Rassegna stampa 28 settembre 2016

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Rassegna stampa 28 settembre 2016
RASSEGNA STAMPA di mercoledì 28 settembre 2016
SOMMARIO
Avvenire pubblica oggi un testo di Madeleine Delbrêl sull’essere nella Chiesa. Ecco le
sue riflessioni in proposito: “Se oggi occorresse dare un nome alla nostra famiglia, non
sono sicura che sarei d’accordo nel darle quello che ha («Carità di Gesù», ndr). Ma se
dovessi dire cosa vorrei che fosse, sarebbe ciò che questo nome vuol significare. Sono
ossessionata dal duplice mistero in mezzo al quale la nostra vita deve passare come
una linea dritta: il mistero della Carità e il mistero della Chiesa. Credo che non
abbiamo che una sola ragione di esistere: vivere la carità nella Chiesa. Se non lo
facciamo, o se vi aggiungiamo qualcosa, non val la pena di esistere. Non credo che ci
sia un’altra piccola famiglia che non abbia scelto d’essere nient’altro che questo, ma
d’esserlo assolutamente, stando insieme nella diversità. Se non lo facciamo, questo
mancherà nella Chiesa, e se facciamo qualcos’altro, siamo un doppione e non vale la
pena. Nella Chiesa, Sposa di Cristo, è tutta l’umanità che è chiamata al suo amore.
Ogni battezzato partecipa a quest’amore nuziale. Con tutti i religiosi, con tutte le
persone consacrate, abbiamo deciso di accontentarci di questo solo amore. Se non
dedichiamo a lui tutt’intero il nostro esistere, o se non vi corrispondiamo totalmente
nelle dimensioni che gli sono proprie, siamo celibi che non servono alla diffusione
della vita, né della Vita eterna. All’alba del Nuovo Testamento, Giovanni Battista
diceva: «Chi possiede la sposa è lo sposo; ma l’amico dello sposo, che è presente e
l’ascolta, esulta di gioia alla voce dello sposo...». Increduli migliori di noi e cristiani
migliori di noi non sono stati chiamati a vivere in pienezza il mistero della Chiesa
sposa di Cristo. Sono come l’amico che gioisce. La nostra tentazione sarebbe forse
quella di sbagliare circa la nostra vocazione e prendere quella di amico. Quali che
siano le cose che lo Sposo offre ai suoi amici, fiducia, confidenze, responsabilità: è a
sua moglie che dona il suo nome, perché sia ciò che è lui, faccia quello che fa, e
trasmetta la sua vita attraverso di essa. (...). Non è perché lei ascolta il marito e lo
guarda che lo sposo è sposo, ma perché lei lo conosce in modo diverso. Gli occhi
dell’amico saranno forse migliori dei suoi, e la sua intelligenza comprenderà forse
meglio ciò che dirà lo sposo. Ma ciò che saprà la sposa, lui non lo saprà. Ed è questo
che sa la Chiesa e che noi conosciamo in essa e che è la Fede. L’amico può aspettare il
marito, è la donna che lo desidera, che lo 'spera'. Lei non si aspetta qualcosa da lui, lo
spera, per vivere in modo diverso. Il desiderio della Chiesa è la Speranza, e ne è
talmente arsa da non poter desiderare altro. L’amico può essere ricco o povero, può
essere libero o schiavo, la donna non può che essere povera e non può che obbedire.
L’amore per lei è una povertà che solo il marito può arricchire. La creatura che porta
in grembo e fa crescere si stacca da lei e la lascia di nuovo povera. L’amore è per lei
un’obbedienza: passivamente viene fecondata e allo stesso modo partorisce. La
Chiesa è nel mondo la grande povera e la grande obbediente e in essa noi non
possiamo trovare l’amore senza povertà e senza obbedienza. Non è solo
confondendoci tra il Regno dei Cieli e la Città terrena che noi smettiamo di stare con
la Chiesa sposa per diventarne degli 'amici'. Questo accade anche quando la povertà,
l’obbedienza e la purezza diventano cose 'in sé' e non condizioni per amare. E ciò
succede anche quando la Fede e la Speranza – che sono ottimi modi per amare, ma
destinati a passare – sono da noi vissute troppo debolmente o in modo incompleto e ci
lasciano a metà strada. L’amico è colui che, con il relativo, fa dell’assoluto. Noi non
ne abbiamo il diritto. Ma se accettiamo di vivere con e nella Chiesa, questa vocazione
– semplice e forte – ad amare, porteremo per bene il nome di Gesù Cristo, tutto quello
che chiederemo nel suo nome ci verrà dato; ma se comprenderemo bene a quale
amore siamo stati chiamati, porteremo per bene il nome di Gesù Cristo e –
domandando tutto ciò che vorremmo – ciò ci verrà accordato e saremo 'efficaci'
dell’efficacia stessa di Dio, ma per ciò che è l’opera di Dio” (a.p.)
3 – VITA DELLA CHIESA
L’OSSERVATORE ROMANO
Pag 7 Tre grazie
Messa a Santa Marta
Pag 8 Nel segno della vicinanza e dell’amicizia
Il Papa dialoga con membri del Consiglio ebraico mondiale
AVVENIRE
Pag 17 L’attualità di papa Luciani “ucciso” post mortem di Stefania Falasca
L’anniversario della scomparsa
Pag 21 Delbrêl. La sposa mistica di Madeleine Delbrêl
Un profondo testo dell’autrice parigina sull’essere nella Chiesa
Pag 21 Laica e missionaria delle periferie marxiste di Marco Roncalli
WWW.VATICANINSIDER.LASTAMPA.IT
Lourdes, la crisi dei pellegrinaggi organizzati di Edoardo Caprino
Viaggi in treno che durano come negli anni Cinquanta, costo del carburante per gli aerei
quattro volte più caro all'aeroporto di Tarbes rispetto agli altri scali europei, crescita del
turismo mordi e fuggi: reportage dal grande santuario mariano dove continuano ad
avvenire guarigioni inspiegabili
4 – ISTITUZIONI, ASSOCIAZIONI, MOVIMENTI E GRUPPI
IL GAZZETTINO DI VENEZIA
Pag XXX Il centro Kolbe festeggia 40 anni di attività di Filomena Spolaor
CORRIERE DEL VENETO
Pag 17 Scuola di San Rocco, Venezia e l’accoglienza
5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO
CORRIERE DELLA SERA
Pag 25 La bilancia, ossessione italiana di Alessio Ribaudo
L’attenzione al peso unisce uomini e donne: una persona su cinque si controlla ogni
giorno
6 – SERVIZI SOCIALI / SANITÀ
AVVENIRE
Pag 10 Tumori, 3 milioni sopravvivono. Ma aumentano le donne malate di
Viviana Daloiso
Sud “virtuoso” in stili di vita. Nel gentil sesso pesa il fumo
7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA
IL GAZZETTINO
Pag 21 Venezia, la storia va riscritta: a crearla furono i padovani di Maurizio
Dianese
Lo studio dell’archeologo Calaon tra Ca’ Foscari e Stanford
IL GAZZETTINO DI VENEZIA
Pag VIII Via Piave, il risveglio del degrado di Alvise Sperandio
Ogni mattina davanti alla chiesa di S. Maria di Lourdes segni inequivocabili delle notti
degli sbandati. Don Mirco Pasini: “Bimbi costretti a muoversi tra prostitute e spacciatori”
Pag XI Studenti volontari, nonostante certe scuole di a.spe.
Iscrizioni a “72 ore con le maniche in su”, in programma a fine ottobre
LA NUOVA
Pag 22 Bivacchi sui gradini della chiesa, cocci di vetro e sporcizia di f.fur.
Santa Maria di Lourdes in via Piave
8 – VENETO / NORDEST
CORRIERE DEL VENETO
Pag 1 Chi di etica (e politica) perisce di Alessandro Russello
Pag 5 Consigliere M5S in lotta contro la multa. “Devi dimetterti”. E alla fine
paga di Marco Bonet
… ed inoltre oggi segnaliamo…
CORRIERE DELLA SERA
Pag 1 La partita della legge elettorale di Angelo Panebianco
Proporzionale
Pag 1 L’istinto del lanciafiamme di Massimo Gaggi
La strategia dello sfidante Trump
Pag 9 La “forza” per lui, il “controllo” per lei. Ma entrambi sono sbugiardati dai
fatti di Beppe Severgnini
Pag 14 Berlusconi: farò il terzo predellino di Francesco Verderami
Gli ottant’anni del leader di Forza Italia
Pag 27 Anatomia di un istante. E Berlusconi capovolse il conflitto d’interessi di
Antonio Polito
Il giorno in cui il Cavaliere lasciò
LA REPUBBLICA
Pag 7 I cattolici divisi alle urne. Sì dalle Acli, Family Day contro di Paolo Rodari
La Cei non si schiera, ma nella base si scontrano visioni opposte. Un asse che va da
Gandolfini a padre Zanotelli è contro la riforma
LA STAMPA
Le chance dei candidati di Gianni Riotta
AVVENIRE
Pag 1 Fa buio a Occidente di Vittorio E. Parsi
Questa mediocre corsa alla Casa Bianca
Pag 2 Prima il di qua e il di là dal ponte di Diego Motta
Il ritorno del progetto sullo Stretto e le troppe incompiute
Pag 3 Cristiani e libertà religiosa nell’Iran che non ti aspetti di Luca Foschi
Tra antichi vincoli, discriminazioni e nuove aperture
IL FOGLIO
Pag 1 Vescovi al referendum di Matteo Matzuzzi
La spaccatura nella Cei impedisce a Bagnasco di dare la linea sulla riforma costituzionale
IL GAZZETTINO
Pag 1 Elezioni Usa, l’influenza dei “terzi incomodi” di Massimo Teodori
Pag 1 Il piano segreto: dal 2018 tagliare l’Irpef di Alberto Gentili
LA NUOVA
Pag 1 Quant’è lontana l’America di Ferdinando Camon
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3 – VITA DELLA CHIESA
L’OSSERVATORE ROMANO
Pag 7 Tre grazie
Messa a Santa Marta
«Riconoscere la desolazione spirituale, pregare quando saremo stati sottomessi a questo
stato di desolazione spirituale e sapere accompagnare le persone che soffrono momenti
brutti di tristezza e di desolazione spirituale». Sono le tre grazie da chiedere al Signore
che Papa Francesco ha indicato commentando le letture di martedì 27 settembre,
durante la messa mattutina a Santa Marta. Offrendo la celebrazione del giorno, festa
liturgica di san Vincenzo de’ Paoli, per le suore della comunità della Casa - che dal santo
francese sono «state fondate» e la cui «vita segue la strada da lui segnata: fare la
carità» - il Papa ha incentrato la propria riflessione soprattutto sulla prima lettura, tratta
dal libro di Giobbe (3, 1-3.11-17.20-23). Quest’uomo «era nei guai» perché «aveva
perso tutto. Tutti i suoi beni, anche i suoi figli. E poi si era ammalato di una malattia che
assomiglia alla lebbra: forte, pieno di piaghe». Insomma «la sua sofferenza era tale»
che «a un certo punto, aprì la bocca e maledisse il suo giorno, quello che gli accadeva»,
dicendo: «Perisca il giorno in cui nacqui e la notte in cui si disse: “È stato concepito un
maschio”. Tutto questo sarebbe stato meglio che non fosse stato, che non fosse
accaduto. Meglio la morte che vivere così». Tuttavia, ha osservato il Pontefice, «la Bibbia
dice che Giobbe era giusto, era santo». E un santo di solito non «può fare queste cose».
Infatti, ha chiarito il Papa, Giobbe «non maledisse Dio. Soltanto si sfogò e questo era
uno sfogo: uno sfogo di figlio davanti al Padre». Un po’ come fece il profeta Geremia,
secondo quanto riportato nel capitolo ventesimo del suo libro nell’Antico Testamento:
«Incomincia con una cosa tanto bella - ha fatto notare Francesco - e dice al Signore: “Io
sono stato sedotto da Te, Signore”»; ma subito dopo, come Giobbe, anche Geremia
dice: «Maledetto il giorno nel quale io sono stato concepito». Eppure «questi due casi
non sono bestemmie: sono sfoghi». Entrambi «si sfogano davanti a Dio così», perché
«tutti e due erano in una grande desolazione spirituale». E in proposito il Pontefice ha
sottolineato come la desolazione spirituale sia «una cosa che accade a tutti: può essere
più forte, più debole... Ma, quello stato dell’anima oscuro, senza speranza, diffidente,
senza voglia di vivere, senza vedere la fine del tunnel, con tante agitazioni nel cuore e
anche nelle idee», lo vive ogni donna e ogni uomo. «La desolazione spirituale — ha
spiegato — ci fa sentire come se avessimo l’anima schiacciata», che «non vuol vivere:
“Meglio è la morte!” è lo sfogo di Giobbe; meglio morire che vivere così». Ma, ha detto il
Papa, «quando il nostro spirito è in questo stato di tristezza allargata, che quasi non c’è
respiro, noi dobbiamo capire» che ciò «capita a tutti»: in modo più o meno accentuato,
ma capita a tutti. Ecco allora l’invito a «capire cosa succede nel nostro cuore», a
domandarsi «cosa si deve fare quando viviamo questi momenti oscuri, per una tragedia
familiare, una malattia, qualche cosa che butta giù». Di certo, ha chiarito, non è il caso
di «prendere una pastiglia per dormire e allontanarmi dai fatti, o prendere due, tre,
quattro bicchierini» per dimenticare, perché «questo non aiuta». Invece «la liturgia di
oggi ci fa vedere come» bisogna comportarsi «con questa desolazione spirituale, quando
siamo tiepidi, giù, senza speranza». Un aiuto viene dal salmo responsoriale: «Giunga
fino a te la mia preghiera, Signore». Dunque la prima cosa da fare è pregare. «Preghiera
forte, forte, forte» ha scandito Francesco, evidenziando come il «salmo 87 che abbiamo
recitato insieme», insegni «come si prega, come pregare nel momento della desolazione
spirituale, del buio interiore, quando le cose non vanno bene e la tristezza entra tanto
forte nel cuore. “Signore, Dio della mia salvezza, davanti a Te grido giorno e notte”: le
parole sono forti! È quello che ha fatto Giobbe: “Grido, giorno e notte. Per favore, tendi
l’orecchio alla mia supplica”». Insomma «è una preghiera» che consiste nel «bussare
alla porta, ma con forza: “Signore, io sono sazio di sventure. La mia vita è sull’orlo degli
inferi. Sono annoverato tra quelli che scendono nella fossa, sono come un uomo ormai
senza forze”». Nella vita, ha osservato il Papa «quante volte ci sentiamo così, senza
forze». Ma «lo stesso Signore ci insegna come pregare in questi brutti momenti:
“Signore, mi hai gettato nella fossa più profonda. Pesa su di me il tuo furore. Giunga fino
a te la mia preghiera”. Questa è la preghiera: così dobbiamo pregare nei momenti più
brutti, più oscuri, più di desolazione, più schiacciati, che ci schiacciano», ha esortato
Francesco. Perché «questo è pregare con autenticità» e, in qualche modo, serve «anche
sfogarsi come si è sfogato Giobbe con i figli. Come un figlio». Dopo aver indicato il
comportamento individuale da tenere nei momenti di desolazione spirituale, il Pontefice
si è poi soffermato sull’accompagnamento di chi si trova in tali situazioni. Il brano
biblico, infatti, continua con il racconto degli amici che sono andati a trovare Giobbe e
«sono rimasti in silenzio, tanto tempo». Infatti, ha spiegato il Papa «davanti a una
persona che è in questa situazione, le parole possono fare male. Soltanto, toccarlo,
essere vicino», in modo «che senta la vicinanza, e dire quello che lui domanda; ma non
fare discorsi». Invece nel caso di Giobbe «si vede che gli amici dopo un certo tempo si
sono annoiati del silenzio» e hanno incominciato «a fare discorsi, a dire stupidaggini».
Mentre «quando una persona soffre, quando una persona è nella desolazione spirituale,
si deve parlare il meno possibile e si deve aiutare con il silenzio, la vicinanza, le carezze
la sua preghiera davanti al Padre». Da qui l’attualità delle letture liturgiche. Sulla base
delle quali Francesco ha espresso l’auspicio «che il Signore ci aiuti: primo, a riconoscere
in noi i momenti della desolazione spirituale, quando siamo nel buio, senza speranza, e
domandarci perché; secondo, a pregare come oggi ci insegna la liturgia con questo
salmo 87 nel momento del buio - “giunga fino a te la mia preghiera, Signore”». E terzo,
«quando mi avvicino a una persona che soffre», sia per una malattia sia per qualsiasi
altra circostanza, «ma che è proprio nella desolazione: silenzio». Un silenzio, ha
concluso «con tanto amore, vicinanza, carezze. E non fare discorsi che alla fine non
aiutano e, anche, fanno del male».
Pag 8 Nel segno della vicinanza e dell’amicizia
Il Papa dialoga con membri del Consiglio ebraico mondiale
Il dialogo e l’amicizia tra ebrei e cattolici, e tra questi e i musulmani, l’accoglienza dei
migranti, nonostante i timori legati al fondamentalismo terrorista e la memoria della
Shoah: sono stati questi i principali temi affrontati da Papa Francesco durante il dialogo
con i membri del Consiglio ebraico mondiale incontrati nel pomeriggio del 26 settembre
a Santa Marta. Sette interventi - un’introduzione e sei domande in diverse lingue
(inglese, italiano e spagnolo) - hanno scandito la conversazione, alla quale il Pontefice
ha partecipato rispondendo in italiano. «Questa domenica celebriamo il capodanno
ebraico, il Rosh haShana - ha fatto notare il primo dei suoi interlocutori all’inizio
dell’incontro rivolgendosi a Francesco - e gli ebrei del mondo si incontrano e si
scambiano l’augurio di un dolce e felice anno nuovo». Nel contempo, ha proseguito, si
rivolgono anche «a quelle persone che sono state gentili con gli ebrei, per augurare loro
un felice anno nuovo. Il dono che ci scambiamo è un dolce ripieno di miele, con l’augurio
di dolcezza e luce. E lei è stato un sincero amico della gente ebrea e noi la ringraziamo
molto per tutto quello che fa». Per questo, ha aggiunto, «ci rivolgiamo a lei anche con
l’auspicio della pace, la pace in Medio oriente», dove «i cattolici continuano a essere
uccisi perché sono cattolici. Ed è necessario che noi facciamo il possibile per portare la
pace; è necessario anche che ci sia pace tra Israele e Palestina. Noi desideriamo molto,
veramente molto lavorare insieme a lei affinché questa pace diventi possibile». Dopo
aver offerto un dolce, secondo la tradizione, il rabbino ha mostrato al Pontefice la
menorah che «per la prima volta sarà esposta, visibile al mondo», in occasione di una
mostra congiunta tra il Vaticano e il Museo ebraico di Roma. Da parte sua il Papa ha
ringraziato «per questa visita tanto amichevole» e per lo «sforzo di avvicinarvi, perché la
vicinanza è una benedizione di Dio. Invece, quando ci allontaniamo vengono le cose
brutte, le antipatie, le guerre. E la nostra vicinanza non è soltanto fisica, di buona
educazione». «No, la nostra buona vicinanza - ha ribadito - è essenziale! Non si può
capire il cristianesimo senza le sue radici ebraiche. E per questo un cristiano non può
essere antisemita». Il dialogo tra cattolici ed ebrei invece «è un camminare insieme,
avvicinarsi l’uno all’altro, conoscersi meglio, dialogare, fare amicizie e andare avanti.
Siamo figli di Abramo!». Per questo, ha confidato il Pontefice, «io ho tanti amici ebrei, ai
quali voglio tanto bene. Ma per me è naturale. E parlo con voi e con i miei amici della
pace mondiale che tutti vogliamo. E questo è un compito che dobbiamo fare insieme».
Quindi Francesco ha ringraziato per la visita compiuta «pochi giorni prima del nuovo
anno» e ha augurato ai presenti «il meglio, il meglio per ognuno di voi. Vi auguro la
dolcezza, quella vera che viene da Dio. E vi chiedo, anche di pregare per me, per il mio
lavoro, per il mio servizio alla pace, all’unità, alla fratellanza di tutti noi». Dicendosi
commosso dalle parole del Pontefice, un secondo interlocutore gli ha chiesto se «quando
parliamo di pace possiamo fare di più per cercare di raggiungere i musulmani» - visto
«che anche loro sono figli della stessa famiglia di Abramo» - per «cercare di ridurre
quelle tensioni che sono alla radice di tanti problemi». Il Papa ha risposto
affermativamente, sottolineando come, sulla base della propria esperienza personale,
aiutino molto in questo processo «la vicinanza e la mitezza. Non avere paura di parlare».
«È vero - ha riconosciuto - che in questi ultimi tempi sono nati gruppi forti di terrorismo,
che hanno ferito i cristiani, gli ebrei, gli yazidi, tanta gente e tante minoranze in Medio
oriente». Ma è anche vero che in ogni religione si trovano gruppi più o meno piccoli di
fondamentalisti. «Il fondamentalismo - ha detto - è il nemico del dialogo. Anche noi
cristiani, cattolici, ne abbiamo alcuni gruppetti». Ma «con quelli che non sono
fondamentalisti, con quelli che hanno un atteggiamento amichevole, fraterno», bisogna
«parlare come fratelli. “Tu sei musulmano, io sono ebreo, io sono cristiano…”: questo si
può fare. Convivere, con amicizia». Poi, ha aggiunto, «i teologi faranno la discussione
teologica, che ci vuole, ma è compito loro. Il nostro è l’amicizia con la gente che non è
così fondamentalista». Il Pontefice ha fatto riferimento ad alcune critiche ricevute dopo il
viaggio a Lesbo, perché «sull’aereo ho portato tre famiglie tutte musulmane». Ma in
realtà «l’amicizia si deve fare» al di là delle differenze religiose. «Noi in Argentina - ha
raccontato - abbiamo un’esperienza di convivenza abbastanza buona. Perché ci sono
state le ondate migratorie dall’oriente, dal Medio oriente, e tutti noi abbiamo avuto a
scuola compagni ebrei o qualche musulmano». Sulla scia dei ricordi personali, Francesco
ha spiegato che «gli argentini sono molto rispettosi, e siccome gli ebrei venivano nella
maggioranza dalla zona di Odessa», in pratica in Argentina «tutti gli ebrei sono “russi”. E
siccome tutti i musulmani - i siriani, i libanesi - venivano con il passaporto del grande
impero ottomano, tutti erano “turchi”. E fra noi, amichevolmente, ci diamo questo
soprannome: “C’è il russo? C’è il turco?”». Ma sempre «con grande amicizia». «Io - ha
confidato - ho avuto tanti amici ebrei; meno musulmani, perché i musulmani sono andati
nel nord ovest del Paese, per la maggior parte; ci sono, a Buenos Aires, ma la
maggioranza abita nel nord ovest. E credo che questo, fare amicizia, parlare con la
gente tranquilla», non con i gruppi fondamentalisti, «e pregare gli uni per gli altri, fa
bene. Io prego per voi e per i musulmani, e so che tanti di voi e tanti musulmani
pregano per me». La seconda domanda ha preso le mosse dalla considerazione che la
maggior parte dei presenti all’incontro fossero immigrati e come tali in grado di
comprendere profondamente i problemi di quanti lasciano la propria patria e arrivano in
un nuovo paese. «Quando noi siamo arrivati - ha spiegato - non sempre siamo stati i
benvenuti, eppure, allo stesso tempo, abbiamo paura degli immigrati che vengono dal
Medio oriente, perché tra questi alcuni odiano gli ebrei. Abbiamo paura per i nostri figli»
e «per noi questo è un problema molto serio: noi preghiamo molto per la pace e noi
guardiamo a lei». Ma «quelli che non vengono in pace ci preoccupano molto» ha
ammesso citando alcune statistiche secondo le quali il 70 per cento degli ebrei nel
mondo avrebbero paura quando vanno al tempio in occasione del Rosh haShana, perché
temono di subire un attentato. «È brutto - ha confidato - quando andiamo al tempio,
vedere i soldati fuori, che ci proteggono: non dovrebbe essere così. Ci rivolgiamo al
Signore e gli chiediamo: cosa possiamo fare? E in questo ambito noi abbiamo veramente
grande bisogno della sua guida». Da parte sua Francesco ha osservato come «anche
nell’istituto ebraico di Buenos Aires, dopo gli attentati che ci sono stati, ora ci siano
piccole barriere per difendere il palazzo». Infatti, ha ricordato, «gli ebrei hanno avuto
due attentati grossi» nella capitale argentina, compiuti «da gente di fuori che rispondeva
a interessi fondamentalisti». Quanto al fenomeno migratorio, il Pontefice ha invitato a
valutare proprio questa «doppia esperienza: essere ricevuti e essere integrati». Perché
«ricevere senza integrare non è buono». E ha fatto l’esempio delle «famiglie che sono
venute» da Lesbo (alle quali si sono aggiunte successivamente altre nove persone) e che
sono un esempio positivo di integrazione: i cinque bambini siriani, già tre giorni dopo
l’arrivo «erano a scuola, per integrarsi». E quando «alcuni mesi dopo li ho invitati a
pranzo - ha raccontato Francesco - i bambini parlavano l’italiano come lingua madre. E
avevano amici cristiani, italiani». I genitori si stavano integrando «un po’ più
lentamente», comunque «avevano uno un lavoro, l’altro faceva il sarto, l’altro
l’ingegnere e incominciavano a lavorare»: e occupazione significa integrazione.«Questo ha sottolineato Francesco - è molto importante. Ricevere senza integrare è cattivo».
Quindi quando si parla delle migrazioni, è vero che «c’è pericolo, ma la soluzione è
l’integrazione». Un’integrazione che inoltre dev’essere «doppia: anche loro devono
accettare di essere integrati». Un ebreo che vive in Argentina ha quindi ringraziato il
Papa per la sua guida in due ambiti specifici - la crisi umanitaria e i profughi siriani - e
per l’enciclica Laudato si’, che «è stata di incredibile ispirazione per il mondo» Del resto,
ha spiegato, l’Argentina «è stato uno dei primi grandi paesi a firmare l’accordo di Parigi»
sull’ambiente ed è inoltre «uno dei pochi paesi in America latina che ha accettato di
accogliere profughi in grande numero». Da qui la domanda: come poter «convincere altri
paesi ad accettare un numero più alto di profughi in questa grave crisi umanitaria»? Il
Pontefice ha fatto notare che «in Argentina c’è una situazione speciale, perché sia gli
Stati Uniti sia l’Argentina erano i posti dove andavano dall’Europa i migranti. Io - ha
raccontato - sono figlio di immigrati: mio papà è arrivato a 24 anni, e si sono integrati
subito tutti». E in tal senso, secondo Francesco, un altro paese “importante” è il
Venezuela perché nel suo tessuto sociale «c’è tanto sangue ebreo». Dalle Americhe che
ricevono i profughi, il discorso si è quindi spostato verso l’Europa, in particolare quella
centro-orientale, dove, ha fatto notare un altro dei presenti, «le parole di odio sono
molto forti, contro gli immigrati. Cosa possiamo fare - si è chiesto - contro queste parole
di odio?». Il Papa ha risposto che «l’Europa è invecchiata», riprendendo un’idea già
esposta durante la sua visita a Strasburgo e poi in Vaticano in occasione del
conferimento del premio Carlo Magno. «Non posso parlare - ha detto - della “mammaEuropa”. Parlo della “nonna-Europa”. E pensare che l’Europa è stata fatta con tante
migrazioni, nella storia, che l’hanno arricchita! Adesso io vedo che si chiude: ogni paese
chiude per difendersi. Io rispetto ogni paese, non mi immischio nelle politiche interne»,
ma c’è qualcosa che denota mancanza di creatività: «all’Europa manca creatività». Basti
considerare che «uno dei problemi più gravi» del continente è «il calo delle nascite»,
seguito da quello della «mancanza di lavoro. E questo è grave» e provoca «la
stanchezza europea». Da qui la necessità di «recuperare un’economia sociale di
mercato, che vinca l’economia “liquida” e la renda più concreta». A proposito di
concretezza, il pensiero di Francesco è andato in particolare «ai contadini, ai nostri
nonni». Per molti dei presenti la figura dei nonni è indissolubilmente legata alla tragedia
della Shoah. Una di loro ha fatto riferimento proprio alla visita del Pontefice al lager di
Auschwitz, «che per tutti noi è fonte di ricordi terribili», e alla sua scelta del silenzio, che
è stata molto apprezzata dagli ebrei. Ma, ha osservato, se «questo va bene quando si va
ad Auschwitz, quando poi in Europa succedono cose terribili, come noi vediamo tutti i
giorni, forse non serve più il silenzio, forse si deve levare un grido forte di tutte le
religioni assieme; di tutti noi, assieme alle istituzioni». Da parte sua Francesco si è detto
d’accordo sul fatto che su certe questioni oggi «c’è troppo silenzio. Se ne parla poco»,
soprattutto «delle persecuzioni». E il suo pensiero è andato «alle persecuzioni dei
cristiani, per esempio, alla persecuzione dei poveri yazidi», che «nessuno vuole» e di cui
si «parla poco. E il popolo ebreo? Anche». Per questo, ha insistito, «dobbiamo parlare
insieme: insieme per la convivenza, per la pace, per la fratellanza, per l’amicizia. Siamo
tutti fratelli! C’è troppo silenzio, ma del cattivo silenzio». Infine la testimonianza di un
uomo che la settimana scorsa ha cenato nella casa del presidente Santos in Colombia,
dove è giunto a compimento un importantissimo processo di pace. Il capo dello Stato
colombiano, ha detto al Papa, «mi ha chiesto di trasmetterle un ringraziamento e spera
in una benedizione da parte sua. Lei è un buon esempio nel mondo, in questo momento
in cui gruppi che sono stati nemici per cinquant’anni possono convivere in pace e
sviluppare un futuro migliore». Il Papa ha risposto che la firma dell’accordo del 26
settembre non è solo una conclusione ma un vero e proprio inizio. Con quel gesto,
infatti, «la cosa non è finita: poi sarà il popolo colombiano, tramite il plebiscito, a dire
“sì” o “no”. Io vedo due cose: il presidente Santos ha rischiato tutto per la pace, ma
vedo anche un’altra parte che rischia tutto per continuare la guerra. E questo ferisce
l’anima».
AVVENIRE
Pag 17 L’attualità di papa Luciani “ucciso” post mortem di Stefania Falasca
L’anniversario della scomparsa
«L’unica grandezza nella Chiesa è di essere santi. E i suoi santi sono le colonne di luce
che ci mostrano la via... d’ora innanzi apparterrà anch’egli a queste luci. E ciò che ci fu
concesso solo per 33 giorni emana una luce che non può più venirci tolta». Era il 6
ottobre 1978 e l’allora arcivescovo di Monaco e Frisinga, cardinale Joseph Ratzinger,
nell’omelia del Pontificale in suffragio di Giovanni Paolo I ne ricordava così l’esemplarità
illuminante. Nel settembre 1977, un anno prima della sua morte, anche l’allora patriarca
di Venezia, Albino Luciani, citava il cardinale Ratzinger in un’omelia nella quale parlava
della santità e della vera comunione della Chiesa nella carità: «Pochi giorni fa mi sono
congratulato con il cardinale Ratzinger, egli ha avuto il coraggio di proclamare alto che
“il Signore va cercato là dov’è Pietro”. Ratzinger m’è parso in quell’occasione profeta
giusto – affermava – non tutti quelli che scrivono e parlano oggi hanno lo stesso
coraggio; per voler andare dove vanno gli altri, alcuni di essi accettano solo con tagli e
restrizioni il Credo pronunciato da Paolo VI alla chiusura dell’Anno della fede; criticano i
documenti papali; parlano continuamente di comunione ecclesiale, mai però del Papa
come punto necessario di riferimento per chi vuole essere nella comunione vera e santa
della Chiesa. Altri, più che profeti – continuava Luciani – sembrano dei contrabbandieri;
approfittano del posto che occupano, per smerciare come dottrina della Chiesa quello
che è, invece, loro pura opinione personale». Sempre Ratzinger nella liturgia in suffragio
di papa Luciani un dopo ebbe a dire: «È stato sepolto il giorno di san Francesco d’Assisi,
l’amabile santo al quale era così simile. E come san Francesco nella Chiesa dei suoi
tempi, che aveva bisogno di molta riforma, egli aveva imboccato il metodo giusto della
riforma». Il breve pontificato di Albino Luciani è tuttora segno ed esempio luminoso di
quella continuità di speranze, che vengono da lontano e che affondano le radici nel mai
dimenticato tesoro di una Chiesa antichissima, senza trionfi mondani, che vive della luce
riflessa di Cristo, vicina all’insegnamento dei grandi padri e alla quale era risalito il
Concilio. Nel quale si sono espresse, con essenzialità evangelica, le priorità di un
Pontefice che ha fatto progredire la Chiesa lungo la dorsale di quelle che sono le strade
maestre indicate dal Concilio: la risalita alle fonti del Vangelo e una rinnovata
missionarietà, la collegialità nella fraternità episcopale, il servizio nella povertà
ecclesiale, il dialogo con la contemporaneità, la ricerca dell’unità con i fratelli ortodossi, il
dialogo interreligioso, la ricerca della pace. È qui che va riconsiderato lo spessore della
sua opera. È qui che va ripresa la valenza storica del suo pontificato e della sua santità.
Luciani è un Papa attuale. E la sua grandezza è ancora tutta da riscoprire, per
ricomprendere anche il presente. La sua causa di canonizzazione è stata l’inizio di questa
riscoperta. Un lavoro di ricerca e di elaborazione enorme che riveste importanza anche
dal punto vista storiografico, data la scarsità di contributi scientifici prodotti sulla vita e
sulla sua opera. Una ricerca sulle fonti mai compiuta prima, che è stata condotta senza
cedere alla fretta, col passo rigoroso del metodo storico- critico per una riconsegna
doverosa alla memoria di Giovanni Paolo I. Oggi, alle 9, il cardinale Beniamino Stella,
postulatore della causa di canonizzazione, celebra l’Eucaristia nelle Grotte vaticane in
memoria di Giovanni Paolo I che morì il 28 settembre 1978. Luciani non fu ucciso. È
stato ucciso post mortem dall’assordante silenzio di quanti non hanno potuto trarre
vantaggi personali in termini di potere, onori, fama e gloria dal suo fugace passaggio,
dalla sua limpida e scarna testimonianza evangelica. Dal sussiego di un oblio storico e
storiografico perché sfuggente agli incasellamenti, ai riscontri in chiave ideologica di
quanti allora, come oggi, confrontano gesti e parole con la tabella dei valori stabiliti dai
progressisti o dai conservatori. È stato ucciso post mortem dal ridicolo accredito a certa
fumettistica noir che ha speculato su una damnatio memoriae per la quale valgono le
parole di Cristo agli scribi e ai farisei: “Io vi dico che, se questi taceranno, grideranno le
pietre”. Dalla morte di Giovanni Paolo I una fama di santità e di segni non artefatta, non
montata, si è diffusa sempre più in crescendo spontaneamente e universalmente. La
voce degli umili ha scalzato il silenzio. Hanno gridato le pietre.
Pag 21 Delbrêl. La sposa mistica di Madeleine Delbrêl
Un profondo testo dell’autrice parigina sull’essere nella Chiesa
Se oggi occorresse dare un nome alla nostra famiglia, non sono sicura che sarei
d’accordo nel darle quello che ha («Carità di Gesù», ndr). Ma se dovessi dire cosa vorrei
che fosse, sarebbe ciò che questo nome vuol significare. Sono ossessionata dal duplice
mistero in mezzo al quale la nostra vita deve passare come una linea dritta: il mistero
della Carità e il mistero della Chiesa. Credo che non abbiamo che una sola ragione di
esistere: vivere la carità nella Chiesa. Se non lo facciamo, o se vi aggiungiamo qualcosa,
non val la pena di esistere. Non credo che ci sia un’altra piccola famiglia che non abbia
scelto d’essere nient’altro che questo, ma d’esserlo assolutamente, stando insieme nella
diversità. Se non lo facciamo, questo mancherà nella Chiesa, e se facciamo
qualcos’altro, siamo un doppione e non vale la pena. Nella Chiesa, Sposa di Cristo, è
tutta l’umanità che è chiamata al suo amore. Ogni battezzato partecipa a quest’amore
nuziale. Con tutti i religiosi, con tutte le persone consacrate, abbiamo deciso di
accontentarci di questo solo amore. Se non dedichiamo a lui tutt’intero il nostro esistere,
o se non vi corrispondiamo totalmente nelle dimensioni che gli sono proprie, siamo celibi
che non servono alla diffusione della vita, né della Vita eterna. All’alba del Nuovo
Testamento, Giovanni Battista diceva: «Chi possiede la sposa è lo sposo; ma l’amico
dello sposo, che è presente e l’ascolta, esulta di gioia alla voce dello sposo...» (Gv 3,29).
Increduli migliori di noi e cristiani migliori di noi non sono stati chiamati a vivere in
pienezza il mistero della Chiesa sposa di Cristo. Sono come l’amico che gioisce. La
nostra tentazione sarebbe forse quella di sbagliare circa la nostra vocazione e prendere
quella di amico. Quali che siano le cose che lo Sposo offre ai suoi amici, fiducia,
confidenze, responsabilità: è a sua moglie che dona il suo nome, perché sia ciò che è lui,
faccia quello che fa, e trasmetta la sua vita attraverso di essa. (...). Non è perché lei
ascolta il marito e lo guarda che lo sposo è sposo, ma perché lei lo conosce in modo
diverso. Gli occhi dell’amico saranno forse migliori dei suoi, e la sua intelligenza
comprenderà forse meglio ciò che dirà lo sposo. Ma ciò che saprà la sposa, lui non lo
saprà. Ed è questo che sa la Chiesa e che noi conosciamo in essa e che è la Fede.
L’amico può aspettare il marito, è la donna che lo desidera, che lo 'spera'. Lei non si
aspetta qualcosa da lui, lo spera, per vivere in modo diverso. Il desiderio della Chiesa è
la Speranza, e ne è talmente arsa da non poter desiderare altro. L’amico può essere
ricco o povero, può essere libero o schiavo, la donna non può che essere povera e non
può che obbedire. L’amore per lei è una povertà che solo il marito può arricchire. La
creatura che porta in grembo e fa crescere si stacca da lei e la lascia di nuovo povera.
L’amore è per lei un’obbedienza: passivamente viene fecondata e allo stesso modo
partorisce. La Chiesa è nel mondo la grande povera e la grande obbediente e in essa noi
non possiamo trovare l’amore senza povertà e senza obbedienza. Non è solo
confondendoci tra il Regno dei Cieli e la Città terrena che noi smettiamo di stare con la
Chiesa sposa per diventarne degli 'amici'. Questo accade anche quando la povertà,
l’obbedienza e la purezza diventano cose 'in sé' e non condizioni per amare. E ciò
succede anche quando la Fede e la Speranza – che sono ottimi modi per amare, ma
destinati a passare – sono da noi vissute troppo debolmente o in modo incompleto e ci
lasciano a metà strada. L’amico è colui che, con il relativo, fa dell’assoluto. Noi non ne
abbiamo il diritto. Ma se accettiamo di vivere con e nella Chiesa, questa vocazione –
semplice e forte – ad amare, porteremo per bene il nome di Gesù Cristo, tutto quello
che chiederemo nel suo nome ci verrà dato; ma se comprenderemo bene a quale amore
siamo stati chiamati, porteremo per bene il nome di Gesù Cristo e – domandando tutto
ciò che vorremmo – ciò ci verrà accordato e saremo 'efficaci' dell’efficacia stessa di Dio,
ma per ciò che è l’opera di Dio.
Pag 21 Laica e missionaria delle periferie marxiste di Marco Roncalli
Soprattutto in Francia, ma anche in Germania o in Belgio, molto meno in Italia, si
rinnovano nel suo nome ritiri spirituali, conferenze, serate nel segno della 'misericordia'
e delle 'porte aperte'. E non pochi laici e religiosi rinvigoriscono il loro impegno
attraverso la lettura del Vangelo anche grazie ai suoi scritti, alla sua vita, soprattutto a
ciò che lei chiamava «la Carità di Gesù». Lei è Madeleine Delbrêl. A 16 anni, nel 1920,
sintetizzava il suo ateismo proclamando: «Dio è morto…viva la morte». A venti iniziava il
cammino di conversione grazie al confronto con coetanei credenti (compreso l’amico
carissimo poi sacerdote Jean Maydieu). È stata poetessa, infermiera e assistente sociale,
mistica e, nella sua accezione più bella, missionaria, testimoniando la Parola nelle
strade, sui luoghi di lavoro, nei quartieri proletari di Ivry-sur-Seine, roccaforte del
marxismo con più di 300 fabbriche. Tutte dimensioni – la scrittura, il servizio, la vita
interiore, la testimonianza e l’evangelizzazione – alimentate in lei da un’unica fonte:
Gesù Cristo. Non a caso il cardinale Pierre-Marie-Joseph Veuillot, che la sostenne nella
sua ricerca spirituale, disse: «Il segreto della vita di Madeleine è un’unione a Gesù Cristo
tale da permetterle ogni audacia e ogni libertà» e perciò «la sua carità ha saputo essere
concreta ed efficace per tutti». Non solo. È stata l’adesione totale alla Parola che, ancor
prima, ha portato questa 'apostola delle banlieues' a trasformare la ricerca della bellezza
attraverso la poesia in quella della 'carità' quale arte unica capace di modellare in lei e
negli altri il volto di Gesù Cristo. Lanciatasi in una tenace riscoperta di Dio con la stessa
passione con cui aveva fatto professione di ateismo, pronta ad assimilare e poi tradurre
l’intuizione del legame vitale tra le periferie – con le loro miserie o tensioni – e il
cristianesimo, convinta che «di sola pietà non possiamo essere amati» e dunque di un
ideale di misericordia autentico, mai da vivere al ribasso, la Delbrêl diede alla sua piccola
comunità di vita il nome «La Carità di Gesù». E se La vocation de la Charité, tomo
tredicesimo dell’Opera Omnia (edita da Nouvelle Cité e tradotta in Italia da Gribaudi),
esplora il senso pratico dato in questo modo alla vita cristiana riunendo i primi scritti
indirizzati alle sue compagne dal 1933 agli anni Cinquanta, anche il volume
quattordicesimo che sta per uscire in Francia con il titolo J’aurais voulu…, pur
abbracciando gli scritti dal 1950 al 1956, non manca di tornare sul significato racchiuso
nella scelta del nome per la «famiglia» della Delbrêl (si veda l’inedito in questa pagina,
datato 31 gennaio 1953), anche se oggi si usa piuttosto quello di «Equipes Madeleine
Delbrêl»; una riflessione breve ma profonda, che dice ancora qualcosa a chi è «deciso a
vivere integralmente il Vangelo in mezzo al mondo». Ancora una volta si può leggere in
filigrana come in ogni modo di ragionare e procedere di Madeleine siano assenti motivi di
opportunità e si riverberino piuttosto i segni di un discernimento spirituale profondo;
nonché l’attenzione sia rivolta alle azioni della quotidianità e, insieme, all’agire
soprannaturale. Tra le righe lo spirito di Charles de Foucauld e Teresa di Lisieux. Sullo
sfondo la volontà non tanto di «lavorare per il Cristo» ma di «essere il Cristo, per fare
ciò che fa il Cristo». Fra questi due poli si snoda il percorso di Madeleine alle origini della
sua comunità dalle porte aperte. E, insieme, una visione di Chiesa dove – detto un po’
con Origene – si distingue 'l’ecclesiale' e l’'ecclesiastico', e dove il rapporto che lega il
vero cristiano alla Chiesa torna ad essere rappresentato attraverso la simbolica nuziale.
Insomma: non ci è chiesto di essere con Cristo-sposo come l’amico, ma come la sposa,
e secondo Madeleine Delbrêl questo incontro sponsale (e non altro) dovrebbe guidare la
nostra vita.
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Lourdes, la crisi dei pellegrinaggi organizzati di Edoardo Caprino
Viaggi in treno che durano come negli anni Cinquanta, costo del carburante per gli aerei
quattro volte più caro all'aeroporto di Tarbes rispetto agli altri scali europei, crescita del
turismo mordi e fuggi: reportage dal grande santuario mariano dove continuano ad
avvenire guarigioni inspiegabili
Charlie non piange più. Ora balla felice con tre graziose ragazze vestite da suorina. In
quale film siamo? A Lourdes precisamente nel refettorio di un Accueil che accoglie i
malati. Un telefonino che riproduce la musica, un sorriso, la voglia di vivere di queste
giovani volontarie e Charlie ha la sua festa che avrebbe perso tornando prima in aereo.
È uno dei miracoli della gioia che ogni giorno si ripetono a Lourdes e che smentiscono
una volta per tutte le atmosfere tetre e funeree del film di Jessica Hausner uscito nel
2009. Ma è tutto positivo il bilancio per il Santuario ai piedi dei Pirenei in questo anno
giubilare della Misericordia? Le cifre portano a dire di no. Negli ultimi dieci anni – conti
alla mano – si è registrato un meno 30% di presenze di pellegrinaggi organizzati
provenienti da tutta Europa. Cifre che fanno riflettere e situazioni che sono facilmente
riscontrabili. Non vi è organizzazione che non presenti un deciso calo di pellegrini
accompagnati. I motivi sono vari e diversi e per chi opera all’interno del santuario sono
facilmente identificabili nella crisi della fede, nella crescita dell’individualismo che porta a
privilegiare formule “self made”, nella difficile congiuntura economica, nella sicurezza
senza dimenticare la grave situazione legata ai trasporti. La paura, il timore di attentati
pare – al momento – incidere poco: i controlli sono aumentati (specie entrando
all’interno del recinto che porta alle basiliche e alla grotta), ma sono blandi e si limitano
all’apertura di borsette e zaini. La grande malata dei pellegrinaggi verso Massabielle è
l’Europa. I pellegrinaggi reggono se il vescovo locale li organizza in prima persona
(interessanti per questo i casi di Gran Bretagna e Irlanda). Dove invece la spinta
apostolica è delle sole associazioni le difficoltà sono evidenti. Un aumento di presenze si
riscontra da parte di asiatici e nordamericani, ma spesso il loro viaggio a Lourdes è
difficile identificarlo come un tradizionale pellegrinaggio. La tappa alla grotta si inserisce
infatti in un tour che tocca – ad esempio – Biarritz, Parigi e Roma. E questo tipo di viaggi
è appannaggio di tour operator, non delle tradizionali organizzazioni. In periodi di alta
stagione non mancano giornate in cui la presenza è ai minimi termini con processioni
eucaristiche e processioni "aux flambeaux" più contenute rispetto solo a quelle di pochi
anni fa. Il santuario comincia a riempirsi il venerdì pomeriggio per raggiungere la
capienza massima la domenica in occasione della messa internazionale celebrata presso
la basilica sotterranea dedicata a Pio X. Pellegrinaggi quindi “mordi e fuggi “rispetto a
quelli tradizionali di sei giorni (di cui due di viaggio). Si diceva delle difficoltà dei
trasporti: i viaggi in treno sono a dir poco "della speranza" considerando i tempi biblici
richiesti. Un esempio: da Milano a Lourdes in tempi normali (sino a 6-7 anni fa) erano di
15-16 ore. Oggi sono di circa 23 se non 24 ore, tornando così a tempistiche degne degli
anni Quaranta e Cinquanta del secolo scorso. Senza dimenticare che su quei treni
viaggiano malati gravi. Perché tutto questo? È da anni che le ferrovie francesi segnalano
lavori di ammodernamento della rete ferroviaria che di conseguenza comportano ritardi.
Visti i tempi indicati ritardi per la conclusione dell'italiana Salerno – Reggio Calabria
sono nulla. Spesso i treni vengono parcheggiati nel cuore della notte in stazioni
secondarie per ore facendo passare prima non solo i treni passeggeri, ma anche quelli
merci. Le sofferenze per i malati, il personale e i pellegrini non sono poche. Una
soluzione è oggi il viaggio in pullman, ma al momento non è certo cosa risolutiva. I
tempi di viaggio sono lo stesso lunghi e i pullman attrezzati non permettono di poter
muovere e cambiare il malato con la stessa libertà del treno. Il futuro è quindi l’aereo?
Forse. Ma anche su questo fronte colpisce come l’Aeroporto di Tarbes sia anche utilizzato
come “parcheggio” di grandi aeromobili. Perché? Sul numero di maggio del corrente
anno del Bollettino dell’Associazione Medica Internazionale Nostra Signora di Lourdes
(organo ufficiale del Bureau de Constatations Médicales di Lourdes) è uscito un esplosivo
articolo - che all’esterno ha trovato poco riscontro - a firma di Michael Harrington. È il
managing director di AlbaStar, una delle compagnie aeree che più sta investendo nei
viaggi a Lourdes. Harrington scrive testualmente: «Potremmo ad esempio mettere prezzi
ancora più bassi sui nostri voli per Lourdes, ma il differenziale nel prezzo del carburante
all’aeroporto di Lourdes ammonta a quattro volte quello di uno scalo normale». Un costo
quattro volte superiore a quello di un altro aeroporto europeo è un caso sicuramente
unico. Perché tutto questo? È ancora Harrington a spiegarlo in quanto «effetto del
monopolio decennale di cui gode la società di carburanti che vi opera». Questo prezzo –
per Albastar e le altre compagnie – è il secondo più alto pagato negli scali di tutta
Europa e incide per circa il 40% dei costi. Con una punta velenosa Harrington nota sul
finale come l’aeroporto di Lourdes prende soldi dalla società di carburanti… Manca quindi
una politica minimamente turistica da parte delle autorità locali per rilanciare Lourdes
rispetto anche ad altri santuari il cui costo di viaggio e permanenza è sicuramente più
conveniente. Sandro De Franciscis è da sette anni alla guida del Bureau des
Constatations Médicales di Lourdes, il primo italiano a ricoprire questo prestigioso – e
unico nel suo genere – incarico. Ricorda come nel corso del 2015 il suo ufficio abbia
raccolto 32 presunte guarigioni le cui storie si potevano considerare potenzialmente
vere. Dal suo osservatorio privilegiato non ha riscontrato flessioni sia nel numero di
medici presenti a Lourdes come nel numero di malati che si rivolgono al Bureau. Non gli
sfugge quanto il modello di pellegrinaggio sia cambiato. Sono cambiati anche i malati
che si vedono a Lourdes: non più file di barelle ma spesso è difficile distinguere il
cosiddetto sano dal malato. Lo stesso Bureau Medical – attraverso l’opera di De
Franciscis - ha fatto un passo in avanti identificando il suo campo di analisi rispetto a
«guarigioni inspiegate alla luce delle conoscenze mediche di quel momento». I miracoli
in poco tempo sono passati da 67 a 69 (entrambi italiani) e un’attenzione sempre più
accentuata si ha rispetto al disagio psichico. Chi è quindi il pellegrino di oggi? L’identikit
è difficile da realizzare ma sicuramente è persona che si muove più facilmente da solo o
in gruppi ristretti, per poco tempo (anche un solo giorno). Vale sia per il sano che per il
malato. Ci si può chiedere se questa sia la fine dei pellegrinaggi organizzati. No di certo,
anche se a loro viene chiesto di ripensare la loro presenza. Ma sino a quando si
vedranno i miracoli di giovani che decidono di dedicare sei giorni della loro vita così
intensamente a fianco dei malati, di passare il loro tempo sino a tarda ora davanti alla
grotta questi viaggi organizzati avranno sempre un senso. Pur tra mille difficoltà, In
attesa di nuove vie.
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4 – ISTITUZIONI, ASSOCIAZIONI, MOVIMENTI E GRUPPI
IL GAZZETTINO DI VENEZIA
Pag XXX Il centro Kolbe festeggia 40 anni di attività di Filomena Spolaor
Mestre - Il Centro Culturale Kolbe festeggia i suoi primi quarant'anni con una serie di
iniziative, nate dalla collaborazione con la Parrocchia del Sacro Cuore e L'ordine
Francescano Secolare. Stasera, alle 20.45, nel Teatro in via Aleardi si svolgerà l'incontro
«La tentazione di cambiare vita: la misericordia tra malavita e carcere» con due
autorevoli relatori: don Marco Pozza, cappellano del carcere di Padova e scrittore, e
Paolo Borrometi, giornalista dell'Agi, sotto scorta a causa dei suoi articoli sulla mafia.
Modera l'incontro il giornalista Alberto Laggia. Il dibattito auspica di inserirsi
nell'approfondimento del tema della misericordia dopo l'evento che si è svolto lo scorso
16 marzo con la presenza di Padre Alex Zanotelli e di Padre Adriano Sella. Venerdì 30,
alle 21, nella Chiesa del Sacro Cuore, si svolgerà il concerto della «Polifonica Benedetto
Marcello», diretta dal maestro Alessandro Toffolo. In programma il «Requiem KV626» di
Mozart nella versione di Carl Czerny per pianoforte a 4 mani, soli e coro. Sarà, per la
Polifonica e per il Kolbe un ritorno alle origini, quando, nell'ottobre del lontano 1976
nasceva dall'idea di Padre Francesco Ruffato proprio al Sacro Cuore. Va infine ricordato
che prima del concerto ci sarà una cerimonia di premiazione di cinque giovani che, negli
ultimi anni, si sono distinti per il loro particolare talento, all'interno della corale polifonica
Benedetto Marcello e della Scuola di Giornalismo A. Chiodi.
CORRIERE DEL VENETO
Pag 17 Scuola di San Rocco, Venezia e l’accoglienza
Riprendono oggi (ore 17.45) alla Scuola Grande di San Rocco a Venezia gli
appuntamenti del mercoledì «La Scuola Grande di S. Rocco: volto dell’accoglienza a
Venezia». L’incontro di oggi vedrà un confronto tra Maria Laura Picchio Forlati e Paolo
Costa su «L’impegno sociale, l’arte, la pace: la Scuola grande di S. Rocco tra radici locali
e cosmopolitismo a Venezia». Si tratta di un’occasione di confronto sul tema della
vivibilità, anche rispetto ai flussi turistici e, in particolare, alla portualità. Sempre sul
futuro di Venezia, anche in un’ottica di tutela dell’ambiente, il prossimo appuntamento il
5 ottobre tra Giuseppe Goisis e Pier Francesco Ghetti su «Da S. Rocco all’Enciclica
Laudato sì: verso un ruolo sostenibile per la città di Venezia».
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5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO
CORRIERE DELLA SERA
Pag 25 La bilancia, ossessione italiana di Alessio Ribaudo
L’attenzione al peso unisce uomini e donne: una persona su cinque si controlla ogni
giorno
Un tempo gli italiani erano considerati un popolo di santi, poeti, navigatori. Oggi secondo una ricerca condotta da TomTom che il Corriere ha letto in anteprima - anche di
ossessionati dalla bilancia. Mediamente monitorano il proprio peso 111 volte l’anno,
senza grosse differenze di genere: le donne lo fanno per 115 giorni e gli uomini per 108.
Dati che ci pongono in vetta alla classifica europea. Davanti a Olanda, Spagna e Francia.
Se si pratica fitness una volta a settimana si tende a salire sulla bilancia 80 volte ma la
media si impenna sino a 218 per gli iper-sportivi.
Stile di vita - Non sono i soli numeri che saltano all’occhio. Complessivamente, il 77 per
cento di chi si preoccupa di monitorare spesso il proprio peso rivede poi lo stile di vita,
segue una dieta e fa sport. Il motivo? Il 34 per cento del campione della ricerca,
composto da persone fra 18 a 65 anni, sfida la bilancia perché vuole mantenere il
proprio stato di buona salute; il 30 per cento perché vuole migliorare la forma mentre il
16 per cento vorrebbe perdere peso. Però, un italiano su cinque sottolinea che non
riscontra risultati buoni dalla costante attività fisica. Eppure la quasi totalità degli italiani
ammette di lottare duramente per raggiungere i propri obiettivi anche se non capisce, o
conosce, quali siano i parametri chiave per misurare lo stato di salute o la forma. Un
italiano su cinque si pesa tutti i giorni. «Non solo è inutile ma lo trovo persino dannoso spiega Nicola Sorrentino, dietologo e professore a contratto in diversi atenei - perché le
variazioni sono di solo pochi etti ma possono creare effetti psicologici nocivi nel rapporto
con la bilancia. Io consiglio di farlo al massimo una volta a settimana e alla stessa ora».
Il famoso nutrizionista va oltre. «Perdere solo peso tra l’altro non garantisce perdere
anche la pancetta accumulata - prosegue -. Per chi vuole dimagrire è più utile misurare
il girovita: se un uomo supera i 102 centimetri o una donna gli 88 deve iniziare a
preoccuparsi».
Indice di massa corporea - Il dossier evidenzia anche che l’85% sa cos’è l’indice di
massa corporea e un buon 50% pensa che sia il giusto parametro per valutare il proprio
stato di salute e l’attività fisica. «Per me sono diavolerie - afferma lo scrittore Sandrone
Dazieri - tanto che quando lavoro a un romanzo dimentico di avere persino una bilancia.
Così, malgrado sia vegetariano, mi ritrovo con 4-5 chili in più. Finito di scrivere mi
rimetto in forma e riprendo il mio rapporto con la bilancia. Senza ansie ma in amicizia».
Vive un rapporto simbiotico con gli strumenti di misurazione del peso, invece, il
conduttore radiofonico Linus. «Intorno ai 40 anni - spiega la voce storica di Radio
Deejay, oggi 58enne - ho notato un leggero aumento di peso e, da allora, sono
diventato uno sportivo assiduo. Mi preparo meticolosamente e tutti i giorni, dopo la
doccia, salgo sulla bilancia per abitudine e senza particolari ansie. Uso anche strumenti
per monitorare gli allenamenti».
Marzotto e Daverio - Il 35% degli italiani dice di averne utilizzato uno ma poi l’hanno
riposto in un cassetto dopo 5 mesi. Uno sportivo molto attivo è l’imprenditore Matteo
Marzotto. «Mi alleno per circa 500 ore l’anno, specialmente in bici e curo l’alimentazione
- dice Marzotto, fresco 50enne - ma ho un rapporto corretto con la bilancia perché, tra
l’altro, se voglio capire se sono ingrassato uso il plicometro e l’App che ho lanciato». La
ricerca, che sarà diffusa in occasione del lancio di TomTom Touch, fa sorridere lo storico
dell’arte Philippe Daverio. «Il numero così elevato di volte che gli italiani si sottopongono
alla pesatura - argomenta il 66enne - dimostra quanto siano ancora vittime della
Controriforma perché amano punirsi e premiarsi. Io, per fortuna, oggi metto molto meno
il piede sulla bilancia perché dopo aver superato una malattia ho perso 20 chili. Mangio
meno ma tutto. Senza rimpianti».
Il mix - Sull’importanza del mix sport e alimentazione insiste il cuoco delle star Filippo La
Mantia. «Mi tengo in forma - dice - perché per me che cucino per gli altri è un dovere,
mangio in modo sano e mi peso ogni tre giorni. In ferie d’estate, ho paura di ingrassare
perché mi rilasso e divento ansioso. Inizio a pesarmi di più per paura di non essere in
forma davanti ai clienti». Dopo una vita da calciatore attento, oggi, Nicola Berti, 49 anni,
dribbla le ansie. «Ora vivo lo sport con distacco - afferma - mi tengo sempre nel limite
del mio peso forma». Con buona pace degli italiani ossessionati dalle oscillazioni della
bilancia.
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6 – SERVIZI SOCIALI / SANITÀ
AVVENIRE
Pag 10 Tumori, 3 milioni sopravvivono. Ma aumentano le donne malate di Viviana
Daloiso
Sud “virtuoso” in stili di vita. Nel gentil sesso pesa il fumo
La buona notizia c’è, e dice che al tumore nel nostro Paese sempre più spesso si
sopravvive. La cattiva, invece, riguarda le donne: si ammalano più degli uomini. Anzi, se
i nuovi casi di cancro nel gentil sesso aumentano, tra i maschi diminuiscono. Insomma,
tendenze diametralmente opposte. C’è più di un elenco sterminato di dati scientifici nel
rapporto annuale dell’Associazione italiana di oncologia medica (Aiom) e
dell’Associazione italiana registro tumori sui numeri del cancro. I numeri fanno il punto
sulle abitudini degli italiani, sulla prevenzione, le terapie, la consapevolezza della
malattia. Un quadro diviso tra luci e ombre. Mille casi al giorno. Mille nuovi casi e 485
decessi al giorno. Eccoli, i numeri impietosi del cancro. Con un dato allarmante: le
italiane colpite dalla malattia sono 176.200 (erano 168.900 nel 2015, +4,3%). In
particolare, quest’anno sono stimati 50.000 nuovi casi di tumore del seno (48.000 nel
2015), da ricondurre anche all’ampliamento della fascia di screening mammografico in
alcune Regioni, che ha prodotto un aumento dell’incidenza tra i 45 e i 49 anni. Per gli
uomini invece si assiste a un fenomeno opposto, con 189.600 nuove diagnosi e un calo
del 2,5% ogni 12 mesi (erano 194.400 nel 2015). Le ragioni del fenomeno? Gli oncologi
non hanno dubbi: in larga parte sono dovuti alla crescente abitudine al fumo nel gentil
sesso. Tanto che l’Aiom proprio ieri è tornata alla carica con la proposta (bocciata da
Renzi) dell tassa di un cent a sigaretta per creare un fondo dedicato ai costosi farmaci
innovativi antitumorali. Al Sud ci si ammala di meno. Anche la geografia dei tumori varia
dal Nord al Sud dell’Italia: nel Meridione si registrano infatti meno casi e questo è
dovuto in larga parte anche ai benefici della dieta mediterranea e ai buoni stili di vita che
ancora “tengono”. Meno casi al Sud, dunque, dove il tasso d’incidenza per tutti i tumori
è infatti tra gli uomini più basso dell’8% al Centro e del 15% al Sud rispetto al Nord e
per le donne del 5% e del 16%. E dove però la minore attivazione degli screening
programmati porta con sé valori di sopravvivenza inferiori: insomma se al Nord ci si
ammala di più, si sopravvive anche di più. Quanto alla classifica dei “big killer”, secondo
le stime la neoplasia più frequente nel 2016 sarà sempre quella del colon- retto (52mila
nuovi casi attesi), seguita da seno (50mila), polmone (41mila), prostata (35mila) e
vescica (26.600). Le neoplasie, ricorda il rapporto, sono la seconda causa di morte (29%
di tutti i decessi) dopo le malattie cardiocircolatorie (37%). Vivi in 3 milioni. Di cancro,
però, si muore sempre meno: «Le due neoplasie più frequenti, quella della prostata negli
uomini e del seno nelle donne – rileva il presidente Aiom, Carmine Pinto – presentano
sopravvivenze a 5 anni che si avvicinano al 90%. La mortalità continua cioè a diminuire
in maniera significativa in entrambi i sessi come risultato di più fattori, quali la
prevenzione con la lotta al tabagismo, alla sedentarietà e a diete scorrette, la diffusione
degli screening e il miglioramento delle terapie». Tanto che l’Italia è in testa nella
classifica europea per sopravvivenza per quasi tutti i tumori (sono oltre 3 milioni i
sopravvissuti, il 27% è completamente guarito) e questo nonostante la spesa per la
Sanità rispetto al Pil sia tra le più basse. Così, rispetto al Nord Europa, la sopravvivenza
nel nostro Paese è addirittura superiore per tumori come quello del pancreas, colon,
polmone, prostata, mammella, rene e vescica. Una malattia curabile. Dati positivi che
aprono ora ad una nuova prospettiva, con l’esigenza di garantire nuovi diritti e
reinserimento sociale ai tantissimi malati che il tumore riescono a lasciarselo alle spalle.
Ed a sottolinearlo è lo stesso ministro Lorenzin: «Quello che veniva un tempo
considerato un “male incurabile” è divenuto in moltissimi casi una patologia da cui si può
guarire, una malattia cronica». Le istituzioni e i clinici, le fa eco il rapporto, «devono
allora rispondere alle esigenze di questi pazienti che rivendicano il diritto di tornare a
un’esistenza normale».
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7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA
IL GAZZETTINO
Pag 21 Venezia, la storia va riscritta: a crearla furono i padovani di Maurizio
Dianese
Lo studio dell’archeologo Calaon tra Ca’ Foscari e Stanford
Dimenticate la storia dei veneziani che fondano la città scappando prima da Altino e poi
da Torcello, inseguiti dai barbari. Scordatevi anche delle spoglie di San Marco
orgogliosamente trafugate da Alessandria d'Egitto. Ed è meglio che non sappiate che le
grandi fortune dei ricchi veneziani non sono state costruite solo sul commercio delle
spezie e delle sete, ma anche sulla vendita degli schiavi ai musulmani. Insomma buona
parte la storia veneziana andrà in parte riscritta e corretta in base a una ricerca
destinata a rimettere in discussione molto di quello che abbiamo studiato finora sui libri
di scuola, ma anche quello che recitano le guide e le enciclopedie. La ricerca è promossa
dall'università di Ca’ Foscari in collaborazione con Stanford University della California ed
è frutto del lavoro di Diego Calaon, laurea in archeologia con una passione unica non
solo per gli scavi, ma anche per il lavoro incrociato sui big data: e questo spiega come
mai la sede principale della ricerca sia a Stanford, l’Università che ha contribuito in modo
determinante alla nascita della Silicon Valley prima con Hewlett e Packard e oggi con
Google e Facebook. Ma qual è il valore aggiunto di questa indagine? Diego Calaon non si
è limitato - si fa per dire - ad approfondire gli studi e le ricerche sugli scavi in siti
archeologici della zona di Venezia e di Rovigo, ma ha incrociato le informazioni
provenienti da altri siti, da altri ricercatori, da altri studi, per vedere se le teorie sulla
nascita di Venezia avevano un fondamento. E il fatto che il libro che illustra questo suo
lavoro si intitoli “Water, Wood, and Labour. How was built Venice” (Acqua, legno e
lavoro. Come fu costruita Venezia) ed esca prima in lingua inglese, mostra l'interesse
che esiste nel mondo accademico internazionale per questa ricerca, finanziata
dall'Unione europea. La costruzione della storia di Venezia così come la conosciamo deve
essere fatta risalire ad un importante funzionario fedelissimo del Doge Orseolo - spiega
Calaon - il quale ebbe il compito di celebrare il suo signore e le glorie della Serenissima
in un momento in cui i rapporti con Bisanzio erano strettissimi. Si chiamava Giovanni
Diacono, e nell’11esimo secolo riuscì a creare e imporre il mito della Serenissima fondata
da discendenti dei romani in fuga sull’onda delle invasioni barbariche. Diacono arrivò al
punto da inventarsi il doge di Eraclea, Paolo Lucio Anafesto, della cui esistenza non
esistono prove storiche, e ricostruì la cronaca dei tempi passati ridisegnandola sulla
necessità di dimostrare gli stretti contatti tra Venezia e Costantinopoli. Lo fece per
valorizzare i già ottimi rapporti tra Venezia e Bisanzio; e figuriamoci se, stante questa
situazione, i veneziani potevano sognarsi di trafugare la salma di San Marco: semmai
l’avranno comperata». Dunque non è vero che nel 452, quando gli Unni di Attila
conquistarono Aquileia, Concordia e Altino, le popolazioni dei territori saccheggiati si
siano rifugiate temporaneamente nella zona lagunare. In realtà Giovanni Diacono
recuperò la leggenda del longobardo Paolo Diacono, che nella sua Historia
Longobardorum descrisse le invasioni e la spartizione del territorio. «Ma se davvero ci
fosse stata la fuga di una popolazione, inseguita dai nemici, allora avremmo anche
dovuto trovare tracce di un insediamento massiccio, realizzato in un periodo limitato. Se
scappo assieme ad altra gente e devo difendermi, sbaracco di qua e costruisco di là. Ma
subito, non un po’ alla volta, come invece avviene a Venezia. Dove riscontriamo invece
un progressivo e graduale sviluppo degli insediamenti. Non solo: qualche traccia di
queste invasioni dovrei trovarla, oltre che nei libri di storia italiani, anche nelle
ricostruzioni storiche dei popoli germanici che invece parlano semplicemente di
migrazioni - aggiunge Calaon –. E la migrazione non prevede un assoggettamento con la
forza delle popolazioni che si incontrano sul proprio cammino». Dunque non solo non c'è
nessuna fuga, i veneziani si insediano a Venezia «perché è una posizione strategica per i
commerci, l’acqua non costituisce una difesa, come si è sostenuto finora, ma è
indispensabile per la vita commerciale dei popoli che abitano in quella zona e che sono
sostanzialmente pescatori e abili costruttori di barche. Da dove venivano? Innanzitutto
dal padovano. Da Padova si erano spinti fino alla foce della Brenta, sempre seguendo
l’acqua, fonte principale di sostentamento e di sviluppo del commercio, e poi erano
arrivati fino a Venezia». Spiace dirlo ai discendenti della Serenissima, ma i quarti di
nobiltà non derivano loro dai romani, ma dai padovani.
IL GAZZETTINO DI VENEZIA
Pag VIII Via Piave, il risveglio del degrado di Alvise Sperandio
Ogni mattina davanti alla chiesa di S. Maria di Lourdes segni inequivocabili delle notti
degli sbandati. Don Mirco Pasini: “Bimbi costretti a muoversi tra prostitute e spacciatori”
Sporcizia e degrado dovunque, da prendere paura. Ogni mattina il risveglio di chi abita a
ridosso della chiesa di Santa Maria di Lourdes in via Piave, è un duro confronto con i
segni inequivocabili di quello che succede la notte. La zona è terra di nessuno, in mano a
sbandati che usano il portico per bivaccare e di spacciatori che senza nessun rispetto per
il luogo vanno lì per fare i loro «affari». E c'è persino di peggio: perché di lato, davanti
all'entrata del patronato, una prostituta consuma rapporti a pagamento direttamente in
strada su un giaciglio di fortuna, ricavato con degli stracci e dei cartoni, intorno ai quali
resta poi una selva di profilattici usati. Un quadro desolante, rispetto al quale a nulla è
valsa la denuncia che ancora all'inizio di luglio aveva lanciato il parroco don Mirco Pasini,
con tanto di fotografie e lettere recapitate alle autorità. A distanza di quasi tre mesi,
anzi, la situazione è visibilmente peggiorata. Di buon'ora non c'è giorno che all'entrata
della chiesa non si trovino qua e là bottiglie di vino e birra vuote, lenzuola e coperte,
fazzoletti e carta igienica usati e abbandonati dove capita. Le fioriere sul sagrato sono
diventate panchine improvvisate di chi non si regge in piedi e soprattutto il rifugio dove
nascondere la droga sotterrata in dosi tra le piante. Il muro perimetrale della chiesa, a
pietra vista, è stato trasformato in una latrina dove chiunque lascia i suoi bisogni
fisiologici. Basta farci un giro per rendersi conto di persona del livello di degrado
esistente. «I vigili urbani? Non so neanche che macchina abbiano», dice sarcastico il
sacerdote, 48 anni, da quattro alla guida di Santa Maria di Lourdes, uno che è abituato a
stare in mezzo alla sua gente, a girare per la benedizione delle case, insomma che la
realtà di via Piave la conosce bene. «Non so più da che parte girarmi. Proverò a isolare
tutta la zona a mezzanotte con del nastro bianco e rosso sul quale appenderò dei cartelli
con scritto "Attenzione, pericolo di crollo per le maledizioni del parroco" e vedremo cosa
succederà», provoca don Mirco che lamenta la scarsità di controlli e si dice preoccupato
per un'escalation che sembra non conoscere limiti: «Non so come si faccia ad andare
avanti con questa inciviltà. I fedeli hanno paura, adesso andiamo verso l'inverno, le
giornate saranno presto più corte e il buio, si sa, facilita i movimenti sospetti e il
proliferare della delinquenza. L'estate è stato un periodo molto critico. Rilancio a nome
della comunità un appello accorato alle autorità competenti perché vengano a vedere
che cosa succede qui tutti i giorni e si diano da fare prima che sia troppo. O forse lo è
già».
Una decina di coperte e di lenzuola abbandonati sulla scalinata della chiesa. A
testimonianza che arrotolati in quei giacigli qualcuno aveva appena trascorso la notte.
Così appariva ieri mattina la scalinata e il sottoportico della chiesa di Santa Maria di
Lourdes, la grande chiesa rossa che si affaccia su via Piave. A vederli la città che alle
prime ore del mattino si stava mettendo in movimento. E alle otto di mattina le coperte
erano ancora lì mentre il marciapiede della via si animava di bambini e mamme che
stavano andando alle vicine scuole. Ognuno lanciava una occhiata e si chiedeva cosa
fosse successo durante la notte. In realtà probabilmente, ora che le temperature
notturne iniziano ad abbassarsi, alcuni senzatetto devono aver usato le coperte per
riscaldarsi e devono essersi rintanati nel sottoportico della chiesa in cerca di un po’ di
riparo. E alla mattina, con le prime luci del sole, se ne sono andati lasciando disordine e
degrado davanti alla chiesa. Nella mattinata di ieri sono passate anche un paio di auto
della polizia per fare alcuni controlli.
Don Pasini, prete dal 1999, prima di arrivare a Santa Maria di Lourdes è stato cappellano
al quartiere Pertini e tra i responsabili della collaborazione pastorale di Caorle: è un
uomo grande e grosso che non le manda a dire quando si tratta di difendere i suoi
parrocchiani.
Cosa sta succedendo in via Piave?
«La situazione è sotto gli occhi di tutti. La zona intorno alla chiesa è in mano a questi
personaggi che spadroneggiano. Diciamo basta! Non se ne può più».
Già a luglio, dalle colonne di questo giornale, aveva denunciato un degrado sempre più
pesante.
«Adesso va anche peggio. A poca distanza è stata occupata una casa popolare che è
diventata ricettacolo di spacciatori e di chi non fa nulla dalla mattina alla sera vivendo di
espedienti sulle spalle della brava gente».
Eppure c'è chi sostiene che la vivibilità della zona stia migliorando.
«Forse vicino alla stazione ferroviaria, ma non certo qui. Lì ci sono i militari dell'Esercito
che si occupano di antiterrorismo, altra cosa sono i controlli antidroga e contro la
prostituzione che sta tornando in maniera significativa».
Al mattino, le scene che si presentano sul sagrato sono eloquenti.
«È una costante. Il mio sacrestano, con tanta buona volontà, non manca mai di pulire.
Ma adesso gli ho detto di lasciar perdere, chissà che chi di dovere prima o poi si renda
conto di cosa dobbiamo sopportare».
Ha provato a parlare con le autorità e le forze dell'ordine?
«Ancora tre mesi fa ho inviato una lettera a chi di competenza ma senza ricevere alcuna
risposta. I poliziotti qualche volta si vedono di passaggio, ma ci hanno confidato che con
le leggi esistenti hanno le mani legate e non possono fare niente».
Come pensa di muoversi?
«Credo che mi rivolgerò alla Magistratura. Così non si può più andare avanti: ci sono
enormi problemi per l'igiene pubblica, questi soggetti dovrebbero andare a fare i loro
bisogni sulle mura del Municipio».
I fedeli che cosa dicono?
«Ovviamente sono preoccupati. I bambini, ad esempio, non possono certo venire a
catechismo rischiando di incontrare pusher, spacciatori, tossicodipendenti o prostitute.
Le mamme sono anche troppo brave a continuare a mandarli».
Pag XI Studenti volontari, nonostante certe scuole di a.spe.
Iscrizioni a “72 ore con le maniche in su”, in programma a fine ottobre
Gli studenti tornano a fare volontariato, nonostante alcune scuole. Si terrà dal 27 al 30
ottobre la sesta edizione di "72 ore con le maniche su", la maratona di volontariato
continuativo organizzata da "Prove di un mondo nuovo" che, negli anni, ha coinvolto
sempre più giovani. Gli iscritti erano 98 al debutto nel 2011, fino ai 672 dello scorso
anno quando sono stati realizzati 64 progetti di solidarietà in ben 54 ambiti su tutto il
territorio provinciale. Si svolgerà nonostante l'opposizione di alcuni istituti superiori che
non vedono di buon occhio il fatto che un buon numero di studenti salti due giornate di
lezioni e chiedono che l'iniziativa sia spostata in periodi liberi da impegni scolastici. «C'è
l'adesione dell'Ufficio regionale del Miur, riconosciamo i crediti formativi e riteniamo che
questa esperienza abbia un enorme risvolto educativo» sottolinea Gianni Pigato, uno dei
coordinatori che cita l'Algarotti come simbolo dell'opposizione «dove non si riesce
neanche ad entrare in classe per spiegare il progetto ai ragazzi». Comunque sia, le "72
ore" tornano con i partecipanti che ancora una volta scopriranno dove andranno e cosa
dovranno fare solo al momento della partenza da piazza Ferretto. Accompagnati da un
responsabile, potranno occuparsi del servizio mensa per i poveri, svolgere attività
ricreative con minori stranieri non accompagnati, organizzare una festa per anziani in
casa di riposo o disabili, riqualificare un'area degradata, ripulire uno spazio verde;
animare un centro giovanile ed altro ancora. Le iscrizioni vanno inoltrate entro il 5
ottobre, come singoli o gruppetti da tre o cinque componenti (informazioni al
331.3138743, e-mail [email protected]), sono gratuite e vengono garantiti
vitto, alloggio e la copertura assicurativa. «Il progetto da realizzare deve sviluppare la
solidarietà sociale favorendo il contatto costruttivo con le persone svantaggiate ed
emarginate, la sensibilità verso il territorio e il protagonismo giovanile», spiegano i
promotori. Le 72 ore sono promosse da una decina di associazioni con capofila la Caritas
diocesana e patrocinate da 13 Comuni della provincia.
LA NUOVA
Pag 22 Bivacchi sui gradini della chiesa, cocci di vetro e sporcizia di f.fur.
Santa Maria di Lourdes in via Piave
«Questa volta abbiamo superato il limite». Il tappeto tolto dall'ingresso e portato davanti
al patronato, bivacchi sui gradini d'accesso alla chiesa, sporcizia e cocci di vetro sparsi
ovunque. È questa la scena che si è visto davanti ieri mattina Giorgio Roccato, 73 anni,
storico volontario della parrocchia di Santa Maria di Lourdes, in via Piave. Una parrocchia
che opera in un contesto difficile, e che è abituata a fare i conti con situazioni di degrado
urbano. Ma ora il limite, raccontano i parrocchiani, è stato superato. Ieri Roccato è
arrivato davanti alla chiesa alle 9 di mattina, ma già alle 7 sul suo telefonino aveva
ricevuto alcune foto di ciò che era successo, probabilmente nel corso della notte. Ieri
però il volontario della parrocchia ha deciso di non pulire subito, come avrebbe fatto in
altre situazioni, ma di lasciare tutto come lo aveva trovato, in modo che tutti i passanti
si rendessero conto di quello scempio, «del mancato rispetto nei confronti di un luogo
sacro come la chiesa». Anche agli operatori di Veritas, che si erano offerti di dare una
spazzata, ha detto di no. Subito è stato informato anche il parroco di Santa Maria di
Lourdes, don Mirco Pasini, che fino a ieri sera era fuori città per altri impegni. «Le mura
della chiesa vengono usate come una latrina», aggiunge Roccato, «e siamo
quotidianamente abituati a fare i conti con sbandati di tutti i tipi ma questa volta si è
superato il limite, con le bottiglie spaccate e pezzi di vetro sparsi per tutto il sagrato».
Ieri, a metà mattinata, è arrivata anche la polizia, per capire che cosa fosse accaduto. Ci
sono delle telecamere che guardano verso il sagrato che potrebbero aver ripreso la
scena, ma anche se venissero individuati gli autori, che cosa si potrebbe fare?
«Purtroppo le forze dell’ordine ci dicono che, con le leggi che ci sono, si può fare ben
poco. Ma allora che possiamo fare: Dobbiamo continuare a subire, come possiamo
evitare tutto questo o aiutare queste persone? Ieri in tanti si sono fermati a fare foto ma
nessuno ha proposto di dare una mano». È una domanda che Roccato rivolge a se
stesso, alla comunità di via Piave e a tutta la città.
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8 – VENETO / NORDEST
CORRIERE DEL VENETO
Pag 1 Chi di etica (e politica) perisce di Alessandro Russello
Non ci piacciono i cori da curva politica, e non ci piace nemmeno il mainstream al
contrario, il pensiero unico dominante che gode nel cogliere in fallo i sedicenti primi della
classe quando dallo scranno di secchioni che danno lezioni passano all’ultimo banco
additati dall’intera classe. Insomma non ci piace il «tutti contro i grillini» nonostante il
Movimento cinque stelle sul secchionismo etico del «noi contro tutti voi» abbia fondato per demerito dell’avversario - la propria ragione sociale. Noi gli unici onesti. Voi casta. E’
evidente però che chi brandisce (spesso in modo populista) il bastone della morale non
possa pretendere l’esenzione del ticket quando viene inchiodato alle proprie
responsabilità nel passaggio dal dire al fare. Insomma, chi soprattutto con l’etica punta il
faro deve aspettarsi di essere contraccambiato con un telescopio in grado di contare i
peli dell’anima non solo ai Cinque stelle ma a tutte le stelle del cielo. Emblematico il caso
del capogruppo in consiglio regionale Simone Scarabel, che dopo essersi beccato una
multa per eccesso di velocità e aver fatto ricorso contro i vigili urbani, ha scritto su carta
intestata del suo gruppo politico (la casta?) al Comune dov’era stato pizzicato chiedendo
l’accesso agli atti per capire «tutto quello che sta dietro alla multa». Tuonando cioè
contro la filosofia dell’autovelox con la seguente domanda: «E’ uno strumento giusto per
fare sicurezza o serve ai comuni per fare cassa?». Che sia noto come la guerra agli
autovelox abbia un fondamento e che sia una battaglia (anche) grillina non ci piove.
Spesso i Comuni ci marciano, e con le sforbiciate dei bilanci è diventato facile oltre che
odioso abusare della tassazione diretta dell’automobilista. Ma è anche vero che viviamo
in una regione dove i morti sulle strade sono quelli di una zona di guerra e che fra il bere
o il malvezzo di correre spesso ci trasformiamo in bombe ambulanti. Quindi, soprattutto
da parte di un amministratore, ci si aspetterebbe più equilibrio e meno logiche da
forconi. Il punto, però, non è nemmeno questo. Non sta nel merito bensì nella forma.
Che spesso è sostanza. Il punto sta in un’altra domanda: Scarabel ha abusato del suo
potere? E’ anticasta diventata casta? Ha niente da dire sul fatto che i vigili urbani e il
Comune si sono trovati non di fronte - come direbbe lo stesso M5s - a un semplice
«cittadino ricorrente» ma a un minaccioso consigliere regionale? Con tutto il peso
politico che quella carta intestata può avere? Non sa di casta il proporsi con il «lei non sa
chi sono io»? Il punto è che il «privato» non è «politico» nel modo in cui lo coglie
Scarabel, che rivendica il merito di aver usato la sua privata persona multata come
chiavistello contro i cattivoni dell’autovelox nella battaglia del suo movimento. Il punto è
che il «privato» deve essere «politico», al contrario, nell’etica personale. Che avrebbe
previsto di fare il ricorso per chiedere giustizia come «fatto privato», distinguendolo
dalla battaglia politica per non creare conflitti di interessi e imbarazzi (a proposito di
imbarazzi il consigliere regionale la multa ieri l’ha pagata). Dispiace, ma anche gli
apostoli del secchionismo etico possono sbagliare. E qui lo sbaglio si mescola con
un’altra nemesi. Cioè quella del web, del popolo della rete, il cardine della struttura del
consenso e della «forma partito» del M5s. Se infatti lo «staff» dei pentastellati ha
blindato il Nuvolari trevigiano respingendo ogni provvedimento, sia in Facebook (dove
Scarabel aveva postato multa e ricorso) che negli altri social si è scatenata l’ira al grido
di «dimettiti». Insomma, Scarabel ha provato sulla propria pelle ciò che la «casta» prova
quando inciampa in un «incidente» etico o corruttivo. Così com’è successo per i colleghi
grillini indagati, innocenti fino a prova contraria e mai dimessisi (hanno fatto bene), ecco
piovere la stessa moneta dal popolo inferocito. Lo stesso popolo che nell’urna o con un
clic incorona il partito che dal dire al fare sta trovando contraddizioni grandi come il
mare.
Pag 5 Consigliere M5S in lotta contro la multa. “Devi dimetterti”. E alla fine
paga di Marco Bonet
Venezia. Non c’è pace sotto il cielo a Cinque Stelle. E l’affanno riguarda soprattutto il
capogruppo in Regione Simone Scarabel che, dopo le polemiche sui ritardi nei
versamenti ai Comuni colpiti dal tornado in Riviera del Brenta, dopo gli attacchi per la
mancata rinuncia al Tfr e dopo le svariate richieste di dimissioni arrivate da una parte
della base per «violazione dei principi del Movimento», adesso deve fronteggiare
l’accusa d’aver provato a svicolare il pagamento di una multa con il più classico dei «lei
non sa chi sono io» in stile Casta. Accusa da cui lui, che nel frattempo si è convinto a
pagare la sanzione, si difende così: «Nessun interesse privato, solo la volontà di lottare
al fianco dei cittadini contro il sopruso degli autovelox e dei T-red irregolari». La vicenda
ha inizio nel giugno scorso, quando Scarabel viene inchiodato da un autovelox a
Codevigo mentre corre sulla Romea a 113 chilometri orari, violando il limite dei 90. Il
consigliere del Movimento Cinque Stelle non ci sta, si rivolge al suo avvocato e ricorre al
giudice di pace di Padova, come potrebbe fare qualunque altro privato cittadino. Fin qui,
nulla di strano. Scarabel, però, non si ferma al ricorso bensì memore delle battaglie
condotte dal Movimento contro autovelox e T-red (il senatore Giovanni Endrizzi, mentre
ieri infuriava la bagarre sui social network, ha rilanciato in Rete un suo recente
intervento a Palazzo Madama sull’argomento: «Ma gli autovelox sono installati per la
nostra sicurezza o per far cassa?»), decide di cavalcare il «fatto personale» per avviare
una battaglia tutta politica. Piglia quindi carta e penna e, su carta intestata del Gruppo
regionale, scrive ai sindaci di Codevigo e Arzergrande, che condividono il servizio di
polizia locale, contestando il regolare funzionamento dell’apparecchiatura e chiedendo
tutta la documentazione relativa alle violazioni e agli incidenti accertati nella zona. Una
richiesta che ha occupato per diversi giorni gli impiegati del piccolo municipio e che è
stata interpretata da sindaci, assessori e vigili urbani come un maldestro tentativo di
fare pressione sul Comune affinché annullasse la sanzione in virtù del ruolo ricoperto da
Scarabel in Regione. «Nessuna pressione - replica l’alfiere di Grillo - ho solo fatto una
normale richiesta di accesso agli atti, ovviamente contestando la sanzione. Da anni il
Movimento si batte su questo fronte e molti parlamentari hanno avuto difficoltà ad avere
le carte perché, così è stato risposto loro, non avevano “un interesse legittimo”. Io, in
quanto multato, ce l’ho e ho deciso di sfruttare questo pertugio per capirne di più. Ero
assolutamente in buona fede e il ricorso al giudice (poi pubblicato sul suo profilo
Facebook, ndr .) l’ho fatto come privato cittadino, non su carta intestata del gruppo
regionale». Il che, a dire il vero, è un’ovvietà: non si è mai visto un ricorso giudiziario
che non fosse su carta intestata dello studio legale. Tant’è: «Chi dice il contrario sarà
querelato». Anche il sindaco di Codevigo, Annunzio Belan, sembra voler gettare acqua
sul fuoco («Mi auguro sia stata solo una svista, una malaugurata idea dovuta ad una
distrazione. Se paga la multa per noi la questione è chiusa») mentre alcuni attivisti
pentastellati ricordano che quella contro l’autovelox sulla Romea è una storica battaglia
del M5s di Codevigo. Ma ormai è tardi, la notizia rimbalza in Rete tra i sorrisetti dei
leghisti e dei dem e la base s’infiamma. Non si contano i post e i commenti,
specialmente su Facebook, in cui i militanti di Grillo sbertucciano Scarabel, gli intimano
di pagare «e tacere», lo accusano d’essere stato «infettato» dal virus della Casta, gli
ricordano i precedenti dei fondi per il tornado e del Tfr pretendendo da lui come minimo
le dimissioni da capogruppo, meglio quelle dal consiglio regionale, dove i suoi colleghi
peraltro sono caduti dalla nuvole apprendendo della vicenda con un certo fastidio
soltanto dai giornali. Lui, con voce affranta, commenta laconico: «Farò quel che mi
dicono di fare». Ma nel silenzio impenetrabile del «commissario» David Borrelli, lo Staff
non dice proprio nulla, anzi, avvertito del fattaccio fa quadrato intorno a Scarabel al
quale, par di capire, non verrà chiesto alcun passo indietro («Non si tocca»). Una mossa
che si spiega forse anche con la volontà di Grillo, che ieri ha imposto il coprifuoco su
Roma, di non aprire un nuovo fronte in Veneto, mettendo il silenziatore al (sempre più
rumoroso) scontro interno.
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… ed inoltre oggi segnaliamo…
CORRIERE DELLA SERA
Pag 1 La partita della legge elettorale di Angelo Panebianco
Proporzionale
Finalmente ci siamo arrivati. Si può dire che si tratta di un elemento di chiarezza. I
fautori del No alla riforma costituzionale si stanno anche schierando, dai Cinque Stelle a
una parte del centrodestra (che comprenderebbe, o così si dice, anche Silvio Berlusconi)
a favore di un sistema elettorale proporzionale. A suo modo, è una cosa lodevole. È
giusto infatti che chi sia a favore della conservazione costituzionale, della conservazione
della Costituzione così come essa è (compreso il «mostro», il cane a due teste, ossia il
bicameralismo paritetico) sia anche un nostalgico del ritorno alla proporzionale. È giusto
perché quella Costituzione e la legge elettorale proporzionale sono fratelli siamesi, sono
comunque fatte l’una per l’altra. Tanto è vero che la separazione chirurgica dei primi
anni Novanta, allorché si abbandonò la proporzionale a favore di una legge
maggioritaria, mantenendo però invariata la Costituzione, non diede buoni risultati. I
riformatori di allora ne erano consapevoli. E difatti, pensarono (o sperarono) che la
riforma elettorale in senso maggioritario fosse solo il primo passo. Si auspicava che il
mutamento della legge elettorale potesse spianare la strada a una riforma della
Costituzione. Fu proprio quello il tentativo, poi fallito, della Commissione bicamerale
nata nel 1997 e presieduta da Massimo D’Alema: adattare una Costituzione, costruita a
misura di una legge elettorale proporzionale, a differenti regole (maggioritarie) di
competizione politica. Non è vero che la Costituzione italiana diede vita a un sistema
parlamentare uguale a qualunque altro. No, la nostra Costituzione (e il bicameralismo
paritetico ne è una prova evidente) ci impose invece un sistema parlamentare con un
esecutivo istituzionalmente debole e politicamente ricattabile. Come tante volte è stato
ripetuto, il «complesso del tiranno» (eredità della dittatura mussoliniana) e la profonda
sfiducia reciproca fra comunisti e anticomunisti ne furono le cause. Detto per inciso, è
interessante notare come i fautori del No glissino, per lo più, su questo aspetto della
nostra storia costituzionale. Glissano perché essi stessi, ancora nel 2016, continuano ad
alimentare, presso l’opinione pubblica, il «complesso del tiranno», raccontando in giro
che la riforma in atto sarebbe parte di un disegno autoritario. La proporzionale
completava e sorreggeva un sistema parlamentare congegnato in modo da favorire la
formazione di quei governi deboli, a loro volta indispensabili in una democrazia difficile
nella quale nessuno poteva fidarsi di nessuno. La proporzionale aveva il compito di non
permettere esclusioni rilevanti dal gioco politico, e di assicurare anche all’opposizione
capacità di pressione e di influenza sul comportamento dei governi. Una volta
apprezzata la coerenza di quei fautori del No che vogliono anche tornare alla
proporzionale, c’è da dire che essi devono vedersela con due obiezioni. Nonostante ciò
che dice Giulio Tremonti nell’intervista al Corriere del 25 settembre, è difficile negare
che la proporzionale abbia contribuito, soprattutto negli anni ottanta dello scorso secolo,
alla lievitazione di quel grande debito pubblico che ci trasciniamo ancora dietro. Gli
argomenti di Tremonti sono sempre arguti e interessanti, ma nella vicenda in questione
egli sottovaluta, mi sembra, la connessione che c’è fra il (lento) declino dell’egemonia
democristiana che si manifestò proprio allora e l’allargamento dell’area dei partecipanti
alla spartizione delle spoglie favorito dalla proporzionale. La seconda obiezione è che una
cosa è un regime di proporzionale in una democrazia con partiti forti e radicati (come i
nostri degli anni Cinquanta e Sessanta), tutt’altra cosa è innestare la proporzionale in
una democrazia che di partiti forti non dispone più (né, a giudizio di chi scrive, ne
disporrà in futuro). Come è possibile conciliare governabilità, legge proporzionale e
assenza di partiti forti e radicati? È comprensibile che la domanda risulti irrilevante per i
Cinque Stelle. Ma è così anche per gli altri? Vincesse il No nel referendum di dicembre, la
spinta a reintrodurre la proporzionale diventerebbe probabilmente irresistibile. A favore
della proporzionale militano infatti due ragioni fra loro collegate. La prima è che le
formazioni politiche oggi presenti in Parlamento entrerebbero, grazie alla proporzionale,
in una botte di ferro. Nemmeno le cannonate le potrebbero sloggiare, elezione dopo
elezione, dal Parlamento. Il sistema proporzionale è infatti, in senso tecnico, un sistema
conservatore, conserva ciò che c’è. I piccoli partiti sarebbero più garantiti. Ma lo
sarebbero anche gruppi come i Cinque Stelle o Forza Italia nel caso che i sondaggi ne
registrassero il declino. Con la proporzionale non si corre (quasi mai) il rischio di sparire
dalla scena. La seconda ragione, collegata alla prima, è che per i singoli parlamentari la
proporzionale è una manna, è il sistema elettorale che accresce le chance di ognuno di
essere rieletto. È sufficiente non perdere il favore dei leader del partito e, salvo incidenti,
il gioco è fatto. È normale che si torni a parlare di proporzionale. Poiché in politica, come
del resto nella vita in generale, gli interessi e i vantaggi a breve termine (l’uovo) degli
attori che contano hanno quasi sempre la precedenza, nonostante le continue
dichiarazioni di segno contrario, sugli interessi a più lungo termine di tutti (la gallina).
Poiché la politica è l’arte del possibile, si capisce perché Renzi, per salvare la logica
maggioritaria, abbia dovuto adottare un sistema elettorale molto complicato
(ballottaggio, premio di maggioranza, soglia di sbarramento, eccetera). I parlamentari,
di qualunque partito, non avrebbero votato un più semplice, ma anche molto più
efficace, sistema elettorale maggioritario con collegi uninominali (troppo rischioso dal
loro punto di vista). Se a dicembre vincerà il Sì, però, forse Renzi sarà politicamente così
forte da potere imporre al Parlamento una legge elettorale che meglio si adatti alla
nuova Costituzione.
Pag 1 L’istinto del lanciafiamme di Massimo Gaggi
La strategia dello sfidante Trump
Ecco perché Trump resisteva ai tentativi dei suoi strateghi elettorali di fargli assumere
un atteggiamento più presidenziale dopo aver attraversato le primarie con un
lanciafiamme in mano. Meno aggressivo, meno violento nei suoi attacchi personali
contro la sua avversaria, il candidato repubblicano ha dato l’impressione di muoversi sul
palco del dibattito della Hofstra University col freno tirato. Hillary Clinton, che partiva da
una posizione di grande difficoltà, è stata molto abile: lei che presidenziale lo è già e fin
troppo, gli ha rubato la clava e ha cominciato a menare fendenti: le accuse personali
sulle tasse non pagate, le donne che ha irriso o insultato e gli episodi (di 40 anni fa) di
discriminazione razziale in alcune sue aziende. La candidata democratica, che
fronteggiava un Trump in rapida ascesa nei sondaggi, è sicuramente riuscita a frenare la
sua corsa, anche perché l’immobiliarista che punta alla Casa Bianca, abbandonato per
ora il suo linguaggio iperbolico e sprezzante, non è riuscito ad andare a fondo sui
contenuti. Efficace nel giocare sulle paure dell’America - il terrorismo dell’Isis, il lavoro
minacciato dalle fabbriche trasferite in Asia, la ripresa della criminalità - Trump continua
a non spiegare cosa intende fare in concreto da presidente. Ieri ha anche ignorato
totalmente due cavalli di battaglia della sua campagna: il no alla riforma sanitaria di
Obama e la crociata contro gli immigrati clandestini, col celebre muro da costruire alla
frontiera messicana. Hillary, invece, ha rivendicato la sua competenza e lo spessore
delle sue esperienze di governo con quel «prova tu a negoziare viaggiando in 112 Paesi
del mondo e a passare 11 ore a testimoniare davanti al Congresso» quando Trump l’ha
accusata di non avere abbastanza «stamina»: la determinazione e il vigore per essere
presidente. Certo, queste sono sensazioni da analisti: bisognerà poi vedere le reali
reazioni della «pancia» dell’America. Cioè gli elettori moderati degli Stati in bilico - dalla
Florida all’Ohio - che saranno decisivi per l’esito del voto dell’8 novembre. E, anche se
ieri l’ex first lady è stata molto abile, è chiaro che la sua corsa di vecchia professionista
della politica rimane tutta in salita: a lei gli americani chiedono molto più che a Trump.
E, in tempi di diffusa insofferenza dei cittadini nei confronti dell’«establishment», anche
la gestione dell’eredità politica di Barack Obama è per lei un problema delicato: battuta
nel 2008 dalle promesse di cambiamento radicale di un giovane senatore dell’Illinois, in
difficoltà nel 2016 anche per la delusione prodotta nell’elettorato dalla mancata
realizzazione di quelle stesse promesse. Comunque, dopo questa battuta d’arresto,
Trump cambierà rotta. Tra dieci giorni al dibattito di St. Louis sarà più aggressivo:
Hillary tornerà sulla graticola, ma Trump dovrà stare attento a non scottarsi. Ormai è
chiaro che per essere eletto ha bisogno anche del voto delle donne e di una parte,
almeno, delle minoranze etniche: non basta galvanizzare il suo zoccolo duro, l’elettorato
maschile bianco. Forse è anche per questo, per la necessità di recuperare tra gli ispanici,
che per una volta ha rinunciato ai consueti proclami sul muro anti-immigrati.
Avvicinandosi al voto, obbligato a tornare coi piedi per terra, Trump paga
inevitabilmente un prezzo per la rinuncia ad alcune delle posizioni di rottura che gli
avevano dato tanta visibilità nei mesi scorsi, anche sui temi di politica estera. Così la
bocciatura della Nato, giudicata un’alleanza superata, obsoleta, ora viene sostituita da
un ragionamento puramente contabile: la Nato va bene, deve restare un’alleanza
essenziale per l’America. Bisogna solo chiedere una più equa ripartizione delle spese,
visto che ora gli Usa sostengono il 73% dei costi di questo dispositivo militare.
Pag 9 La “forza” per lui, il “controllo” per lei. Ma entrambi sono sbugiardati dai
fatti di Beppe Severgnini
Sul podio della Hofstra University sono state pronunciate 94.748 parole. Togliendo quelle
del moderatore (poche), possiamo immaginare che i due candidati alla Casa Bianca
abbiano usato circa 45 mila parole a testa. Nessuna indimenticabile, ma alcune
memorabili. Ne scegliamo due. Stamina, per Donald Trump. Fact-checking , per Hillary
Clinton.
Stamina - La traduzione italiana è: forza, resistenza. Un baluardo culturale americano.
Senza stamina, i coloni europei sarebbero stati rigettati dal nuovo continente; gli
immigrati non l’avrebbero cambiato; i padri di famiglia non l’avrebbero costruito,
sperando in un futuro migliore per i figli, generazione dopo generazione. Durante il
dibattito Donald Trump, in pochi secondi, ha ripetuto il vocabolo quattro volte. «She
doesn’t have the stamina. I said she doesn’t have the stamina. And I don’t believe she
does have the stamina. To be president of this country, you need tremendous stamina».
«Non ha la forza. Ho detto che lei non ha la forza. E non credo che lei abbia la forza. Per
essere presidente di questo Paese, c’è bisogno di una forza tremenda». Quasi
certamente, si trattava di un commento preparato (uno dei pochi, in una serata
estemporanea). Un tentativo di insinuare un doppio dubbio nella testa degli elettori. (a)
Hillary Clinton non può reggere il peso della presidenza in quanto donna (b) Hillary
Clinton ha una salute malferma (lo svenimento alla commemorazione dell’11 settembre,
la polmonite, le speculazioni che sono seguite).
Fact-checking - Hillary Clinton usa due volte l’espressione fact-checking, controllo dei
fatti. «So we have taken the home page of my website, HillaryClinton.com, and we’ve
turned it into a fact-checker». «Abbiamo preso la home page del mio sito web,
HillaryClinton.com, e l’abbiamo trasformata in un fact-checker». «Well, I hope the fact-
checkers are turning up the volume and really working hard. Donald supported the
invasion of Iraq». «Be’, spero che i fact-checkers alzino il volume e lavorino duro.
Donald appoggiava l’invasione dell’Iraq». Durante il dibattito, la stessa Hillary ha
smentito diverse dichiarazioni di Trump. Molti siti d’informazione americani hanno
controllato in diretta la correttezza delle affermazioni dei candidati. «Quartz» spiega
come «un lavoro considerato tra i meno sexy del giornalismo, il fact-checking, abbia
conosciuto il suo momento di gloria». «Politifact», da tempo, si dedica a questo
esercizio. I risultati del fact-checking sul candidato repubblicano (non solo durante il
dibattito) sono devastanti. Il 69% dei 260 fact-checks hanno prodotto un giudizio
«mostly false» (sostanzialmente falso), «false» (falso) or «pants on fire» (fandonia
assoluta), letteralmente «mutande infuocate», da un’espressione infantile: «Liar liar!
Pants on fire! Bugiardo, bugiardo! Ti vanno a fuoco le mutande!». Hillary Clinton (255
controlli) si è fermata al 28%. La biancheria intima democratica è meno infiammabile,
ma comunque brucia. Sorprendente, perché negli Usa è capitato che un presidente
perdesse le elezioni a causa di una promessa mancata (« Read my lips: no new taxes
/Leggete il labiale: niente nuove tasse», George H. Bush) o finisse a processo per una
bugia («I didn’t have sexual relations with that woman, Miss Lewinsky /Non ho avuto
relazioni sessuali con quella donna, Miss Lewinsky», Bill Clinton). Trump, secondo il New
York Times, durante il dibattito ha mentito venticinque (25) volte su altrettanti temi (il
prestito ricevuto dal padre e i fallimenti delle sue società, i commenti sulle donne, il
Messico e la Russia, il bilancio della Nato, la guerra in Iraq etc). Ma le sue bugie,
probabilmente, cambieranno poco. Il candidato repubblicano è il veicolo dello scontento
di una parte dell’America (bianca, impoverita, preoccupata). Che non cambierà auto in
corsa solo perché il contachilometri è manomesso, la carrozzeria ammaccata e l’interno
maleodorante.
Pag 14 Berlusconi: farò il terzo predellino di Francesco Verderami
Gli ottant’anni del leader di Forza Italia
Il visionario Berlusconi continua ad avere una sola e unica visione: Berlusconi. E infatti
nei giorni in cui legge con gusto misto a indignazione «la commemorazione dei nemici»,
lavora alla commemorazione di se stesso con un approccio programmatico e niente
affatto consuntivo: «Farò un terzo predellino», dopo quello di Casalecchio di Reno e
dopo quello di Milano. Se glissa ancora sulla data c’è un motivo, lo si intuisce da un
passaggio dell’intervista concessa a Libero dal suo avvocato Ghedini: «A primavera,
vogliamo sperare, davanti alla Corte europea l’ingiusta condanna del primo agosto 2013
sarà riconosciuta con tutte le sue anomalie. Il presidente risulterà doppiamente e
totalmente innocente». «Lo so che ci ridono sopra», dice il Cavaliere. È da anni che
sente ridere di sé. Fu proprio questo l’argomento con cui accolse Martino ad Arcore in
una sera d’estate del 1993: «Caro professore, quando stavo nel campo dell’edilizia e
spiegai ai miei collaboratori che volevo costruire una nuova città, loro risero. Quando
annunciai all’avvocato Agnelli che avevo acquistato una tv per fare concorrenza alla Rai,
lui rise. Quando dissi a Boniperti che avevo preso il Milan per vincere in Italia e nel
mondo, lui rise. Ora la prego, se le dico che voglio fondare un partito per andare al
governo, non rida». La futura «tessera numero due» di Forza Italia faticò a restar serio,
più o meno lo stesso sforzo che Berlusconi legge sui volti annoiati dei dirigenti azzurri
quando - ad ogni riunione - parte con la storia del «complotto» e chiude una decina di
minuti dopo con «l’assoluta certezza» che la Corte europea «mi restituirà l’onore». Se il
Cavaliere è stato sempre vissuto come un folle, è perché a un visionario nessuno può
dar mai ragione. Perciò di quegli scherni non si cura, capace com’è stato (finora) di
capovolgere il senso dello slogan sessantottino, e di seppellire gli altri sotto le loro
risate. Così, nonostante la torta di compleanno sia stracolma di candeline, Berlusconi
non cambia obiettivo né liturgia. L’intervista a Chi è la plastica rappresentazione di ciò
che non pensa davvero e nel profondo di se stesso: l’immagine del «patriarca» che
guarda «in modo ancora incerto al futuro», somiglia alla foto con cui si offrì senza filtri e
con le rughe per contrapporsi al giovanilismo di Renzi. Certo è sincero quando racconta
che, con l’arrivo della malattia «e soprattutto con l’operazione, ho avuto la
consapevolezza di essere ormai un uomo di ottant’anni». Ma è nel rendiconto politico, è
dopo aver spiegato di esser sceso in campo «solo per impedire l’ascesa al potere dei
comunisti», che Berlusconi si tradisce: «Non ho mai sbagliato un colpo». Eccolo. Non è
tanto per l’assoluzione che si concede a fronte dei suoi (numerosi) errori, la dissoluzione
di un patrimonio elettorale svanito nella diaspora del Pdl, o le «eccessive distrazioni»,
come Gianni Letta definiva la vita notturna del Cavaliere. In quel «non ho mai sbagliato
un colpo» c’è la proiezione di Berlusconi oltre le celebrazioni del momento, oltre quelle
lapidi a nove colonne che confida di rompere «in primavera» per salire sul predellino
«per la terza volta». Già in passato, peraltro, aveva applicato lo stesso schema: quattro
anni fa lanciò le primarie nel Pdl, con tanto di video in cui spiegò che «il partito si deve
aprire al futuro». Due settimane dopo, oplà, Berlusconi si ripropose come
l’«indispensabile». E c’è la prova di quale sia il suo autentico stato d’animo, sta nella
reazione con cui Confalonieri commenta da qualche giorno la lettura dei quotidiani: «Uè,
ma basta con ‘sti coccodrilli sul Silvio!». Il patron di Mediaset ha un rapporto simbiotico
con il fondatore del centrodestra, che non manca mai di parlare dell’amico con cui si
stringeva in gradinata a San Siro. «Anche la settimana scorsa dopo la riunione di Forza
Italia ne ha fatto cenno», rivela l’ex ministro Matteoli: «Mi ha preso da parte e mi ha
mostrato una cornice. Dentro c’era una foto in bianco e nero, sarà stata di sessanta anni
fa. Nell’immagine si vedeva l’ingresso di un locale e un’insegna: Ristorante BerlusconiConfalonieri». La ditta si è ingrandita per effetto delle smisurate ambizioni di un
ottantenne visionario che vede sempre se stesso nel futuro. E che legge il futuro
attraverso gli amatissimi sondaggi, dai quali ha tratto il convincimento che i paradigmi
ideologici del Novecento sono superati, che le giovani generazioni sono irraggiungibili,
che i vecchi strumenti di comunicazione sono obsoleti: «E allora bisogna cambiare». Ma
con lui comunque al centro del suo sistema tolemaico. Servirà del tempo per capire se
Berlusconi si renderà conto di non poter più comandare ma di poter ancora contare. Il
referendum costituzionale potrebbe essere uno spartiacque, se rispetto al desiderio di
«dare una lezione a quel bulletto» di Renzi, prevalesse la preoccupazione di non
consegnarsi a Grillo: «Perché non vorrei che la vittoria del No passasse nel Paese come
un trionfo dei Cinque Stelle». Gli alti e bassi della riabilitazione, quel mal di vivere che in
certi giorni l’ha tormentato più del dolore fisico, sembrano scomparire quando si
presenta: un gruppo di industriali gli ha sentito raccontare ancora le barzellette; i
dirigenti di Forza Italia gli hanno visto mangiare quattro porzioni di parmigiana; a
Brunetta che gli consigliava di comprarsi Mps - «con poche centinaia di milioni pensa che
smacco daresti ai compagni comunisti» - ha risposto pronto che non ci pensa proprio:
«No no, lì dentro ci sono solo debiti». E nel tourbillon di appuntamenti, sopra quel caos
che gestisce e con cui disorienta tutti, dentro quel caveau di sentimenti dove c’è posto
solo per la famiglia e per gli amici di una vita, l’ex premier pensa al suo riscatto, alla
prossima primavera, al suo «terzo predellino», come se il tempo fosse un problema
altrui. Chissà cosa avrà pensato la primogenita Marina - diventata per il Cavaliere
«madre, sorella e figlia» - quando ha saputo che il padre, all’ultima riunione di Forza
Italia, ha distribuito a tutti i presenti quel foglio. La discussione era finita, si era esaurito
anche il «fuori programma» su Parisi, con cui Berlusconi aveva saggiato le reazioni del
suo gruppo dirigente. E c’era ancora un po’ di tensione sul ruolo del manager,
considerato per molti «un intruso», quando il Cavaliere ha fatto capire cosa ha in testa e
chi ha in testa davvero quando si proietta nel futuro. In quel foglio erano elencate tutte
le realizzazioni politiche di Berlusconi, dal 1994 fino al 2011: «Ripassatele a memoria e
citatele quando andate in tv. Il resto non conta». Il visionario non ha cambiato visione.
Pag 27 Anatomia di un istante. E Berlusconi capovolse il conflitto d’interessi di
Antonio Polito
Il giorno in cui il Cavaliere lasciò
C’è un istante nella vita di Silvio Berlusconi che cambia la storia del suo rapporto con il
potere, ed è il momento in cui lascia il potere. È forse il giorno più enigmatico della sua
parabola: l’8 novembre del 2011. Il giorno in cui lo spread tra i Btp italiani e i Bund
tedeschi varca la soglia dei 500 punti. L’Europa intera guarda a Roma col fiato sospeso.
Al telefono Ennio Doris, amico da sempre e compagno d’affari, lo mette in guardia dal
rischio del collasso nazionale: il Cavaliere preme il tasto viva voce perché ascolti tutto il
sinedrio di Forza Italia, riunito in seduta permanente a Palazzo Grazioli. Ma quel giorno
gli arriva anche un’altra telefonata, meno nota e più privata, dal figlio Luigi, che sta nella
City di Londra a farsi le ossa nel banking: papà, l’Italia sta per crollare, e con l’Italia le
nostre aziende. È un sentimento condiviso da tutta la famiglia. Ancora una volta risuona,
nella vicenda politica del berlusconismo, la voce del padrone. E però quel giorno il
conflitto di interessi, autentico peccato originale che insegue fin dagli inizi l’outsider
impedendogli di trasformarsi in statista, si capovolge nel suo contrario. Se è vero che il
Berlusconi del 1994 ha voluto il potere per salvare le sue aziende, come dicono i nemici,
è anche vero che in quel drammatico novembre del 2011 l’interesse delle sue aziende
s’identifica con l’interesse nazionale, e lo obbliga a sacrificare il potere. «Il Paese che
amo», evocato agli esordi nel «discorso della calza», viene a reclamare il suo tributo.
Forse è per questo che gli antiberlusconiani di professione - ce ne sono ancora tanti,
soprattutto tra chi fa opinione - non vanno poi così fieri di quella caduta, e non ne
parlano molto nei bilanci dell’ottantesimo compleanno. Eppure dovrebbe essere il
momento clou di una storia scritta dai vincitori: l’abbattimento del tiranno, l’espulsione
dell’alieno, la fine del Truman show. Ma le cose non sono andate come immaginavano.
Per anni si erano preparati a uno scenario da ultima resistenza nel bunker, con il premier
che s’appella alla piazza contro le istituzioni, come nel celebre finale del film di Moretti. E
invece la Seconda Repubblica non finisce sulle scale di un Palazzo di Giustizia,
nonostante un goffo tentativo di scimmiottare la vergogna delle monetine del Raphael da
parte della piccola folla che si raduna davanti al Quirinale. Finisce invece come una crisi
di governo qualsiasi, con un atto istituzionale, le dimissioni nelle mani del Capo dello
Stato, e un comunicato ufficiale: «Il presidente del Consiglio ha espresso viva
preoccupazione per l’urgente necessità di dare puntuali risposte alle attese dei partner
europei». Finisce con il sostegno parlamentare senza condizioni al successore Mario
Monti. Finisce con l’addio alla storica alleanza con Bossi (pensate un po’, la Lega voleva
un governo Alfano). Poteva andare diversamente? Sì che poteva. Nel mondo
berlusconiano molti arditi invocarono l’ultima battaglia. Gli ex di An firmarono documenti
per chiedere elezioni subito. Al teatro Manzoni di Milano, Ferrara, Feltri e Sallusti
implorarono il gran rifiuto in nome della sovranità popolare: «Si usa lo spread per
frenare la democrazia». Tesi sulla quale Brunetta ha poi costruito una fortuna
pubblicistica durata anni. Decise invece Berlusconi, e la sua decisione ebbe una tragica
grandezza. Forza Italia non s’è ancora ripresa, ma l’Italia un po’ meglio sta. Fu libero
nella scelta? La pressione internazionale, dei mercati e dei governi, fu fortissima. Altro
che complotto. Avveniva alla luce del sole. L’8 novembre, a fine giornata, Barack Obama
lo dichiarò apertamente: «I cambiamenti nei governi greco e italiano sono positivi, i
nuovi governi attueranno le riforme necessarie». Ma fu Berlusconi a riconoscere,
dimettendosi, di non poter dare quelle «puntuali risposte» che il mondo chiedeva
all’Italia. Fu dunque una scelta certo obbligata, ma non di meno saggia, gestita con un
senso dello Stato del quale non gli è stato reso abbastanza merito. Nel novembre di due
anni dopo il Senato votò per la sua decadenza da parlamentare, a scrutinio palese e
senza consentirgli il ricorso alla Consulta contro la legge Severino che è stato invece
possibile per i sindaci de Magistris e De Luca. Forse per questo neanche Berlusconi
rivendica più quel momento vissuto da uomo delle istituzioni, e preferisce anzi
presentarlo come un atto non libero, frutto di una coercizione. Questo mancato reciproco
riconoscimento non è estraneo all’esplosione del bipolarismo italiano e ai suoi guai
attuali, e meriterebbe un serio lavoro di revisionismo storico, col passare degli anni.
LA REPUBBLICA
Pag 7 I cattolici divisi alle urne. Sì dalle Acli, Family Day contro di Paolo Rodari
La Cei non si schiera, ma nella base si scontrano visioni opposte. Un asse che va da
Gandolfini a padre Zanotelli è contro la riforma
Roma. I cattolici si avvicinano divisi al referendum costituzionale. Le parole del cardinale
Bagnasco di lunedì che non dava indicazioni di voto ma invitava a non sottovalutare il
referendum stesso mostrano anche la volontà di rispettare opinioni differenti. Certo è
che fra le gerarchie, e soprattutto nella base, c'è chi condivide - anche se non è la
maggioranza - motivazioni e argomenti dello schieramento per il No. Da una parte il
mondo del Family Day con il "Comitato Difendiamo i nostri figli" guidato da Massimo
Gandolfini ha promosso una decisa campagna per il no sotto il simbolo "Famiglie per il
No" giurando, ma non tutti gli credono, che non si tratta di rivalsa contro l’approvazione
delle unioni civili: «Il nostro - ha detto - è un giudizio politico, ma non è una ripicca o
una vendetta». Dall'altra, la rete cattolica di base e collaterale alla sinistra unitasi sotto il
nome di «Cattolici del No» - da Anna Falcone ad Alex Zanotelli, da Domenico Gallo a
Nicola Colaianni fino ad Adista e Raniero La Valle - vota no perché «la posta in gioco non
è il Senato ma è l' abbandono della Costituzione vigente e la sua sostituzione con un
sistema di democrazia dimezzata». Se i vertici della Cei mantengono un profilo
prudente, altrove si ha più coraggio. Indirettamente, un endorsement per il Sì viene
dalla Civiltà Cattolica, la rivista dei gesuiti i cui testi non escono senza il placet della
segreteria di Stato vaticana. Il «successo» del referendum sulla Costituzione è
«auspicabile», scrive padre Occhetta nell'ultimo numero. Anche se non si tratta di un
appello né di una indicazione di voto, l'articolo offre un orientamento per un
discernimento a una riforma che viene nella sostanza promossa. Non a caso è
rammentata la frase del presidente della Bce, Mario Draghi, che a Davos ha detto:
«Sono i governi a dover fare le riforme tenendo conto del momento economico». E, a
seguire, le parole di Mattarella che l'11 febbraio scorso alla Columbia University spiegò:
«Dopo anni di dibattito il Parlamento sta per approvare un' importante riforma della
Costituzione». I grandi movimenti e le associazioni cattoliche al Sì e al No privilegiano
l'impostazione "conoscitiva" di Bagnasco. Così l'Azione Cattolica che cerca di diffondere
una conoscenza tra i giovani e gli adulti in merito al significato del referendum stesso e
alle sue conseguenze. Anche Comunione e Liberazione si guarda bene dal dare
indicazioni di voto, seppure al suo interno le posizioni siano frastagliate e riflettano, e
non da oggi, una eterogeneità di vedute sull'attuale governo. La parola d' ordine di chi
guida il movimento è capire e poi votare liberamente, in scia anche a quella
"depoliticizzazione" chiesta da Francesco a tutta la Chiesa. Diverso è l'umore della base.
Non è un mistero che molti ciellini, con loro anche tanti neocatecumenali, aderiscono alle
battaglie di Gandolfini. Ed è su queste battaglie che i movimenti storicamente più
conservatori vivono al loro interno le divisioni più importanti. «Cosa votano le suore» è il
titolo a effetto messo in pagina dall' agenzia dei vescovi Sir, dove la risposta, anche qui,
non c'è: oltre trecento religiose e madri generali si incontrano in questi giorni per
partecipare al dibattito tra Giovanni Maria Flick, presidente emerito della Corte
costituzionale, e padre Occhetta. Obiettivo dichiarato: prepararsi all' appuntamento
referendario. Ma da che parte votare nessuno lo accenna. Uniche eccezioni sembrano
essere le Acli e il Movimento Cristiano Lavoratori. All' interno delle prime il dibattito è
vivo e in via ufficiale non è ancora emersa una posizione, ma nell' ultimo raduno il
presidente Rossini ha dato indicazione di votare per il Sì. Mentre decisamente per il No è
la guida di Mcl, Carlo Costalli.
LA STAMPA
Le chance dei candidati di Gianni Riotta
Alla fine il temuto Circo America non c’è stato, Hillary Clinton e Donald Trump, la strana
coppia con la prima donna ex First Lady democratica e il primo magnate populista
repubblicano, hanno tenuto un dibattito per la Casa Bianca tutto sommato senza eccessi.
I primi sondaggi e i focus group, dalla tv progressista Cnn al pollster repubblicano Frank
Luntz, assegnano il favore di pubblico alla Clinton, con Trump apparso freddo e restio,
ma queste rilevazioni, unite al clamore dei media tifosi di Hillary, non sono definitive. Nel
2004 l’elegante democratico Kerry prevalse nei dibattiti sul rigido presidente Bush figlio,
e venne sconfitto a novembre, nel 2012 il suadente Romney mise ko nel primo dibattito
un deconcentrato Obama, solo per perdere poi al voto. Trump sconta il dilemma
strategico, che lo ha portato a cambiare per due volte la squadra di consiglieri: se «fa il
Trump», si scatena, eccede, imbizzarrisce in battute grevi su sesso e razza, la sua base
si scalda, gli astenuti ascoltano e guadagna consensi. Se si comporta «da presidente»,
«posso chiamarla Signora Segretario di Stato?» ha chiesto cortese a Hillary, se
argomenta da politico tradizionale, emergono la sua impreparazione sui temi e il
carattere irruento, mal tenuto a freno tra sbuffi, forse dovuti al raffreddore, e sorsate
d’acqua. I social media rivelarono la stessa sindrome in Italia nel 2014 quando Beppe
Grillo, fondatore 5 Stelle, concesse un’intervista classica a Bruno Vespa, scambiando
perfino l’high five con il conduttore, una prova di stile per l’ex comico che la base
bellicosa non gradì alle urne delle Europee. Clinton è partita male, spaventata, il
moderatore Lester Holt, intimidito alla vigilia dalle opposte macchine di propaganda, ha
lasciato che Trump la interrompesse senza sosta, (51 volte in 90 minuti, e ci lamentiamo
dei dibattiti italiani…), e sul tema del commercio internazionale, il trattato Nafta che i
maschi bianchi, base di Trump, accusano di rubare posti agli operai, è stata in difficoltà.
«Tutto colpa mia?» ha esclamato alle corde, e Trump le è saltato addosso «Perché no?».
Ma quando si è parlato di terrorismo, Isis, politica estera, essere o no pronti alla Casa
Bianca, donne, neri, ispanici, è venuta fuori la vecchia combattente Hillary, che ha
tenuto testa alla bufera mediatica sui tradimenti del marito Bill e per undici ore, in
diretta tv, ha controbattuto alle domande feroci della Commissione parlamentare sulla
strage di Bengasi. Una Hillary secchiona, che non incanta, non fa scendere in piazza i
fan, ma rassicura un paese spaccato a metà. Lì Trump, per la prima volta, si è visto
quasi spaventato dal successo, aveva cominciato la campagna 2016 per gioco, come
altre volte, e si è trovato davanti la presidenza, lontano solo 1,3% nei sondaggi dalla
vittoria. L’audience dei network è calcolata in 31,2%, man mano che affluiscono i dati
dalle reti via cavo e streaming si potrebbe superare il record degli 80 milioni di CarterReagan 1980. A Trump restano i sondaggi online, che danno a lui il successo.
Diventeranno voti i «like» televisivi per Hillary? Trump deciderà di far saltare il tavolo e
tornerà «Trump», provocando Hillary sull’adulterio di Bill, sulla malattia, i compari di
Wall Street? Possibile, come pure possibile che il candidato repubblicano - con il partito
ormai schierato a tappeto, salvo un pugno di intellettuali, leader, ex diplomatici - si
accontenti dell’insperata nomination, e si lasci sconfiggere da «statista», per spendere
quindi, nel brand e in tv, la fama globale acquisita. Hillary Clinton vede premiata la sua,
rischiosissima, strategia, consolidare la base del marito e di Obama, cancellare i dubbi
sulla salute, coccolare i radicali di sinistra cari al senatore Sanders, chiedere scusa per lo
scandalo mail segrete, non alzare i toni, sperando di essere eletta solo perché «non è
Trump». Ce la farà? Può darsi, Trump potrebbe avere raccolto il massimo del consenso
e, senza exploit rabbiosi, declinare. Ma il rancore per l’economia e lo status perduti nel
paese che ha animato le crociate di Trump a destra e Sanders a sinistra, non è sedato,
brucia sotto la cenere tv in America. Hillary può vincere le elezioni contro questo
movimento ostile, ma se pensasse di governare ignorandolo, come ha fatto Obama,
aprirà una stagione aspra per il partito democratico.
AVVENIRE
Pag 1 Fa buio a Occidente di Vittorio E. Parsi
Questa mediocre corsa alla Casa Bianca
Come ampiamente previsto, Hillary Clinton ha 'vinto' il dibattito nei confronti di Donald
Trump: è riuscita a dimostrare di essere più competente del rivale (e questa era la parte
facile) ed è riuscita a mettere in evidenza che, in quanto a bugie e mezze verità, i due
alla fine si equivalgono. E qui ha segnato punti importanti: perché la fama di bugiarda
ha sempre accompagnato la ex First Lady degli Stati d’Uniti d’America, fin dai tempi
degli scandali immobiliari in Arkansas. Del resto è facile ipotizzare che un Trump
presidente e commander in chief della superpotenza potrebbe essere una iattura per il
mondo intero. Molto più difficile convincere che Hillary sarebbe una benedizione. Dal
mediocre dibattito di ieri, che in alcune delle espressioni e delle mimiche immortalate sui
social media ricordava il miglior Dario Fo del 'Mistero Buffo', è emerso con evidenza
perché i due candidati risultano essere i meno popolari, convincenti e rispettati della
recente storia americana. Sembrano usciti da quelle caricature delle presidenziali
americane del primo Ottocento, quando il «grande Paese» era ancora una piccola e
quasi insignificante nazione, ai confini del mondo conosciuto, con una Dichiarazione di
Indipendenza, una Costituzione e dei Padri Fondatori 'sovradimensionati' rispetto alla
miseria della politica repubblicana. Il fatto che Hillary sia una donna non è abbastanza
per far emergere la sua candidatura al di fuori del Guinness dei primati. Donna o no, non
c’è nulla di nuovo nella sua piattaforma elettorale e nel suo programma che la renda
distinguibile dai suoi predecessori maschi. È e resta fino in fondo un membro
dell’oligarchia che sempre più governa gli Stati Uniti e ormai il Pianeta. E per conquistare
la Casa Bianca, Hillary dovrà riuscire a portare verso di sé un bel po’ di quel voto antiestablishment che anche in America appare sempre più disposto a mobilitarsi guardando
'contro chi' si vota, e non 'a favore di chi'. Certo è desolante lo spettacolo offerto dalla
«più antica democrazia moderna», non solo per il livello degli interpreti, ma anche per la
pochezza delle idee. D’altronde, non è che gli 8 anni di Barack Obama abbiano lasciato
chissà quale eredità (Guinness dei primati a parte, ancora una volta). Soprattutto in
politica estera, chiunque raccoglierà il testimone dal «primo presidente nero» ne avrà di
corrente da rimontare. Lo scempio della Siria e, più in generale, la polveriera
mediorientale sono a ricordarci brutalmente il fallimento della scommessa più ambiziosa
e innovativa giocata da Obama. Il nuovo inizio delle relazioni tra gli Usa e il mondo
musulmano si è infranto sullo scoglio delle primavere arabe, che dal messaggio di
Obama all’Università del Cairo trassero, anche, ispirazione. Oggi l’America non sa offrirci
altro che l’alternativa delle proprie bombe «intelligenti e democratiche» rispetto a quelle
«omicide e autoritarie » dei russi. Riuscirà il nuovo presidente (maschio o femmina che
sia) a portarci fuori dalle secche di una politica, vecchia, sanguinaria e inconcludente?
Difficile crederlo, se guardiamo al record di Hillary (sì all’invasione dell’Iraq, sì alla
guerra in Libia, sì ai bombardamenti in Siria, grande amicizia coi sauditi e con gli
israeliani e totale inimicizia per gli iraniani, palestinesi non pervenuti) o alla totale,
penosa e pericolosa impreparazione di Donald. E per quanto riguarda i rapporti con la
Russia, come fare a evitare che la nuova Guerra fredda (assai meno motivata
dell’originale) diventi la cifra di interpretazione dei rapporti tra Washington e Mosca?
Anche qui non si è sentita nessuna idea degna di nota, né l’altra notte né nei mesi
precedenti. E non credo che nessuno possa essere rassicurato dall’amicizia ostentata tra
Putin e Trump. Sui temi economici, infine, è buio pesto, mentre s’avanza la sensazione
che i vari Ttip e Ttp possano non convenire a nessuna delle popolazioni coinvolte, ma
moltissimo a pochissimi membri dell’oligarchia di cui parlavamo poc’anzi. Insomma, per
vederne, ne vedremo; ma molto difficilmente ne vedremo delle belle: non tanto da qui a
novembre, ma soprattutto dopo.
Pag 2 Prima il di qua e il di là dal ponte di Diego Motta
Il ritorno del progetto sullo Stretto e le troppe incompiute
Nel Paese delle cattedrali nel deserto, quale spazio può esserci per il Ponte sullo Stretto?
E come va interpretata, dunque, l’ultima sortita del premier che ha (ri)tirato fuori dal
cassetto un piano già studiato a suo tempo da Silvio Berlusconi, sventolando 100mila
possibili nuovi posti di lavoro? Ci sono sicuramente diversi livelli di lettura, da quello
economico legato alla necessità di progetti–simbolo in grado di fare da volano per
rilanciare la crescita, sin qui al palo (inviando contemporaneamente un messaggio a
grandi investitori pubblici e privati) a quello più strettamente politico, vista la
coincidenza tra l’annuncio di Matteo Renzi e l’avvio della campagna referendaria su cui si
giocherà buona parte del futuro del governo. Se vogliamo però circoscrivere il campo
d’analisi all’impatto che un’opera del genere potrebbe avere su Sicilia e Calabria, non
possiamo non sottolineare alcuni elementi, peraltro da sempre condivisi negli ambienti
dell’esecutivo. Le due Regioni più interessate dal Ponte guidano la classifica delle opere
incompiute, secondo l’ultimo monitoraggio compiuto dal Ministero delle Infrastrutture e
dei Trasporti. La Sicilia in particolare, in un Sud penalizzato, soffre di uno storico gap
rispetto al resto del Paese quanto a realizzazione di strade, viadotti e ferrovie, ma anche
di acquedotti, dighe e ospedali. Per non parlare dell’immane lavoro di messa in sicurezza
di un territorio colpito a più riprese da frane, alluvioni e smottamenti. In altre parole, la
“questione infrastrutturale” è forse il capitolo più spinoso della storica “questione
meridionale”, da sempre alle prese con la pervasività del fenomeno mafioso in tutte le
sue forme, con un’infinita lotta alla corruzione e ai clientelismi e con una crescente
richiesta di trasparenza e legalità da parte della società civile. Forse un criterio di
giudizio interessante, per valutare a priori la bontà di un progetto che ha già suscitato
anche ironie e polemiche, nel Palazzo così come nella Rete, può essere proprio
l’interesse più alto: quello del grado di coinvolgimento del territorio locale. In questo
senso, un’opera come il Ponte può arrivare a conclusione di un percorso, piuttosto che al
suo inizio. La priorità adesso è completare ciò che è stato lasciato a metà, di qua e di là
dal ponte eventuale, e che le stesse comunità reclamano giustamente da decenni.
Pag 3 Cristiani e libertà religiosa nell’Iran che non ti aspetti di Luca Foschi
Tra antichi vincoli, discriminazioni e nuove aperture
Dario ha una destrezza nell’unire i luoghi delle chiese cristiane che non viene solo dai
molti anni trascorsi alla guida di un taxi. La ragnatela descritta nel traffico delirante di
Teheran, e le storie che la sottendono, sembrano sgorgare dall’istinto profondo
dell’essere minoranza. Le costruzioni sfilano ora aperte sul tessuto urbano, come la
cattedrale armena di S. Sarkis, ora dimesse, dietro un muro, come la chiesa domenicana
di S. Abramo. «Questa è piazza Imam Khomeini, ma tutti ancora la chiamano Sepah,
come a tempi dello Shah. I cattolici, a differenza di altre chiese cristiane o di altre
minoranze, come quella Bahá’í, vivono in libertà. Certo, prima della rivoluzione, anche
sotto la dittatura, era diverso», dice Dario, che in questi giorni ospita la figlia trentenne,
volata negli Stati Uniti dopo un rapido matrimonio civile con un iraniano sciita, in
Turchia. «I rapporti fra la Santa Sede e il governo iraniano sono eccellenti. Lo dimostra
la visita di Rohani a Roma, primo segnale di un’apertura progressiva», spiega Leo
Boccardi, nominato nunzio apostolico in Iran nel 2013, proprio quando la corrente
riformista del 'Movimento Verde', nata dopo le discusse elezioni del 2009, riemergeva,
temperata, portando Rohani alla carica di primo ministro. «Le relazioni diplomatiche
vanno intensificandosi, così il dialogo interreligioso, ben rappresentato dal gemellaggio
esistente fra la Pontificia Università Lateranense e l’Università di Qom, secolare centro di
studio sciita dove io stesso ho recentemente tenuto una lectio sui rapporti fra stato e
chiesa. I moderati nel governo iraniano sanno che il contatto con la modernità è
inevitabile». Una dialettica di cui l’universo cittadino iraniano sembra offrire
manifestazioni differenti, dalle notti brave della gioventù dorata a «un profondo
desiderio del trascendente che non sia intrecciato alle dinamiche politiche», afferma
Boccardi dopo aver citato il discorso di Paolo ad Atene. Una ricerca identitaria che
guarda al postmoderno quanto alle radici preislamiche del Paese, coincidendo spesso con
i ceti che hanno i mezzi per aggirare i limiti imposti dal governo, e l’opposizione
silenziosa. Le conversioni, proibite, sono numerose, nell’ordine del milione. Molti sciiti
bussano alle porte cristiane. Ma la costituzione, e ancor di più la prassi governativa,
sono chiare: la libertà è riconosciuta a cristiani, ebrei e zoroastriani, che godono
complessivamente di cinque seggi nell’assemblea parlamentare, il Majlis. Il proselitismo
è proibito e le conversioni punite con la pena di morte, sebbene le punizioni capitali
siano cessate da tempo. «Quanti secoli sono stati necessari in Europa perché si
conquistasse la totale libertà di confessione? Qui non siamo soggetti a nessuna
restrizione. Certo, è necessario tenere a mente che siamo ospiti della Repubblica
Islamica» afferma Boccardi. «Molti si lamentano dell’impossibilità di costruire nuove
chiese. Ma per chi?», si chiede in nunzio, che raccoglie una comunità di appena duemila
individui, sopravvissuti o eredi delle famiglie commercianti europee attive ai tempi dei
Reza Pahlavi. «Esistono – aggiunge – molti preconcetti nei confronti dell’Iran. Sia
sufficiente guardare all’implementazione degli accordi sul nucleare, che Teheran segue
con diligenza. I patti devono essere rispettati». Il giudizio sulla libertà religiosa nella
repubblica khomeinista varia con la tradizione politica e diplomatica. Nel 2014 un gruppo
di deputati britannici ha promosso la stesura di un report, non approvato dalle camere,
intitolato 'La persecuzione dei cristiani in Iran'. Discriminazioni, arresti, torture ed
espropriazioni vengono descritte attraverso l’esperienza, anonima, di numerosi
convertiti. «Le promesse non mantenute» di Rohani, che in campagna elettorale aveva
dato ampio spazio alle proposte liberali, sono al centro delle accuse. Nella strategia del
primo ministro, educato in Gran Bretagna ma organicamente legato all’establishment
religioso, il miglioramento della condizione economica derivata dall’accordo sul nucleare
concederà nella seconda parte del mandato lo spazio per smussare gli eccessi creati dal
populismo reazionario del suo predecessore Ahmadinejad. Molti osservatori, anche
interni al mondo cristiano, sottolineano come la repressione di molte chiese inclini al
proselitismo sia avvenuta su indicazione degli stessi rappresentanti cristiani (due armeni
e un assiro) nel parlamento. Le piccole comunità, che nelle svariate stime demografiche
non superano mai, sommate, i 300.000 individui, sono guidate da un’antica solidarietà
etnica che oggi si manifesta nella rigorosa fedeltà al governo, garante di interessi sociali
ed economici. «I miglioramenti esistono. I pastori non vengono più rapiti o uccisi, non
abbiamo più i servizi segreti che ci controllano e le pratiche burocratiche sono diventate
meno umilianti», racconta Mosis, 'manager' della Chiesa Evangelica Coreana che nega,
dopo qualche istante di esitazione, ogni rapporto con le 'chiese casalinghe', i centri
clandestini di preghiera e studio per i convertiti, severamente soppressi dalla polizia.
Mosis, cristiano armeno di Isfahan, ha riabbracciato la chiesa dopo un lungo periodo di
sbandamento. Fondamentale nella sua rinascita l’intervento del padre protestante
Henry, lo stesso capace di trovargli un impiego nella chiesa coreana. Ora coordina i
lavori di ristrutturazione dal vasto edificio, confinante con l’altrettanto appartata e
silenziosa chiesa protestante americana di St. Peter, in Qavam street. «Riceviamo i fondi
unicamente dai nostri fedeli. Sì, alcuni sono abbienti», concede Mosis riferendosi alla
piccola comunità di 60-70 persone. Fuori dal cerchio dei diritti costituzionali e delle
radicate attitudini etniche, i cristiani soffrono l’emarginazione nei posti di lavoro, nelle
università e nel grande edificio delle cariche istituzionali. Il principio discriminatorio,
suggerisce tuttavia il nunzio Boccardi, non ha nulla a che vedere con il dogma religioso,
ma è piuttosto legato alla preponderanza numerica sciita, un’egemonia culturale ed
economica che affonda nei secoli. Le 'church houses' descritte nel rapporto voluto dai
parlamentari britannici rappresentano spesso il primo passo per una fuga dalle
costrizioni economiche e sociali. Ricevono finanziamenti da ONG anglicane, protestanti
ed ebraiche, accendendo nel governo di Teheran l’antico incubo della sovversione
occidentale, realizzata con successo nel 1953 con il colpo di stato che cancellò il progetto
liberale di Mossadeq. Il battesimo è talvolta il primo passo per ricevere la green card in
America o il permesso di soggiorno in Germania. «Quando passo davanti alle chiese mi
segno rapidamente se non c’è nessuno intorno», racconta Ciro, 30 anni, toccato dal
cristianesimo durante gli anni di studio in Europa, dove vorrebbe tornare una volta
attraversato il labirinto della burocrazia. «Voglio avere un legame con dio che non abbia
a che fare con il potere, coltivare una dimensione spirituale pura. Quella che dovrebbe
essere un’intima libertà inalienabile è proibita», racconta seduto in una panchina
nell’ordinato e rigoglioso nord della capitale, abbassando il tono della voce ogni volta che
una coppia di militari o poliziotti, costanti nel paesaggio della metropoli, gli sfila davanti.
«Non ho il coraggio di unirmi alle chiese clandestine. Ho visitato quelle ufficiali: 'Ti
rimane il battesimo del cuore', mi ha detto il sacerdote. Cioè la fede vissuta in silenzio».
IL FOGLIO
Pag 1 Vescovi al referendum di Matteo Matzuzzi
La spaccatura nella Cei impedisce a Bagnasco di dare la linea sulla riforma costituzionale
Roma. Il cardinale Angelo Bagnasco, in uno dei suoi ultimi interventi ufficiali da
presidente della Conferenza episcopale italiana (il secondo mandato scadrà nel 2017),
ha parlato di referendum solo al termine della sua lunga prolusione tenuta lunedì davanti
al Consiglio permanente riunito a Roma, nel quartier generale sull'Aurelia. Poche battute
che non sono un' indicazione di voto - la Cei non lo fa più da tempo - ma che neppure
forniscono un orientamento chiaro per i cattolici. "Il paese è atteso per un importante
appuntamento, il referendum sulla Costituzione. Come sempre, quando i cittadini sono
chiamati ad esprimersi esercitando la propria sovranità, il nostro invito è di informarsi
personalmente, al fine di avere chiari tutti gli elementi di giudizio circa la posta in gioco
e le sue durature conseguenze". Non una parola di più. Se la volontà di escludere ogni
tipo di ingerenza - vuoi per dettami papali, vuoi perché quell'epoca è finita - è una delle
ragioni che spiegano la posizione interlocutoria di Bagnasco, l'altra è che era impossibile
dare una linea quando la base dei vescovi è divisa tra più anime incapaci - sul
referendum - di trovare una mediazione. Da un lato ci sono coloro che tutto vogliono
meno che la rottura (o comunque alimentare tensioni) con il governo, dall' altro è
numeroso il gruppo dei pastori convinti che le ragioni espresse da tempo e
pubblicamente da Massimo Gandolfini, leader del Family Day dello scorso gennaio al
Circo Massimo, siano sacrosante e quindi degne d'essere perorate in ogni sede. Ma c'è
una terza pattuglia, minoritaria eppure non silenziosa, che la Costituzione non la vuole
toccare, un po' come l'Anpi o come - forse l'accostamento è più opportuno - con il fronte
che ha sbandierato don Giuseppe Dossetti quale presunto sostenitore della causa del no
al referendum (Pierluigi Castagnetti, che Dossetti l'ha conosciuto, ha scongiurato mesi fa
di non sfruttare il nome dell' ispiratore del cattolicesimo politico italiano nella battaglia
per la riforma varata dal governo Renzi). Di certo uno scontro con il governo la Cei non
lo vuole ora che si appresta, nella primavera del prossimo anno, a eleggere i suoi nuovi
vertici dopo il decennio di Bagnasco. Saranno le prime elezioni con il nuovo Statuto, e
cioè con la terna di nomi votati dall'assemblea e proposta al Papa, che sarà libero di
scegliere il presidente in quel lotto o di guardare altrove, come tante volte ha fatto in
questo triennio di pontificato allorché si trattava di scegliere i vescovi per le varie sedi
diocesane. Soprattutto, la maggioranza dei presuli italiani non vuole alimentare possibili
dissidi con Palazzo Chigi, memore del logoramento che si ebbe solo un anno fa nel lungo
iter del ddl Cirinnà sulle unioni civili, con interi mesi passati a discutere se e in che modo
appoggiare iniziative di popolo contro il provvedimento che poi è divenuto legge,
creando spaccature trasversali e rimpianti per i tempi passati in cui l'attivismo più o
meno muscolare era la consuetudine. Nessuna volontà di intromettersi anche perché non
è passata inosservata la benedizione arrivata la scorsa primavera dalla Civiltà Cattolica,
la rivista dei gesuiti che va in stampa solo previo placet vaticano. In un lungo articolo
firmato da padre Francesco Occhetta, infatti, si analizzavano i pro e i contro della
riforma, accompagnando il lettore sulla via d'un discernimento che consentisse una
scelta finale. La conclusione, però, era assai chiara: "Rispetto a tali punti di perplessità,
va segnalato che una moderna cultura della 'manutenzione costituzionale', senza
banalizzare l'importante scelta della revisione, non sacralizza tutte le soluzioni adottate e
può comunque consentire, in caso di auspicabile successo del referendum, successive
modifiche migliorative che tengano conto delle critiche più motivate".
IL GAZZETTINO
Pag 1 Elezioni Usa, l’influenza dei “terzi incomodi” di Massimo Teodori
Mentre discutiamo l’effetto che avrà nella corsa alla Casa Bianca il primo dibattito
televisivo tra Hillary Clinton e Donald Trump, rischia di sfuggirci l’influenza dei cosiddetti
“terzi candidati” – il libertario Gary Johnson e la verde Jill Stein – sulla vittoria di uno dei
due candidati principali. Questa volta, invece, è probabile che i terzi incomodi peseranno
sul risultato finale. È vero che il sistema bipartitico degli Stati Uniti è ben saldo: da 150
anni sono eletti presidenti solo i candidati democratici o repubblicani. Ma i “terzi
candidati” hanno spesso insidiato l’egemonia dei partiti storici. Chiunque voglia infatti
concorrere alla Presidenza, al Congresso o ai Governatorati deve passare attraverso la
selezione interna ai due partiti tradizionali come ha fatto Bernie Sanders che nasce da
senatore indipendente. Ma una cosa è vincere la carica istituzionale, e un’altra è influire
sulla vittoria altrui. I candidati dei ”terzi partiti” raccolgono generalmente un piccolo
gruzzolo di voti (diciamo dall’1 al 3%) che, però, in alcuni casi risulta decisivo nel
danneggiare il candidato principale politicamente più vicino: il terzo candidato di destra
fa perdere il repubblicano e, viceversa, il candidato minore di sinistra fa perdere il
democratico. Le recenti presidenziali sono ricche di esempi. Nel 1968 il candidato
democratico segregazionista del Sud, George Wallace, con 10 milioni di voti popolari (e
46 voti elettorali) determinò la vittoria di Nixon che ebbe gli stessi voti del democratico
Humphrey. Nel 1992 il candidato indipendente di destra, Ross Perot, con venti milioni di
voti determinò la vittoria del democratico Bill Clinton che ottenne 45 milioni di voti
contro George H.W. Bush padre che si fermò a 39 milioni. Otto anni più tardi accadde il
contrario. Il repubblicano George W. Bush vinse con 50,4 milioni di voti (e 271 voti
elettorali) contro i 51 milioni di voti (e 266 voti elettorali) del democratico Al Gore
perché il verde Ralph Nader gli sottrasse 2,8 milioni di voti in alcuni Stati decisivi.
Quest’anno l’incidenza dei terzi candidati potrebbe essere ancora più significativa perché
sia Clinton che Trump sono sgraditi alla maggioranza degli americani. I sondaggi danno
al candidato del partito libertario quasi il 10% delle preferenze e alla verde intorno al 34%, cifre che rappresentano delle percentuali senza precedenti ad eccezione della
performance di Ross Perot venticinque anni fa. E’ probabile che le intenzioni di voto per i
verdi provengano da gruppi di democratici scontenti, e che le opzioni per il libertario
siano per lo più dei repubblicani anti-Trump anche se possono includere fasce di giovani
progressisti sensibili ai diritti civili. È significativo che il rapporto percentuale oggi
stimato tra Clinton e Trump risulti diverso se si includono o si escludono i candidati
libertario e verde. Chi sono i “terzi candidati”? Gary Johnson è stato governatore
repubblicano del New Mexico (1995-2003), quindi è passato alla testa del partito
libertario per cui ha corso alle presidenziali del 2012 ottenendo l’1% del voto popolare.
Si dichiara favorevole alla liberalizzazione della marijuana (che produce), ai matrimoni
gay, alla scelta individuale sull’aborto e, in economia, al taglio radicale del bilancio
federale, a zero tasse per le corporation ed al libero commercio internazionale. Nel
programma della candidata verde, il medico di Harvard Jill Stein, si propone la lotta alla
disoccupazione ed alla povertà, il controllo del clima, l’economia sostenibile e i diritti
umani. I profili dei due candidati sarebbero del tutto trascurabili, come nella maggior
parte delle elezioni, se le presidenziali del 2016 non costituissero un caso alquanto
bizzarro. Le alte percentuali che i sondaggi attribuiscono al libertario e alla verde
rappresentano un segnale della profonda disaffezione verso la politica tradizionale di una
massa non trascurabile di elettori che si indirizzerà sulla terza scelta, con un effetto negli
Swing States che potrà essere determinante per la Casa Bianca.
Pag 1 Il piano segreto: dal 2018 tagliare l’Irpef di Alberto Gentili
Matteo Renzi l’ha detto chiaro anche l’altra sera, ratificando la data del 4 dicembre.
«Non ci sarà altra occasione. La partita del referendum è adesso». E si tratta, per il
premier, della partita della vita. Così, nei prossimi due mesi, Renzi ricorrerà a tutte le
armi a disposizione per tentare di vincerla. Compresi gli annunci ad effetto di
berlusconiana memoria: è di ieri il rilancio del progetto per il Ponte sullo Stretto di
Messina. Molte delle mosse che vuole giocarsi il premier, per provare ad aumentare la
propria popolarità e convincere gli indecisi a votare “sì” alla riforma costituzionale, sono
di natura economica. Con Renzi che punta su misure secondo alcuni azzardate (è
sempre di ieri il rifiuto dei tagli lineari nel settore della Sanità: «Abbiamo già tagliato
troppo»). E con il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, costretto a mediare con i
tecnici di Bruxelles, che consiglia prudenza. Un tira e molla che nelle ultime ore e anche
ieri, durante le battute conclusive della scrittura del Documento di economia e finanza
(Def), avrebbero fatto lievitare gli attriti. Ma a sentire Palazzo Chigi e il dicastero di via
XX Settembre, «non c’è alcuna tensione, il ministro istruisce i dossier e avanza proposte.
Poi le scelte politiche le compie il premier». Quel che è certo, è che Renzi intende
sfruttare al massimo la legge di stabilità. Sia per spingere la crescita, sia per conquistare
elettori. Così, con ogni probabilità, sul fronte della flessibilità si seguirà il copione
dell’anno scorso: il rapporto deficit-Pil inserito nel Def sarà suscettibile di variazioni in
corso d’opera. Con un aumento di qualche decimale (c’è chi dice lo 0,3-0,4%) a ridosso
del 4 dicembre, frutto di una trattativa con Bruxelles che proseguirà nelle prossime
settimane, in modo da consentire al premier di inserire altre misure espansive nella
legge di bilancio in quei giorni in discussione alla Camera. Tra queste, la principale
riguarderà il taglio dell’Irpef nel 2018. Renzi, per essere credibile, non si accontenta
dell’annuncio. Non gli basta lanciare la promessa. Vuole mettere la sforbiciata nero su
bianco, come ha fatto l’anno scorso con la riduzione dell’Ires (la tassa sugli utili
d’impresa). E con ogni probabilità lo farà a fine novembre con un emendamento alla
legge di stabilità. L’ipotesi più probabile è la riduzione di un punto dell’aliquota del 38%
che riguarda i redditi oltre i 28 mila euro. Costo: 3 miliardi. Altro colpo a sorpresa
potrebbe essere un’ulteriore riduzione del cuneo fiscale, con una nuova riduzione dei
contributi sul lavoro a tempo indeterminato. Che il taglio dell’Irpef sia un chiodo fisso di
Renzi è chiaro da tempo. Il premier ha trascorso l’estate a dire che «abbasserà le
tasse». «Perché è giusto e perché serve ad aumentare crescita e competitività». E per
farlo sarebbe pronto ad affrontare anche una procedura d’infrazione, nel caso in cui la
Commissione dovesse mostrarsi più rigida del previsto. «Noi la flessibilità ce la
prendiamo e basta, in autonomia», ha detto Renzi lunedì sera su Rete4, ospite di Del
Debbio. Con un precedente che lo rassicura: Bruxelles in luglio ha graziato Spagna e
Portogallo sospendendo le multe per deficit eccessivo. E con un problema che lo allarma:
Angela Merkel (con le elezioni federali ormai alle porte) ha chiesto a Jean-Claude
Juncker di mostrarsi meno generoso di quanto sia stato l’anno scorso. Non è dunque un
caso che Renzi spari ogni giorno un colpo d’avvertimento contro la Cancelliera:
«L’Europa deve ripartire dagli investimenti. Se la Germania ha un surplus commerciale
di 89 miliardi, non sta facendo solo male a se stesso, ma all’Europa», ha ripetuto ieri a
Milano. A caccia di crescita, ripresa dei consumi, e dei voti degli indecisi, Renzi accarezza
anche l’idea di un piccolo aumento delle pensioni minime. Scatto che si aggiungerebbe
alla prevista estensione della quattordicesima a tutti i pensionati sotto i mille euro
mensili. Ecco le parole del premier: «Oggi chi riceve 750 euro al mese viene concessa
una cosiddetta quattordicesima che vale 40 euro. Stiamo cercando di tirare su questo
limite per arrivare a 80 euro». Tutto dipenderà dalla flessibilità e da... Padoan.
LA NUOVA
Pag 1 Quant’è lontana l’America di Ferdinando Camon
Lo scontro televisivo tra i due candidati finali alla presidenza degli Stati Unuti è
importante per tutto il mondo. Ma non è uno strumento esattamente democratico. Uno
può essere più bravo come oratore, come attore, più esperto di tv, di masse, di
pubblico, ma può essere peggiore come governante. Noi ne abbiamo fatto la prova con
Berlusconi. La guerra per il potere ha due battaglie: la battaglia per vincere le elezioni e
la battaglia per governare. In America si sta combattendo la prima. Le previsioni
dicevano che Trump era in crescita e Hillary in calo, e che lo scontro televisivo avrebbe
segnato il sorpasso. È accaduto questo? No, il contrario. Sono fra quelli che ne restano
stupiti. Perché Hillary ha lottato e vinto sulla politica estera e Trump sulla politica
interna. Trump ha lamentato che l’America è in fase d’impoverimento, i posti di lavoro
calano, «lei Hillary sbandiera le sue soluzioni, ma è in politica da trent’anni, perché non
le ha mai applicate? Io farò cose incredibili, contro la fuoriuscita dei posti di lavoro, lei
non farà altro che aumentare le tasse». Hillary ha risposto di sì: «Io aumenterò le tasse,
ma ai ricchi». I due candidati puntano su due elettorati diversi e opposti: una sui poveri,
l’altro sui ricchi. Da noi tutti puntano sui cosiddetti moderati, che non si capisce chi
siano. Hillary vuole più tasse per i ricchi, perché? «Per giustizia sociale». Trump vuole
meno tasse per i ricchi, perché? «Per creare lavoro». Mai programma democratico e
programma repubblicano furono più chiari. Se vince Trump, non si potrà dire che ha
vinto il programma di Hillary, e viceversa. Da noi succede che sia al governo Renzi, e i
suoi nemici interni dicono che realizza il programma di Berlusconi. In America c’è una
destra e una sinistra, da noi non ci sono più. In America si vota per partiti e programmi,
da noi per uomini. Il moderatore americano modera veramente, non come da noi: pone
una domanda, come si risolve il problema delle aziende che vanno all’estero?, Trump
svicola, ma il moderatore lo richiama sul punto, e Trump risponde: «Bisogna impedire
che le aziende escano». Moderatore: «Lei non ha ancora divulgato la sua dichiarazione
dei redditi», e Trump: «Sarà divulgata», che non è una grande risposta. Poi a Hillary:
«Io pubblicherò la mia dichiarazione dei redditi quando lei pubblicherà tutte le email»,
che è una risposta di una disonestà assoluta: che significa, che se lei fa una scorrettezza
tu rispondi con una scorrettezza? Anche sulle armi lo scontro Hillary-Trump è lo scontro
Sinistra-Destra. Hillary: «Meno armi vuol dire più sicurezza», Trump: «No, più armi vuol
dire più sicurezza». «Con più armi tutti sparano» dice la Clinton, e Trump: «Adesso
sparano le gang e i clandestini». L’impressione di noi italiani è che se le due visioni del
mondo sono così opposte, ognuno dei due dovrebbe sbranare l’altro. Ma non succede
mai, ognuno è frenato. Da che cosa? Dalla paura di sbagliare, di sembrare impulsivo o
scomposto. E allora, sul piano dell’autocontrollo e della compostezza ha vinto Hillary.
Hillary agitava ambedue le mani, come un oratore classico, Trump martellava su e giù
con la mano destra, come un banditore d’asta. Ognuno sa che lo scontro non finisce qui,
è ancora lungo, durerà altri due incontri. I sondaggi istantanei dicono che ha vinto la
Clinton, circa 60 a 40%. Che cosa è mancato a Trump? Non può scatenarsi. Un Trump
che si scatena è un titano pericoloso, un Trump che non si scatena è un ometto
vulnerabile. Ma se va a governare, non potrà essere scatenato ma dovrà essere
controllato. Il governo è responsabilità. Il problema vien fuori subito, nel dibattito. Da
noi, vien fuori adesso con i grillini, ma si ripeterebbe con Salvini. La democrazia è una
cosa, la demagogia un’altra.
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