“niente è illuminato”. gioco politico internazionale e
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“NIENTE È ILLUMINATO”. GIOCO POLITICO INTERNAZIONALE E SEGRETEZZA Sommario: 1. Istituzionalizzazione della convivenza internazionale e segretezza – 2. Teoria politica internazionale e segretezza - 3. Guerre segrete, nemici segreti, mezzi segreti. Per un’estetica della segretezza. Le cose che s’han da fare non si debbono dire, e quelle che si debbono dire non s’han da fare…non tutte le verità si possono dire: le une perché importano a noi, le altre perché importerebbero all’avversario. Baltasar Graciàn, Oracolo manuale e arte di prudenza La miseria di Machiavelli consiste nel fatto stesso di parlare del potere, di farlo cioè oggetto della chiacchiera. Il potere è e rimane mistero. Il potere pubblico è il mistero più impenetrabile. Chi dice potere vuole smascherare; chi detiene il potere non parla del potere, non pensa al potere….Fare uso di concetti indeterminati, stare in bilico, sottrarsi alle alternative provenienti dall’esterno: questo può fare solo chi, apertamente o segretamente, è molto forte…il segreto dell’inimicizia. Carl Schmitt, Glossarium, 1947 In pratica però è difficile immaginare il trasferimento di un potere costituente dalla nazione all’umanità…le superpotenze dovrebbero rinunciare alla loro superiorità egemoniale e al suo fondamento? E dove si trovano questi fondamenti? Il potenziale nucleare verrà affondato completamente nell’oceano o sarà trasportato sulla luna? Tutti gli stati, piccoli e grandi, cederanno i segreti della loro produzione al mondo intero senza aperte o tacite riserve? Apriranno i loro archivi ed esibiranno i loro segreti per condurre un grande processo mondiale contro quelli che sono stati finora i nemici dell’umanità? Carl Schmitt, La rivoluzione mondiale legale, 1979 1. ISTITUZIONALIZZAZIONE DELLA CONVIVENZA IN TERNAZIONALE E SEGRETEZZA Una ulteriore intensificazione della rete di istituzioni internazionali ridurrebbe in modo significativo l’incertezza nell’arena internazionale? Un aumento del numero dei trattati e delle organizzazioni internazionali (governative e non1), indurrebbe i governi ad attenuare il ricorso massiccio a misure di segretezza quando impegnati a implementare le loro politiche estere? In un mondo completamente o altamente istituzionalizzato, gli stati potrebbero praticare solo la diplomazia aperta, abbandonando per sempre quella segreta? Il dilemma della sicurezza che costringe gli stati a badare alla propria sicurezza e, dunque, a tenere nel segreto gran parte delle questioni di high politics, potrebbe, in definitiva, essere detronizzato a favore di rapporti in cui la conoscenza delle intenzioni dell’avversario sia pressoché totale? Un aumento delle informazioni a disposizione degli stati comporterebbe una diminuzione della conflittualità del sistema internazionale2, e, dunque, una “generale riduzione della segretezza porta alla pace”?3 Una global-information-sharing pacificherebbe il sistema internazionale una volta per tutte? Si formasse (prima) uno stato mondiale e venisse azzerato rawlsianamente lo stato delle relazioni internazionali, probabilmente sì. In assenza di un Leviatano mondiale e non potendo azzerare la biografia del sistema delle relazioni internazionali, ogni stato resta costretto, dovendo tutelare innanzitutto il proprio interesse nazionale4, a badare in ultima istanza alla propria sicurezza e, dunque, a Dati recenti sulle organizzazioni non governative possono trovarsi in: AA. VV., L’Atlante, Le Monde Diplomatique/Il Manifesto, 2006, pp. 74-75. 2 Questa la tesi di fondo di: Jan-Erik Lane, Globalization and politics. Promises and dangers, London, Ashgate, 2006. 3 N. P. Gleditsch and E. Høgetveit, Freedom of information in national security affairs: a comparative study of Norway and the United States, in Journal of Peace Research, April 1984. 4 Sul concetto di interesse nazionale rimando a: H. J. Morgenthau, In defense of the national interest, Lanham, University Press of America; C. Eagleton, International law or national interest , in The American Journal of International Law, October 1951; F. H. 1 1 diffidare delle intenzioni altrui. E questo vale sia per i regimi democratici che per quelli autocratici, quando a essere interessata è la politica estera, per la semplice ragione che l’esistenza di regimi autocratici che praticano un tipo di politica estera lontana dalle prescrizioni liberaldemocratiche5, predispone (inevitabilmente) le democrazie ad adottare in politica estera una condotta poco incline a sacrificare la (propria) ragion di stato nel nome di una generica difesa della democrazia. Nei rapporti internazionali con i regimi non democratici, ma non solo in realtà6, le democrazie si dimostrano spesso inclini all’uso di strategie poco democratiche. L’esistenza di stati potenti ma non democratici con cui le democrazie sono in competizione in numerose issue-areas, obbliga queste ultime ad adottare in politica estera misure e strategie spesso poco in linea con i dettami del pensiero liberaldemocratico7. Gli stati democratici tendono ad adattarsi, semplicemente, allo stile in politica estera più diffuso. La diffidenza tra stati è, dunque, inevitabile innanzitutto a causa dell’esistenza (e della permanenza) di un’arena internazionale ancora preda dell’anarchia, di un’arena, cioè, priva di un archè mondiale, di un potere autoritativo centrale in grado di punire ogni attore responsabile di violazioni del diritto internazionale, senza eccezioni, senza cioè che nessun attore possa dirsi legibus solutus. Il sistema politico internazionale continua a essere qualcosa di profondamente diverso da un sistema politico interno, innanzitutto a causa del suo muoversi sempre all’ombra della guerra. Come scriveva Aron, “le relazioni interstatali presentano una caratteristica originale che le distingue da tutte le altre relazioni sociali: si svolgono all’ombra della guerra o, per servirci di un’espressione più rigorosa, le relazioni tra stati comportano per loro essenza l’alternativa della guerra e della pace”8. La continua permanenza della diffidenza inter-statuale a causa di una struttura anarchica delle relazioni internazionale è il fattore principale che induce gli attori che giocano la partita internazionale a ricorrere a dosi massicce di segretezza nel predisporre una politica estera. È giusto affermare in prima battuta, di conseguenza, che è la morfologia del sistema internazionale a fare della segretezza un inevitabile imperativo per i foreign policy makers. “La segretezza governativa ha lo scopo di proteggere informazioni riservate da potenze rivali”9. Segretezza che vediamo praticata quotidianamente dagli stati sulle questioni di high politics in svariati modi. In primo luogo, trattenendo informazioni che, se di dominio pubblico, potrebbero nuocere all’interesse nazionale e, dunque, favorire i diretti avversari, sempre pronti a sfruttare falle nei sistemi di intelligence. In secondo luogo, consentendo e ricorrendo con sempre maggiore frequenza alle cosiddette “covert actions”10 a causa del fatto che la gran parte degli stati teme che “in una arena internazionale anarchica senza un effettivo governo centrale…uno stato avversario potente possa espandersi attraverso uno stato più debole”11. A questo proposito basta ricordare la disinvoltura dell’amministrazione Reagan12 nel finanziare quei governi o quei movimenti utili a controbilanciare la minaccia dell’espansionismo Underhill, The conception of a national interest, in The Canadian Journal of Economics and Political Science, August 1935; J. H. Kautsky, The national interest: the entomologist and the bettle, in Midwest Journal of Political Science, MAY 1966; P. E. Corbett, National interest, international organization, and American foreign policy, in World Politics, October 1952; J. L. Chase, Defining the national interest of the United States of America, in Journal of Politics, November 1956; C. Rice, Promoting the National Interest , in Foreign Affairs, January 2000; J. Nye, The American national interest and global public goods, in International Affairs, Vol. 78, n. 2; S. D. Krasner, Defending the National Interest , Princeton, Princeton University Press, 1978; C. J. Doherty, Defining the National Interest: A Process of Trial and Error, Congressional Quarterly Weekly Report, 26 March 1994; C. A. Beard, The idea of national interest , Chicago, Quadrangle, 1934; F. E. Oppenheim, National interest: rationality and morality, Political Theory, August 1987; M. G. Roskin, National interest: from abstraction to strategy, Parameters, Winter 1994; H. A. Kissinger, Domestic Structure and Foreign Policy, Daedalus, Spring 1966. 5 E soprattutto non incontrando opposizione alcuna (o significativa) sul fronte interno. 6 Le democrazie non si fanno la guerra, ma fanno ricorso senza troppi complimenti a covert actions, anche tra di loro. Cfr.: S. van Evera, The case against intervention, The Atlantic Monthly, July 1990. 7 Su questo si veda, in parte: D. F. Thompson, Democratic secrecy, Political Science Quarterly, Summer 1999. 8 R. Aron, Pace e guerra tra le nazioni, Milano, Edizioni Comunità, 1970, p. 24. 9 D. N. Gibbs, Secrecy and international relations, in Journal of Peace Research, Vol. 32, n. 2, p. 214. 10 Con “covert actions” si intende il perseguimento di obiettivi di politica estera attraverso un intervento segreto negli affari di un’altra nazione: L. K. Johnson, Covert actions and accountability: decision-making for America’s secret foreign policy, in International Studies Quarterly, March 1989, p. 81. 11 D. P. Forsythe, Democracy, war, and covert action, in Journal of Peace Research, November 1992, p. 392. 12 C. Hitchens, The Reagan doctrine and the secret state, Middle East Report, September 1987. 2 sovietico13. Disinvoltura facilitata dall’Executive Order 12333, che permetteva al presidente di ordinare azioni clandestine di qualunque tipo (covert operations), spesso servendosi di agenzie private (o contractors) cui appaltare questi compiti14. Questa spregiudicata condotta in politica estera era la conseguenza, su un piano riduzionistico15, di una amministrazione più che decisa a sciogliere, senza troppi complimenti, il dilemma ragion di stato/democrazia16 a favore della prima 17 (numerosissimi i tentativi di aggirare i veti congressuali in politica estera da parte della Casa Bianca18); su un piano internazionale, questa spregiudicatezza era la conseguenza dell’epocale confronto tra due escatologie politiche, tra due superpotenze globali decise a vincere la partita con ogni mezzo indiretto possibile19. Ma la segretezza viene praticata dagli stati anche in un terzo modo. Gli stati spesso preferiscono fare affidamento, nel cercare partnership strategiche con altri attori, su alleanze “informali”, che non si basano cioè su trattati scritti, in cui il contenuto della promessa di mutua assistenza è poco chiaro, sfumato, quasi segreto, per certi versi persino alle due parti contraenti. Basta pensare alla special relationship angloamericana 20, (o a quella tra Stati uniti e Israele), per vedere che un’intesa tra due stati è spesso molto più importante per gli equilibri strategici internazionali di un trattato di alleanza reso pubblico (cioè comunicato alla comunità internazionale e depositato all’Onu). Il contenuto di quella che è una delle più durature e solide alleanze della convivenza internazionale degli ultimi sessanta anni, la special relationship angloamericana 21, è, in gran parte, segreto nel senso che non è esplicitato in alcun trattato scritto22. Su cosa si basi l’alleanza angloamericana è fatto tanto scontato quanto poco chiaro23, ma questo non rende di certo l’alleanza tra Regno unito e Stati uniti una alleanza meno affidabile. C’è anche un altro caso interessante di segretezza praticata, sempre restando nel campo delle “colleganze internazionali”, che merita di essere ricordato. Il caso di quelle alleanze segrete stipulate tra stati tra cui non c’è alcuna affinità ideologica o etnica, mancanza di affinità che non impedisce comunque la conclusione di un foedus per meglio tutelare l’interesse nazionale24, soprattutto quando in gioco c’è un grosso guadagno strategico o la sopravvivenza di una delle parti contraenti. In quest’ultimo caso, lo stato minacciato nella sua integrità sarà disposto ad allearsi con chiunque gli garantisca la sopravvivenza. “Gli stati è più probabile che assecondino le loro preferenze ideologiche quando si sentono abbastanza sicuri. Quando confrontati con una grande pericolo, uno stato stringerà alleanze con chiunque, e se imbarazzanti per la propria opinione pubblica o per la reputazione, segretamente. Come disse una volta Winston Churchill, “se Hitler invadesse l’inferno, probabilmente dovrei spendere qualche buona parola Si leggano le “confessioni” di Brzezinski in merito alla decisione americana di appoggiare lo stanziamento di fondi per aiutare l’opposizione al governo filo-sovietico a Kabul, già dal mese di luglio del 1979. Cfr.: http://globalresearch.ca/articles/BRZ110A.html. 14 S. Emerson, Secret warriors: inside the covert military operations of the Reagan era, New York, G. Putnam’s Sons, 1988. 15 Cioè di politica interna. 16 A. Panebianco, Guerrieri democratici. Le democrazie e la politica di potenza, Bologna, Il Mulino, 1997, p. 184. 17 Ma ponendo grande attenzione a non fare dello stato americano un garrison state. Cfr. A. Friedberg, Why didn’t the United States become a garrison state?, in International Security, Vol. 16, n. 4, pp. 109-142. 18 L. Fischer, Congressional checks on military initiatives, Political Science Quarterly, Winter 1994/95, pp. 739-762; J. M. Scott, Interbranch rivalry and the Reagan doctrine in Nicaragua, Political Science Quarterly, Summer 1997, pp. 237-260. 19 J. Morton Moore sostenne a suo tempo che l’uso delle covert actions (in Nicaragua nella fattispecie) rientrava perfettamente nel diritto di legittima difesa degli Stati uniti d’America. Cfr.: J. Morton Moore, The secret war in Central America and the future of world politics, in American Journal of International Law, 1986. 20 J. D. Morrow, Alliances: why write them down, in Annual Review of Political Science, 2000. 21 L. Bellocchio, L’eterna alleanza? La “speciale relationship” angloamericana tra continuità e mutamento, Milano, Franco Angeli, 2006. 22 Trattasi di alleanza informale. Sulle “istituzioni informali” spende purtroppo poche parole un classico delle istituzioni: Douglass C. North, Istituzioni, cambiamento istituzionale, evoluzione dell’economia, Bologna, Il Mulino, 1994. 23 In realtà i contorni di questa alleanza sono perfino oggi alquanto incerti e poco chiari perché mai realmente definiti (e in questa mancanza di definizione risiede gran parte del fascino e della forza della speciale relazione). Si legga a titolo d’esempio quanto scriveva Tony Benn, ministro del governo laburista di Edmund Wilson, a tal proposito nel suo diario, pubblicato anni dopo: “il governo britannico ha un potere di veto sull’uso da parte americana di armi nucleari da basi britanniche?…il governo americano ha il potere di usare i missili Cruise dalle nostre basi senza l’esplicito consenso del Primo Ministro britannico?”. Cfr.: T. Benn, Out of the wilderness: diaries 1963-1967, London, Hutchinson, 1987, pp. 564-565. 24 E questo dimostra che, per difendere l’interesse nazionale, bene supremo di qualunque polity, uno stato sarebbe, in linea di principio, disposto ad allearsi con chiunque, sicuramente quando irresistibili sono gli imperativi strategici (cioè sistemici). 13 3 sul diavolo in Parlamento”25. Il padre del realismo strutturale, Kenneth Waltz, ricorda che Litvinov, prima di essere sostituito nel 1939 da Molotov quale capo del dicastero degli esteri sotto Stalin, era solito ripetere che “negli anni trenta per accrescere la propria sicurezza in un mondo ostile l’Unione Sovietica avrebbe dovuto cooperare con qualunque stato, compresa la Germania di Hitler”26, con questa affermazione anticipando ciò che poi Mosca effettivamente fece - in segreto - nell’agosto del 1939. Quello che passò alla storia come il Patto Ribbentrop-Molotov era (appunto) un patto segreto, stipulato tra due leader facenti riferimento a due Weltanschauung nettamente antitetiche, con lo scopo di spartirsi la Polonia27. L’ordine internazionale creato dopo il 1945 ha cercato di porre rimedio all’uso diffuso della diplomazia segreta e della segretezza nel fare politica estera, con l’art. 102 della Carta dell’Onu che stabilisce che “1. ogni trattato e ogni accordo internazionale stipulato da un membro delle Nazioni unite…deve essere registrato al più presto possibile presso il Segretariato e pubblicato a cura di quest’ultimo. 2. Nessuno dei contraenti di un trattato o accordo internazionale che non sia registrato in conformità alle disposizioni del paragrafo 1 di questo articolo, potrà invocare il detto trattato o accordo davanti a un organo delle Nazioni unite”28. I problemi interpretativi sollevati dall’articolo 102 sono numerosi e cruciali a partire da cosa si debba intendere con accordo internazionale, senza dimenticare la questione delicata legata al fatto che sono sempre più numerosi gli attori non propriamente statuali come le organizzazioni internazionali, le associazioni internazionali non governative, le multinazionali, che frequentemente stipulano accordi con Stati. La dinamica delle relazioni internazionali, come si vede, non lascia scampo. 2. TEORIA POLITICA INTERNAZIONALE E SEGRETEZZA Never say anything (motto della NSA) Tradizionalmente impegnata a esplorare fenomeni politici internazionali visibili all’occhio, la disciplina delle relazioni internazionali si è, prevedibilmente, preoccupata pochissimo di indagare l’importanza della segretezza nel regno degli affari internazionali, lasciando questo onere ad analisti di questioni di intelligence. Gli sparuti saggi che si trovano nella letteratura politologica internazionalistica indagano l’organizzazione burocratica dei sistemi nazionali di (counter)intelligence (con approcci nella gran parte dei casi di tipo idiografico), cioè questioni di policies and practices. Le ragioni di questo disinteresse sono diverse: timore di arrivare all’elaborazione di interpretazioni di stampo dietologico; difficoltà ovvia (e comprensibile) nel reperire un affidabile riscontro empirico; scivolosità delle questioni che concernono il mondo dell’intelligence, peraltro difficilmente interpretabili alla luce dei paradigmi teorici oggi disponibili sul mercato29. A nulla vale il fatto che è proprio su questioni come l’intelligence che si gioca una delle partite, ad esempio, più delicate in Europa, con Londra per nulla disposta a rinunciare alla sua special relationship con gli Usa in questo campo; così come sembra contare poco il fatto che le principali dottrine strategiche americane puntano molto sulla predisposizione di apparati di intelligence per approntare mezzi efficaci contro le nuove guerre e i nuovi nemici; senza dimenticare, infine, che spesso perfino l’annuncio di abbandono di un’alleanza da parte di uno stato in un frangente di guerra, in realtà S. Walt, Alliance formation and the balance of world order, in International Security, Spring 1985, p. 24. Walt invita anche a non prendere troppo seriamente il richiamo a preferenze ideologiche da parte di qualche statista nel decidere un allineamento, dal momento che ogni statista tende a esagerare l’importanza del fattore ideologico nel giustificare l’adesione a un’alleanza. 26 K. N. Waltz, Teoria della politica internazionale, Bologna, Il Mulino, p. 305. 27 Sul Patto nazi-sovietico del 23 agosto 1939, si vedano le splendide pagine di: A. Bullock, Il patto nazi-sovietico, in Hitler e Stalin. Vite parallele, Milano, Garzanti, 2004, p. 723. 28 Questa norma ha come precedente l’art. 18 del Patto della Lega delle Nazioni avente lo scopo di impedire la diplomazia segreta, come noto idea portata avanti con forza dall’allora presidente democratico Woodrow Wilson. Quanto velleitario fosse l’ordine internazionale pensato dal wilsonismo si evince anche dal fatto che questo art. 18 stabiliva addirittura che i trattati non registrati non fossero vincolanti. 29 In realtà lo statocentrismo tipico dei due principali approcci, neorealismo e liberalistituzionalismo, esce in gran parte rafforzato da una analisi del ruolo dell’intelligence e della segretezza. 25 4 nasconde la sua intenzione di trasformare il supporto militare aperto ed esplicito (visibile ai media e all’opinione pubblica) in un sostegno più sofisticato, più nascosto (ai media e all’opinione pubblica), cioè un sostegno a livello di intelligence. Fatte queste premesse, le principali teorie interpretative delle relazioni internazionali come hanno sin qui affrontato il rapporto tra politica estera/politica internazionale e segretezza? La prima di queste tradizioni, il liberal-istituzionalismo, partendo da una posizione di ottimismo antropologico30, preferendo l’individuo come unità d’analisi fondamentale31 allo Stato come fa invece il realismo, e sganciandosi da quel determinismo che permea in modo frequente la tradizione realista32, ritiene non poi così irresistibili i vincoli dell’anarchia internazionale. Secondo il liberal-istituzionalismo la cooperazione tra gli stati è possibile anche in un self-help system perché gli stati non sono “posizionalisti difensivisti” ma “egoisti razionali”, possono cioè immaginarsi come attori impegnati ad aumentare il proprio status ma senza troppo curarsi degli altri. La logica immaginata dal liberalistituzionalismo è meno reattiva di quella di marca neorealista. Poco attento alla dimensione interna degli attori, il liberalistituzionalismo33 punta tutto sulle istituzioni internazionali giudicate capaci di ridurre i costi di transazione rendendo evidenti e prevedibili le aspettative tra gli attori. La tradizione liberal-istituzionalista fornisce, così, un tipo di teoria sistemica. Gli assunti di partenza di questa tradizione sono decisamente compatibili con quelli neorealisti. Lo stato resta l’attore cardine delle relazioni internazionali, la sua è una razionalità di tipo strumentale, mentre il sistema internazionale può continuare a considerarsi anarchico (nessuno stato mondiale). Ma sono le conclusioni a essere fortemente diverse da quelle avanzate dalla tradizione neorealista. Il conflitto, secondo il liberalistituzionalismo, sarebbe evitabile o quanto meno contenibile solo con un processo di cumulazione delle istituzioni al fine di istituzionalizzare a dosi massicce i rapporti internazionali34. Di conseguenza, essendo la cooperazione qualcosa di non spontaneo ma indotto dalle istituzioni e dai regimi internazionali35 che costringono gli stati entro schemi cooperativi, riducendo il margine di incertezza e segretezza tra gli attori, il suggerimento liberalistituzionalista è, appunto, netto: solo un aumento dell’istituzionalizzazione può ridurre l’importanza della segretezza. Il ruolo svolto dalle istituzioni internazionali, secondo il liberalistituzionalismo, è cruciale al fine di ridurre la segretezza. Le istituzioni producono informazioni e rendono prevedibile il contesto dell’interazione (quindi viene diminuito l’ambito della segretezza). La predisposizione di fori e meccanismi istituzionali permette di ridurre notevolmente il costo delle transazioni, e questo permette agli stati di non dover ricominciare da capo ogni qual volta debbano raggiungere un accordo. Le istituzioni e i regimi favoriscono la convergenza di accordi, facilitano la comunicazione, favoriscono perfino la decisione sulla sede dove svolgere un meeting importante e consentono una decisa attenuazione del margine di oscurità sulle intenzioni dei rivali. L’uomo è naturalmente un essere cooperativo e socievole, il conflitto è ricomponibile attraverso il miglioramento della comunicazione tra gli attori. 31 Lo stato-nazionale diviene solo una delle molteplici forme di organizzazione (questa in particolare di tipo politico territoriale). 32 Determinismo, che le precisazioni di Waltz nella risposta ai suoi critici nel 1986 hanno attenuato fino a un certo punto. Tutti gli scritti successivi accordano un potere costrittivo al sistema internazionale spesso pressoché irresistibile per uno stato. Cfr.: K. N. Waltz, A response to my critics, in Robert Keohane (ed.), Neorealism and its critics, New York, Columbia University Press, 1986. 33 La letteratura liberalistituzionalista è vastissima. Segnaliamo indicativamente i seguenti: R. O. Keohane, After hegemony. Cooperation and discord in the world political economy, Princeton, Princeton University Press, 1984; R. O. Keohane and L. Martin, The promise of institutionalist theory , in International Security, Vol. 20, n. 1; A. Stein, Why nations cooperate. Circumstances and choice in international relations, Ithaca, Cornell University Press, 1990. 34 Sterilizzando, per così dire, la dimensione più propriamente politica della convivenza internazionale. 35 Per la definizione di regime internazionale rimandiamo ovviamente alla più nota, quella fornita da Krasner: “complessi di principi, norme, regole e procedure decisionali impliciti o espliciti su cui convergono le aspettative degli attori di un determinato settore delle relazioni internazionali. I principi rappresentano le credenze sui fatti, sulle cause e sulle convinzioni di tipo morale. Le norme esprimono livelli di comportamento definiti in termini di diritti e doveri. Le regole pongono prescrizioni e divieti specifici riguardo alle azioni. Le procedure decisionali costituiscono pratiche comuni con cui si individuano e si realizzano le scelte che interessano la collettività”. Cfr.: S. Krasner (ed.), International regimes, Ithaca, Cornell University Press, 1983, p. 2. 30 5 Le istituzioni, nell’ottica liberalistituzionalista, permetterebbero la riduzione del grado di segretezza delle manovre nell’arena internazionale da parte degli stati. Producendo aspettative più o meno certe, le istituzioni internazionali contribuiscono a diminuire la quantità di “silenzio” del gioco politico internazionale. Le istituzioni predispongono alla diplomazia aperta, la favoriscono perché le istituzioni fungono da cassa di risonanza delle intenzioni e delle azioni degli attori che giocano la partita internazionale. Le istituzioni rendono rumoroso un gioco altrimenti condannato al silenzio. E nelle istituzioni, a differenza che in mare aperto, gli stati tengono molto alla reputazione. Il problema con le interpretazioni liberalistituzionaliste, che pure forniscono, come si vede, una convincente chiave interpretativa del rapporto tra istituzioni e segretezza, è che quando l’attore in questione è l’egemone del sistema internazionale allora la loro potenza teorica si affievolisce, perché in un sistema egemonico la possibilità di contare sulle istituzioni dipende dal grado di supremazia dell’egemone. In un sistema internazionale di tipo egemonico come quello attuale, il buon funzionamento delle istituzioni internazionali dipende largamente dalla volontà dell’egemone. Il rapporto che l’egemone intrattiene con le istituzioni internazionali condiziona molto la loro capacità di attenuare il ricorso alla segretezza da parte degli attori che partecipano al gioco istituzionale. Rapporto, spesso caratterizzato da una profonda ambiguità, del resto comprensibile. Le istituzioni, infatti, rappresentano per l’egemone un problema e un vantaggio allo stesso tempo. Sono un problema perché, in primo luogo, richiedono il rispetto di particolari procedure giuridiche per cambiare l’istituzione; secondo, l’istituzione stessa può diventare, con il tempo, un attore guadagnando indipendenza dall’egemone e promovendo, a sua volta, impreviste forme di ottemperanza all’istituzione; terzo, gli interessi che si organizzano entro le istituzioni possono rendere molto costosi i tentativi di riforma o abbandono della stessa. Ma le istituzioni sono anche un grande vantaggio per l’egemone. Innanzitutto, perché consentono all’egemone di legare a sé stati che altrimenti dovrebbe costringere sistematicamente con la forza o la minaccia dell’uso della forza, il che comporterebbe costi difficili da sopportare. In secondo luogo, l’esistenza di istituzioni consente all’egemone che attraversa un periodo di relativo declino, di tutelare lo stesso i propri interessi proprio grazie all’istituzione stessa. Le istituzioni, dunque, mitigano gli eccessi del più forte ma, al contempo, consentono al più forte minori costi nel gestire i paesi che partecipano alla vita istituzionale. Quello che viene a prodursi è dunque un autentico institutional bargain tra egemone e stati minori, in cui però lo scambio di quote di segretezza è e resta asimmetrico perché tende ad adeguarsi alla diversità di potenza tra attori. L’asimmetria di potenza tra gli attori non è completamente aggirabile dalle istituzioni. Anche perché, come ricordava Baltasar Graciàn, gigante della teoria della ragion di stato,”non spartire mai un segreto con chi è più potente: si crede di spartire pere e si spartiscono pietre. Molti morirono per essere stati confidenti…il fatto che un principe comunichi un segreto, non è un favore che si riceve, ma un tributo che si paga…perciò i segreti non s’hanno né da dire né da ascoltare”36. Ma c’è di più. “L’ombra del futuro”, secondo la nota espressione di Axelrod, se da una parte certamente costringe gli stati alla cooperazione, persuadendoli sia della necessità delle istituzioni internazionali (che riducono costi di transazione e incertezza sul comportamento degli attori) che della scarsa convenienza del free-riding, dall’altra non consente di aggirare un problema cruciale. Persino quando ci si trovi in un frangente di anarchia matura37, sorgono inevitabilmente problemi insormontabili circa l’affidabilità di questa cooperazione. Tra questi, l’impossibilità di una assoluta certezza sul comportamento degli attori in quei settori non prettamente economici (strategico-militare e dell’intelligence). Come ricordava Holsti, “i governanti enfatizzano il potere quando le minacce e i vincoli esterni sono alti o medi….prendono in maggiore considerazione la ricchezza38 quando le minacce e i vincoli esterni sono bassi”39. Il che, adattato a quanto qui stiamo sostenendo, equivale a ricordare che quando la posta in gioco sono questioni di low politics le istituzioni riducono l’incertezza in modo determinante, mentre quando a essere in gioco sono questioni di high politics, che vanno ad investire B. Graciàn, Oracolo manuale e arte di prudenza, Milano, TEA, pp. 114-116. Per riprendere l’utile espressione coniata da Barry Buzan. 38 “Plenty” nel testo. 39 O. Holsti, Politics in command. Foreign trade as national security policy, in International Organization, Vol. 40, n. 3, p. 646. 36 37 6 l’interesse nazionale di uno stato, il grado di incertezza resta elevato e, con essa, la diffidenza tra gli attori. 3. GUERRE SEGRETE , NEMICI SEGRETI, MEZZI SEGRETI. PER UN ’ESTETICA DELLA SEGRETEZZA L’amministrazione burocratica tende sempre a essere un’amministrazione di “sessioni segrete”…il concetto di “segreto ufficiale”, è una specifica invenzione della burocrazia, e niente viene più difeso dalla burocrazia di questa attitudine…la burocrazia vede di buon grado un Parlamento povero di informazioni cioè un Parlamento senza potere. Max Weber, Economia e società La cooperazione nell’intelligence comporta la costruzione di confidence, e l’arco di tempo necessario è inevitabilmente lungo. Richard J. Aldrich, Transatlantic intelligence and security cooperation40. L’elaborazione della dottrina preventiva (contenuta nella NSS) da parte dell’amministrazione Bush nel settembre 2002 non è la conseguenza dell’avvento alla Casa Bianca di un gruppo di neoconservatori intenzionati ad approfittare della supremazia di potenza per consolidare l’egemonia statunitense sul sistema internazionale. La dottrina dell’attacco preventivo è, innanzitutto, l’inevitabile logica conseguenza del nuovo tipo di minacce che si annidano nel sistema internazionale regalatoci dagli attentati di matrice alqaedista al cuore di Manhattan, minacce che non possono essere fronteggiate dall’architettura delle istituzioni internazionali attualmente esistente. La NSS è la risposta coerente all’impossibilità di stabilire con esattezza il nemico, il tipo di attacco che si può subire e il frangente temporale in cui ciò avverrà. Gli Usa decidono di muoversi prima perché l’appoggio al terrorismo transnazionale da parte degli stati canaglia avviene in totale segretezza, non certamente alla luce del sole o dichiarandolo ai quattro venti. La conseguenza è una azione della superpotenza pari e contraria: prevenzione, nell’ombra, della minaccia. Non è stata la NSS a distruggere quel che resta dell’ordinamento giuridico internazionale, ma un ordinamento giuridico internazionale reso impotente da un tipo di inimicizia eccezionale, imprevedibile dunque non arginabile giuridicamente, ad aver predisposto l’egemone, e dopo di lui tutte le grandi potenze del sistema internazionale, ad elaborare dottrine strategiche che contemplino l’uso della legittima difesa preventiva quale diritto naturale. Gli Stati uniti in quanto paese egemone dell’attuale momento unipolare (dunque più “rumoroso” di qualunque altro) hanno semplicemente aperto la via. La prima conseguenza di questa nuova realtà è che questa evanescenza delle nuove minacce congiuntamente alla difficoltà nell’attuale frangente internazionale di calcolare la reale potenza di uno stato41, hanno obbligato gli Stati Uniti, in particolare, e ogni grande attore del sistema internazionale, più in generale, a cercare di procurarsi quanta più informazione possibile sullo stato delle relazioni internazionali per cercare di evitare alcuni inconvenienti: esagerazione della minaccia, esagerazione delle intenzioni di un rivale42, tendenza a fronteggiare nemici ideologici e non geopolitici. La situazione che è venuta a crearsi dopo l’11 settembre è tutto sommato chiara (almeno sotto questo aspetto). La segretezza con cui vengono preparati oggi gli attacchi obbliga gli stati a una segretezza, pari e contraria43, nel predisporre la difesa. “The task of defeating secrecy takes place in the United States, where the terrorist event occurs, as well as abroad, where the terrorist organization is housed”44. R. J. Aldrich, Transatlantic intelligence and security cooperation, in International Affairs, Vol. 80, n. 4, p. 738. A causa della inestricabilità di potere fungibile e non fungibile. 42 Con grave rischio di misperception che possono anche portare alla guerra. Su questo il capolavoro di: R. Jervis, Perception and misperception in international politics, Princeton, Princeton University Press, 1976. si veda anche: L. Coser, Peaceful settlement and the dysfunctions of secrecy, in The Journal of Conflict Resolution, September 1963. Classico caso storico di misperception, stando a un bel volume dello storico inglese di stanza negli Usa, Niall Ferguson, lo scoppio della prima guerra mondiale. Cfr.: N. Ferguson, La verità taciuta, Milano, Corbaccio, 2002. 43 P. B. Heymann, Dealing with terrorism, in International Security, Winter 2001/2002, pp. 24-38. 44 Ibid, p. 36. 40 41 7 Ma l’aumento dell’importanza dell’intelligence non investe solo il versante della lotta al terrorismo transnazionale di matrice islamista, ma anche, ad esempio, il versante dei rapporti transatlantici e il futuro dell’Unione europea. Si pensi, ad esempio, alla fragilità dei rapporti tra Regno unito ed Europa nel settore dell’intelligence a causa dei legami (questi forti) tra Washington e Londra. Il caso Echelon45 ha sollevato addirittura l’ipotesi di una Anglo-Saxon conspiracy46 denunciata da JeanClaude Martinez, membro francese del Parlamento europeo, alla fine di un dibattito su presunti spionaggi ad opera delle potenza britannica e di altri stati di lingua inglese. “E’ una cospirazione anglosassone protestante. Questo è il contributo britannico all’Europa; la sua vera unione è con l’America “. La denuncia47 puntava a riaprire il solco tra l’Europa e la Gran Bretagna, considerata più interessata a stringere il legame con Washington, che con Bruxelles e a vedere nella Ue niente di più di una alleanza da controllare ed eventualmente controbilanciare, e a denunciare il tentativo americano di servirsi della Gran Bretagna, dunque per “interposta potenza”, per sabotare l’Ue. La Gran Bretagna, stando a questa chiave di lettura, cercherebbe di mantenere la sua posizione pivotale e ambigua, tra Oceania ed Europa, più per coerenza all’Anglosfera, che per l’impossibilità di scontentare una delle due sponde dell’Atlantico. Un giornalista britannico, Duncan Campbell, in inchieste più che ardite, identificò, qualche anno fa, nel super-sistema informatico di sorveglianza “Echelon” a Brighton in Inghilterra, il punto di monitoraggio dell’attività economico-politica degli stati nazionali europei e la condivisione di queste informazioni tra le cinque potenze anglosassoni dell’Anglosfera, per fini politici e per fini commerciali (passaggio di queste informazioni alle rispettive multinazionali48). “Un vero attacco alla sovranità dei membri della Ue”. Questi esempi servono a ricordare l’importanza crescente del settore dell’intelligence per una adeguata tutela dell’interesse nazionale. Il che comporterà, visto il perfezionamento costante delle comunicazioni e delle tecnologie, la necessità per gli stati di incrementare la propria capacità di custodire le proprie informazioni vitali. Impedire agli avversari, come ricorda la National Counterintelligence Strategy of the United States of America (marzo 2005), di “penetrare, collezionare e compromettere i nostri segreti della sicurezza nazionale”49, è diventato uno degli obiettivi prioritari delle nuove strategie per la sicurezza nazionale degli Stati uniti. Se questo vale per l’egemone, che può anche permettersi di rimediare a falle nel proprio servizio di intelligence, figurarsi per le potenze minori i cui (pochi) segreti, se violati, potrebbero rendere totale la vulnerabilità del paese50. L’importanza delle informazioni in un mondo sempre più interconnesso dunque sempre più vulnerabile è destinata ad aumentare. Le informazioni, soprattutto quelle cruciali per tutelare il proprio interesse nazionale ma anche quelle utili per ricattare uno stato rivale, sono già diventate “armi”. Sicché, si può esser certi che in futuro (come in passato) solo le informazioni poco rilevanti verranno condivise. L’informazione pesante, quella che conta, difficilmente verrà condivisa perché, nell’era della geoinformazione, essa costituisce una capabilities rilevante per la potenza di uno stato. E a poco serviranno le cornici istituzionali. Per due ragioni: perché il cosiddetto “soft power” passa in primo luogo da una seducente manipolazione delle informazioni che consente di presentare la potestas come Echelon è un sistema utilizzato dalla NSA (National Security Agency) per intercettare e processare comunicazioni internazionali che utilizzano i sistemi satellitari. Fa parte di un sistema di sorveglianza globale che ha ormai più di 50 anni. Il sistema include stazioni di intercettazioni in Gran Bretagna, Canada, Australia e Nuova Zelanda, oltre a quelle operative negli Usa. L’origine del sistema di Echelon risalirebbe al secondo conflitto mondiale quando si consolidò una intensa collaborazione angloamericana per l’identificazione dei messaggi in codice e criptati di Germania e Giappone. 46 Su questo si veda: L. Bellocchio, Anglosfera. Forma e forza del nuovo Pan-Anglismo, Genova, Il Melangolo, 2006. 47 Su questo si veda il puntuale interessantissimo articolo dell’Economist: Those perfidious Anglo spies, The Economist , April 27 2000. 48 Questa la denuncia di Charles Pasqua: il passaggio da parte di Londra a imprese britanniche di informazioni carpite con Echelon, loro utili per contrastare la competizione agguerrita delle imprese continentali. Citato in: Ibidem. Sulle distorsioni create dalla “società sorvegliata” si veda l’interessantissimo: D. Lyon, La società sorvegliata. Tecnologie di controllo della vita quotidiana, Milano, Feltrinelli, 2001, p. 247. 49 http://www.ncix.gov/publications/law_policy/policy/FinalCIStrategyforWebMarch21.pdf. 50 Si veda a questo proposito anche la National Strategy to Secure Cyberspace del febbraio 2003: http://www.whitehouse.gov/pcipb/cyberspace_strategy.pdf. 45 8 auctoritas; e perché il possesso stesso di informazioni è una forma di potere rilevante51: “la conoscenza è potere, dà forza a chi la possiede, indebolisce chi ne è privo”52. La capacità di custodire informazioni cruciali per l’interesse nazionale è diventata, così, un requisito di potenza determinante. Per questo andrebbe rivisto il tradizionale modo di misurare la potenza di uno stato, includendovi, ad esempio, la capacità di uno stato di trattenere e di custodire con la dovuta efficienza i propri segreti. Come recita la National Intelligence Strategy of the United States of America, dell’ottobre 200553, occorre mettere in grado il paese di “anticipare eventuali minacce strategiche e identificare i punti deboli e di forza per i policy makers”. Possibilmente, si premurano di precisare gli estensori del testo della dottrina, preservando le libertà e i diritti dei cittadini americani. Il dilemma democrazia/ragion di stato così frequentemente e inevitabilmente messo a dura prova negli Stati uniti a partire dalle prime battute della guerra fredda54, sarà il dilemma numero uno con cui le poliarchie del XXI secolo dovranno fare i conti, e a poco servirà (per quanto legittima) una intensificazione delle richieste di maggiore trasparenza dei processi decisionali per evitare i rischi di corruzione (“tutto ciò che è segreto degenera”55). Questo dilemma verrà in parte aggravato dall’eventuale utilizzo massiccio e improprio della segretezza che non gioverà al paese che la adotterà, soprattutto quando questo sarà una liberaldemocrazia. Kenneth Waltz anni fa in un non sufficientemente celebrato volume sulla comparazione tra i processi di foreign policy making di Regno unito e Stati uniti, aveva dimostrato persuasivamente che l’incapacità di ogni governo britannico di coinvolgere l’opposizione nel foreign policy making (scandali permettendo) e di rendere pubbliche decisioni in politica estera delicate o cruciali o quantomeno di sottoporle a dibattito parlamentare (“no debates please, we’re British”), aveva svariate volte prodotto una pericolosa disfunzione: impossibilità di interrompere un corso già avviato qualora si dimostra sse nocivo all’interesse nazionale. Il “son of star wars programme” 56 e l’avvio del progetto Flyingdale, sono due esempi che testimoniano “il tipico modo in cui le questioni di difesa sono trattate nel Regno Unito…ai parlamentari è stato negato un dibattito”57. Dilemma democrazia/ragion di stato a parte, nell’arena internazionale quella che si continuerà a giocare sarà una partita, innanzitutto, per la sopravvivenza58. Gli stati sono in primo luogo, e non potrebbe essere diversamente, security maximers, attori impegnati a massimizzare la propria sicurezza, Per questo stupisce l’omissione del potere geoinformativo come capability decisiva da parte degli autori di un brillante saggio commissionato dal Rand Institute: AA.VV., Measuring national power in the post-industrial age, Rand Publication, 2000. Si veda anche: G. Treverton, Measuring national power, Rand Publication, 2005. 52 W. E. Colby, Intelligence secrecy and security in a free society, in International Security, Autumn 1976, p. 3. 53 http://www.au.af.mil/au/awc/awcgate/dni/nat_intel_strat.pdf. 54 Secondo i teorici realisti taftiani, l’epocale confronto con la Russia sovietica per oltre quaranta anni ha rischiato di trasformare la repubblica statunitense in un garrison state. Sui rischi di avvento di un garrison state aveva già ammonito durante la seconda guerra mondiale: H. Laswell, The garrison state, in The American Journal of Sociology, January 1941; sugli antidoti che hanno impedito questa deriva liberticida: A. L. Friedberg, Why didn’t the United States become a garrison state?, in International Security, Spring 1992, pp. 109-142. Fitch, allo scadere della Guerra fredda, pubblicò un articolo in cui metteva in guardia contro i rischi che l’umiliazione della guerra della Vietnam e soprattutto l’intensificazione della guerra fredda contro l’Urss a partire dal 1977, avrebbero prodotto sui rapporti tra civili e militari all’interno del sistema americano. Su questo legame tra politica estera superinterventista e una macchina militare in continua inarrestabile espansione si è soffermato: B. Cummings, Reflections on containment, in The Nation, March 4, 2002. 55 Citato in: G. Minkley and M. Legassik, Not telling: secrecy, lies, and history, History and Theory, December 2000. 56 Su questo si veda l’esaustivo: N. Butler, What price British influence? Tony Blair and the decision to back missile defence, Disarmament Diplomacy, September 2003. Butler discute proprio la necessità per Londra di continuare a insistere sulla speciale relazione in quei frangenti in cui ottemperare alle richieste americane equivale a far venire meno impegni presi nei confronti della comunità internazionale. 57 Ibidem. 58 Per questo non ha senso una comparazione tra Norvegia e Stati uniti rispetto alla variabile geoinformazione, come proponevano, peraltro in piena guerra fredda, due autori norvegesi oltre venti anni fa. E non tanto perché comparare un nano politico -militare con una delle due superpotenze del sistema bipolare è metodologicamente poco sensato, ma soprattutto perché è la collocazione geopolitica di quasi totale sicurezza del paese scandinavo a fare la differenza oltre al suo essere un paese pressoché etnicamente omogeneo (nessun dilemma della sicurezza applicato a irredentismi etnici). Cfr.: N. P. Gleditsch and E. Høgetveit, Freedom of information in national security affairs: a comparative study of Norway and the United States, in Journal of Peace Research, April 1984. 51 9 cioè ad accumulare un bene strategico (la sicurezza) noto per la sua cronica indeterminatezza59. Per questo, ammettere la necessità vitale di lasciare alla politica estera un margine sicuro e invalicabile di segretezza, non significa sganciarla per sempre da qualunque tentativo di controllarla con le procedure e i metodi tipici della democrazia. Significa, semplicemente, sottrarla all’imprevedibilità ulteriore del gioco politico democratico interno, alle sue forze destabilizzanti. Non ha poi così torto chi sostiene di preferire “ad una diplomazia gridata, ispirata da umori momentanei, da antipatie ingiustificate, da vecchi pregiudizi nazionalisti, sostanzialmente nichilista e distruttiva” una “diplomazia “segreta”, ossia prudente nei modi, ma efficace, precisa e coerente negli obbiettivi”60. La logica e la grammatica della competizione internazionale obbligano a elaborare e implementare politiche estere che partano dall’assunto che viene “prima lo stato poi il diritto”61. Questa non è apologia di ragion di stato. È riconoscere che, in un’arena internazionale siffatta, in cui il dilemma della sicurezza è appunto un dilemma, il conflitto e la competizione di potenza non possono essere messi in forma giuridicamente, cioè con le istituzioni o con la pratica della diplomazia aperta perché queste concerneranno sempre questioni di low politics. Il diritto internazionale e le organizzazioni internazionali svolgeranno sempre una funzione minima, ma assolutamente essenziale per la sopravvivenza del sistema internazionale: mettere in forma il conflitto, ritualizzarlo, confinarlo ad alcuni soggetti e non ad altri, stabilire prassi diplomatiche per accomodare controversie e istituire fori dove discutere o sancire chi è il vincitore e chi è il vinto62. Ma fino a quando l’universo delle relazioni internazionali rimarrà, nei fatti, un pluriverso di attori in competizione per le solite risorse scarse, occorrerà “ridonare lo Stato a se stesso”63. Quello della segretezza continuerà, ancora per molto, a essere un tormento64 inevitabile soprattutto perché alcuni segreti sono vitali proprio per salvare vite65 e per garantire alle democrazie un futuro66, soprattutto in un frangente storico caratterizzato da estrema incertezza in svariate aree geopolitiche del globo67. Occorre rassegnarsi: i governi continueranno a spiare “come le persone respirano, automaticamente e inevitabilmente…e lo fanno per la stessa ragione: è essenziale per la loro esistenza”68. Luca Bellocchio Docente di Scienza Politica e Geopolitica Università degli Studi di Milano Dipartimento di Studi sociali e politici Bene strategico difficilmente determinabile con precisione perchè funzione del contesto storico, di quello geopolitico, del rapporto esistente tra interno/esterno, o dell’esito di un conflitto (e non delle sue premesse). Su questo, si veda: H. Haftendorn, The security puzzle, International Studies Quarterly, March 1991, pp. 3-17. 60 L. Incisa di Camerana, Elogio della diplomazia segreta, Emporion, n. 30. 61 G. Flamini e C. Nunziata, Segreto di stato, Roma, Editori Riuniti, 2002, pp. 117 e ss. 62 Questa la lezione che ci hanno regalato quattro pesi massimi delle relazioni internazionali: H. Bull, The anarchical society. A study of order in world politics, New York, Columbia University Press, 1977; C. Schmitt, Il nomos della terra, Milano, Adelphi, 1991; R. Aron, Pace e guerra tra le nazioni, Milano, Comunità, 1970; M. Wight, Power politics, Leicester, Leicester University Press, 1977. 63 F. Meinecke, L’idea della ragion di stato nella storia moderna, Firenze, Sansoni, 1977, p. 57. Il senatore democratico Moynihan si premurava di denunciare, qualche anno fa, quale rischio principale di questo culto della segretezza, una certa deriva paranoica delle democrazie alle prese con la gestione di forti inimicizie internazionali, del tipo di quella fronteggiata per oltre quaranta anni dagli Usa (il nemico sovietico). L’ossessione per la segretezza, anticamera di una proliferazione incontrollata di agenzie e sottoagenzie di intelligence, era, secondo lui, il rischio da evitare a ogni costo. Cfr.: D. P. Moynihan, Secrecy as government regulation, PS: Political Science and Politics, June 1997. Osservazioni brillanti in merito anche da parte di: Loch K. Johnson and K. Caruson, The seven sins of American foreign policy, PS: Political Science & Politics, January 2003. 64 E. A. Shils, The torment of secrecy, Glencoe, The Free Press, 1956. 65 Commission on Protecting and reducing government secrecy, Report, PS: Political Science & Politics, September 1997, p. 491. 66 “I segreti sono necessari per le società libere”. W. E. Colby, Intelligence secrecy and security in a free society, in International Security, Autumn 1976, p. 4. 67 Come faceva già notare a suo tempo: A. N. Shulsky, The future of intelligence, The National Interest, Winter 1994. 68 J. Bennett, Anglosphere: bringing in Echelon from cold, United Press International, June 22, 2002. 59 10