prime esperienze di incorporazione ed espulsione, e quindi di piacere-dispiacere, si
legano alla dimensione affettivo-relazionale e subiscono delle trasformazioni di senso,
in quanto su di esse si innestano l’attività di pensiero e soprattutto la dimensione
emotiva.
Freud, ad esempio, indica come la fase orale adempia ad una funzione gnosogena,
nel senso che la bocca, sede di eccitazione sessuale, diventa uno strumento per
entrare in contatto con il mondo, generando in tal modo una prima forma di
conoscenza. La fissazione può scaturire sia da un’eccessiva gratificazione dei bisogni
del bambino, sia da una mancanza di gratificazioni. Nel caso specifico dell’obesità, il
ricorrere al cibo sarebbe la manifestazione di un superamento insoddisfacente della
fase orale.
Anna Freud, la prima a fornire una classificazione teorica sulla psicopatologia dei
disturbi alimentari nell’infanzia, ripropone l’intima connessione tra piacere e
nutrizione, piacere orale e radici della relazione con la madre.
L’Autrice sottolinea come l’atto dell’alimentazione solleciti intense emozioni di
amore, ma anche di aggressività.
Nei soggetti con disturbi alimentari, l’assenza di conferme che legittimino le
percezioni del bambino, conducono quest’ultimo a dubitare delle sue esperienze
corporee. Contemporaneamente, egli riceve dal nucleo familiare una rigida
attribuzione di ruolo in cui viene cristallizzato, e che sembra porsi come unica
alternativa che consente ai genitori di comunicare con lui senza angoscia.
Con la Teoria dell’Attaccamento, Bowlby propone un ridimensionamento del ruolo
delle pulsioni orali, focalizzando maggiormente l’attenzione sulle interazioni precoci
bambino/caregiver .
La relazione primaria bambino/caregiver è vista come risposta psicobiologia alla
ricerca di protezione e sicurezza.
In quest’ottica, il comportamento alimentare è una delle declinazioni del più ampio
comportamento di attaccamento, attivato allo scopo di ottenere la vicinanza della
madre per poter ristabilire con lei un equilibrio affettivo.
Gli autori dell’Infant Research, che hanno messo a punto le tecniche osservative
microanalitiche di cui ci avvaliamo nel nostro lavoro - e di cui mi sono servita durante
il mio iter formativo nelle comunità infantili - , gettano luce sull’importanza della
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funzione di specchio assolta dalla madre, e che è così ben condensata da Winnicott
quando afferma che:
“quando il bambino guarda negli occhi della madre, non vede la madre, ma vede
l’immagine che la madre si è costruita di lui”.
Questo dato sembra trovare conferma nei recenti studi neuroscientifici sui neuroni
“mirror” e sui meccanismi dell’inter-soggettività.
L’Infant Research ha inoltre avuto il merito di enucleare quella particolare modalità
internazionale madre-bambino che è il turn-taking, ossia l’alternanza dei ruoli.
Essa consiste essenzialmente di un ritmo, quello che Stern definisce “il ritmo
interattivo reciproco, la danza”, i segnali relativi al corpo, è un ritmo che è
fondamentale, perché è il ritmo sociale, il ritmo che esiste anche nel dialogo.
Nell’ambito del comportamento alimentare, può accadere che talvolta la madre si
arresti nell’allattamento in virtù del turn-taking. Diversi studi hanno confermato che
se questa pausa dura più di un certo numero di secondi, il bambino difficilmente
riprende a succhiare, perché la interpreta come un invito della madre a interagire con
lei. Se, invece, la madre riprende, interrompe la pausa e riavvicina il seno, il bambino
ricomincia a succhiare. Cosa succede se questo ritmo si sfalsa? In realtà, diversi autori
hanno chiarito che la sintonizzazione riguarda solo una piccola percentuale delle
interazioni. Per la restante parte si realizza un fallimento interattivo, che tuttavia può
essere “riparato”, tramite gli aggiustamenti adattativi dell’ambiente nei confronti delle
richieste del piccolo.
E’ proprio questa riparazione del micro-trauma che crea nella coppia una traccia
mnestica positiva, la convinzione di poter affrontare con successo le empasses
evolutive.
Ciò si rivela prezioso quando, successivamente, la coppia dovrà affrontare tappe
critiche, come ad esempio lo svezzamento.
Da tutto ciò appare con evidenza come l’esperienza della fame non sia innata, ma
condizionata
dall’apprendimento, all’interno del quale la dimensione simbolica assume un ruolo
primario.
Quando il neonato riesce ad unire in sé l’esperienza di sazietà con la sensazione
(tattile, odorosa, termica) di qualche cosa che entra nella bocca, si è formata una
prima rappresentazione mentale di qualcosa che lo nutre e questa è una prima forma
di apprendimento.
Tuttavia, quest’ultimo può essere disturbato se le risposte dell’ambiente e le
comunicazioni verbali e concettuali che lo accompagnano sono tali da confondere le
idee e da indurre in errore.
La mancanza di risposte congrue alle sue necessità priva il bambino che si sviluppa
delle basi essenziali su cui costruire la propria “identità fisica” e la consapevolezza
percettiva e concettuale delle proprie funzioni.
A questo riguardo, Hilde Bruch ha proposto un interessante modello patogenetico
del disturbo della condotta alimentare, a partire da alcuni presupposti
dell'impostazione psicodinamica, integrati con osservazioni dirette sulle famiglie dei
bambini e degli adolescenti obesi. L’Autrice sostiene che in questi casi, il dirottamento
della funzione alimentare è attribuibile ad una difficoltà reciproca della coppia madrebambino nell’interpretazione dei segnali.
La madre acquisirebbe cioè la tendenza a rispondere con l’offerta di cibo ad ogni
esigenza del figlio (di comprensione e attenzione, di svolgere attività fisiche
impegnative, di esprimersi e di avere iniziative ecc.), oppure ad utilizzarlo per
consolare, premiare e castigare.
Il bambino pertanto finisce per dubitare della legittimità dei propri sentimenti e delle
proprie esperienze; egli si abitua gradualmente a correlare le necessità di cibo con
ogni altro bisogno, perdendo la capacità di distinguere tra le sue diverse esigenze (per
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esempio riconoscere la fame come esigenza di nutrimento) e i suoi diversi impulsi
emotivi.
In particolar modo, se la madre risponde con un’offerta di cibo ad ogni espressione
di disagio si formerà un legame condizionato tensione/assunzione di cibo e il bambino
ripeterà il meccanismo appreso mangiando in risposta a differenti stati di conflitto.
Secondo la Bruch, tale quadro è aggravato dal particolare e stretto legame tra la
famiglia e il soggetto, che influenzerebbe negativamente la costruzione dell’identità di
quest’ultimo.
In particolare viene sottolineato il significativo livello di ansia, discordia e l’eccessivo
attaccamento che permeano questi sistemi e che ostacolano l’autonomia dei figli.
La Bruch sostiene che
“… non era questa o quella caratteristica … a spiegare lo sviluppo sano o abnorme,
bensì l’interazione dinamica fra tutti gli appartenenti alla famiglia e il ruolo che
ciascuno svolgeva nei confronti degli altri. …il bambino obeso era stato eletto a
compensare i genitori delle loro frustrazioni e manchevolezze … è considerato un bene
prezioso a cui si debbono le cure migliori, ma nel contempo gli si nega la propria
individualità …” (Bruch 1973, pp. 100).
Diversi autori sembrano concordare con questa visione. Molti studi segnalano come
elemento comune nelle storie familiari di bambini con disturbi della condotta
alimentare la presenza di tensioni e conflitti interni che convergono nel generare un
livello di ansia tale da impedire ai genitori di lasciare che il figlio si sviluppi e acquisti
autonomia.
Inoltre viene osservato come i bambini obesi siano spesso molto immaturi ed
esageratamente dipendenti dalla madre, poco attivi e poco inseriti tra i compagni.
Nel pensiero di Winnicott ritroviamo questi concetti nei casi in cui la madre anticipa
la percezione del bisogno da parte del bambino, privandolo così della possibilità di
“sentirsi” e disconoscendo ogni sua risorsa e autonomia. Non si produce, cioè, quel
passaggio fondamentale che Crocetti chiama dal bisogno-istinto al desiderio-pulsione.
Da un’altra sequenza tratta dalle mie osservazioni:
“I bambini sono riuniti attorno ai tavolini per il pranzo, che hanno già cominciato a
consumare.
Emanuele è tornato; chiedo alla maestra Marta se è stato operato, dato che sapevo
del suo ricovero in ospedale. Marta mi spiega che è stata una pre-ospedalizzazione,
dalla quale è risultata l’impossibilità per il ricovero in day-hospital; occorreranno due
giorni di osservazione.
Aggiunge poi: “Ma tanto lui ci va così volentieri all’ospedale! Gli piace proprio!
Chissà, forse perché sono ambienti studiati per bambini, ci sono tanti bambini…”
Emanuele, che è seduto accanto all’amichetto Jacopo, sembra avere un conato di
vomito; il boccone che ha in bocca è talmente grosso che a fatica riesce a masticarlo.
La cosa non sembra turbarlo; si alza e viene nella mia direzione, ancora intento a
masticare il grosso boccone. La maestra Tiziana cerca di metterlo a sedere, ma lui si
libera e viene da me. Cerca di parlarmi, ma intasata com’è la sua bocca, non lo
capisco. Perciò gli dico: “Non ti riesco a capire, finisci pure di mangiare.”
Matteo accanto a lui: “Tanto lui non si capisce mai cosa dice, non parla molto bene”.
Rimango in paziente attesa delle comunicazioni di Emanuele.
Mi dice qualcosa, ma la bocca è ancora ingombra di cibo - che tra l’altro mi mostra perciò non lo capisco.”
E’ questo il momento che, più di altri, ha evocato in me l’immagine di un bambino
che, come gli abitanti della città invasa dal cibo nella favola dei fratelli Grimm, deve
“farsi strada mangiando”.
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Il cibo è la modalità che consente ad Emanuele di tentare di tappare i suoi “buchi”
dolorosi, ma che allo stesso tempo metaforicamente “invade” la bocca e non permette
l’uso della parola, del simbolo, dunque, della mente.
Qualcosa, nel ritmo interattivo tra Emanuele e la madre, sembra averlo
compromesso.
L’insuccesso materno si è forse ripetuto, determinando un indebolimento dell’Io e
un’attivazione di quello che Winnicott chiama “modello di frammentazione dell’essere”.
Il bambino non è stato protetto da quelle angosce impensabili che possono attaccare i
processi di integrazione. L’istinto fame non è forse stato accudito, e così ha minacciato
l’Io del bambino che non ha potuto apprendere a tenere in sé le pulsioni. La psiche
non ha potuto insediarsi adeguatamente nel soma.
Il simbolo non ha potuto sostituirsi all’oggetto, e dunque è mancata la piena
interiorizzazione dell’imago materna positiva e l’integrazione degli aspetti buoni e
cattivi di quest’ultima.
L’ambiente fallace ed inattendibile ha deluso la fiducia nei suoi confronti e
compromesso la possibilità di affidarsi alle proprie risorse per incontrare la realtà.
Crocetti indica che il trauma per perdita-abbandono-rifiuto attacca profondamente il
legame e mortifica l’Io del bambino. Egli, invaso da angosce di morte, è
immobilizzato, ed è tenuto nella fusionalità con l’ambiente-madre, che lo può iperproteggere tanto quanto lasciarlo nell’incuria.
Da un’osservazione:
“E’ Halloween, e in classe la maestra Elisabetta propone un gioco a tema: “dolcetto
o scherzetto”. Elisabetta lancia a caso la palla ad un bambino e lo chiama a pescare in
un sacchetto una figurina che rappresenta il dolcetto, ovvero un cioccolatino, o lo
scherzetto, che consiste nel dipingere un ragnetto sulla guancia. Emanuele si alza
spesso dalla sedia e dice “Io, io! Adesso io!”
Alla fine del gioco Elisabetta annuncia che questo era solo un modo per osservare
una tradizione di Halloween, ma che adesso tutti i bambini avranno un regalino fatto
dalle maestre per loro. Si tratta di una collanina di pasta di sale a forma di
fantasmino, con degli occhietti e il sorriso neri. I bimbi esultano, e a turno sono
invitati a recarsi dalla maestra per farsi annodare la collanina.
Emanuele osserva la sua e dice che al fantasmino manca un occhio. In effetti, la
collanina non è così robusta e il fantasmino del bimbo è orbo.
“Vabbè, Emanuele, non importa…il tuo fa l’occhietto!” esclama Elisabetta.
Il piccolo non sembra convinto e continua a guardare la sua collanina e quella degli
altri.
“No, maestra, non ha un occhio!” dice angosciato.
Emanuele non accetta un fantasmino difettoso, quasi come se questo lo riportasse a
contattare le angosce di morte sul corpo. L’istituzione collude non proponendo una
riparazione di un oggetto rotto, producendo l’ennesimo urto. In un altro momento, ad
esempio:
“Ad un certo punto Manuel, che si agita in mezzo alla fila viene rimproverato da
Elisabetta che gli dice “Ora vai per ultimo”.
“Ma no, io sto qui nella fila”, ribatte il bambino.
No, gli ripete Elisabetta che dato che si sta comportando male deve andare in fondo
alla fila con Jacopo, con cui è accoppiato. Il bambino si getta a terra in una crisi
oppositiva; Elisabetta lo solleva di peso e lo spedisce con Jacopo in fondo alla fila”.
Si ripropone l’ambiente maltrattante, che non si fa carico della funzione simbolica
che l’istituzione dovrebbe assumersi.
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La scuola per l’infanzia deve poter fornire sostegno all’identità del bambino, in modo
che egli possa gradatamente auto-affermarsi, canalizzando l’energia libidica. Se ciò è
valido per qualsiasi bambino, diventa tanto più importante nel caso di Emanuele, che
non sembra aver potuto avere accesso a queste competenze. L’energia libica del
bambino è dispersa e non è tenuta e canalizzata dall’ambiente per mettersi al servizio
della mente.
“Emanuele è intento ai suoi giochi e la maestra lo richiama al libro. Il bimbo si
oppone blandamente, dicendo che li ha fatti i compiti, eccoli qua.
“No, non va bene! Devi fare questo e non hai colorato qui!” dice la maestra
Elisabetta.
Approfittando qua e là della distrazione delle maestre, che prestano attenzione agli
altri bambini, Emanuele si alza di continuo per andare alle costruzioni; poi va alla
cucinetta.
Elisabetta lo richiama nuovamente e il bimbo si avvicina a lei con un piatto in mano,
dicendole qualcosa come l’averle cucinato una pietanza.
Elisabetta a voce alta, replica: “Non voglio da mangiare, tu adesso devi finire la
paginetta!”
Nel corso delle osservazioni si è potuta instaurare una buona alleanza con le
insegnanti, tramite un riconoscimento delle loro fatiche e il sostegno alle competenze
educative, verso le quali si era persa fiducia.
Si sono esplicitate le ansie e gli aspetti depressivi legati a un fallimento nell’identità
di ruolo, sottostanti alla rigidità normativa.
Si è così potuto creare uno spazio per la riflessione sulle carenze dell’istituzione che
non ha garantito sufficiente stabilità ai bambini con l’alternanza delle insegnanti.
Poiché il comportamento di un bambino va considerato anche in base al contesto in
cui è inserito ha preso forma la consapevolezza che l’imprevedibilità dell’ambiente ha
spesso compromesso l’opportunità di darsi un tempo per pensare le attività a misura
delle necessità dei piccoli.
Il riconoscimento dei limiti ha concesso la possibilità di pensarsi come ambiente
competente e in grado di mobilitarsi garantendo un contenimento per la famiglia.
Riguardo ad Emanuele, si è potuto ragionare sulla necessità per il piccolo di una
regolazione interattiva dell’ambiente che consenta ad entrambi un reciproco
adattamento, più rispettoso delle autonomie del bambino.
Lo spazio di riflessione ha condotto alla formulazione della richiesta di una
logoterapia per Emanuele, che è stata subito accettata dalla mamma del piccolo. La
modulazione della richiesta ha favorito una piccola apertura verso il dialogo volto
all’instaurazione di un’alleanza educativa tra insegnanti e genitori.
Infine, tramite il colloquio di tutto il gruppo di lavoro con il neuro-psichiatra e
l’assistente sociale si è ottenuto il sostegno per Emanuele, nonostante i tempi
burocratici fossero sfavorevoli.
La mamma ha di nuovo concesso l’autorizzazione per la richiesta.
“Emanuele arriva con la mamma, a cui tira la manica per ricevere dei baci. La
sorellina è abbracciata con trasporto ed esita più volte sull’arco della porta. La
maestra Tiziana lo prende per mano e rivolta in direzione della mamma dice che oggi
faranno un sacco di belle cose e che quando tornerà il bambino potrà raccontargliele.
Emanuele annuisce guardando verso la classe e quindi entra, puntando la pista del
trenino con cui, da un po’ gioca non appena arriva. Durante l’incontro con il
neuropsichiatra, l’assistente sociale ha riferito che il bambino abita vicino alla ferrovia.
Faccio la fantasia che forse il simbolo sta sostituendo l’oggetto.”
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Al termine di questa narrazione, vorrei lasciar parlare di sé proprio Emanuele, con
due disegni realizzati durante le osservazioni, a poche settimane di distanza l’uno
dall’altro.
Nel primo, la consegna era la rappresentazione di una famiglia.
Gli elementi figurativi sono molto poveri, non esiste una linea di terra che ancori alla
realtà, tutto è sospeso e rarefatto.
La pressione sul foglio e l’estemporaneità dell’esecuzione, accompagnata dalla
loquacità, suggeriscono l’incapacità di attivare la capacità di elaborazione
immaginativa. Il tratto sembra in un punto debordare dal foglio, ad indicare le
difficoltà nei processi di separazione-individuazione.
L’uso prevalente del blu che Emanuele ripropone nei disegni ci dice che il bimbo è
bloccato in un’unica emozione.
Papà sembra lontano, collocato nel trauma (è all’ospedale; di lì a pochi giorni il
bimbo avrebbe dovuto affrontare la pre-ospedalizzazione), al di fuori del reticolo al cui
centro ci sono Emanuele e la sorellina, e quasi in continuità la mamma.
Nel secondo disegno, Emanuele rappresenta la persona nella pioggia.
E’ comparso una sorta di pupazzo testone, con gambe, braccia, piedi e mani
azzurre.
La pressione sul foglio e il nervosismo con cui avviene la realizzazione sono ancora
indicativi di una difesa dai sentimenti depressivi e il tratto discontinuo sembra
concentrarsi all’altezza della parte superiore della testa, come se i processi mentali
fossero ancora estremamente confusi e invasi dalle vicende del corpo e dagli istinti
(colore marrone).
La pioggia è piuttosto violenta e bagna i capelli. Appare il movimento (il bambino
dice che nel disegno sta andando a prendere l’autobus per andare a casa) che è
ancora sbilanciato verso il passato e il soddisfacimento immediato degli istinti.
L’ancoraggio alla realtà ancora non esiste e i piedi non sfiorano nemmeno il bordo
inferiore del foglio.
Nella versione originale della favola de “La pappa dolce”, è la bambina che fa ritorno
a casa che riprende il controllo del pentolino e lo arresta, appena prima che l’ultima
casa vada distrutta.
Si crea lo spazio per la speranza, che a partire da quella casa, si possa ricostruire la
città demolita dall’avidità infantile. E’ nella bambina la conoscenza della “parola
magica”, la funzione simbolica che si sostituisce all’irrompere degli istinti e che riesce
a dominarli.
Il sintomo che i bambini portano può diventare un punto di svolta, un momento di
cambiamento di ciò che non ha trovato nelle logiche della famiglia un modo di
esprimersi.
Nel recupero della funzione riflessiva da parte dell’ambiente ci sono le basi per
restituire al bambino la capacità creativa che lo aiuti nel suo percorso evolutivo.
Attraverso una rete di connessione tra affetti e significati, il bambino può
trasformare sensazioni angosciose in pensieri e simboli, e quindi utilizzare energie,
prima imprigionate nei sintomi, nella crescita evolutiva.
Il modo in cui il clinico, partecipando all’interazione, segue il racconto del bambino e
dei genitori e osserva ciò che accade dinanzi a lui, influenza l’intero processo
valutativo e terapeutico. La comprensione del bambino e del suo contesto può fornire
messaggi di rassicurazione alla famiglia, favorendo l’emergere di competenze
genitoriali positive. Valorizzare la genitorialità significa curare gli scambi interattivi che
vengono a plasmare dinamicamente i primi fondamentali legami di attaccamento e
salvaguardare lo spazio materno che garantisce l’accoglienza, la capacità di rispondere
al bisogno, e di elaborare sentimenti ed emozioni, nonché quello paterno, che può
favorire la crescita dell’autonomia e l’adattamento al reale.
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Sostenere la speranza del cambiamento, riconoscere e ricostruire, all’interno di
percorsi terapeutici ed educativi, le funzioni essenziali dei genitori e commisurarle alle
esigenze dei figli, può costituire, nella nostra attività clinica, un importante obiettivo di
prevenzione.
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