storia dei ceroni

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storia dei ceroni
"LA STORIA DEI CERONI"
di Don Domenico Mita (1632)
nel testo originale e nella versione dal latino
di Don GIANCARLO MENETTI
solo una breve nota al lettore di questo libro pubblicato in formato pdf.
Il libro rispetta scrupolosamente l’originale. Abbiamo qui riportato il libro in formato elettronico
come lo aveva preparato Don Giancarlo Menetti. Si differenzia dal formato cartaceo perché non
contiene le foto e le immagini che Don Menetti ha poi fornito alla tipografia per integrarlo.
Per chi lo desiderasse, la Consorteria dei Ceroni ha ancora alcune copie del libro.
Pier Giacomo Rinaldi Ceroni
Li 02 aprile 2016
"LA STORIA DEI CERONI"
di Don Domenico Mita (1632)
nel testo originale e nella versione dal latino
di Don GIANCARLO MENETTI
PREMESSA
Se il mio amico, ing. Pier Giacomo Rinaldi Ceroni, un Ceroni puro sangue, avesse insistito meno,
forse i pochi cultori di storia locale non avrebbero fra mano questo modesto lavoro. Quello che qui
si offre sarebbe rimasto sepolto negli archivi della nostra pubblicazione mensile casolana: "Lo Specchio" dove, per anni, ho riportato le mie chiacchierate di cose antiche per i curiosi locali.
Non si tratta che della traduzione dal latino della breve storia del Mita, pietra fondamentale per la
storiografia di Casola Valsenio.
Lo scopo? Portare a conoscenza di tutti questo libretto presentandolo in lingua corrente; chiosarlo
di quando in quando e, nelle mie possibilità, correggerlo da qualche imprecisione.
Pur rivisto e sfrondato, questo lavoro risente della forma discorsiva, quasi giornalistica, con cui è
nato. Erano infatti articoli vari, che negli anni andati "Lo Specchio" andava pubblicando; senza un
preciso ordine cronologico. Dandogli adesso una vesta più impegnativa, sono consapevole che il
lavoro avrebbe richiesto anche un'impostazione più seriosa. Mi è nato però il dubbio che la cerchia
dei lettori, già ristretta per il relativo interesse dell'argomento, sarebbe allora ancor più sguarnita
e ho preferito lasciar lo stile confidenziale originario.
Sarà l'inizio di una nuova storia di Casola Valsenio?
Per scrivere di storia, anche se in tono minore, si richiede profondo rispetto della verità, accurate
ricerche di documenti e competenza onesta nell'interpretarli.
A parte la buona volontà, non sono tanto presuntuoso da attribuirmi queste doti, almeno nel grado
che un lavoro del genere può richiedere, consapevole di non avere neanche il tempo e la possibilità
di accedere a tutti gli archivi e le biblioteche necessarie nè la cattedratica abilitazione.
Il mio è un lavoro artigianale. Ho rovistato con diligenza quanto mi si offriva in loco; tutti gli archivi
parrocchiali, i documenti notarili, relazioni di visite pastorali che ci riguardano, varie pubblicazioni
e soprattutto quelle che riguardano Casola e dintorni. Veramente è un lavoro che continua tutt'ora.
Sarà sufficiente?
Per la modesta cerchia dei miei lettori mi illudo di si. Vari secoli fa, circa nel 1623-25, don Domenico
Mita, ebbe le stesse perplessità e nella chiusa della sua opera agile lasciò scritto: "Se c'è qualcun
altro che ama saper più minuziosamente ulteriori notizie (sui Ceronesi) se le cerchi con maggior
cura e trovi lui ciò che per incapacità io ho tralasciato, perfezionando questo lavoro".
Grazie alla sua iniziativa abbiamo in realtà la prima storia di Casola. È attendibile? Sostanzialmente
si, anche se, secondo il gusto del tempo, si lascia spazio a qualche leggenda e non si vaglia il tutto
con rigorosa critica storica.
Certo ci sono anche delle imprecisioni, ma Settefonti era allora una parrocchia ancor più lontana
dalle biblioteche. Resta il fatto che oggi non possiamo scrivere di Casola senza rifarci al Mita. È la
fonte a cui hanno attinto tutti i successivi storici: i fratelli Linguerri [Giovanni Antonio e Pietro
Salvatore Linguerri Ceroni], il Metelli, il Baldisserri, il Cortini, il Gaddoni, ecc.
Per molti casolani il nome di don Domenico Mita è ormai familiare, per altri invece può risuonare
come Carneade Sarà forse un altro mattone, speriamo a piombo, nell'edificio storico che potrebbe
nascere. Nel mio intento vorrebbe essere anche una piccola "lapide" commemorativa. Nel paese
che don Mita con la sua operetta sui Ceroni ha, in qualche modo, consegnato alla storia, questa
manca.
Non sembra che i Casolani dei tempi passati abbiano sentito il bisogno di ricordare con una via, una
piazza, un monumento qualsiasi, questo concittadino illustre. La presente iniziativa vorrebbe ovviare ad una deplorevole ingratitudine..
NOTE DI PRESENTAZIONE DELL'AUTORE E DELL'OPERA
Don Domenico Mita, figlio di Aurelio del fu Roberto, è battezzato a Fontanelice il 20.1.1590. Suo
padre è infatti provvisoriamente convivente coi cugini Gabriello e Fabrizio, notai di Fontana figli di
Raffaele che troviamo massaro a Fontana nel 1586. Don Mita è tuttavia considerato di Tossignano
dove la famiglia si trasferisce ben presto dopo la morte del padre (1591). Ha un fratello, Cesare,
più anziano di lui, che esercita legge e che nel 1592 è cavaliere governativo a Tossignano. Don
Domenico intraprenderà invece la carriera ecclesiastica.
Nel 1622 è nominato parroco di Settefonti di Casola Valsenio e vi si reca con la mamma Bartolomea
Bertozzi che lassù morirà (23.10.1623).
Nella parrocchia di Settefonti c'è Ceruno. Don Domenico ha certamente conosciuto diverse persone,
fra i Ceronesi, che ricordavano bene la famosa disfatta di 60 anni prima. I racconti, le testimonianze
raccolte, un certo orgoglio di sentirsi discendente di quella consorteria, deve aver generato in lui la
decisione di scrivere le gesta di questa gente.
Nasce così: "Ceroniae Gentis in Aemilia vetusta aliquot monimenta" (alcune memorie della famiglia
Ceroni dell'Emilia ecc.). La storia cioè che ci accingiamo a pubblicare.
Per lunghi secoli questa storia rimase gelosamente custodita dalla famiglia Mita di Tossignano. Poi
qualche copia, ancora manoscritta, cominciò a circolare. Verso la fine del 700 a Casola era conosciuta e certamente una copia era in possesso di Don Giovanni Antonio Linguerri, anche lui buon
latinista e cultore di storia patria. Forse fu la stessa copia che pervenne nelle mani di Mons. Giovanni
Soglia Ceroni, il futuro cardinale, che la fece pubblicare a Roma per le stampe di Filippo e Nicola
de’ Romanis nel 1826. È la prima edizione che si conosca. Ora è molto rara. Ne abbiamo potuto
consultare un esemplare nell'archivio del Prof. Rinaldi Ceroni Augusto. Naturalmente le famiglie
Ceronesi si fecero un dovere di possederla. Una copia appartenente alla famiglia Giacometti Ceroni
di Faenza, fu edita nel 1884, in occasione di nozze, nella tipografia Marabini di Faenza. Porta a
fronte una versione in italiano opera del Prof. D. Filippo Lanzoni. Su quella del 1826 abbiamo fatto
la nostra nuova versione.
Don Domenico Mita rimase a Settefonti fino al 1627. Passò quindi (5.2.1627) alla chiesa parrocchiale di Sant'Agnese di Goccianello presso Imola. Lì pubblicò per i tipi di Carlo Zenero di Bologna
un'opera impegnativa sui sermoni di San Pier Crisologo. Morì nel 1648 all'età di 58 anni.
Giulio Pappotti nelle sue "Memorie Storiche Imolesi" T.VI e il Benacci nelle "Memorie Storiche di
Tossignano" lo annoverano fra gli uomini illustri.
Il Card. Giovanni Soglia Ceroni nella prefazione (1831) a una piccola agiografia, in latino, sulla vita
del servo di Dio il casolano Giovan Battista Ridolfi, monaco Fuliense, dice testualmente:"Ho da poco
dato alle stampe alcuni ricordi sulla famiglia Ceroni, opera di Domenico Mita ... libretto piccolo di
mole, tuttavia dai giornali letterari di Milano assai lodato e giudicato degno di essere inserito "in
monumentis rerum italicarum" di Lodovico Muratori." Non è poco davvero.
Casola Valsenio 20 gennaio 1998, nel 408 anniversario della nascita del Mita.
Sac. GIANCARLO MENETTI
Arciprete di Casola Valsenio
N.B. Il testo originale è privo di numerazione. Noi invece ce ne siamo serviti per un più facile
riferimento alle note. È dunque una suddivisione nostra, ma nella seconda parte abbiamo adottato
la stessa numerazione della "Chronica", un manoscritto che non è altro che una copia, abbastanza
sunteggiata, dell'opera del Mita, di autore ignoto, e che si trova presso la Biblioteca Comunale di
Imola.
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D. O. M.
D. O. M
DEO OPTIMO MAXIMO
A DIO SOMMO BENE
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"Tabula Geographica"
"Carta Geografica"
INTRODUZIONE
Ceroniensium primordia, qui a veteribus temporibus Aemiliam incoluere, simulque gesta eorum memoratu digna, cum varia perplexaque
sæpenumero a relatoribus accepissem, rem
gratam nostratibus facturum me censui, si veterrimæ regionis nostræ tabularia senescentesque memorias, quæ sparsim apud nonnullos
latitabant, conquirerem, et compertas quam diligentissime pervolutarem eisque simul accurate collatis, quidquid certi ea in re esset studiose exciperem, ut ab oblivione hominum mea
scriptione vindicarentur. Utcumque id fuerim
divino favore assecutus ad consequentium annorum memoriam rudi hoc calamo totum exponere conabor.
Ho sentito raccontare molto spesso come l'origine dei Ceroni, che fin dai tempi remoti hanno
abitato l'Emilia, e cosi' pure le loro imprese memorande, siano varie e non ben chiarite ed ho
pensato che avrei fatto cosa gradita ai miei concittadini se avessi ricercato negli archivi della
nostra antichissima Regione le vecchie carte rimaste qua e la' nascoste presso privati e una
volta trovate ed esaminate colla massima diligenza, con- frontandole fra loro, avessi con
cura raccolto quanto vi era di certo per salvarlo,
mediante il mio scritto, dalla dimen- ticanza degli uomini. Comunque abbia raggiunto, con
l'aiuto di Dio, (questo) scopo, tentero' col mio
stile un po' rustico di trasmettere il tutto ai posteri.
NOTA
Il Mita parte dalla convinzione che qui si tratti di una sola famiglia originaria di tutti i Ceroni e che sia
una delle più antiche dell'Emilia-Romagna.
In realtà di famiglie Ceroni ce ne sono un pò in tutta Italia e in tutte le epoche.
Nel 769 (cfr. Dal Masi, Storia Generale dei Concilii, Tomo XII, pag. 716) al concilio Laterano a Roma
era presente il vescovo di Imola "Georgio Ceronio" cioè Giorgio Ceroni. Un segretario vescovile di
Cesena, secondo il Regesta Pontificum Romanorum, nel 1182 si chiama Zaccaria Ceroni. Il Curzio e il
Villani riferiscono che a Roma, nel 1350, fu eletto Rettore della città Giovanni Ceroni, uomo anziano e
di gran credito, ecc. Ma per stare in casa nostra, ricorderemo un certo Keroldo Ceroni monaco nel
monastero di S. Gallo, verso l'anno 755. Secondo la "Grande Encyclopedie" Tomo X a pag. 64, egli
era nato a Tossignano (Tauxinianum natum) in quel di Forlì (qui evidentemente l'Enciclopedia confonde) e a lui vengono attribuite composizioni in prosa e in versi e traduzioni in tedesco. Dunque, il
cognome Ceroni non è esclusivo della valle del Senio. Certamente qui da noi è originato dal toponimo
di Ceruno, in antico Zirone, Cirone o Cerrone (verosimilmente da "cerro", grossa pianta simile alla
quercia, ma di scorza più grossa) come tanti altri toponimi di casolari nostrani come "Cerro", "Querceto", "Faggeto", "Castagno" e via dicendo.
-1–
Ravenna caput, et metropolis Aemiliæ inter alias Ravenna, capoluogo e metropoli dell'Emilia, ha
urbes Faventiam habet, ac Forocornelium. Harum nella sua giurisdizione Faenza e Imola. Il terridiæcesanus ager ad alpes apenninas producitur torio di questa (ultima) diocesi si estende fino
ex quibus Ammonius et Senius amnes progressi agli Appennini dai quali nascono i fiumi Amone
influunt in padum alter secus moenia Faventiæ, e Senio che scorrendo, il primo presso le mura
alter inter utrasque urbes pari distantia prolap- di Faenza e il secondo a distanza uguale fra le
sus.
due città, si gettano nel Po.
-2Cis Senium ad aquilonem infra alpinos montes vi- Di là dal Senio, verso Aquilone, fra quegli alcus Casulæ visitur, a cujus meridie in ditione Am- pestri monti si scorge la borgata di Casola a
moniæ vallis, et sub Corneliana Diæcesi supra sud della quale, in val d'Amone, sotto la diolongiusculum obliquumque montem situs est Ce- cesi di Imola, alquanto distante e un pò fuori
ronius Pagus. Habet is Parochialem Ecclesiam ti- mano, s'innalza sopra un monte il villaggio di
tulo divæ Margaritæ ab Stiphonte dicatam, cui Ceruno. Questo ha come (sua) parrocchia la
proxime sex aliæ circumstant Paroeciæ, Putei chiesa detta di S. Margherita di Stifonti. Connempe, Scintriæ, Pagnani, Casulæ, Valsenii, et finano con lei altre sei parrocchie, cioè:
Mongardini.
Pozzo, S. Andrea in Sintria, Pagnano, Casola,
Memoriæ proditum est ex domesticis Ceroniorum Valsenio e Mongardino. Dalle memorie della
tabulis apud ipsos assidua traditione perlatum, famiglia Ceroni che ci sono giunte per ininterPagum illum priscis temporibus Cervinum mon- rotta tradizione, si rileva che quel villaggio nei
tem appellatum.
tempi remoti era chiamato Monte Cervino.
-3–
Siquidem ea tempestate, qua Carolus magnus Fin dal tempo in cui Carlo Magno, cacciati i
pulsis ex Italia Longobardis Regnum Pipino filio Longobardi dall'Italia, trasmise il Regno al fitradidit, quidam vir nobilis strenuusque miles (an glio Pipino, un nobile e valoroso soldato, (se
exterus, vel provincialis esset vetustate oblitera- fosse forestiero o di questa provincia se n'è
tum) ut a maximis militiæ laboribus, quos stipen- perso il ricordo lungo i secoli), per togliersi
dia merendo a juventute ad postremam usque vi- dalle grandi fatiche del servizio militare eserrilitatem vel in acie, vel in castris subierat, se se citato dalla giovinezza fino alla matura età;
subduceret, relicto munere quod gerebat, ut ad sia in tempo di guerra che di pace, abbanipsa rura una cum liberis habitanda se referret, donò l'incarico che aveva e si congedò per polibere dimissus est.
ter ritirarsi, insieme ai figli, in queste terre e
abitarle.
NOTE AI PUNTI 1, 2, 3
Col nome di Emilia il Mita intende la provincia di Romagna. Il Lamone e il Senio si gettano nel Reno e
non nel Po. Noi abbiamo inserito in questo primo fascicolo la riproduzione della carta geografica già
edita nel 1826. La carta politica di cui al -2- corrisponde alle divisioni ecclesiastiche in uso nel 1625.
È doveroso ricordare che solo nel 1818 tutto il territorio fra il Senio e la Sintria passò sotto la giurisdizione del governo di Casola; quindi giustamente il Mita dice che Ceruno è in Val d'Amone, cioè sotto
il governo di Brisighella, ma come diocesi è soggetto a Imola. La leggenda del cervo, da cui Monte
Cervino, e del guerriero di Carlo Magno va presa naturalmente come tale; nessun credito storico può
esserle attribuito. Il Mita confonde Carlo Magno con Carlo Martello suo nonno. Pipino è il padre di Carlo
Magno, non il figlio. Secondo questa leggenda l'origine di CERUNO andrebbe collocata verso il 750
D.C. Certamente è una leggenda ricreata in base allo stemma dei Ceroni che porta un cervo in campo
azzurro. Il fatto di portare un cervo sullo stemma era indicativo di gente che abitava in luoghi alpestri,
boscosi, come appunto era Casola a quei tempi. Si noti che la stessa leggenda di un cervo catturato
nei boschi della Pila in Mugello, si ritrova anche nella storia degli Ubaldini, di Giovan Battista Ubaldini,
Firenze 1588: "Storia di sua famiglia"la famiglia nobile che ha dominato per secoli sui nostri Appennini
e che ha come arma appunto due ramose corna di cervo. Forse non è neppure da scartare l'ipotesi
che in antico la zona si denominasse proprio Monte Cervino o Cervone da cui per allitterazione, sia poi
nato CERVNO. Riteniamo tuttavia più verosimile il Ceruno da Cerrone, grosso cerro.
-4–
Veteranus iste miles haud diu post ferarum vena- Poco tempo dopo, questo vecchio soldato, che
tione cum accolis inita, Cervum pergrandem e aveva iniziato assieme ai vicini a cacciare le
saltibus eductum, venaticisque canibus longo bestie selvatiche, (proprio) nel luogo dove oggi
cursu nequicquam consectatum, eo loci, ubi nunc c'è il villaggio, catturò un meraviglioso cervo
Pagus est, anhelantem apprehendit, dum Cervus che i cani avevano stanato dai boschi e inseipse, ceu supplex ad viri pedes constitit, cervi- guito invano. Il cervo, ormai senza lena, si
cemque submisit. Hunc nobilis Miles grato animo, fermò, come in atto di supplica ai piedi di quell'
ac summa diligentia altum multos annos supervi- uomo chinando la testa. Il nobile soldato, che
ventem retinuit; et primo quoque tempore Pagum era di buon cuore, lo allevò con gran cura e lo
cum turri satis firma construxit, sibique et poste- tenne in vita per molti anni; poi subito costruì
ris assiduam obfirmans ibidem coloniam auspi- qui un villaggio con una torre ben salda elegcato locum a Cervo Cervinum Montem universis gendolo a stabile dimora per sè e per i suoi
appellandum edixit
prendendo (il buon) auspicio dal cervo, e volle
che quel luogo fosse da tutti chiamato Monte
Cervino.
-5–
Ad hæc novum erigens gentilitium insigne, Cer- In seguito, scegliendosi un nuovo stemma
vum sursum erectum in area cerulei coloris, qui gentilizio, vi dipinse un cervo in campo azzurro
Lilium anteriori dextero pede elatum teneret, fin- che, ritto (sulle zampe posteriori), tiene un gixit; veluti hoc stemmate perbelle auguraretur, in- glio con la zampa anteriore destra. Era come
colas cervini montis loci, aerisque beneficio flo- se da questo stemma, in modo assai grazioso,
rida, diutinaque vita potiundos: Serpentes, volesse trarre auspicio che gli abitanti di Monte
nempe hostes, ceu immites feras persecuturos: Cervino avrebbero goduto, grazie alla bontà
Homines, hoc est, dominos, et amicos animo, ac del luogo e del clima, vita lunga e felice e
viribus veneraturos, atque amplexuros: quod qui- avrebbero perseguitato i serpenti, cioè i nedem a priscis Cervini montis hominibus militiæ, mici, alla maniera delle bestie selvatiche, come
domique peractum fuisse adhuc tot sæculorum invece avrebbero onorato e abbracciato con
traditione est Posteritas memor.
tutto il cuore i Signori e gli amici. I posteri ben
Labentibus annis variata temporum morumque ricordano, per tradizione secolare, tutto ciò che
vicissitu- dine factum est ut corrupta voce Vicus fu fatto, tanto in guerra come in pace, dagli
sit populi vocabulo Ceronius appellatus, gentilitio- antichi abitanti di Monte Cervino. Col volgere
que stemmate retento gentes hinc oriundæ a Ce- degli anni, mutati i tempi e i costumi, avvenne
ronio, seu Ciruno sint dictæ.
che il villaggio, per corruzione della parola, fu
comunemente chiamato CERONIO mentre lo
stemma rimase invariato, e la gente che di qui
ebbe origine fu detta da Ceronio o Ceruno.
NOTE AI PUNTI 4, 5
Quanto al numero 4 sarà bene ricordare che Ceruno fu effettivamente un villaggio fortificato.
Attualmente rimane leggibile solo la parte centrale con la torre e la chiesetta di S. Giacomo, ma tanto
a sinistra della torre e ancor più a levante della stessa si notavano ancora verso la metà dell'800 i
resti di numerose abitazioni civili, come ne fanno fede i disegni di Romolo Liverani.
Sull'origine di Ceruno non ci sono che congetture.
Di torri fortificate la nostra zona è piena; ogni poggiolo sembra possa annoverare la sua. Stando al
Cortini sarebbe una fortificazione voluta dall'Abbazia di Valsenio a difesa degli agricoltori.
Dalle innumerevoli bande organizzate per razziare che scendevano dai confini toscani non c'era altro
mezzo per difendersi che ritirarsi in queste fortificazioni. Ce n'era un'altra più antica al Castellaro di
Settefonti e un'altra alla Tana di Pagnano, per non parlare che di quelle limitrofe.
Ai tempi di Maghinardo Pagani, sul finire del 1200, Ceruno non esisteva ancora o aveva poca importanza; non se ne fa menzione. Si parla invece della torre o rocca di Settefonti all'assedio della quale
morì un fratello del Pagani. La nascita di Ceruno potrebbe quindi fissarsi con buona probabilità sul
finire del XIII sec. o nella prima metà del XIV sec. Balza subito evidente che non vi abitava un'unica
famiglia, ma diverse, e tutte prendevano dal luogo la specificazione "da Ceruno" o Ceroni.
-6Hæ tametsi Principi jugiter subjectæ, nihilominus Questa gente, benchè rimanesse sempre soguti pro Dominis rem, et vitam libere profundere getta alla stessa autorità, tuttavia era così unaunanimes erant: sic fida spe in eos elatæ, insuper nime nel sacrificare ai propri Signori gli averi e
et situ loci, ac hominum, prædiorumque numero, la vita da ricavare da questa fedeltà una sicuad hæc et successu prosperiore rerum duritiem rezza non minore di quella che offriva la posiquamdam, morumque asperitatem imbutæ jus zione del luogo e la quantità dei possedimenti
sibi multifariam dicere, finitimis imperitare, pin- e degli abitanti. Nel favorevole corso degli
guiora ex ipsis consequi connubia, injurias suo- eventi accadde poi che, dotati di una certa rurum juxta et amicorum ulcisci, factionis omnino dezza di carattere e di modi, poterono farsi accapita nuncupari potuerunt.
cettare giudici in diverse parti ed acquisire autorità sui vicini ed ottenere con essi vantaggiosi
matrimoni, vendicar le proprie offese e quelle
degli amici, ed essere riconosciuti per gli indiscussi capi di fazione.
-7Ex his vario tempore Duces, Præfectique militum Da questa stirpe uscirono, in epoche diverse,
exiere, qui sæpenumero plenissimam cohortem capitani e prefetti militari che spesso riuscirono
ex suis instruxerint, atque in Principum aciem de- a mettere insieme con i propri parenti una nuduxerint. Quicquid tamen peculiari scriptione di- trita compagnia che unirono all'esercito dei
gnum actum sit ab illis, silentio præterire cogi- Principi. Siamo però costretti a passare sotto
mur, dum hostilis flamma, quæ tabulas, tectaque silenzio, pur essendo meritevole di particolare
nostratium pluries cremavit, haudquaquam passa menzione, quanto da loro è stato compiuto viest ad posterorum memoriam pervenire.
sto che il fuoco dei nemici, che più volte ha bruciato gli scritti e le case dei Ceroni, non ha permesso che questo venga a conoscenza dei posteri.
-8Illud tamen ex reliquiis tabularum, et perenni no- Sulla base di vecchi documenti e d'una tradistrorum traditione constat, priscæ Ceroniæ genti zione costante, si ha tuttavia la certezza che
additos esse viros ex Perusia civitate oriundos verso l'anno dell'incarnazione 1225, si unirono
circa annum a Virginis partu quintum, et vigesi- alla famiglia dei Ceroni uomini oriundi della
mum supra millesimum ducentesimum, qui et ipsi città di Perugia che furono parimenti detti "da
a Ceronio jugiter sunt appellati. Erant hi stirpis Ceruno". Erano della nobile famiglia dei Ficchi,
Ficchiæ in patria civitate, ordinis senatorii nobiles, dell'ordine dei Senatori, nella loro città d'oripræditi opibus, ingenio viribusque potentes, qui gine, forniti di ricchezze, eminenti per ingegno
civilibus in seditionibus cum veteres simultates e potenza. Poichè più volte avevano vendicato
armata manu sæpius ulti essent, novas tamen con le armi gli antichi rancori approfittando
factiones sibi comparabant in dies. Itaque cum delle discordie cittadine, andavano giorno per
semel aliqui ex Ficchiis, qui dimicando hostes ob- giorno raccogliendosi attorno nuove fazioni. Actruncaverant, vinculis obstricti essent, nec ulla cadde così che una volta alcuni dei Ficchi che in
ratione, quin ad supplicium raperentur a Prætore una zuffa avevano ucciso dei nemici, furono
redimi posse viderentur, cæteri, qui liberi erant, messi in carcere e non si vedeva il modo di liin apertam vim illico animum intendunt, et coacta berarli per impedire che dal Pretore fossero
repente suorum, ac sociorum manu, in carcerum condotti al supplizio. Gli altri rimasti liberi decicustodes toto impetu irruunt, repugnantes interi- sero subito di scarcerarli a viva forza e messa
munt, ac detentos portis vi reseratis educunt,
insieme una schiera di parenti ed amici assalirono i custodi del carcere uccidendo quanti loro
si opponevano e spalancate le porte portarono
via i detenuti.
-9et urbe protinus egressi nedum inexorabilem ini- Usciti prontamente dalla città, non solo ebbero
micorum iram, verum maximam Principis indi- addosso l'implacabile ira dei nemici, ma anche
gnationem subeunt. Quare extorres a patria la più viva indignazione del Principe. Perciò
Guido, Hector, et Sylvester cum aliis sanguine banditi dalla loro patria, Guido, Ettore e Silvejunctis diversas sedes in exilio quærentes, tan- stro con altri congiunti, dopo aver cercato in
dem in Aemiliam, ac Vallem Ammonis descende- esilio più volte un luogo dove fermarsi, scesero
runt, relata eo magna pecuniarum manu. Ibi a infine in Emilia e (vennero) in Val d'Amone porDominis Manfredis Faventinæ civitatis primoribus tandosi dietro gran copia di denaro. Qui furono
sub fida tutela recepti, uti securiores fierent Am- accolti sotto la tutela fedele dei signori Manfredi
monios montes conscendere, pars in pervetusta primati della città di Faenza. Fu loro ordinato,
Arce Calamelli (quæ ditionis Dominorum de Fan- per loro sicurezza, di salire i monti Amonii e di
tolinis erat), pars in arce ex adverso posita Montis stabilirsi parte nella antichissima rocca di CalaAlbergi consistere jubentur.
mello che era in potestà dei signori De Fantolini, e parte in quella di Monte Albergo che le
sta di fronte.
- 10
Advenæ loca, gentesque ibi explorare; patriam
agnomenque proprium, ne hostibus, iratove Principi locus, ubinam essent pateret, initio dissimulare: munificentia animi fide ac solertia gratiam
magnatum amoremque nobilium, qui finitimas
urbes incolerent, in primis adquirere: indigenis
ore manuque præsto esse, et similia, queis cunctorum animos ad se se attraherent, præstare.
Quegli stranieri misero ogni cura per prendere
conoscenza dei luoghi e degli abitanti dapprima
dissimulando sia la loro provenienza che il loro
nome perchè i nemici ed il Principe sdegnato
non venissero a conoscenza del loro nuovo
asilo; soprattutto per guadagnarsi il favore dei
potenti e l'amore dei nobili che abitavano le
città vicine con la magnificenza, la fedeltà e l'industriosità. Erano pronti a soccorrere con la parola e l'opera i conterranei e in tal modo attiravano a sè gli animi di tutti.
- 11
Hæc ubi Ceronii vident, e re sua esse rati, si hosce
sibi socios ad omnem adeundam simul fortunam
adsciscerent, perhumaniter illos invitare, tecta
arvaque coemenda polliceri, nec grata connubia,
si appeterent, defutura spondere. Convenæ contra loca gentesque sibi opportuna censentes conditionem consulto recipere, affinitatem cum Ceroniensibus contrahere, insigne eorum erigere,
agnomen patriamque ex ipsis assequi, atque
sempiternum foedus cum illis inire.
–
I Ceroni, considerando che tutto ciò poteva tornare a loro profitto, pensarono bene di renderseli soci dividendo ogni fortuna con loro e facendo cortesi inviti promisero di unirsi a loro
per comperare case e poderi, (dichiarando) che
volentieri avrebbero stretto con loro legami di
parentela qualora fosse stato richiesto. Quei forestieri, ritenendo adatti per sè quei luoghi, decisero fermamente di aderire alla proposta di
stringere coi Ceronesi legami matrimoniali
prendendo lo stemma di questi e accettando il
loro cognome e la loro patria e strinsero con
loro una alleanza perenne.
NOTE AI PUNTI 6, 7, 8, 9, 10, 11
I Ceroni, come abitanti della Val d'Amone (o di Lamone), erano sudditi dello Stato Pontificio. Una
sudditanza però che sentivano ben poco. Il Papa è lontano, ad Avignone; in Romagna comandano
i signorotti e qui in particolare la famiglia Manfredi di Faenza aveva già acquistato fin dal 1309 gran
parte dei possedimenti di Fantolino da Zerfugnano.
Francesco Manfredi fin dal 1313 si fa signore di Faenza ed è padrone un pò di tutta la valle del
Lamone. È ben vero che verso la metà del 1300 il Papa Innocenzo VI manda in Italia il card. Egidio
Albornoz per liberare lo Stato Pontificio dall'usurpazione delle varie Signorie e che perciò anche da
Faenza fu cacciato Giovanni Manfredi, il nipote di Francesco, ma nel 1356 egli riuscì a strappare al
cardinale il favore di rimanere padrone della valle e castelli della Val D'Amone. In effetti i Ceroni
rimasero costantemente fedeli ai Manfredi, abbracciandone anche la fazione guelfa. Penso proprio
che la storia dei Ceroni coincida con la Signoria dei Manfredi. La fedeltà dei Ceroni spiega la frequente custodia loro affidata di varie rocche di proprietà Manfredi e soprattutto l'intervento a Faenza
nel 1488 in seguito all'uccisione di Galeotto di Astorgio Manfredi quando, armati di tutto punto, i
Ceroni scesero ad occupare la piazza, invitati dal Consiglio Faentino che temeva una sollevazione
popolare a favore del Bentivoglio. In breve, i Ceroni si acquistarono nome come tipi rudi e di modi
spicciativi. Presto nella zona ebbero una certa preminenza. In pratica si potevano considerare come
una piccola compagnia di ventura a servizio dei Manfredi o di Firenze. Si parla di capitani. Ritorneremo sull'argomento dicendo di Tino da Ceruno. È tuttavia interessante notare che anche il Mita li
considera come una consorteria che in occasione del servizio militare si unisce: parenti, amici,
vicini, un pò tutte le famiglie della zona, al comando di qualcuno più esperto nell'arte militare. Non
andiamo errati se pensiamo che dovesse chiamarsi la COMPAGNIA DI CERUNO o semplicemente I
CERUNI. Il mistero della famiglia Ficchi. Chi sono? Ho esteso le mie ricerche fino a Perugia e conservo la risposta giuntami dalle due biblioteche più importanti della città. Niente. A Perugia non c'è
mai stata una famiglia Ficchi o Fichi o Fechi che la storia ricordi, come dovrebbe, visto che, al dir
del Mita, si tratta di una famiglia di riguardo. Non vorrei dar troppo credito alle affermazioni non
comprovate, ma nemmeno mi sento di rigettare la notizia come immaginosa. Ho potuto constatare
che in altra parte il Mita ha ragione e riferisce giusto, come quando ci dirà di un'altra famiglia che
si unisce ai nostri: i Ceroni di Serina. Non ci resta che una ragionata congettura. Intanto faccio le
mie riserve sulla data. Non accetterei il 1225, quando i Manfredi non avevano nessun potere nè in
Faenza nè sulle rocche di Val d'Amone. Nel 1224 a Faenza è podestà Uberto di Uzine di Milano;
rimane perciò poco credibile che questi Ficchi da Perugia siano venuti a mettersi sotto la protezione
dei Manfredi di Faenza i quali poi li avrebbero dirottati per Calamello ecc. Penserei che il Mita abbia
letto male la data e che si tratti invece del 1325 ca. Che fossero dei profughi politici com'è descritto?
Può darsi; come può darsi che si tratti più semplicemente di famiglia dedita alle armi, magari con
qualche debito con la giustizia, che i Manfredi hanno impiegato quassù in mezzo ai monti a custodire
le rocche di Calamello e di Monte Albergo (per i profani Monte Albergo è Monte della Vecchia). Resta
pacifico tuttavia che questa famiglia non è di qui. Qui deve aver fatto fortuna accumulando danaro
visto che si dà al commercio e all'agricoltura acquistando poderi in quel di Valsenio. Anche il fatto
che una volta abbandonato il cognome fittizio di Perugini riprenda quello di Ficchi senza rivendicare
il proprio stemma, mi fa crescere dubbi che si tratti d'una nobile ed antica famiglia. Avremmo
almeno avuto un accenno di come era quello stemma, esattamente com'è successo coi Ceroni di
Serina. Sia i Ficchi che i Ceroni trovarono il modo di unirsi con matrimoni vantaggiosi e da quel
momento si chiamarono anche loro Ceroni a tutti gli effetti. La cosa più singolare sono i nomi precisi
tramandatici: Guido, Ettore e Silvestro. Dovevano essere ben impressi nella memoria degli antichi
Ceroni. Notando poi che là dove parla dei Mita, il nostro storico fa una specie di piccola genealogia,
confrontando i nomi in essa contenuti con quelli risultanti dai rogiti notarili (unici documenti rimastici nei secoli XIV e XV) ne notiamo uno in particolare: quello di Mita o meglio Ciruno Ficchi ed è
in un documento del 1492 (Lancia delle Lance, notaio di Tossignano). Calcolando che a quel tempo
Mita avesse circa 5060 anni, la sua nascita va posta verso il 1430/40. Secondo la suddetta genealogia, fra lui e il primo Ficchi venuto da Perugia ci sono solo quattro generazioni e ciò ci porta ancora
a datare la venuta dei primi Ficchi appunto verso il 1320 ca.
- 12 Ex ea tempestate Ceronius Pagus una a Perusinis habitari cæptus est, qui paullo post uberrima
prædia in Villa Senii, rusque frugiferum Montis
Oliveti ære patrio sibi coementes, non ulterius
Perusini, sed Ficchii Ceronienses communi nomine sunt appellati. Tandem ut foedus inter
utrosque pactum diuturnius foret, vir divitiis affluens nomine Cirunus filiam, quæ illi unica erat,
matrimonio junxit Antonio Ficchio, quem ex toto
asse hæredem ea lege dixit, ut quicumque ex
illo conjugio in posterum orirentur, patrio stemmate retento a Ceronio jugiter haberetur et esset.
Da questo momento il villaggio di Ceruno comincia ad essere abitato anche dai Perugini, i quali
di lì a poco, acquistato con le patrimoniali ricchezze dei fondi molto fertili nella valle del Senio
e il podere ubertoso di Monte Oliveto, non si
fanno chiamare più Perugini, ma Ficchi Ceroni. In
seguito, perchè l'alleanza fra le due famiglie
fosse ancora più duratura, un uomo ragguardevole per ricchezza di nome Ciruno, diede in matrimonio la sua unica figlia ad Antonio Ficchi che
dichiarò erede di tutto il suo patrimonio, a patto
però che i figli nati da quel matrimonio, pur ritenendo la geneologia paterna, si considerassero e
realmente fossero di discendenza Ceroni.
- 13
Per id ferme tempus Ceronii a Florentinis Venetisque in Centuriones, Ducesque turmarum sæpius
asciti gloriose contra hostes dimicarunt, et opima
spolia ut plurimum reportantes rem familiarem
magnifice augebant, præsentemque gloriam consequebantur in spem majoris amplificationis
erecti. Non procul ab ea tempestate circa annum
Domini 1309 Florentiæ civilibus seditionibus
Guelforum, et Ghibellinorum cæpit Respublica
atrociter agitari; sic tandem pulsis Urbe Guelfis,
frequens pars eorum ad Ceronios veteres amicos
se recepit, a quibus humanissime suscepti, dum
ibi morari censent, quoad propitius sibi ventus
adspiret, ecce non multo post Ugutio Fagiolanus
strenuus miles, Ghibellinæque factionis copiarum
imperator (hic Lucæ, Pisarumque regulus fuit)
Guelfos expugnaturus conscripta castra movet, et
ad Ceronium evertendum properat.
Circa in quel periodo i Ceroni, che spesso erano
assoldati dai Fiorentini e dai Veneziani come capitani e condottieri di truppe, combatterono
contro i nemici in modo valoroso, ricavandone
spesso ottimo bottino con cui aumentarono notevolmente il proprio patrimonio. Spinti dalla
speranza di accrescerlo ancora, si guadagnavano in questo modo la gloria che li contraddistingue. Non molti anni prima di questa data,
circa l'anno 1309, la Repubblica di Firenze cominciò ad essere fieramente sconvolta dai civili
dissidi fra guelfi e ghibellini. Furono cacciati i
guelfi dalla città e gran parte di loro si raccolse
presso i Ceroni, loro vecchi amici, presso i quali,
accolti con ogni cortesia, pensavano di fermarsi
fin quando il vento non fosse spirato loro favorevole. Ma ecco che poco dopo Uguccione della
Faggiola, prode guerriero e capitano delle soldatesche di parte ghibellina (fu questi un reuccio di Lucca e di Pisa) raccoglie un esercito per
abbatter i guelfi e si appresta a distruggere Ceruno.
- 14
Ceronii ut nobilissimos hospites de se diu benemeritos juxta ac semet accuratius quam possent
tutarentur, ex subitariis amiciis, quos repente in
auxilium evocaverant agmine coacto una cum
Florentinis magno impetu hinc illinc e pago
erumpentes in confertos hostes, qui medium
montem subierant, irruunt, et commissa cum
eis atroci pugna plerosque vulnerant, alios obtruncant, ceteros turpi fuga per saltus prope invios propulsant. Ugutio pertinaciter dimicans a
suis desertus, et ab hostibus prope circumventus (verba sunt Pauli Jovii, qui hæc in elogiis illustrium virorum de Ugutione scripta reliquit)
cum se se fortiter reciperet, vulnerato altero
crure, et collisa vehementer galea in oblongo
pedestri scuto quatuor tragulas, et tresdecim
veruta ex minoribus balistis infixa ad suos retulit. Ex nostris vero quamplures vulnerati, pauci
admodum interierunt. Florentini supra quam rati
fuerant præsenti periculo erepti, animo reque
ipsa in Ceronios sic grati fuere, ut per occasiones bellorum conducendis militibus, stipendiisque recipiendis præcipuos juxta vires ipsis contulerint gradus. Nostri vero acriter strenueque
pro Dominis pugnantes summis tum laudibus
tum muneribus exornati redibant ad suos.
–
Per difendere nel miglior modo possibile, oltre
che se stessi, anche i nobili ospiti da gran
tempo benemeriti, i Ceroni, che avevano messo
insieme un (piccolo) esercito formato dagli
amici pronta mente accorsi all'appello e dai profughi Fiorentini, uscendo con gran impeto dal
villaggio si precipitano sulle schiere dei nemici
armati che erano già a mezzo il colle e ingaggiano con loro un fiero scontro; molti ne ferirono, altri ne uccisero e il resto volsero in vergognosa fuga attraverso boscaglie senza sentieri. Uguccione, che combatteva con accanimento, abbandonato dai suoi e ormai circondato dai nemici (sono parole di Paolo Giovio che
negli "Elogi degli uomini illustri" lasciò scritto
queste cose su Uguccione) mentre si ritirava da
prode, ferito ad una gamba, con l'elmetto
mezzo fracas-sato, riuscì a riunirsi ai suoi, ma
portando infissi nel suo scudo pedestre ben
quattro giavellotti e tredici frecce scoccate da
piccole balestre. Fra i nostri i feriti furono molti,
ma pochi i morti.I Fiorentini che fuor d'ogni loro
speranza scamparono dall'imminente pericolo
rimasero poi tanto grati ai Ceroni sia col cuore
che coi fatti da commettere loro, in occasioni di
guerre e secondo le loro forze, gli incarichi principali, cioè sia di guidar truppe che di reclutarle.
I nostri, dopo aver combattuto con valore e impegno per i (loro) Signori, ritornavano alle famiglie carichi di lodi e doni.
- 15
Non longo post temporis intervallo, cum eosdem
Florentinos acri bello premerent Henricus
Cæsar, et Mediolanenses, multi ex nostris pro
Florentina Republica militabant, dumque exercitum recenserent Præfecti, forte evenit, ut Centurio quidam audiretur, qui cum aliquot ex suis
Ceronii nomen usurparet. Nostri colloquio dati
rogitant, quinam hi essent, ubi nomen, et patriam acceperint, at Centurionem nomine Cirronum sic respondisse tradunt.
"Nos ex Serina alta agri Bergomensis in Insubria
transpadana a magnanimis viris Cerrono, Carrerioque fratribus (qui Serinam ipsam condidere)
ex Alemania oriundi e civitate Oenipontis priscam trahimus originem. Apud Theutonicos traditione firmatum est priores Oenipontis accolas
fuisse Judæos per Titum Vespasianum Imperatorem bello varie fusos. Ut cumque ea res sit, id
certum, nostros progenitores Serina ditione jam
dudum potitos fuisse, adhuc usque superviventes in Dominatus possessione permanere; sicut
aliquot ex illis, qui a Bentiono viro conspicuo e
Bentionis suscepere cognomen, Cremæ oppido
olim imperitasse constat; sic enim loquitur grandibus notis in D. Jacobi Serinæ altæ positum
marmor."
Non molto tempo dopo gli stessi abitanti di Firenze vennero molestati dallo imperatore Enrico e dai Milanesi con aspra guerra. Molti dei
nostri Ceronesi combattevano per la Repubblica
Fiorentina; ora, mentre i prefetti passavano in
rassegna l'esercito chiamando (le squadre) per
nome, si notò che un centurione, con alcuni altri si arrogava il cognome di Ceroni. Il fatto
spinse i nostri, appena ottenuto di poter parlare, a richiedere chi fossero, da chi avessero
avuto quel cognome e da qual paese venissero.
Cosi dicono che quel centurione rispose: "Noi
discendiamo da una antica famiglia di Serina
alta nel Bergamasco, nella Lombardia d'oltre
Pò, da due fratelli, fondatori della stessa Serina,
che erano originari dell' Alemagna e precisamente della città di Eniponte. Secondo una tradizione diffusa fra i germanici, si crede che i
primi abitanti di Eniponte siano stati i Giudei dispersi in varie parti del mondo dalla persecuzione dello imperatore Tito Vespasiano. Comunque siano le cose, resta il fatto che i nostri
primi antenati erano già diventati da lungo
tempo padroni di Serina e ancor oggi i discendenti ne tengono il possesso; così come è certo
che alcuni di loro che da un illustre uomo chiamato Bentione presero il cognome di De Bentioni ressero un tempo la città di Crema. Così
infatti si legge a chiare lettere in una lapide di
marmo posta nella Chiesa di S. Giacomo di Serina alta.
- 16
"Nos patrio more Cerrum arborem in area rubri
coloris, Cervumque secus radices jacentem pro
stemmate ferimus. Ceterum superioribus annis
Turriani mediolaneses Guelfæ factionis primores
magna militum manu coacta ad nos, nostraque
expugnanda accesserunt. At nostri impigre repugnantes alios occiderunt, plerosque vulneraverunt, cæteros turpi fuga fuderunt. Quapropter
adversarii, quorum iracundiam magis magisque
in dies effervescit adauctis numero et potentia
militibus nostros iniquius persequi minantur.
Cogimur itaque frequenter sævitiam præpotentium declinando patrios lares deserere, et sub
externis militare Principibus, donec finis malorum Numine placato sequatur".
Noi, secondo la tradizione dei nostri padri, portiamo come stemma un albero di cerro in
campo rosso e un cervo accovacciato presso le
sue radici. Nei tempi andati i Torriani di Milano,
capi di parte guelfa, misero insieme un grosso
esercito per venire a impadronirsi delle nostre
proprietà, ma i nostri li respinsero prontamente; alcuni ne uccisero, molti altri ne ferirono e il resto volsero in vergognosa fuga; per
questo i nemici, il cui furore andava ogni dì crescendo, aumentarono di numero e di forza le
truppe e minacciarono di perseguitare ancor più
iniquamente la nostra parte (ghibellina). Siamo
così costretti per evitare le frequenti cattiverie
dei prepotenti ad abbandonare la patria e le nostre case e a combattere sotto principi stranieri
fino a quando, a Dio piacendo, non arriverà la
fine dei nostri guai".
- 17
Nostri viros et eorum conditionem miserati eos
liberaliter allicere, apud se se confecto bello diversari, in socios fortunarum suarum, et perpetuos amicos receptum iri, dummodo Ghibellina
parte dimissa, Guelfam vero partem secum sequantur, gentilitium insigne ex se se suscipiant,
et a Ceronio Flaminiæ communi jure cognomineque appellentur futurum ut secundiorem fortunam eo coelitus assequantur. Itaque conditione consulto accepta, pactoque inter utrosque
societatis, et amicitiæ foedere, ad Ceronium
cum nostris Insubres accedunt; ibi dignam suppellectilem amplaque tecta recipiunt, atque juri
societatis initæ, hospitiique suscepti proxime
per expetita connubia jus affinitatis addunt.
–
I nostri Ceronesi provando pietà di quegli uomini e della loro situazione decisero concordamente che una volta finita la guerra, li avrebbero presi con sè e accolti come amici rendendosi per sempre soci delle loro sfortune a patto
che lasciassero il partito ghibellino schierandosi, come loro in quello guelfo, e accettassero
il loro stemma chiamandosi a tutto diritto Ceroni di Romagna. Avrebbero così in futuro provato una fortuna, grazie a Dio, più benigna. E
così i Lombardi, dopo essersi consultati fra loro,
accettarono la condizione e stabilirono un reciproco patto di società ed amicizia e vennero insieme ai nostri, a Ceruno. Qui ricevettero buone
case e degne suppellettili e in seguito oltre al
legame stretto della nuova società e della ospitalità ricevuta, si aggiunse anche quello della
parentela grazie a felici matrimoni.
NOTE PUNTI 12, 13, 14, 15, 16, 17
Quanto al numero 12 si può notare che effettivamente in quel di Valsenio (comune di Monte Oliveto)
appaiono sui rogiti notarili del tempo i primi nomi dei Ficchi, fra cui un Perusino, proprietario di
terreni del luogo. Quanto poi all'Antonio Ficchi di cui si parla, dovrebbe trattarsi del figlio di Silvestro
Ficchi e padre di Tommaso dal quale nasce Ciruno chiamato poi Mita per soprannome. Secondo la
piccola genealogia che il Mita riporta, Antonio dovrebbe collocarsi verso il 1450 ca.. Sarebbe, a
quanto si può sospettare, il primo Ficchi a imparentarsi coi Ceroni. Qui sembrerebbe si faccia allusione anche allo stemma paterno dei Ficchi, ma non c'è alcuna descrizione di esso.
GUIDO
ETTORE
SILVESTRO
PERUSINO FICCHI
|
--------------------------------------|
|
|
NUCCIO
(*) FECCHIO
(*) SILVESTRO
|
|
|
TINO DA CERUNO
(Tutti i FICCHI di
(1) ANTONIO
|
Casola Valsenio)
|
GIOVANNI ANTONIO
TOMASO
|
|
NUCCIO
(2) CERUNO
|
detto
PERUSINO
(MIDA o MITA)
|
TOMMASO
|
(3) PIETRO
|
CERUNO o MITA
1) Sarebbe il primo Ficchi a sposare la figlia unica di Ciruno Ceroni.
2) Che la figura di Mita non sia leggendaria basterà a provarlo la particola di un rogito notarile di
Lancia Delle Lance (Arch. notarile di Imola Vol. 1. “Al giorno 27.12.1492 (poco più di due mesi
dopo la scoperta dell'America) si legge: "marchus quondam Pauli olim marchi Fabri de Baffado
comitatus Imolae vendidit Ciruno alias Mita filio Tomasii olim Antonii de Ciruno petiam terrae
...". (cfr. anche rog. not. Dionigio Cattani 7.7.1535)
3) Sposa Claradia figlia naturale di Alidosi Ricciardo o di Alidosi Berto fratello di Ricciardo.
(*) Fratelli di Perusino ?
Quanto al N. 13 va notato che effettivamente in quegli anni (chi non ricorda l'illustre profugo Dante
Alighieri ?) le fazioni guelfa e ghibellina lacerarono Firenze con le loro discordie. Molte famiglie
ripararono nell'Appennino dalle nostre parti. Qui, nella valle del Senio, buona parte di appartenenti
alla fazione dei Neri trovò accoglienza proprio grazie ai Ceronesi che, alleati naturali dei Sassatelli,
proteggevano quelli di parte guelfa.Il piccolo episodio di gloria narrato al N. 14 è verosimile. Uguccione della Faggiola (che non ha nulla a che fare col monte omonimo sopra Palazzuolo) cercò in
effetti di annullare ogni tentativo di riunione dei guelfi che volevano rientrare in patria. Era in quel
periodo il campione indiscusso dei ghibellini. È certo che subì uno smacco e, anche se non vogliamo
credere che la vittoria fosse opera esclusivamente dei nostri, resta il fatto che i Ceroni erano già
dei temibili guerrieri. In quel tempo questa era la loro più ambita attività. Trapela tuttavia dal
racconto un senso d'ammirazione per questo nemico che si battè con coraggio indomito sui nostri
monti. Il fatto tanto simile a quello del 1523 "la battaglia delle botti", può aver indotto il Mita ad
ambientare a Ceruno questa sconfitta di Uguccione; in realtà non conosciamo con precisione il
teatro di battaglia in cui si svolse. Se per i Ficchi le nostre ricerche non hanno approdato ad alcun
risultato, per questa notizia relativa ai Ceroni di Serina, abbiamo ampia documentazione. Ci siamo
recati a Serina, in Val Serina, sopra il lago d'Iseo, in provincia di Bergamo. È oggi un grosso paese,
ma ci hanno indicato poco più in alto una chiesa che fa centro di un'altra piccola borgata chiamata
Lepreno. Quella, ci hanno detto, è il nucleo più vecchio di Serina. La chiesa è dedicata a San Giacomo. Non abbiamo trovato traccia oggi di quella lapide di cui parla Mita, ma ci è stato mostrato
una vecchia pubblicazione del 1668 (posteriore quindi al Mita) del P. Donato Calvi:"Campidoglio de
guerrieri et altri illustri personaggi di Bergamo"in Milano, MDCLXVIII nella stampa di Francesco
Vigone. A pag. 38 e 40 ci sono notizie riguardanti Serina che combaciano perfettamente con quanto
qui riferito dal Mita. Si tratta di due fratelli: Ceronio e Carrerio che danno inizio alla famiglia. In
realtà abbiamo trovato Serina piena di gente col cognome Ceroni e Carrara. (cfr. il defunto Vescovo
di Imola: Benigno Carrara, nativo appunto di Serina). Dunque il Mita riferisce giusto. Notare poi
che quando a Ceruno si vorrà costruire una chiesa, questa verrà dedicata a S. Giacomo in ricordo
di quella di Lepreno o Serina Alta che è fra l'altro in una valle bellissima. Nel libro del P. Calvi si
parla a lungo di questi Torriani che vengono per assalire Serina. Prima della battaglia, che arrise ai
Serinesi, si vide una lepre fuggire in direzione dei milanesi. Ciò fu di buon auspicio e il luogo fu da
quel giorno chiamato Lepreno. Anche per questi Ceroni della val Seriana ci è tramandato un nome:
Matteo; sarà il capostipite dei Lancieri, Brunori, Baldassarri, Lolli, ecc. si sa per certo che verso il
1390 era ancora in età giovanile, quindi la venuta a Ceruno di questo ceppo omonimo va collocata
verosimilmente pochi anni avanti, forse verso il 1375, 1380. L'amicizia contratta sotto le armi può
aver benissimo originato questa unione che si traduceva in pratica al potenziamento della loro
compagnia con braccia altrettanto vigorose e soldati altrettanto esperti.Il fatto che con facilità si
muti partito li mostra gente d'armi, usa a combattere sotto la bandiera di chi paga meglio.
ENNEPONTO o ENIPONTE è il nome antico di INNSBRUCK città austriaca capitale del Tirolo Tedesco.
- 18
Ex Ficchiis seniores aliqui hæc videntes gravius
initio opinione tulere, veriti ne ob avitam Insubrium factionem Ghibellinam ex composito cum
adversariis ad eamdem a nostris per tempora
deficere malint; aut hericii instar ipsos indigenas
asperitate morum alio demigrate coarctent. At
quoniam dextera jureque jurando ictum supra
foedus perpetuum fore dixere, ideo ab universis
in suos recepti sunt. Igitur patria, cognomine
atque factione dispares in unm genus sponte
coeunt Ceronii, et in dies multitudine ac viribus
præstantiores effecti, adversa- riis infestiores,
Principibus gratiores evadunt.
Qualcuno fra i più vecchi dei Ficchi vedendo
come andavano le cose, in un primo momento
mal le tollerarono, perchè temevano forse che i
nostri per amore dell'antico partito dei Lombardi si unissero ai Ghibellini e si dessero a
quella parte, oppure che (i nuovi arrivati) a
guisa di ricci spinosi con la loro rozzezza di costumi costringessero gli indigeni ad emigrare;
poi quando fu chiaro che i patti di alleanza stabiliti e sanciti col giuramento sarebbero stati
perpetui, (i nuovi) furono da tutti accettati
come di casa. Dunque i Ceroni pur di patrie diverse, di casate diverse, di fazioni contrarie, si
uniscono spontaneamente così da forma-re una
sola famiglia E poichè di giorno in giorno diventavano più ragguardevoli sia per numero che
per forza, si resero ancora più molesti agli avversari, ma più graditi ai Principi.
- 19 Fuere illo sæculo aliqui e Ceronio oriundi, qui leIn quell'epoca vi furono anche alcuni oriundi
gibus bonarumque disciplinarum studiis operam
di Ceruno che si dedicarono (allo studio) delle
navarent. Hi ad Romanam Curiam, uti pro eruleggi e si diedero con zelo all' apprendimento
ditione tempori locoque servirent, accedentes,
delle buone discipline. Questi giunsero alla
tandem eo deduxere coloniam. Ex his anno a
Curia Romana per servirvi, secondo le loro caVirginis partu quinquagesimo primo supra millepacità, a tempo e luogo e (a Roma) stabilirono
simum trecentesimum Joannes Ceronius honoinfine una loro colonia. Fra questi, come ne fa
rifico Rectoris Romæ titulo populi suffragiis refede il Villani e il Sansovino, ci fu un Giovanni
nunciatus est, etiam Villano, Sansuinoque testiCeroni che nel 1351, per votazione popolare,
bus. Nostra autem tempestate Ceronii Romani
fu elevato all'onorifico incarico di Governatore
urbem Sessam incolunt, et claros præstantedella città. Ai giorni nostri alcuni (di questi)
sque viros in scientiis alunt qui per occasiones
Ceroni Romani abitano nella cittadina di Sezze
juventam erudiunt, clientibus patrocinantur, poe contano fra loro uomini illustri e di valore
pulis jura dicunt.
nelle scienze, i quali a seconda dell'occasione
si danno o all'educazione dei giovani o all'attività forense o al governo di popolazioni.
- 20 Verum ut ad nostrates calamus revertatur, quo
Ma tornando a parlare dei nostri, debbo notempore Rex Parthenopæ Robertus erat Flamitare che al tempo in cui il re Roberto di Napoli
niæ pro Pontifice Rector (id prope annum 1311
fu Rettore della (regione) Flaminia (della Emifuisse fertur) Visconti Mediolanensis arma adlia o Romagna) a nome del papa, e ciò è traversus Forocornelianos pertimescens, dum sibi
dizione fosse circa il 1311, il Visconti di Milano
auxiliaria subsidia a Florentina Republica neganebbe gran timore che fosse assediata la città
tur, ut irritos redderet hostium impulsus, Urbem
di Imola, per cui, vistosi negato ogni aiuto
tueretur, ac populum incolumem servaret, rem
dalla Repubblica Fiorentina, per sventare l'asomnem frumentariam stramentaque in Urbem
salto dei nemici, difendere la città e salvare la
mox invehi jubet, et cataphractarios milites trepopolazione, comandò che tutto il grano e il
centum quinquaginta ex strenuioribus scribit,
foraggio fossero portati in città, poi arruolò
pedites vero trecentum ex ferocioribus, qui
350 soldati ben armati e fra i più valorosi e
montes incolerent, quos ferme universos ex Cechiamò in aiuto 300 fanti fra i montanari più
ronis gente acciverat, in præsidium vocat, quiardimentosi; questi furono scelti quasi esclubuscum, et oppidanis æque sibi prospectum
sivamente fra i Ceroni.
censet, uti ad votum apprime respondit evenLi unì ai cittadini (nella difesa della città) e
tus.
giudicò di aver provveduto a sufficienza
all'uopo, come i fatti confermarono pienamente.
- 21
Per ea tempora Francisus Manfredus Faventiæ
Princeps Riccardo ac Thino filiis emancipatis
vendiderat jus ditionemque. mercati Zattaliæ,
Arcem montis majoris, Collis Putei, et Pagi Ceroniensis; sed eo vita functo anno Domini millesimo trecentesimo supra quadragesimum, Ricciardus paterni principatus hæres efficitur;
Thinus vero Ceronia ditione, et appositorum ut
supra diximus locorum ad liberaliter vivendum
contentus, apud nostrates tranquillam et omnis
perturbationis expertem vitam transigebat. Nostri viro nobili, ac humanitate referto adeo obsequentes fuere, ut ipse natam ex se filiam (an
legitima, vel naturalis tantum esset, memoriam
abstulit vetustas) uxorem dederit Sylvestro Ficchio viro satis civili ac diviti, qui ex ea filium præ
cæteris suscepit, cui Thinum dixere nomen.
In quegli anni avvenne che Francesco Manfredi,
Signore di Faenza, emancipati i figli Riccardo e
Tino, vendette loro i diritti e la signoria di mercato Zattaglia, della Rocca di Monte Mauro, del
Colle di Pozzo e del villaggio di Ceruno. Nel
1340 Francesco (Manfredi) morì ed erede del
principato paterno fu il figlio Riccardo. Tino invece si accontentò della signoria di Ceruno e dei
luoghi suddetti dove, presso i nostri, poteva
trascorrere una libera vita tranquilla e senza
preoccupazioni. I Ceroni furono tanto ossequienti e pieni di cortesie col personaggio che
egli diede in moglie una sua figliola, se fosse
legittima o naturale il tempo ha cancellato la
possibilità di ricordarlo; a Silvestro Ficchi, uomo
dabbene e abbastanza ricco, il quale ebbe da
lei, fra gli altri, un figlio chiamato Tino.
- 22
Eo magnæ indolis et eruditionis adolescente vita
functo, tandem revixit ejus nomen in nepote,
qui usque eo strenuus miles, viribusque ferox
natura fuit, ut de quocumque in eadem re gloriabundo proverbio sit dictum:
Esset ne forte Thinus a Ceruno? Is bellica animi
virtute pollens vel in castris, vel in præliis fere
semper quoad vixit, fuit; et periculorum omnium contemptor tantum Alphonso Arragonio
Calabriæ duci gratus extitit, ut stipendiis ejusdem ab anno Domini 1472 ad annum 1490 ductor peditum variis in præliis acri animo, et exercita virtute per occasionem pugnaverit:
Ma questo nipote, di nobile indole e spiccata intelligenza, morì ancora adolescente. Un altro
nipote portò però il nome del nonno Tino e fu
un soldato tanto vigoroso e forte che si originò
un detto per chiunque raggiungeva una certa
importanza: "è per caso Tino di Ceruno?". Questo Tino fu per quasi tutta la sua vita un valido
soldato sia nella difesa e sia in campo aperto,
valoroso e sprezzante del pericolo. Fu apprezzato da Alfonso Lo Spagnolo, Duca di Calabria,
per il quale Tino militò, come capitano di fanteria, dal 1472 al 1490 combattendo in varie battaglia con coraggio indomito e valore infaticabile
- 23
Ac tandem in acie Alexandri VI. Pont. Max. annos quinque quos supervixit militans, dum bellicis laboribus; ætateque se confectum sentit,
tradita cohorte, quam ex suis Ceroniis magna ex
parte contraxerat, Dionisio Naldo Brisichellensi
ex sorore nepoti (Ceronii etenim, et Naldii per
reciproca connubia affines erant) et qui juvenis
licet vir ductor turmarum ejusdem erat, paucos
post dies multa laude nitens migravit e vita.
Trascorse poi gli ultimi cinque anni della sua
vita nell'esercito del Papa Alessandro VI. Sentendosi sfinito e per le fatiche delle armi e per
l'età, affidò la sua compagnia (militare) che si
era formata con gran parte dei suoi Ceroni, a
Dionisio Naldi di Brisighella che gli era nipote
per parte di sorella. I Ceroni e i Naldi, grazie a
vari matrimoni, erano fra loro parenti. Dionisio,
benchè giovane, era anche suo luogotenente al
comando della suddetta compagnia. Morì di lì a
pochi giorni pieno di gloria.
NOTE AI PUNTI 18, 19, 20, 21, 22, 23
Più che naturale questo atteggiamento diffidente dei Ficchi che ci conferma ancora una volta, come
per la stirpe dei nostri Ceroni, si tratti di una coagulazione di diversi ceppi. Quanto agli uomini
illustri di cui si parla al n.19 e ne abbiamo già accennato fin dalle prime pagine di questa storia,
credo sia necessario fare una certa riserva. Certamente il Villani riporta la notizia di Giovanni Ceroni
e certamente dei Ceroni si trovavano alla Curia Romana e in particolare a Sezze, ma che questi
fossero poi oriundi di Ceruno è tutto da dimostrare. Come si è detto, di famiglie Ceroni ce n'erano
diverse e in più parti d'Italia. Probabilmente il Mita leggendo sul Villani quei nomi illustri si è fatto
un pò prendere la mano. Noi rimaniamo per il momento nel prudente dubbio, in attesa di qualche
migliore documentazione. Nel 1310 Papa Clemente V, allarmato dalle insurrezioni dei Ghibellini,
costituì per 8 anni re Roberto di Napoli Rettore di Romagna. Re Roberto vi inviò il suo vicario Nicolò
Caracciolo. Proteggeva i Ghibellini il Visconti di Milano. Quindi il Mita qui è in errore: non il Visconti,
ma il Vicario Regio o il re di Napoli temono l'assalto a Imola e chiamano in soccorso i Ceroni.
L'episodio che non abbiamo ragioni di mettere in dubbio, avvenuto molti anni prima dell'insediamento dei Ceroni di Serina, ci testimonia sia la fama, già diffusa, che i nostri montanari della Valle
del Senio erano temibili e feroci combattenti, sia la consistenza delle forze che i Ceroni potevano
schierare in campo: sulle 300 unità. Francesco Manfredi figlio di Alberghettino era signore di Faenza
dal 1313, come si è detto. Oltre Riccardo e Malatestino, detto Tino, aveva anche un altro figlio,
Alberghettino, che essendo stato accusato di tramare per consegnare Bologna a Lodovico il Bavaro,
venne decapitato, con altri congiurati, nel 1329. Forse per il dolore di questa perdita, o per altre
ragioni politiche, Francesco Manfredi decide di vendere ai due figli maschi ancora viventi, Riccardo
e Tino, un gran numero di beni, fra cui quelli elencati dal Mita, per la somma di 3000 fiorini d'oro.
Però riguardo all'anno di morte di Francesco il Mita confonde. Francesco sopravvive a tutti e due i
figli suddetti e muore il 29 maggio del 1343. Nel 1340 muore invece Riccardo. Quanto a Malatestino,
che muore nel 1336, non sappiamo se avesse avuto figlie naturali, ma è molto probabile. Sappiamo
invece che le figlie legittime furono Margherita, andata sposa al conte Guido di Batifole, e Anna
ancora nubile alla morte del padre. Se tuttavia il Mita registra questa notizia, si rifà certamente ad
una tradizione rimasta viva fra i Ceroni. Come che sia, il Silvestro Ficchi di cui si parla dovrebbe
essere addirittura il primo dei Ficchi venuti da Perugia di cui si è già fatto cenno. Basta fare un paio
di calcoli. Il tanto famoso Tino da Ceruno, zio dell'ancor più famoso Dionisio Naldi, sarebbe morto
circa il 1495, stando sempre al Mita. Quanto alle date riguardanti Tino sono da ritenere autentiche,
precisando però che Papa Alessandro VI viene eletto nel 1492 e perciò Tino ha combattuto anche
sotto Innocenzo VIII. Poichè si è fatto il nome di Alfonso duca di Calabria, non sarà inutile spendere
qualche riga per ricordare chi fosse. Figlio del re Ferrante D'Aragona, Alfonso II, duca di Calabria,
succedette al padre nel 1494 nel regno di Napoli. Fu una trista figura sia di politico che di uomo,
ma di armi se ne intendeva. Un cronista francese del tempo (Filippo de Camines) scrive che Alfonso
era l'uomo più crudele, perverso, vizioso, triviale che si sia mai visto. Detto da un francese, il
giudizio va preso con una certa tara, ma resta il fatto che egli fu un degno figlio di Ferrante. Fu il
padre, per chi ricorda lo sceneggiato sui Borgia, recentemente dato in televisione, di quella Sancia
sposa a un fratello di Cesare Borgia: Jofrè. Dunque Tino è fra i suoi capitani e con Gian Giacomo
Trivulzio, Capitano Generale di Ferrante, partecipò, insieme alla sua compagnia composta in gran
parte da Ceroni e cioè di abitanti di Ceruno, Casola e dintorni, a fatti d'arme abbastanza notevoli
come quello del maggio 1485 presso Montorio dove le truppe del duca di Calabria sconfissero quelle
Pontificie guidate dal condottiero Roberto Sanseverino, che era addirittura un'autorità in campo
militare. Se teniamo d'occhio le date, vediamo che Tino muore vecchio, attorno al 1495, e perciò
non poteva certamente essere il nipote diretto di Malatestino Manfredi morto 159 anni prima, cioè
nel 1336. Evidentemente il Mita fa un pò di confusione nelle date e fra i nomi. Basandomi sulla
piccola genealogia che lui stesso riporta più avanti, sarei propenso a credere Tino figlio di Silvestro
di Fecchio (1370-80), pronipote del vecchio Silvestro al quale fra il 1329-36 il Manfredi diede in
sposa la figlia. Sempre che si tratti della linea diretta dei Ficchi-Mita, vien da dire col Verga (Mastro
don Gesualdo) che le radici dell'albero della famiglia pescano nel "sangue adulterino" di un principe
Manfredi. Come abbiamo accennato, Tino è lo zio per parte di madre di Dionisio Naldi, il famoso
condottiero dei fanti della Serenissima e il fondatore dei terribili Brisighelli (soldatacci senza paura).
Ereditò il nucleo della sua famosa compagnia da Tino, sotto cui si era fatto le ossa come luogotenente. Consultando il Metelli e le storie di Brisighella, trovo che Dionisio Naldi è figlio di Giovanni di
Naldi e che sua madre si chiama Violante. Giovanni aveva sposato Violante dei signori di Lozzano.
Non è facile, nemmeno per uno del posto, localizzare oggi Lozzano; ma dai documenti del 1850 si
arguisce che era una località a circa 300 metri dalla chiesa di Pozzo, verso Zattaglia. Vi era un
gruppo di case con "due torri". Le due torri hanno fatto si che la località si chiami oggi "Torracce".
Ebbene, sono del parere che Lozzano fosse l'abitazione di Tino; forse vi è morto. I Ficchi erano
dunque chiamati anche col nome usuale di signori di Lozzano o Lozzani.
- 24 Dionysius ubi primum a Pontificiis dimissus est
exercitus, ad Venetos cum sua cohorte perrexit,
et a serenissima Repub. amanter excep- tus, moxque bello expertus honorifico munere peditibus
imperator præficitur, qui acri fortitudine, summoque ingenio feliciter prælians, stirps Naldiæ gloria
spesque fuit. Obiit anno 1510 ætatis anno 45 ejus
ossa jacent Venetiis in templo S.S. Joannis et
Pauli. Emerso anno quinquagesimo quinto supra
millesimum qua- dringentesimum a Virginis
partu, Marsimilia Sfortia Thadei Manfredi uxor,
foemina acris ingenii, elatique nobilitate Regni,
dum ipsa Forocornelii Tussignanique suo marte
Principatum moderatur, ac regit, a Ceroniis, ut ipsamet rebatur, lacessita, quod quatuor ex suis levis armaturæ equitibus per occasionem cladem
intulissent, publico edicto jubet, Ceronios quoscumque in sua ditione inveniendos interfectum
iri. Rem hanc nihili Ceronii facientes, statum Cornelianæ, Tussignanæque ditionis identidem
vexare, homines sibi infensos audacius persequi,
ac trucidare. Foemina injuriarum impatiens, Ceroniis infestis qua per se ire obviam arte, atque
ipsorum audaciam compe-scere valeret ignara,
auxiliarios milites ducentos a Mediolanensi Duce
sibi sanguine juncto balistis instructos accivit, simulque ab eo epistolas ad Astorem Manfredum
Faventiæ Ammoniique Regulum, ut Ceroniensium
intollerabilem audaciam una secum comprimere
vellet, impetrat.
Astor accessitos Ceronios amantissime monet,
paternaque voce compellat, utque a noxiis, quas
supra memoravimus se se in gratiam ipsius contineant, multis rationibus suadet. At Ceronii, qui
unice Principem suum diligebant, de quibus ipse
optime meritus erat, nedum libenter ei obsecundant, verum etiam foedere cum Tussignanensibus
icto, et publico exarato documento anno 1459
odium in amorem, severitatem in obsequium extemplo commutant.
Dionisio (Naldi) si licenziò poi dall'esercito pontificio e passò, con la sua compagnia, ai Veneziani accolto favorevolmente dalla serenissima
Repubblica dalla quale, visto che era ben
esperto nell'arte militare, fu creato capitano generale di fanteria. Combattente valoroso e di
somma capacità, Dionisio fu la gloria e la speranza della famiglia Naldi. Passato l'anno 1455,
Massimilla Sforza, moglie di Taddeo Manfredi,
donna di carattere forte e orgogliosa per esser
salita alla nobiltà di signoria (aveva infatti il governo d'Imola e Tossignano), provocata dai Ceronesi, così ella pensava, che avevano sconfitto
e ucciso quattro suoi cavalleggeri, con editto
pubblico ordinò di mettere a morte ogni Ceronese che venisse trovato nei suoi domini. I Ceronesi, irridendo questo bando, si misero allora
a danneggiare le terre di Imola e Tossignano,
perseguitando e uccidendo con maggior accanimento i loro avversari. La Signora non sopportava l'audacia delle offese ond'era fatta segno dai Ceroni suoi nemici, e non sapendo
come poterla rintuzzare, richiese in aiuto dal
Duca di Milano, suo parente, duecento lancieri
e, nello stesso tempo lettere per Astorre Manfredi, principe di Faenza e di Val di Amone, invitandolo ad unire a lei le forze per reprimere
l'insopportabile ardire dei Ceroni.
Astorre chiamò i Ceronesi e li ammonì amorevolmente, li pregò con paterno affetto e molti
ragionamenti, persuadendoli a desistere, per
amor suo dal procurare i danni sopra ricordati.
I Ceronesi, che amavano questo solo loro principe, non soltanto gli obbedirono, ma fecero
anzi un'alleanza con quei di Tossignano ratificata con documento pubblico l'anno 1459, mutando subito l'odio in amore e la fierezza in riverenza.
NOTE AL PUNTO 24
Prima di riprendere a dire di Dionisio è doverosa una rettifica riguardante Tino. Congetturavamo
fosse figlio di Silvestro di Fecchio (1370/80); ora grazie al Metelli che riporta certi atti notarili di ser
Giovanni Zardelli, foglio 108, dobbiamo dire che padre di Tino fu Nuccio di Perusino, certamente
Ficchi e forse abitante a Lozzano o Lauzano e, secondo il Mita, padre anche di Violante madre di
Dionisio Naldi. Venendo ora a dir di lui, notiamo che Dionisio figlio di Giovanni Naldi di Naldo di
Tassuccio dei signori di Vezzano prima ancora di essere a servizio di Venezia era già una autorità
in campo militare. Venuto su alla scuola di Tino era certamente fra i capi Ceroni che nel famoso
fattaccio dell'assassinio di Galeotto Manfredi (1488) scesero a Faenza invitati dal consiglio della
città per tenere custodite le porte e la piazza; ma di tutto ciò diremo in seguito. Ci preme colmare
il vuoto che il Mita lascia fra il servizio di Dionisio sotto la bandiera del Papa e quello definitivo sotto
la Repubblica di Venezia.
Appena un paio di anni dopo la morte di Galeotto, dopo che era già stato giurato fedeltà al giovanissimo Astorgio, figlio del defunto, Dionisio Naldi, unitamente a tutti i valligiani, non nasconde le
sue preferenze per Ottaviano, figlio di Carlo II al quale Carlo, il fratello Galeotto aveva usurpato nel
1467 la signoria di Faenza.
Ottaviano era tenuto prigioniero dalla Repubblica di Firenze a Pisa, ma ecco che con la discesa di
Carlo VIII il giovane principe ottiene insperatamente la liberazione (1495-96).
Dionisio Naldi progetta subito di riportare alla Signoria di Faenza Ottaviano e muove con i suoi
armati alla conquista della città, ma il tentativo non gli riesce.
Faenza sta con Astorgio. Certamente nella scelta gioca anche una certa animosità contro i Valligiani
che non fanno mistero della loro speranza di vivere indipendenti dalla cittàmadre.
I Faentini, che temono le armi di Dionisio, si danno alla tutela di Venezia, che manda a Faenza
Bernardino Contarini con 1400 soldati. Vengono imprigionati molti aderenti di Ottaviano, fra i quali
anche il giovane fratello di Dionisio, Pier Francesco, che pagherà con la morte il tentativo fallito. È
un dolore per Dionisio che deve ritirarsi con Ottaviano. Si rifugia in Toscana dove, col Manfredi, si
mette al soldo della Repubblica di Firenze. Siamo circa nell'anno 1499 e Dionisio è venuto in contatto con Caterina Sforza la quale ha un giovane figlio di nome Ottaviano anche lui. I due Ottaviani
diventano presto molto amici e si ritrovano a Forlì. Naturalmente protettore del Manfredi è Dionisio;
ma un brutto giorno Ottaviano Manfredi viene trucidato in un agguato presso San Benedetto in
Alpe, alle Cellette, da sicari delle famiglie nemiche ai Naldi: i Bosi e i Corbizi di Castrocaro.
Al dolore di Dionisio si unì quello di Caterina Sforza e soprattutto del figlio Ottaviano. Il Naldi non
perdonò mai più ai Bosi.
Di lì a poco a Castrocaro menò la sua vendetta uccidendo Galeotto e Carlo Bosi. Intanto si addensava sulla Romagna, e soprattutto sulle Signorie romagnole, quel turbine che fu chiamato il Valentino: Cesare Borgia.
Negli ultimi mesi del 1499 anche per Caterina Sforza arrivano i giorni della sconfitta. Imola è assediata. Nella Rocca c'è naturalmente il nostro Dionisio con larga schiera di soldati reclutati qui da noi
e anche nella vallata del Lamone che resiste valorosamente.
Caterina non è precisamente la persona che si fida ad occhi chiusi; ha affidato a Dionisio la difesa
della Rocca previa consegna nelle sue mani della moglie Dianora di Paolo Valgimigli e anche dei
suoi figlioletti. Ma anche la resistenza ha un limite e quando il Valentino, grazie alla spiata di un
falegname pratico della Rocca che gli indicò il punto più debole della difesa, si appressò a dare
l'attacco conclusivo, il Naldi venne ad onorevoli patti e gli aprì le porte (11-12-1499).
Il Valentino indubbiamente sapeva apprezzare il valore di un bravo capitano e offrì al Naldi di entrare al suo servizio. Quando Dionisio seppe che Cesare Borgia marciava contro Faenza accettò
subito. Aveva ruggine contro i faentini per via della morte di Pier Francesco suo fratello e del bando
che avevano messo contro di lui.
Presto anche Faenza è assediata. Il Naldi è mandato dal Valentino ad occupare tutti i luoghi fortificati della Val d'Amone.
Dopo strenua difesa Faenza deve cedere. Il giovane Astorgio III si consegna a Cesare Borgia il
quale, in dispregio di tutti i patti fatti, lo fa trasferire a Roma, insieme al fratellastro Giovanni
Evangelista, e rinchiudere in Castel S. Angelo dove i due giovani principi troveranno presto ignominosa morte. Si estingue così casa Manfredi.
E Dionisio? Per tutto il tempo che il Valentino rimase in Romagna, Dionisio gli fu fedele. A Forlì, con
la cattura di Caterina Sforza, aveva riabbracciato i suoi familiari sani e salvi. Abitava allora stabilmente a Cotignola.
Collaborò, con Francesco Spada e molti della Val d'Amone, alla riconquista della Rocca di San Leo
per il Valentino.
Ma con la morte di Alessandro VI la fortuna di Cesare Borgia crollò all'improvviso. Ad una ad una
le città di Romagna ritornarono ai vecchi signori.
Faenza ricevette come suo principe un bastardo di Galeotto Manfredi, Francesco, che si chiamò
Astorgio IV.
Della disfatta del Valentino approfittò più di tutti Venezia che tanto brigò da avere presto nelle sue
mani non solo tutta quanta la Valle d'Amone, ma la stessa Faenza.
Fu in questa occasione che Dionisio passò al soldo della Repubblica di San Marco, dove già militava
il nipote Vincenzo. Nel 1504 il Doge Leonardo Loredano con apposto breve concedeva vasti favori
a tutta la famiglia Naldi.
Anche Casola passò sotto Venezia e venne inviato qui da noi un vicario veneto: Ser Giacomo Baruzzi
di Brisighella. Dionisio da quell'anno in poi rimase costantemente al servizio della Serenissima e
numerose furono le sue imprese sia in terra che in mare. I suoi soldati diventano quasi leggendari:
sono i Brisighelli il cui nome soltanto mette in timore i nemici. Il valore di questi uomini è stato
ricordato da parecchi storici. Con il Metelli ci fermeremo a riportare ciò che ha scritto Simondo
Simondi (Storia delle Repubbliche Italiane dei secoli di mezzoTomo 13, pag. 522): "Ma la fanteria
italiana di Brisighella, che era distinta dalle sue casacche mezzo bianche e mezzo rosse, si rese
degna della sua nuova reputazione; perciocchè, sebbene costretta a ripiegare fino ad un aperto
piano, ed ivi esposta agli attacchi della cavalleria, mai non ruppe le sue linee. Circondati, serrati,
oppressi, questi fanti romagnoli si fecero quasi tutti uccidere, dopo avere a caro prezzo venduto la
loro vita". Si tratta della famosa battaglia di Agnadello o Ghiaradadda del 14 maggio 1509. Dionisio
morirà l'anno dopo in dicembre. Venezia gli eresse un monumemto nella Chiesa dei SS. Giovanni e
Paolo in Venezia, dove è sepolto. Nel comando dei Brisighelli gli subentrò poi Vincenzo Naldi. Si fa
qui un breve riferimento alla situazione politica del 1448-1460 che conviene delucidare per una
migliore comprensione del testo. Ci rifacciamo al 1447 come data più significativa; infatti in tale
anno a Roma muore papa Eugenio IV, il papa del Concilio Fiorentino, e gli succede Papa Nicolò V.
A Milano muore il duca Filippo Maria Visconti e subito due grossi aspiranti alla successione impugnano le armi per contendersela: il Re Alfonso di Napoli e un francese, nipote per parte di sorella
del defunto, cioè il Duca D'Orleans. Filippo Maria è morto senza figli legittimi e ha lasciato una figlia
naturale, Bianca Maria, sposata al celebre condottiero Francesco Sforza, romagnolo, perchè la sua
famiglia è originaria di Cotignola di Lugo di Romagna. I Milanesi non vorrebbero come Duca nè il
Re di Napoli nè il Duca d'Orleans; anzi non vorrebbero nessun Duca desiderando trasformare il loro
Ducato in Repubblica. Per togliere di mezzo tutti quei pretendenti, specie il francese che è già alle
porte con un'armata, ingaggiano i più celebri condottieri dell'epoca e le compagnie di ventura più
accreditate. Vi troviamo in prima fila anche due fratelli Manfredi: Guido Antonio, detto Guidaccio, e
Astorgio II. Nelle file dell'uno e dell'altro militano certamente parecchi soldati della nostra valle;
infatti i due Manfredi dominano le città di Imola e Faenza e il fiume Senio è precisamente il confine
della Giurisdizione di Guidaccio che governa Imola e di Astorgio (o Astorre) che governa Faenza.
Dunque sono tutti e due al soldo dei Milanesi in Lombardia. A tutto questo esercito però era necessario un solo generale e, malauguratamente per loro, i Milanesi lo trovarono in Francesco Sforza e
non s'accorsero che in tal modo non gli affidavano il solo comando militare, ma la stessa corona
ducale. Francesco non se lo fece ripetere e in breve fu il nuovo Duca in forza di quella moglie che
era pur sempre l'unica Visconti riconosciuta. Certamente lo Sforza conosceva bene i due Manfredi
e li apprezzava come due validi uomini d'arme. Con Guidaccio poi addirittura s'imparentò quando
il figlio di questi, Taddeo, sposò Massimilla Sforza. Taddeo era molto giovane al tempo di queste
guerre, ma seguiva il padre e lo zio nei loro spostamenti militari. Sembrava ci fosse buona armonia
fra di loro. Poi Guidaccio nel 1448 s'ammalò e venne a morire a Siena, affidando alla Repubblica
Fiorentina Taddeo il suo rampollo. I Fiorentini vigilarono bene perchè Taddeo potesse tranquillamente prendere possesso di Imola, certi che non erano sufficienti i legami del sangue per scongiurare usurpazioni possibili da parte di Astorgio. La prova è presto fatta nell'anno seguente quando
Astorgio, in risposta, come sembra, ai tentativi fatti da Taddeo per togliergli la vita, con l'appoggio
del Re di Napoli, per il quale ora combatte, occupò diversi luoghi di giurisdizione imolese, fra i quali
Settefonti (Stifonte), Baffadi e la rocca di Montebattaglia. Gli storici non lo nominano, ma certamente c'è nel numero anche Casola. Non contento di ciò, l'anno 1450 occupò il castello di Riolo
Secco (=Riolo Terme) e minacciò di prendere anche Imola. S'interpose la mediazione di Francesco
Sforza e di Cosimo dei Medici e la cosa fu scongiurata, ma il dissapore fra zio e nipote rimase a
lungo. Nel maggio del 1460, e precisamente il giorno cinque, Taddeo tentò di sorprendere Faenza
di notte e l'assalì, ma Astorgio e i Faentini vigilavano e fu vergognosamente respinto. Una pace un
tantino più sicura fra i due l'ottenne nel 1462 il Commissario pontificio Mons. Angelo Gherardini da
Amelia, Vescovo di Sessa, inviato in Romagna dal Papa Pio II. Si venne alla decisione che ad Astorgio rimaneva Montebattaglia e Riolo, mentre a Taddeo restavano le terre di Pediano, Marzanello,
Monte Medola, Pubico e Turiano. Ma la vicenda riportata al n.24 ha stranamente come protagonista
la moglie di Taddeo, Massimilla (o Massimilia come trovo altrove); come mai? Probabilmente Taddeo fa agire la sposa, parente di Francesco Sforza, per ottenere più facilmente aiuto dal Duca di
Milano, oppure il carattere di Massimilla assomiglia molto a quello della ben più famosa parente
Caterina Sforza, per cui certe imprese, come appunto l'assalto a Faenza, sono frutto della sua
ambizione più che del marito Taddeo. Una virago che può aver messo in ombra Taddeo stesso. Può
essere illuminante ricordare che il nostro Taddeo, nel 1470, verrà in gravi dissapori con il figlio
Guidaccio (spalleggiato dalla madre?), il quale lo farà carcerare e ciò segnerà praticamente la fine
della dominazione Manfredi sulla città di Imola. Tornando alla vicenda di Massimilla, è facile arguire
che i Ceroni hanno le spalle coperte dalla protezione di Astorgio II, loro diretto principe, al quale
con ogni probabilità hanno dato una mano all'espugnazione di Montebattaglia, di Baffadi e di Riolo,
senza ricordare Settefonti dove non ci sarà stato nemmeno bisogno di combattere. Sono infatti
incondizionatamente fedeli a lui.Divertirsi, con uccisioni e saccheggi, a far dispetto a Taddeo, doveva stuzzicare troppo i nostri guerreschi Ceroni. A questo punto della storia però deve essere già
intervenuta la pace del 1462 fra i due Manfredi, e da ciò l'accondiscendenza di Astorgio alle lettere
di Francesco Sforza e il conseguente mutamento da parte dei Ceroni nel loro atteggiamento con
quei di Tossignano
- 25 Paucis ab inde lustris Galeottus Manfredus,
Non passarono molti lustri che Galeotto ManAstore tertio e vivis sublato, Faventina, Ammofredi, dopo la morte di Astorre III, entrato in
niaque ditione, postmodum a Francisca conpotere di Faenza e Val d'Amone, fu trucidato
juge, quæ Joannis Bentivoli, qui Bononiæ tydalla consorte Francesca, figlia di Giovanni Benrannus fuit, filia erat, colapho ab ipso viro lativoglio tiranno di Bologna, a ciò provocata da
cessita, jugulatur; quod plerique Bentivoli asuno schiaffo del marito. I più pensarono che ella
sensu actum fuisse rebantur. Faventini metu
avesse agito d'accordo col padre, per cui i faenfoedissimi parricidii perculsi, Ceronios, quorum
tini, presi da timore per questo turpe uxoricidio,
in Manfredos obsequium noverant, in urbis
vollero fossero chiamati i Ceroni, dei quali cosubsidium accersiri jubent. Hi repente arma
noscevano il riverente amore verso i Manfredi,
capere, et ex suis ammoniisque amicis treper difendere la città. I Ceroni presero subito le
cento-rum fere armatorum agmine conferto
armi e allestita una schiera, fra parenti e amici
properantes Faventiam concedere, et a Senatu
di Val d'Amone, di circa trecento soldati, partiAulæ Forique tutandi negotium suscipere.
rono subito per Faenza dove ricevettero dal Senato l'incarico di custodire il palazzo del Principe e la Piazza.
NOTE AL PUNTO 25
Col n.25 il Mita compie un salto eccessivo di anni, dal 1460 circa al 1488, cioè l'anno della morte di
Galeotto Manfredi. Ma, e ce ne duole, tace completamente sulla vita e le opere di Carlo II il fratello
dell'appena nominato Galeotto, che meritava invece almeno il ricordo storico di aver per primo
fondato il Contado o la Contea di Valdisenio che ci interessa particolarmente. Sarà allora bene dire
qualcosa su questo Carlo e la sua Contea. Attingiamo ampliamente da due fonti: gli appunti di Don
Giovanni Antonio Linguerri come ci sono pervenuti dai manoscritti Zampieri (Biblioteca di Imola) e
Poggiali (Biblioteca Piancastellana di Forlì) e dal breve, ma lucido lavoro di Leonida Costa, il più
serio e documentato ricercatore di storia della Valle del Senio ("Carlo II Manfredi e la Contea di
Valdisenio"Faenza, Lega 1979). Della discordia di Astorgio II col nipote Taddeo già abbiamo parlato;
qui basta ricordare che grosso modo tutta l'alta Valle del Senio con le rocche di Montebattaglia e
Riolo erano rimaste di proprietà di Astorgio. Quando però questi si staccò dalla lega dei Fiorentini
per aderire a quella dei Veneziani, la nostra valle ne fece le spese per una specie di punizione
eseguita dalle truppe fiorentine guidate dal Duca di Urbino. Si voleva così punire Astorgio del suo
voltafaccia. La valle fu saccheggiata e non si ebbe riguardi per nessuno; si uccise a man bassa, si
depredarono le case di masserizie, di grano, di bestiami, di biancherie "le quali cose vendiano cum
poco presio, si che desfeceono una parte de quella vallata ...". Per tutto questo disastro, anche per
i morti insepolti, si temette una epidemia. Astorgio II parò come potè il colpo, ma forse si sentiva
già poco bene in salute, perchè tre mesi dopo il saccheggio faceva il suo testamento col quale
chiamava a succedergli il figlio Carlo. Astorgio morì il 12 marzo del 1468 e fu sepolto, un sabato,
nel Sagrato davanti alla porta dell'Osservanza. La domenica, cioè il giorno dopo, Carlo ottenne il
Principato. Dal 1468 al 1477 Carlo II Manfredi resse Faenza e le due valli del Lamone e del Senio
che aveva eretto in Contee. La nostra cominciava col comune di Montefiore (praticamente tutta la
vallata della Cestina), di Castelpagano (S. Apollinare, Mercatale, ecc. fino a Baffadi). Baffadi, Casola, Riolo Secco, Mazzolano, Toranello, Gallisterna, ecc. cioè tutto escluso Monte Mauro, la Sintria,
Valdifusa. Mai principe Manfredi fu più di questo sollecito del benessere della valle. Restaurò le
rocche di Montebattaglia e di Riolo, riportò l'ordine compromesso da continue rivalità fra le varie
famiglie, favorì il commercio, l'agricoltura e, specie a Faenza, diede mano a lavori di risanamento
e di abbellimento della città. Per ciò che ci riguarda, riportò nella nostra valle una buona prosperità.
Creò centro della contea di Valdisenio Riolo Secco, visto che a quel tempo Casola non aveva più
rocca e veniva chiamata semplicemente "trivio" o "contrada". A Riolo si istituì la casa della comunità, dove si riuniva il Consiglio della valle presieduto dal Massaro Generale della valle. Ogni Comunità però si eleggeva a piacimento il suo massarolo che aveva l'incarico di riscuotere le tasse a
nome del Massaro Generale, di vigilare sopra gli eventuali delitti e riferirne al Massaro, discutere
nel Consiglio, a nome della Comunità, sulle spese necessarie, le nuove imposte, ecc. Tanto il Massaro che i massaroli stavano in carica per un anno intero e potevano essere riconfermati, previo
però il "sindacato", che era un giudizio cui dovevano sottostare per vedere se avevano agito,
nell'amministrazione, da "buoni padri di famiglia". Ricevevano, per questo incarico, uno stpendio
stabilito. A Riolo, conseguentemente, si trasferì anche il mercato più grosso, rimanendo però a
Casola quello del martedì che consisteva soprattutto nel commercio del bestiame. Dai rogiti del
Cattani sappiamo che l'area del boro boario era di pertinenza e di diritto dell'Ospedale di S. Lucia e
dell'antichissima fraternità di S. Maria eretta in S. Lucia. A Riolo si trasferì anche il "Bancum Juris"
o Tribunale della Contea per le cause civili e penali. Giuristi di valore lo ressero, fra cui Giovanni
Spavaldi e Ser Antonio di Ser Nicola Baruffaldi. Carlo II promulgò anche gli Statuti di Valsenio a cui
spesso si rifanno gli atti pubblici, ma di questi Statuti non c'è rimasto traccia. È ricordato dalle storie
con alti elogi, il capitano della valle Ser Andrea di Peruzzo Maglori sotto la cui guida la Contea fiorì
in ogni campo. Con tutto questo buon governo ci si aspetterebbe una lunga vita al principe Carlo
Manfredi e invece ... Intanto il cugino Taddeo di Imola non si stancava di rendere difficile la vita a
Carlo. Certo Ugolino Viarana aveva tramato una congiura per dare in mano di Taddeo il Castello di
Calamello e venne bandito. La famiglia riparò a Imola e poi a Milano, dove il Duca la onorò, e salì
poi in buona fama. Sotto sotto intanto anche Galeotto Manfredi, fratello di Carlo, giocava a soppiantarlo nel governo. Un altro fratello, il Vescovo di Faenza Federico Manfredi con la sua avarizia
gettava ombra sul Governo di Carlo. Tutto congiurò dunque perchè i giorni di governo di questo
buon principe fossero ormai contati. Ebbe la gioia di sposare una buona moglie, Costanza di Rodolfo
Varano di Camerino, da cui ebbe un figlio Ottaviano, e la soddisfazione di vedere il famoso Taddeo
spodestato dal figlio Guidaccio che lo fece incarcerare a Imola; ma nel 1477 una sommossa popolare decretò la fine del governo di Carlo. Il principe, ammalato, dovette abbandonare il trono sul
quale la plebe chiamò tosto Galeotto, il segreto artefice della sommossa. Carlo II morirà in esilio a
Rimini nel 1484, forse di peste. A questo punto siamo arrivati alla vicenda che il Mita ricorda al
n.25, cioè al fattaccio dell'uccisione di Galeotto Manfredi.
- 26 Postera die per Arcis portam, quam foemina
Il giorno dopo Giovanni Bentivoglio, i Rangoni,
parricida tenebat, ingressi Jo: Bentivolus, Ranquelli di Modena con gran turba di armati engonii, Mutinenses, et ingens turba militum urtrando per la porta della rocca che era occupata
bem invadunt, inque forum se se recipere tendalla donna uxoricida, invasero la città e cercatant. Populus universus accurrens necem hosrono di impadronirsi della piazza. Tutto il popolo
tibus vociferando inclamat, eosque circumsi sollevò al grido di "morte ai nemici" e li accervenit trucidaturus. Bentivolus, qui extrema sibi
chiò da ogni parte deciso a farne strage. Il Bensuisque a populo furenti armatoque imminere
tivoglio si rese allora conto di correre, lui e i suoi,
animum advertit, Ceronios appellatos ad collosicuro pericolo di vita perchè il popolo era armato
quium vocat, et se suosque in fidem eorum
e furibondo e chiamò i Ceronesi a trattativa metpermittit. Moxque amicos, non hostes, auxiliatendosi, coi suoi, nelle loro mani, e protestò anrios, non expugnatores se se accitos obtestazitutto di aver invitato con sè degli amici, non
tur, urbe tamen exire paratos, si senatui, potruppe nemiche in aiuto per espugnare e si dipuloque id parum credenti magis arrideat. Cechiarò pronto ad allontanarsi subito dalla città se
ronii qui apud Faventinos authoritate valebant,
ciò tornava di maggior gradimento al senato e al
et gratia, tumultuante plebe dextere sedata,
popolo. I Faentini gli credevano poco. I Ceronesi
pacatisque nobilium animis, Joannem cum suis
che avevano sui Faentini buon ascendente sia
incolumes Urbe egredi patefacta porta permitper autorità che per amicizia, calmarono con abitunt, et oppidanos ab imminenti clade exilità la plebe e l'animo dei nobili e aperte le porte,
munt. Bentivolus periculo ereptus tam grato
concessero a Giovanni e ai suoi di uscire dalla
dehinc animo in Ceronios fuit, ut nummos,
città. Distolsero così i cittadini da una strage imsubsidiariosque milites adversus eorum hostes
minente. Il Bentivoglio, salvato da quel pericolo,
sponte per occasionem exhibitos sæpenumero
ebbe in seguito tanta gratitudine verso i Ceronesi
tradiderit; Rangonii vero Ceroniensium conda inviare loro, secondo l'occasione, denaro e
suetu-dine delectati, non raro eorum opera hosoldati in aiuto contro i nemici. I Rangoni poi,
norifico munere sint usi.
entrati in amabile famigliarità coi Ceronesi non
di rado si servirono dell'opera loro per onorifici
incarichi.
NOTE AL PUNTO 26
Il fattaccio che il Mita ricorda al N. 25, l'uccisione cioè di Galeotto Manfredi, accadde poco dopo
mezzogiorno del sabato 31 Maggio 1488 a Faenza nella camera della moglie di Galeotto, Francesca
Bentivoglio.
Ma sarà bene spender una parola sulla figura di questo discusso principe Manfredi che spieghi
almeno per quanto può, la dinamica del delitto stesso e le cause che lo originarono.
Galeotto, come si disse, era succeduto, ma meglio sarebbe dire che aveva soppiantato, il fratello
Carlo, il 17 Novembre 1477 nel principato.
Se Carlo impersonò nella teoria dei Manfredi il principe saggio, pacifico e aperto agli influssi culturali
del rinascimento, Galeotto impersonò quello passionale , impulsivo, amante dello intrigo e molto
più aperto al fascino della cabala e dell'astrologia che alle serene attrattive della cultura e dell'arte.
Certo che i tempi in cui regnò erano intrisi di violenze, congiure, colpi di mano a ripetizione e
Galeotto, cui mancava certamente il talento per essere un "principe" alla Macchiavelli, ne respirava
il fascino e il timore. Già ai primi mesi del suo principato, a Firenze c'era stata la congiura dei Pazzi
dalla quale Lorenzo il Magnifico era scampato per vero miracolo.
Il fratello Vescovo Mons. Federico Manfredi, che si era stabilito a Lugo, non faceva misteri della sua
intenzione di minar il trono a Galeotto contro il quale ora fomentava il partito che sosteneva Ottaviano, il figlio di Carlo. Galeotto era terrorizzato da tutto ciò e per esorcizzare questo pericolo non
aveva trovato di meglio che l'amicizia di Girolamo Riario, nipote del Papa e imparentato, tramite
Caterina Sforza sua moglie, col duca di Milano. Girolamo Riario era ora il Signore di Imola, acquistata dal Duca Galeazzo Sforza coi soldi del cardinale di San Sisto e con la dote della moglie stessa.
Quest'amicizia doveva facilitargli anche l'investitura di Vicario da parte del Papa legittimando così
la sua elezione al principato.
Nel 1480 poi il Riario aveva ottenuto dal Papa anche l'investitura di Forlì e così Galeotto si sentì al
sicuro sia a levante che a ponente. Con Lorenzo il Magnifico, cioè a sud, i rapporti erano cordiali.
Lorenzo garantiva Galeotto dai colpi di mano di Ottaviano che manteneva rinchiuso come in una
prigione a Pisa. Con tutto ciò Galeotto era sempre sospettoso e cercava il modo di tutelarsi. Nel
1481 aveva sposato Francesca la figlia di Giovanni Bentivoglio Signore di Bologna.
Purtroppo nel campo degli affetti familiari Galeotto lasciava molto a desiderare. Tutt'altro che uno
specchio di fedltà coniugale, disseminava per Faenza la sua progenie. Due figli naturali di nome
Francesco e Scipione avevano libero accesso a corte e questo non è che facesse molto piacere a
Francesca; ma ciò che più la indispettiva era l'aperta relazione che Galeotto manteneva con una
certa Cassandra, oriunda di Ferrara, che era una donna ambiziosa e molto vanitosa. Passeggiava
per Faenza sempre vestita in gran pompa per cui i Faentini le appiopparono subito il nomignolo di
"La Pavona". Anche da lei Galeotto ebbe discendenza: un maschio di nome Giovanni Evangelista.
Finalmente il 20 Gennaio del 1485 alle 10,30 anche Francesca gli diede un erede: Astorgio o Astorre
III. Penso che ciò basti a sottolineare il carattere passionale del principe e a giustificare il rancore
di Francesca verso il marito infedele. Ma la passione per l'astrologia, vista come divinazione del
futuro, decretò la sua crudele morte.
Appassionato di questa misteriosa materia, Galeotto aveva contratto una tale amicizia con un frate
francescano dei minori osservanti: frà Silvestro da Forlì, matematico ed esperto in astrologia da
trascurar anche il buon governo del principato per discutere col frate di congiunzioni di astri benefici
e malefici per lunghe ore. Il frate pian piano fu l'uomo più influente. Aveva tale accesso a corte che
tutte le pratiche del governo passavano per le sue mani.
Francesca si vide così doppiamente trascurata. Quando poi un giorno spiò, nascosta, la conversazione dei due che erano venuti nella convinzione che le stelle avvertivano della morte violenta o di
Galeotto o del figlio per mano di un congiunto e forse si fece anche il nome di Giovanni Bentivoglio,
Francesca non resistette e uscì dal nascondiglio gridando improperi allo indirizzo del frate e del
marito. Galeotto indispettito le allungò un ceffone facendola uscire dalla stanza. Fu la goccia fatale.
Francesca decise in cuor suo di vendicarsi tremendamente. Il ceffone o guanciata come si diceva
allora, rappresentava l'offesa maggiore. Nella stessa famiglia Manfredi un paio di secoli prima, un
gesto simile determinò una strage: quella ricordata da Dante compiuta da quell'Alberico delle
"Frutta del mal orto". Francesca se ne fuggì a Bologna col piccolo. Per diversi mesi si cercò di
raggiungere una riconciliazione e Galeotto dovette accettare alcuni patti . Scacciare frà Silvestro,
far rinchiudere "la Pavona" nel monastero di S. Maglorio, dimostrarsi pentito del fatto. Francesca
tornò nel 1488, se veramente convinta o meno di rifarsi una famiglia lo giudichi chi può. Nello
stesso anno, 1488, il 14 Aprile, a Forlì Girolamo Riario cadde sotto il pugnale di congiurati. Suo zio
Papa era già morto nel 1484 e ora sulla sedia di Pietro sedeva Innocenzo VIII (Gianbattista Cibo)
e ciò facilitò la decisione degli assassini che non temevano troppe vendette. La notizia fu accolta
con dolore da Galeotto. Si era incontrato con l'amico pochi giorni prima nella chiesa dei Servi di
Faenza dove, insieme con la moglie Caterina Sforza si era fermato per per vedere il sepolcro del
beato Giacomo. Nessuno di loro due sospettava che nel giro di 50 giorni li avrebbe accolti, colpiti
dalla stessa sorte, il sepolcro. La morte del Riario rimbalzò anche da noi della Valle del Senio con
una singolare reazione. Quelli di Monte Battaglia, evidentementi scontenti del governo Riario sotto
il quale erano andati a finire con Riolo e Casola per alterne vicende, giudicando che loro erano
sempre stati sudditi dei Manfredi, con uno stratagemma si impadronirono della rocca ingannando
il custode e la offrirono a Galeotto che però pensò bene di non accettarla. Venendo ora a dir del
delitto, si deve riconoscere che l'artefice principale fu Francesca Bentivoglio, ed è possibilissimo che
in ciò fosse consigliata dal padre.
Galeotto venne invitato dalla moglie che diceva di non sentirsi troppo bene, in camera sua. Qui
l'attendevano tre uomini nascosti sotto il letto. La camera era quasi al buio tanto che Galeotto
chiese al servo di aprire un pò le imposte . Ebbe come risposta una gran spinta che lo gettò nelle
mani degli assassini. Breve, ma energica fu la lotta di Galeotto che quasi quasi riusciva a sfuggire
ai tre sicari, ma ecco la moglie che balzata dal letto e raccolto un pugnale caduto gli fu sopra
vibrandogli un gran colpo nel ventre. Fu finito dagli altri.
Il delitto suscitò a Faenza e dintorni un'enorme impressione. Il popolo non fu dalla parte di Francesca perchè subodorò che sotto tutta quanta la faccenda ci giocasse l'aspirazione di Giovanni Bentivogli di impadronirsi di Faenza. Francesca si rifugiò nella rocca ed ecco subito muoversi da Bologna
Giovanni con armati di Modena, con il Bergomi e squadre di soldati chiamate da Forlì dal Bentivoglio.
Il terrore invase il popolo che si armò in gran fretta. Fu radunato il consiglio generale che proclamò
principe il piccolo Astorgio e invitò quei di val d'Amone, cioè i Ceroni a scendere a Faenza per
presidiare la piazza e le porte. Ciò che fecero immediatamente. Con ogni probabilità li capeggiava
Dionisio o Vincenzo Naldi. Siamo così al racconto del Mita che, per amore di verità, dobbiamo dire
che non corrisponde troppo a ciò che si trova nella storia del Tonduzzi.
Qui si legge che il Bentivoglio fu consegnato nelle mani dell'ambasciatore Antonio Boscoli che Firenze aveva inviato a Faenza. L'ambasciatore lo avrebbe portato a Modigliana per evitare la valdell'Amone dove insieme ai Ceroni c'erano troppi nemici del Bentivoglio e da Modigliana alla villa di
Cafaggiolo, in Mugello, dove Lorenzo il Magnifico lo fece proseguire per Bologna. Anche il Metelli
abbraccia in parte questa tesi. Va però notato che questa parte della "storia" del Tonduzzi è stata
corretta e rimaneggiata da Pietro Maria Cavina quando, per la morte dell'autore, fu incaricato di
curare la stampa che era ormai a metà.
Il Cavina era un naturale avversario dei Ceroni e non ci si poteva aspettare che proprio lui facesse
risaltare quella pagina di lode per i Ceroni. Del resto il Mita scrive molto prima del Tonduzzi e doveva
pertanto essere a conoscenza di come erano andate le cose. Tutto quello che Tonduzzi, cioè il
Cavina, sa dire sull'opera dei Ceroni si trova a pag. 533 in queste laconiche parole: "...fecero ancora
armare il popolo, e convocate le milizie di tutto lo Stato, massime di Valdilamone ...." Non una
parola di ciò che hanno fatto una volta arrivati a Faenza questi Ceroni. Quando poi c'è da dirne
peste, ecco: "Quelli di Valdilamone tra gli altri fecero maggior strepito, e maggior fatica fu a salvarlo
dalle loro mani, che più e più volte tentarono d'ucciderlo" (pag.534).
Qui c'è addirittura il capovolgimento di quanto affermato dal Mita e sinceramente si stenta ad ammettere che i Ceroni chiamati a mantener l'ordine in Faenza fossero invece quelli che fecero maggior
strepito spingendo al linciaggio del Bentivoglio.
Ammettiamo pure che il Mita si sia lasciato un pò prendere la mano facendone i protagonisti d'una
scampata strage, ma certamente qualcosa di buono i Ceronesi lo compirono davvero e se anche
non vogliam credere a tutte le manifestazioni di riconoscenza del Bentivoglio verso i nostri, dobbiamo ammettere che non vi fu in seguito da parte sua nessuna manifestazione di rancore, nessun
tentativo di vendetta come sarebbe stato naturale se i Ceroni si fossero comportati nel modo voluto
dal Cavina.
- 27 –
Roma regressus Sacerdos quidam ex Ceronia
stirpe sub annum ferme 1490 remeabat in Patriam cum diplomate plebem Apri a Sum. Pont.
sibi collatam indicante. Cæterum in Apennino a
sicariis circumventus, diplomate surrepto, contumeliis, ictibus plurimis afficitur. Ceronii id
jussu aliquorum ex Rondaninis, qui et ipsi ad
Plebem eamdem adspirabant, actum rati, tam
gravem injuriam vel dissimulandam, vel diu ferendam minime censentes Caesari Rainaldi filio
ultionis negotium mandant. Is cum undecim armatis Faventiam ingressi Sixtum Rondaninum a
secretis Dominorum de Manfredis, virum prope
aulam ipso in foro inventum telis confossum
enecant, et fuga exeunt ex urbe. Cæterum cum
unus eorum fugiens alio flexisset viam, nec dum
videretur se se foras ejecisse, extemplo urbem
regressi, qui exierant, ut consorti præsto essent
ad periculum, res aliter ac rati fuerant evenit.
Si quidem jussu Prætoris portis repente clausis,
cum ad arma signo dato milites concurrissent,
comprehensi omnes, qui in noxa fuere, vincti in
custodiam arcis lictoribus dantur. Ceronii pro
redemptione captivorum Florentiam concedunt,
et a Magnifico Laurentio Mediceo Reipublicæ
primario favores exposcunt; is enim tutor dativus Astoris quarti, qui Galeotto successerant in
Principatu, erat. Laurentius, cui admodum accepti erant Ceronienses, jubet, ut quatuor ex
eis in vinculis retentis, cæteri vadimonio
præstito liberi fiant; retentorumque, ac Fisci
æqua lance jura pendantur. Cæterum dum res
protrahi nimis videtur, Brunorius Ceronius, qui
Ductor peditum pro Florentina Republica domi,
militiæque stipendia merebat, cum aliquot ex
suis iterum Laurentium adiit, et ut captivi honesta tandem compositione liberi fiant, humiles
porrigit preces. Mediceus Ceronios e carcere liberandos ait, cæterum amicum eorum e Forolivio una cum ipsis vinculis constrictum, ut justitiæ, læsisque justa persolvantur, supplicio dandum. Hoc ubi Ceronii audiunt, universi una voce
conclamant: Absit a nobis probum hoc detestabile cunctis, ut amici periculo salvi nostri fiant,
quin imo diris cruciatibus ex nostris quicumque
mactentur, dummodo incolumis e vinculis emittatur amicus.Hæc Laurentius miratur universis,
qui circa se erant in aula stupentibus, Ceronios
priscis Damoni Pithiæque adæquans, Brunorium ad aures docuisse ferunt, uti carcerati
omnes vitæ periculo eripi possent. Fidentes itaque in patriam regressi, moxque suorum agmine conferto Faventiam accedunt, et duodeviginti ex aula Principis viros, qui ad templum
Observantum extra moenia declinabant, circumve niunt inopinantes, et ad arcem Montis
Un sacerdote della famiglia Ceroni verso l'anno
1490 ritornava in patria da Roma con un diploma col quale il Sommo Pontefice lo nominava Parroco della Pieve di Apro (Pideura).
Sull'Appennino venne assalito da sicari, derubato del diploma e fatto segno a molte ingiurie
e percosse. I Ceronesi, persuasi che ciò fosse
accaduto per ordine della famiglia Rondanini,
che pure aspiravano a quella Pieve, giudicarono
di non dover nè passare sopra, nè tollerare a
lungo un'ingiuria così grave e inacaricarono Cesare, figlio di Rinaldo, di farne vendetta. Questi
allora, con undici uomini armati entrò in Faenza
e in piazza si imbattè con Sisto Rondanini, segretario dei principi Manfredi e uomo di corte;
lo uccise a frecciate e scappò dalla città. Uno
del gruppo però, nella fuga, smarrì la via giusta. I suoi compagni, non vedendolo uscir fuori,
torna-rono in città per dargli una mano. La faccenda però andò in modo diverso da come avevano pensato; per ordine del Pretore, infatti, si
chiusero subito le porte e fu dato l'allarme. I
soldati corsero alle armi, i colpevoli furono tutti
arrestati e tradotti dalle guardie nelle carceri
della Rocca. Per liberare i prigionieri i Ceronesi
si portarono a Firenze ad implorare la grazia da
Lorenzo dei Medici, il Magnifico, capo della Repubblica, poichè egli era per decreto tutore del
principato di Astorre IV succeduto a Galeotto. I
Ceronesi erano molto cari a Lorenzo per cui egli
ordinò che solo quattro del gruppo fossero trattenuti in carcere e che si liberassero, dietro garanzia, gli altri e intanto si valutassero i prò e i
contro degli accusati di fronte alla legge. Ma
sembrò ai Ceronesi che la cosa si menasse
troppo per le lunghe e così Brunorio Ceroni, che
militava stabilmente per la Repubblica di Firenze come Capitano di fanteria, con alcuni dei
suoi, si presentò di nuovo a Lorenzo pregandolo
umilmente di liberare i prigionieri a convenevole condizione. Il Medici allora sentenziò che
fossero liberati i Ceronesi, ma per soddisfazione
della giustizia e della legge fosse giustiziato un
loro amico forlivese che era in carcere con loro.
All'udir questo tutti i Ceronesi gridarono ad una
voce:"Lungi da noi una così detestabile vergogna da essere noi salvati a scapito di un amico;
sia piuttosto messo a morte crudele ognuno di
noi ma sia salvo il nostro amico!" Lorenzo ne
restò ammirato e ne fecero meraviglia anche i
cortigiani che gli stavano attorno i quali paragonarono i Ceroni agli antichi Damone e Pizia.
Corre voce che Lorenzo stesso insegnasse in
segreto a Brunorio il modo di sottrarre i prigionieri alla morte. I Ceroni, ritornati pertanto
pieni di fiducia a casa loro, raccolsero una
Majoris veluti obsides e vestigio in custodiam
ducunt, nec dimittuntur, donec memorati quatuor vinculis obstricti, misso omni vadimonio
cum ipsis Aulicis, pari compensatione permutantur.
schiera di uomini, andarono a Faenza e assaliti
all'improvviso diciotto ragguardevoli persone di
corte che si recavano alla chiesa dell'osservanza, posta fuori delle mura, li sequestrarono
e li condussero subito sotto scorta, come
ostaggi, nella rocca di Monte Mauro e li liberarono soltanto quando i quattro prigionieri in catene di cui si è detto non furono scambiati con
questi personaggi, senza condizioni, così, alla
pari.
NOTE AL PUNTO 27
Il Mita riporta un grave fatto del 1491: l'assassinio per vendetta di Sisto Rondanini. Abbiamo letto
la dinamica del delitto. Possiamo chiederci:"chi è il prete derubato del diploma?".
Ci può illuminare in ciò il notaio Ser Franco Macolini (foglio 112) che riporta la lite fra i Ceroni e i
Carroli (o Caroli), o meglio, registra una delle tante e mai mantenute paci fra i casati. Nel 1494,
dice il Macolini, i Caroli figli e nipoti di Francesco di Dodo di Montecchio di Pozzo, reclamarono il
saldo di un debito di danaro di cui erano creditori coi Ceroni, ma questi risposero picche per cui i
Caroli, per dispetto chiusero o distrussero alcuni sentieri campestri che passavano nella loro proprietà e dei quali si servivano quelli di Ceruno. Ciò provocò una violenta reazione da parte dei
Ceroni che incendiarono le case dei Caroli, previo saccheggiamento. Di rimbalzo i Caroli se ne
andarono alla chiesa di San Leonardo e la saccheggiarono asportando tutto il grano che trovarono.
Qui era priore Don Melchiorre fratello di Rinaldo e zio di Cesare nonchè di un'altro nipote, sempre
fratello di Cesare che si chiama Don Cristoforo. Sono del parere che sia proprio quest'ultimo ad
essere rapinato del diploma e il fatto che venga scelto il di lui fratello per la vendetta può essere
illuminante. Fra Caroli e Rondanini c'era una buona intesa. Compiere un assassinio per uno sgarbo,
sia pur grave come quello di rapinare un prete, non meravigli nessuno. Si uccideva per molto meno
e i Ceroni erano gente da non accettare soprusi da nessuno senza lavarli nel sangue.
Parlando di Cesare di Rinaldo convien fermarsi brevemente a dir qualcosa sulla famiglia.
Il capostipite dei Rinaldi Ceroni è appunto il padre di Cesare e di Don Cristoforo: Rinaldo figlio di
Giovanni soprannominato il "Lanciere" per una certa bravura nel manovrare il giavellotto o lancia.
Tutti i discendenti di questo Giovanni erano indicati come "Lancieri", e così si sarebbero sempre
chiamati come famiglia, ma, stranamente, ogni figlio di Giovanni diede invece origine a un nuovo
casato, come ci dirà presto il Mita. Da Rinaldo prendono nome i "Rinaldi". Con Cesare e Don Cristoforo Rinaldo ha altri maschi: Benedetto soprannominato Comparino, Filippo detto Doro, Pier Antonio, Achille, Uguzzone, Gentile e Giovanni. Come il padre, quasi tutti i figli erano uomini d'arme.
Rinaldo sappiamo che era stato scelto da Galeotto Manfredi a custode della rocca di Calamello e
questo già il 19 Settembre 1481. Pier Antonio (cfr. notaio Lancia delle Lance) è stato custode della
rocca di Monte Mauro e Comparino sarà poi custode di Monte Battaglia prima di essere il valoroso
difensore di Monte Mauro dagli assalti delle truppe di Cesare Borgia. La loro casa natale potremmo
localizzarla al Castelletto di Pagnano; qui infatti si rogano vari atti notarili in uno dei quali si trovano
elencati i figli di Rinaldo. A Pagnano muore nel 1513 Pier Antonio. Da Castelletto (ora Casoletto)
emigreranno verso Baffadi, Valsenio e nel Borgo stesso di Casola.
Dunque una famiglia in cui il mestiere delle armi era una tradizione. Cesare, primogenito di Rinaldo,
deve essere un uomo di audacia e perciò quanto mai atto all'impresa di guidare il gruppo degli
undici armati fin dentro il cuore della città. È il 10 Settembre 1491 (cfr. Metelli). Non si sa se la
vittima designata dovesse essere proprio Sisto, segretario e agente di Manfredi, ma si cercava
certamente uno dei Rondanini. La famiglia, ben conosciuta e stimata, abitava appunto in città da
tanti anni, ma era originaria della valle del Lamone. L'assalto al prete era stato portato da sconosciuti sicari, la vendetta doveva apparire altrettanto misteriosa: un colpo di balestra e la fuga e ad
ogni evenienza il gruppo doveva rimaner compatto per poter dar manforte. La cosa andò come
andò. Non dimentichiamo che a Faenza il principe Astorgio III ha appena sei anni e la cosa pubblica
è in mano del Consiglio che agisce però all'ombra del Commissario fiorentino rappresentante di
Lorenzo dè Medici tutore del piccolo Astorgio. È quindi più che naturale che i Ceroni si rivolgano a
Firenze per ottener clemenza. Sarà effettivamente andata così la liberazione dei prigionieri? È possibilissimo e non abbiamo motivo di dubitarne. Dalla diplomazia di Lorenzo il Magnifico ci si può
aspettare di tutto, anche il consiglio di sequestro di persona come si dice abbia dato a Brunoro di
Ceruno. La bella figura poi che il Mita si affretta a sottolineare dei nostri Ceroni pronti a morire
piuttosto che tradire l'amico forlivese, anche se infiorettata d'un immagine così tipicamente "rinascimentale" come quella di Damone e Pizia (*) rientrava nel gioco del buon chiedere e l'accettiamo
senz'altro. Quanto tempo saranno rimasti in prigione a Faenza gli ultimi congiurati ? Non certo un
lungo periodo come potrebbe far pensare il racconto del Mita. Il colloquio col Magnifico è certamente
avvenuto verso la fine del 1491, forse poche settimane dopo il fattaccio; nei primi mesi dell'anno
dopo infatti Lorenzo il Magnifico era infermo e l'8 Aprile del 1492 rendeva l'anima a Dio. Prima di
quella data dunque era avvenuto anche il sequestro dei notabili di Faenza e il loro trasferimento
nella rocca di Monte Mauro. luogo certamente inespugnabile per qualsiasi drappello di soldati faentini che fossero stati inviati a liberarli e soprattutto custodito da un'altro Rinaldi, come si è detto,
cioè Pier Antonio. Tutto calcolato bene.
(*) Damone e Pizia, filosofi pitagorici, amici, furono calunniati per invidia al tempo di Dionigi il
Giovane, tiranno di Siracusa. Pizia fu condannato a morte, ma avendo bisogno di allontanarsi per il
disbrigo di gravi suoi affari prima di morire, ottenne dall'amico Damone di essere sostituito in carcere, a rischio della stessa vita, fino al ritorno. Pizia ritornò, Damone venne liberato e Dionigi ammirato graziò Pizia e fu loro amico.
- 28
Præerat ejusdem Arcis custodiæ pro Ammonia
ditione anno a Virginis partu quingentesimo supra millesimum Compadrettus Raynaldi, ejusdem qui supra Cæsaris frater, qui cum militibus
ferme quinquaginta ex suis tutabatur Arcem,
cum Vitelloccius Cæsaris Borgiæ copiarum
Præfectus cum acie instructa ipsam arcem oppugnaturus illuc accessit. Verum Compadrettus
arce erumpens hostibus obviat, plures obtruncat, cæteros levi suorum jactura fundit, ac fugat. Borgias his auditis ira percitus summa vi,
atque omnibus copiis arcem oppu-gnare parat,
et qua potest obsidione cingit, atque oppidanos
ad unum obtruncare execratur. Tandem decimo
post die deficiente commeatu speque subsidii
destitutus Compadrettus arce cum suis abscedit, et per occultos tramites nigrore noctis incolumis evadit: exinde arx, nemine repugnante,
capta diruitur. Compadrettus dehinc sub Julio II.
Pont. Max. Ductor peditum ad Bastiam acri fortitudine dimicans vulneratus concidit, sed brevi
convalescens magnis muneribus ab ipso Pontifice decoratur.
Nell'anno 1500 era custode della rocca di Monte
Mauro, a nome dei signori di Val d'Amone,
Comparino di Rinaldo fratello di quel medesimo
Cesare qui sopra ricordato e la difendeva, con
una cinquantina di soldati scelti fra la sua
gente, dallo assalto di Vitellozzo capitano delle
truppe di Cesare Borgia, mandato ad espugnare la rocca. Comparino (resisteva, anzi) facendo una sortita, si gettò contro i nemici facendone strage e mettendoli in fuga e riportando invece lievi perdite. Il Borgia allora, appresa la notizia, bollì di rabbia e si accinse a
stringere d'assedio la rocca con tutte le soldatesche giurando che non avrebbe lasciato vivo
nessuno dei difensori. Dopo dieci giorni vennero a mancare i viveri e svanì la speranza di
ricevere soccorso per cui Comparino in una
notte buia abbandonò coi suoi soldati la rocca
e, attraverso sentieri sconosciuti, si mise in
salvo. Senza più alcuna difesa, la rocca fu subito conquistata e distrutta. In seguito Comparino militò sotto l'arme del Papa Giulio II, come
capitano di fanteria e anzi combattè valorosamente presso la Bastia. Riportò grave ferita
dalla quale però si rimise presto. Ricevette dallo
stesso Papa onori e doni.
NOTE AL PUNTO 28
Sull'episodio della difesa di Montemauro abbiamo la conferma anche del Tonduzzi, alias Cavina, che
precisa addirittura il numero dei nemici uccisi da Comparino nella famosa sortita: dodici. L'assalto
di cui si parla dovrebbe essere avvenuto nel mese di Novembre del 1500 in occasione del primo
tentativo di prendere Faenza da parte di Cesare Borgia. Il Valentino si era mosso all'impresa circondato dai più valenti capitani: Paolo e Giulio Orsini, Vitellozzo, Giampaolo Baglioni, Onorio Savelli,
Ferdinando Farnese e altri. Commissionatagli dal Borgia la presa di tutti i castelli della Val d'Amone,
Vitellozzo se ne venne da noi con 500 cavalli. La capitolazione di Brisighella e delle rocche vicine fu
un facile gioco anche perchè i Naldi, ostili ad Astorgio e ai faentini, facilitarono la resa, ma non fu
così per Montemauro dove Comparino, fedele ai Manfredi si comportò come abbiamo visto. Che la
rocca fosse imprendibile è facile intuirlo e pertanto il Valentino non si azzardò ad assalirla d'impeto,
ma la strinse d'assedio. Come facesse poi Comparino a sfuggire al cerchio degli assedianti resta un
mistero. La zona di Montemauro è ricca di grotte e gallerie sotterranee scavate nella vena del gesso.
Saremmo tentati di credere ad un passaggio segreto che dalla rocca portasse in una di queste. Si
favoleggia infatti di qualche passaggio misterioso che nei tempi andati collegava la rocca con la
Tana del Re Tiberio. Certamente un'assurdità, ma effettivamente uno stratagemma di proporzioni
molto minori, una galleria magari scavata nei blocchi di gesso può aver portato alle spalle dei soldati
del Borgia il piccolo gruppo dei valorosi Ceroni i quali, c'è da immaginarselo, raggiunsero Ceruno
dove si poteva organizzare una difesa più consistente. Il Borgia non attaccò mai Ceruno. Conosceva
che i Ceroni non eran facile preda se nella sua corrispondenza coi capitani troviamo la raccomandazione di farsi amici i Ceroni e "specialmente i Rinaldi" perchè potevano creare notevoli grane.
Fatto da un condottiero di quel calibro, anche se indirettamente, è pur sempre un bell'elogio per i
nostri guerreschi Ceroni.
Tornando a Comparino non ci rimane che stabilire quando fu ferito in battaglia e dove finì i suoi
giorni. Poichè si fa cenno della Bastia, ciò dovette avvenire nel Maggio del 1509 quando il Duca di
Urbino venne con l'esercito pontificio in Romagna. Era Legato pontificio il Card. Francesco Alidosi
di Castel del Rio. Siamo all'indomani della lega di Cambrai e per Venezia comincia il declino della
sua potenza in terra di Romagna. Muovendosi da Solarolo che si era arreso prontamente al Legato,
l'esercito marciò verso la Val d'Amone appena contrastato al ponte di S. Procolo (ponte sul Senio
tra Castel Bolognese e Faenza) dove c'era una rocca chiamata appunto Bastia. Qui Comparino
venne ferito e ricevette, probabilmente dal Legato stesso, le attestazioni d'onore di cui si parla.
Comparino, che ebbe casa anche a Riolo, finì i suoi giorni al Cozzo di Baffadi nel 1510. Qui, celibe,
conviveva con il fratello Achille, che lasciò suo erede. Qui lontano dalle guerre si dedicò ad opere
di pace. Lo troviamo anche priore dell'ospedale della Cestina. Venne sepolto nella chiesa di Baffadi.
Resta nella storia come il campione e la gloria di casa Rinaldi Ceroni.
- 29 Sed hic non indignum videtur aliqua referre,
quæ ad hanc familiam generatim pertingunt,
priusquam partes singulas attingam. Ficchiæ
igitur gentes per tempora adeo propagatæ
sunt, ut propter multitudinem plerique a parentibus digressi diversas colonias habuerint.
Siquidem Romani montis Ammoniæ ditio-nis
prædia aliquot, ubi ædes construxere amplas,
tenuere coempta: extinctaque Maghi-nardi Pagani progenie, castroque diruto jus illud fere
totum, prædiaque nonnulla in villa Baffadii
possiderunt Nutius, Ficchiusque; Alii montis
Oliveti, Pagnani, Sancti Ruffili, Stiphontis, Putei, et S. Andreæ, emptis ibi pluribus terris, et
tectis honestis ædificatis incolæ fuerunt. Ditiores ex eis partem vici Casulæ, qui olim supra
collem situs a Faventinis anno Domini 1200 dirutus erat, in planitiem secus flumen Senium
ampliori structura exædificarunt habitaruntque, emporium, varias artes, atque mercaturas inibi instituentes, et exercentes ex
parte. Non enim tunc erat ex eis, qui se se luxui, aut inertiæ corrumpendum daret: sed qui
coeteris animo, reque familiari præstabat accuratius arma tractare, militiæ strenue per occasiones inservire, venari, equitare, Dominorum, amicorumque negotiis studiose operam
navare, plurimos eorum apud se se, vel dum
animi causa rura peragrantes ad nostrates diverterent, vel judicium timentes, aut exules
facti ad eos, ceu ad asilum refugerent, recipere, victumque pro dignitate præbere. Prædia
namque eorum. quæ in Ammonia, Imolensique ditione, ac circa possidebant, omnium rerum, quas ad victum, et cultum natura desiderat, abundantiam suppeditabant, quam in dies
augebat parsimonia: ita ut nedum frugalem,
sed et opiparam mensam hospitibus extemplo
præberent, inque ampla tecta dignissima suppellectili, argenteisque patinis ex spoliis urbium præcipue collectis, ornata reciperent. Si
qui ingenio juxta ac pietate præditi erant, clericali militiæ initiati, sacerdotia ex finitimis Paroeciis assequi, vel monasticæ disciplinæ submitti. Alii legibus studentes, vel patroni causarum, vel judicis, aut scribæ officium exercere. Cæteri, qui omnino agrestes erant, aut
quibus res familiaris nimis erat angusta, affinium in primis arva colere, artes exercere, aut
militiæ inservire, et a suis omnino foveri. Foeminæ vero suapte natura lino lanæque, veluti
tot Cajæ, apprime intendere, et in administranda conservandaque re familiari, arte, industriaque multas anteire. Ita ut Ficchios præ
ceteris Ceroniis abundantioribus opibus præditos esse haud fuerit difficile factu.
Ma a questo punto non sarà inutile riferire le vicende riguardanti la famiglia Ceroni in generale
prima di venir a trattare d'ogni singola parte.
Dirò dunque che i Ficchi col passar degli anni si
moltiplicarono e crebbero in numero tale che
molti di loro si separarono dai parenti e costituirono varie colonie. Occuparono in questo modo
alcuni poderi di Monte Romano nella Signoria di
Val D'Amone dove costruirono belle abitazioni.
Nuccio e Ficchio soppiantando quasi del tutto la
stirpe di Maghinardo Pagani, ormai estinta e il
castello diroccato, Nuccio e Ficchio diventarono
proprieta-ri di quasi tutto quel territorio, ma avevano anche alcuni terreni nel villaggio di Baffadi.
Altri si stabilirono a Monte Oliveto, a Pagnano, a
San Ruffillo, a Stifonte (Settefonti), a Pozzo e a
S. Andrea dove comperarono terre e costruirono
case in buon numero. Quelli di loro che erano
dotati di maggiori mezzi ricostruirono, nella
piana verso il fiume Senio, con ampiezza maggiore, parte del borgo di Casola che un tempo
era posto sopra il colle (Chiesa di sopra) e che
era stato distrutto dai Faentini nel 1200. Abitarono qui nel borgo, vi aprirono un mercato esercitandovi vari mestieri di artigianato e, in parte,
il commercio. Non erano allora di quelli che si
lasciano corrompere dal lusso e dall'ozio, ma
piuttosto di quelli che con coraggio e forza si dedicavano con passione all'arte delle armi e,
quando se ne offriva l'occasione, servivano con
valore nella milizia, andavano a caccia, cavalcavano e si prendevano cura degli affari dei loro
signori ed amici. Accoglievano lietamente molti
che per divertimento se ne andavano in campagna e facevano loro visita o che, timorosi di pene
o esuli, si rifugiavano presso di loro cercando un
asilo. A tutti questi fornivano il vitto in conformità del loro stato. I poderi che possedevano nel
territorio di Val d'Amone, di Imola e luoghi circostanti fornivano loro quanto può naturalmente
desiderarsi e per il vitto e per il vestiario. Tutta
questa ricchezza aumentava ogni giorno grazie
alla loro frugalità. Agli ospiti giunti anche all'improvviso approntavano una mensa non certo
parca, ma addirittura splendida, e li alloggiavano
in buone case arredate con ottime suppel-lettili
e vasi d'argento, tutto frutto del bottino fatto
nelle città. Se qualcuno poi si segnalava per ingegno e pietà, cercava di mettersi nella carriera
ecclesiastica e di conseguire il ministero delle
parrocchie vicine o di consacrarsi alla disciplina
monastica. Altri, interessati alle leggi, esercitavano l'ufficio di avvocato, di giudice o notaio. I
restanti, che erano solo contadini e molto poveri
di mezzi, coltivavano per lo più i poderi dei congiunti, esercitavano mestieri, si dedicavano
all'arte militare, sempre aiutati in tutto dai parenti. Le donne poi per loro natura si dedicavano
a lavori di lino di lana come tante Caie e nel governare e custodire la casa erano superiori a
molte. E capitò così facilmente che i Ficchi divennero più ricchi degli altri Ceroni.
NOTE AL PUNTO 29
Il n.29 contiene l'elogio idilliaco dei Ficchi. Il Mita che si considera a tutto diritto un loro discendente,
si entusiasma al ricordo della frugale e serena vita degli antenati. Gente dedita al lavoro, schiva
dell'ozio, cordiale, generosa, ecc. Un quadretto da Bucoliche Virgiliane.
Che fosse proprio così? Uno sguardo storico tende purtroppo a sfrondare un pò. Già abbiamo visto
l'epoca piena di contrasti di parte e fra le righe dell'elogio si può anche intravvedere che i pacifici
Ficchi non erano poi tanto estranei a tutti i maneggi e i raggiri della politica corrente. Si impadroniscono di gran parte del territorio di Monte Romano soppiantando la stirpe di Maghinardo Pagani,
così dice il Mita, e distruggendo il castello. Certamente i Ficchi abitarono Monte Romano, ma non
credo abbiano avuto bisogno di soppiantare nessuno in quanto (cfr. "Testamento di Maghinardo"
del 1302) il territorio di Fontana Moneta, Fornazzano Valdifusa, Pian di Castello, e penso anche
Monte Romano, viene lasciato da Maghinardo a Bernardino Pagani, figlio del suo fratello Paganino,
che è Priore di Popolano. Un prete, cioè. Di castelli, niente. Maghinardo, in quel di S. Martino in
Gattara, lasciò appena una rocca o come si chiamava allora una tomba: "La Cittadella", di nessuna
importanza, e la lasciò a Ugolino, un bastardo, suo fratello. Non penso però si tratti di questa nel
racconto del Mita.
Verissimo poi che Nuccio di Perusino e Fecchio avevano proprietà in quel di Baffadi. Fecchio, e in
particolare i suoi discendenti, abitarono in prevalenza a Casola. Voler però attribuire ai Ficchi la
riedificazione del paese distrutto nel 1216 (e non nel 1200) dai Faentini mi sembra un pò troppo. I
Ficchi probabilmente hanno acquistato case nella Casola risorta presso la riva del fiume Senio, visto
che al tempo della distruzione suddetta i Ficchi, stando sempre al racconto del Mita, non erano
ancora giunti in Val d'Amone. Penso che Casola nuova ricostruita dai vecchi Casolani, fosse già una
discreta piazza di mercato e forse da un secolo quando vi comparvero i Ficchi. Ho il dubbio che
qualche mio lettore non abbia avuto sott'occhio una delle chiacchierate riportate da LO SPECCHIO,
quella, voglio dire, della distruzione di Casola nel 1216. Per questi riassumerò brevemente che
appunto in quell'anno, dal 2 al 16 giugno, i Faentini, che già in precedenza avevano usurpato agli
Imolesi il territorio di Casola, vennero a porre assedio alla Rocca o Castello di Casola e a quella di
Montefortino dove gli abitanti asserragliati resistettero con incredibile audacia sperando invano di
essere soccorsi dagli Imolesi. Non ebbero soccorso alcuno e dovettero perciò arrendersi al Podestà
di Faenza Guido di Lambertino il quale assicurò la vita ai difensori, ma decretò che il Castello di
Casola, che sorgeva nei pressi della Chiesa di Sopra, e tutte le case fossero rase al suolo. Si salvò
solo la vecchia chiesa, che restò attonita spettatrice dei nostri antenati che scesero in fondo "ai
campi di Casola" nei pressi d'una sorgente (di qui via della Sorgente), sulla riva del fiume, dove
costruirono un pò di baracche e in seguito nuove case. Niente vieta di pensare che già prima vi
fosse qui un'area da mercato. Da queste considerazioni viene da chiedersi: a che epoca risale allora
la fondazione di Casola? Se si parla della Casola attuale, cioè del paese vero e proprio, rispondiamo
senz'altro: nel 1216. Se intendiamo la parrocchia con relativa fortificazione, sarei portato a fissarla
almeno un secolo o due prima, e cioè verso il 10001100, e ciò significa che dei paesi della valle del
Senio, Casola è di gran lunga la più antica. Più di Riolo più di Castel Bolognese, più di Brisighella,
tanto per parlare dei nostri viciniori. Ciò significa anche che quello che rimane della Chiesa di Sopra
è un monumento di tale importanza storica che già da tempo avrebbe dovuto essere meglio tutelato
e valorizzato per la sua straordinaria vetustà. È stata la chiesa madre del nostro paese; certamente
una succursale della pieve di S. Maria Assunta di Montemauro, che estendeva la sua giurisdizione
fino ai confini toscani. Ebbe anche lei come titolare la Madonna Assunta, titolo che si ritrova facilmente nelle più antiche chiese (Baffadi, Valmaggiore, etc.) fin dai tempi dei Longobardi.
Ritornando ai Ficchi, dei quali, per le note vicende che andremo vedendo, non v'è rimasto traccia
alcuna nella nostra valle, concordiamo nel considerarli famiglie industriose e benestanti. Fra i Ceronesi avevano la parte dei parenti ricchi. È anzi probabile che questa loro superiorità in fatto di
mezzi economici sulla consorteria abbia fatto ombra determinando le successive inimicizie e le
furiose faide.
- 30 Non dispar cultus, habitusque animorum CeroQuei Ceroni che si erano qui trasferiti da Seniis, qui huc e Serina alta concesserant, erat:
rina Alta non erano diversi per carattere e coCæterum in propaganda sobole ita demum
stumi e non si differenziavano dagli altri se
aliis prævaluere, ut unus Matthæus, qui anno
non per la prolificità tanto che il solo Matteo,
a Virginis partu nonagesimo supra millesimum
la cui gioventù fioriva nell'anno 1390, ebbe tre
trecentesimum florentis ætatis erat, tres
figli grazie ai quali in un solo secolo egli fu
habuerit ex se natos, qui sæculo uno stirpium
ceppo di nove generazioni. Generò infatti
novem fuerint authores: siquidem dum ille
Cecco, e questi Salvuzio, da cui nacque BruCeccum, isque Salvutium generat, ex hoc pronorio, capostipite dei Brunori. Cecco inoltre
diit Brunorius Brunoriæ stirpis origo: Ad hæc
generò Silvestro, che fu padre di Baldassarre,
Ceccus gignens Sylvestrum, qui pater Balda cui derivano i Baldassarri. Matteo ebbe
thasaris fuit, progenies Balthasarum incoatur.
come secondo figlio Cristoforo, dal quale è
Alterum natum habuit Matthæus nomine Chrinato Laulo, che ha dato origine alla famiglia
stophorum, cui Laulus ortus est, qui Lauleæ
Lauli (Lolli o Loli). Infine sempre da Matteo
genti dedit principium. A Matthæo tandem ginacque Giovanni, detto "Il Lanciere" per la sua
gnitur Joannes dictus Lancerius ob eximiam ilbravura nel vibrare e scagliare la piccola lanlius virtutem in vibrandis, jaciendisque breviocia. Questi, oltre a Melchiorre sacerdote, ebbe
ribus lanceis, qui præter Melchiorem sacerdoaltri sei figli da cui ebbero origine altrettante
tem sex alios procreat liberos, a quibus totidiverse famiglie e cioè: i Ravagli, da Bartolodem soboles prodiere diversæ: Ravalei nempe
meo, soprannominato Ravaleo; i Rinaldi da
ex Bartholomæo nuncupato Ravaleo; Rinaldi
Rinaldo; i Berti da Bertone; i Poli da Paolo; i
ex Raynaldo: Berti ex Bertone; Poli ex Paulo;
Giacometti da Giacomo; i Marondoli da MiJacobetti ex Jacobo, Marondoli ex Michaele Machele detto Marondolo. Tutti questi si moltiplirondolo appellato: universique numero, ac
carono e crebbero tanto di numero da essere
multiplicatione aucti, dum loci angustia e Cecostretti ad abbandonare il villaggio di Ceruno
ronio pago egredi coguntur, propiora rura, ac
e ad occupare i casolari sparsi e parte del
partem vici Casulæ initio tenuere.
borgo di Casola.
NOTE AL NUMERO 30
Il n.30 è dedicato invece ai Ceroni discendenti di Matteo da Serina Alta (Lepreno) in provincia di
Bergamo. Qui c'è addirittura un piccolo albero genealogico quanto mai interessante per tante famiglie casolane. Cominciamo dalla data riportata, e cioè il 1390. In quest'anno probabilmente Matteo,
nel pieno delle sue forze, cioè nel fiore della gioventù, viene a Ceruno e vi si accasa. Non possiamo
ritornare a descrivere ciò che già dicemmo a proposito dei Ceroni di Serina qui trapiantati, ma ci
fermiamo appena alla considerazione che se quella data è l'inizio dell'innesto, i nostri Ceroni possono avere conosciuto quelli di Serina in occasione della lega che i Fiorentini, il Signore di Carrara
e Astorgio Manfredi di Faenza fecero contro il Signore di Milano Gian Galeazzo Visconti per la difesa
di Bologna. Fu un assembramento di forze le quali non vennero però a vera e propria battaglia, ma
si produssero in leggere scaramucce. Dunque Matteo ha preso in moglie una nostra Ceroni, di cui
ignoriamo il nome, dalla quale ha almeno tre figli maschi: Cecco, Cristoforo e Giovanni. L'alberetto
che riportiamo qui sotto ci sembra più chiaro di qualsiasi nota.
Brunorii, qui parvo numero propagabantur
rerumque affluentia, atque authoritate cæteros anteibant, quamquam amplas ædes Casulæ habebant, Ceronium tamen pagum, una
cum aliquot ex Ficchiis, villamque Renzonii
jugiter incoluere; et ad similitudinem Serinæ
altæ unanimes cum Ficchiis, Mitisque sibi
mutus affinitate junctis aedem D. Jacobo sacram, ubi Divinis interessent, defunctorum
corpora tumularent, stipe etiam in annos celebranti assignata, in ipso construxere vico.
Nutius vero insignis bello vir, qui in Galliis regia stipendia diu meruerat, quique Ceroniis
universis assensum Regium, quo aurea Lilia,
quæ sunt ipsius Regis gentilitium superne receptum stemmati nostro adderentur gratuito
impetravit, satis locuples factus Altare de
suorum jure patronatus in D. Luciæ Casulæ,
titulo Assumptionis Beatæ Virginis erexit, et
idoneo prædio nuncupato Turricchia (id jacet
in villa Putei) ad victum cultumque Rectoris
donavit. Prisci vero Ceronii ex succedentium
propagatione maxima parte extincti, vera
esse, quæ Sallustius protulit, comprobarunt,
omnia orta occidi, et aucta senescere. Remansere tamen aliqui, qui Galli, Linguerri, et
a Solea nuncupantur, et adhuc exiguo numero levique potentia supersunt, qui, cum ex
Matthæo a Serina oriundo propagati non reperiantur, priscam originem se se habere
profitentur.
- 31 I Brunori furono poco prolifici, ma superavano
gli altri per prestigio e ricchezze, e pur avendo
buone dimore in Casola, preferirono abitare
sempre, unitamente a diversi dei Ficchi, nel villaggio di Ceruno e nel vicino casolare di Renzuno. Inoltre, in pieno accordo coi Ficchi e coi
Mita loro parenti per via di matrimoni, costruirono anche a Ceruno una Chiesa dedicata a S.
Giacomo, imitando così Serina Alta (dove c'è appunto una chiesa dedicata allo stesso Santo).
Qui potevano assistere alla S. Messa e seppellire
i loro morti. Fissarono perciò un congruo stipendio annuo al sacerdote officiante. Nuccio, valoroso uomo d'armi che aveva a lungo militato in
Francia sotto la bandiera di quel Re e aveva ottenuto il consenso reale per aggiungere allo
stemma dei Ceroni i gigli d'oro che sono l'insegna ricevuta dal cielo per i Re francesi, arricchitosi sufficientemente eresse nella chiesa di S.
Lucia a Casola un altare dedicato alla Assunta,
che dotò di un podere detto Turricchia (nella
parrocchia di Pozzo), per il mantenimento del
Rettore, riservandosi, per i suoi, il diritto di patronato. Ma col susseguirsi delle varie generazioni la maggior parte degli antichi Ceroni si
estinse, confermando la verità di quella sentenza di Sallustio: "tutto ciò che nasce e cresce
è destinato ad invecchiare e a morire". Ne rimasero tuttavia alcuni che sono chiamati Galli
Linguerri e Dalla Soglia e sopravvive ancora un
piccolo numero, di modeste condizioni, di quelli
che, non riconosciuti come discendenti di Matteo
da Serina, dichiarano di provenire dalla vecchia
origine.
NOTE AL PUNTO 31
Il Mita ci parla dei Brunori, succintamente si intende, ma abbastanza per stuzzicare la nostra curiosità. La casata Brunori ha nella consorteria Ceroni l'indubbio primato del prestigio, avendo svolto
per secoli il ruolo di famiglia custode della Rocca di Ceruno e avendo espresso dal proprio seno
capitani insigni dei quali il più famoso rimane quel Raffaele (1490 circa1533), di cui si dirà meglio
in seguito. Ci è venuto fra le mani il libretto di Luigi Baldisserri, lo storico imolese, dal titolo di
"Brunori della val del Senio", edito diverse decine di anni fa. Siamo rimasti perplessi per l'allegra
facilità con cui qualifica i Brunori della Bassa pianura, specie verso Mordano e Bubano, come discendenti dei nostri Brunori. Non abbiamo tanto ardire di seguirlo in questa affermazione, peraltro
niente affatto suffragata da documenti, eccetto l'omonimia del cognome. Evidentemente il cognome
Brunori è patronimico, cioè deriva da un padre di famiglia di nome Brunorio, e sa il cielo quanti
Brunori ci saranno stati in quel tempo. I nostri sono precisamente i Brunori di Ceruno, i Brunori
Ceroni. Con buona pace dell'anima di quello storico, dobbiamo avanzare forti dubbi che si tratti
della stessa casata.
Torniamo al Mita. Indubbiamente, anche ad un semplice confronto coi Lancieri e coi Ficchi, i Brunori
sono stati poco prolifici. È una delle ragioni per cui attualmente, qui da noi, il cognome è ormai
pochissimo rappresentato. Sono rimasti per secoli ancorati a Ceruno e nella vicina Renzuno, con
una esigua rappresentanza a Baffadi e a Pagnano fin verso la fine del 1800. Sui più recenti non
abbiamo voluto indagare; chi ne ha interesse può rivolgersi direttamente all'anagrafe. L'albero genealogico dei "Brunori", qui di seguito riportato , pur non avendo la pretesa di essere esatto al
cento per cento, cosa impossibile del resto, è convalidato da atti di battesimo, di matrimonio, di
morte che siamo andati a trascrivere scrupolosamente dall'archivio di Settefonti (la parrochia di
Ceruno e Renzuno) e che in gran parte sono registrati dallo stesso Don Domenico Mita, lo storico
che stiamo appunto commentando. Inoltre nel 1976 abbiamo avuto modo di consultare memorie
custodite dalla ora defunta signora Luisa Giacometti Ceroni ved. Poletti di Brisighella, una simpatica
signora fedele custode delle carte dei suoi antenati, che gentilmente ci mise a disposizione disegni
e memorie relativi agli antichi abitanti di Ceruno. Don Domenico Mita, con la sua bella calligrafia
che i registri conservano intatta, ci avverte di avere trascritto gli atti da libri "qui vetustate consumpti", e cioè ormai logori per l'antichità, che minacciavano di andar perduti. Una nota qua, una là
ci hanno permesso di farci, di questi Brunori, un'idea abbastanza leggibile, anche per quanto riguarda la loro genealogia.
Potrebbe forse farci lume l'atto notarile di Silvestro Soglia del 8.3.1692 o l'istrumento del
10.10.1691 sempre dello stesso, dove si parla dell'onere di messe gravante sull'oratorio di S.Giacomo. Rilevo tutto ciò dalla relazione della visita pastorale del Vescovo Marelli (Arcivescovo di
Imola)dell'anno 1741. In detta relazione si legge fra l'altro che l'oratorio in questione risulterebbe
eretto da quelli di Ceruno verso il 1300. Poichè si agitava una lite fra quelli di Ceruno e il Vescovo
che aveva imposto come sacerdote della detta chiesina un certo Camillo Campellozzi (non so come
il Gaddoni legga Campidori) di Casola, e i Brunori si erano appellati alla Santa Sede dichiarando di
essere in possesso del Giuspatronato, nella supplica avranno calcato un pò la mano alterando le
date. In realtà (cfr. il notaio Giovanni Cattani) S.Giacomo di Ceruno venne edificato verso il 1476
da Brunorio di Salvuzzo che ottenne dal Vescovo di Imola Mons. Giorgio Buchi da Carpi il detto
Giuspatronato il 12 Aprile 1476. Nella lite vinsero appunto i Brunori. Il Papa Gregorio XIII concesse
per questa sentenza una pergamena che il Vescovo Marelli riceve per consultazione dalle mani di
Rosa Brunori Ceroni, figlia di Carlo e sorella di Don Pietro Antonio Brunori Ceroni, ultimo possessore
del detto Oratorio. Si tratta appunto della Rosa che figura ultima del ramo riportato poco sopra.
Aggiungiamo, così per completezza, che forse i Brunori miravano, con l'erezione di quell'Oratorio,
a trasformare in Parrocchia Ceruno; o almeno questo fu il sospetto del Vescovo del 1574, che esortò
a stare in guardia perchè non era la prima volta che i Ceroni, con queste manovre, non sempre
limpide, avevano usurpato beni della chiesa. Probabilmente anche lo stesso ospedale di Renzuno
aveva fatto la medesima fine. L'Oratorio restò in verità sempre come Chiesina gentilizia di quelli di
Ceruno, e molti dei Brunori riportati nell'alberetto vi dormono il sonno eterno. L'oratorio di Ceruno
nel 1741 possedeva 4 tornature di terra arativa, saldiva e gineprata; altre due tornature di terra
lavorativa, un pezzo di pascolo, altri ritagli di terreno che in tutto fruttavano appena 6 scudi l'anno.
C'era invece l'obbligo per il Sacerdote di dire ben 40 messe all'anno; praticamente una alla settimana. Sempre di un Patronato, ma questa volta a Casola in S.Lucia si parla nel N. 31: quello
dell'Assunta eretto da Nuccio di Perusino Ficchi, dotato col podere Trucchia. Un beneficio di tutto
rispetto, neppure paragonabile con quello di Ceruno. Poichè qui parlando di Nuccio, si tirano in ballo
anche i gigli dello stemma Ceronese, va detto subito che la notizia è da prendersi con molto beneficio d'inventario. In realtà i tre gigli d'oro sono spesso il segno della longa-mano della Repubblica
Fiorentina, come si può rilevare da diversi altri stemmi di famiglie nobili del nostro Appennino, che
hanno parimenti nel capo i tre gigli d'oro.
- 32 Et quoniam Mitas supra memoravimus non abs
E giacchè più sopra abbiamo fatto un cenno ai
re fuerit subtexere, quanam ratione Ficchium
Mita, non sarà male riferire in qual modo il cocognomen transierit in Mitam. Inter primores
gnome Ficchi si è tramutato in Mita. Fra i più
ex ipsis, qui Perusia in Aemiliam concesserant,
ragguardevoli di quelli che per primi giunsero
fuit vir opibus, bellicaque virtute pollens, qui
qui in Romagna da Perugia vi fu uno importante
natum habuit ex cognomine Fecchium, a quo
sia per ricchezza che per valore militare che
Ficchii, qui postremis temporis Casulam incoebbe un figlio e lo chiamò Fecchio, da cui disceluere, prodierunt. Is secumdo loco Sylvestrum
sero poi i Ficchi, che hanno abitato Casola fino
Ceronii pagi accolam gignit, ex quo sex
a pochi anni fa. Ebbe quindi un secondo figlio di
haudquaquam interruptis generationibus totinome Silvestro, che abitò nel villaggio di Cedem viri fortissimi, atque bellica virtute
runo, e dal quale, per non interotte sei generapræditi, qui ordines duxerunt processere. Ex
zioni, trassero origine altrettanti personaggi
Sylvestro ortus est Antonius, et ex eo Cirunus
pieni di valore, forti in battaglia e capitani di
cognomento Midas allusione vocabuli a Mida
compagnie. Da Silvestro nacque Antonio, che
Rege Phrigiæ arrepta, qui cunctos Reges pecufu padre di Ceruno, che ebbe il soprannome di
niæ abundantia antecesserat: Quippe ubi viMida per analogia con Mida re di Frigia che sudent accolæ huic uni Ciruno felicem rei famiperava in ricchezza tutti i re. I suoi coetanei,
liaris, nummorumque affluentiam supra cæteche lo consideravano in confronto a tutti gli altri
ros convenas esse, hujusmodi agnomime illum
come il più ricco di beni e di danaro, lo sopranvocitabant: quamquam vel Scriptorum injuria,
nominarono così. Mida poi, sia per errore di travel ignorantia vulgi Midæ nomen transivit in
scrizione sia per ignoranza popolare, si traMitam. Mita genuit Thomam, is verum Petrum,
sformò in Mita. (Questi) fu il padre di Tommaso,
qui Claradiam Berti, qui Ricciardi Alido-sii, Tusdal quale nacque Pietro che sposò Clarice, figlia
signani, Fontanæ, ac Castri Rivii comitis frater
di Berto fratello di Riccardo Alidosi conte di Toserat, filiam duxit uxorem: genuit pariter
signano, Fontana e Castel del Rio. Pietro fu il
Cirunum, cui ab avi similitudine Mitæ nomen
padre di Ceruno che, per analogia col nonno, fu
inditum est, isque ad posteros tale transmisit
soprannominato Mita e questo cognome lo ereagnomen.
ditarono i posteri (suoi discendenti).
NOTE AL PUNTO 32
Col n.32 il nostro storico ci traccia le linee della sua genealogia. Si sente a tutto diritto un Ceroni e
non manca di metterlo bene in vista. Siamo stati tentati di considerare tutte quelle successioni il
frutto di una fantasia tipica del XVII sec. che mirava a crearsi patenti di nobiltà a buon mercato;
poi, considerando con più serenità tutta la cosa, ci siamo dovuti ricredere. Ciò che dice il nostro
storico è la pura e semplice verità e la prova da noi trovata sta in un documento notarile del 27
dicembre 1492 del notaio Lancia delle Lancie di Tossignano (cfr. vol. n.1) e vi troviamo infatti il
passo che recita: "Marchus quondam Pauli olim Marchi Fabri de Baffado comitatus Imolae, vendidit
CIRUNO alias MITA filio Tomasii olim Antonii de Ciruno petiam terrae ... ecc." e cioè, per chi non
avesse compreso la dicitura latina: "Marco di fu Paolo figlio di fu Marco Fabbri di Baffadi comitato
di Imola ha venduto a Ceruno detto Mita, figlio di Tommaso di fu Antonio di Ceruno, un pezzo di
terra ... ecc." Il buon notaio ci conferma pari pari la genealogia che il nostro storico ci ha presentato.
Già altre volte Domenico Mita ci ha sorpreso per la sua precisione nel racconto e l'indagine più
onesta in questo procedere storico raccomanda di non farci prendere troppo dal nostro ipercritico
gusto di mancar di fuducia nella capacità d'indagine dei nostri vecchi storici. Qui decisamente siamo
stati presi in contropiede. Purtroppo, per le vicende che vedremo in seguito, dei Ficchi e naturalmente dei Mita non c'è rimasta molta documentazione per poterne tracciare un albero genealogico
di rispetto. Verso la metà del 1500 per le rivalità coi Lancieri i Ficchi dovettero abbandonare la valle
e, a quanto mi risulta, il cognome è pressochè estinto in Emilia Romagna. Per i Mita, cioè per i
discendenti di Ceruno Ficchi che abitarono in quel di Pagnano, e precisamente nel fondo detto
Fontanella, deboli indizi ci portano a rintracciarli dapprima verso monte Battaglia (gli antenati del
nostro storico sembra abbiano abitato anche il Torrione), poi verso Osta di Castel del Rio, dove il
22 maggio 1546 proprio il Mita figlio di Tommaso, "in domo et habitatione propria", fa un atto dei
suoi beni che possedeva alla Smirra, agli Ortali e in comune di Montebattaglia. Da questo atto
risulta che, oltre Tommaso ricordato dalla nostra storia, il Mita aveva altri due figli maschi, e cioè
Babbone e Gabriele, e tre nipoti: Antonio, Paolo e Raffaele che non sapremo indicare se erano figli
di un solo dei primi due o chi era figlio dell'uno e chi dell'altro. Ritroviamo Raffaele, forse figlio di
Gabriele, come Massaro di Fontana nel 1586. Qui a Fontana troviamo un certo Roberto Mita col
figlio Aurelio che è cugino o parente stretto dei figli di Raffaele: Gabriele e Fabrizio. Qui a Fontana
nascerà anche il nostro storico Domenico Mita il 20 gennaio 1590. In seguito la famiglia Mita graviterà soprattutto su Tossignano. In quel di Castel del Rio tuttavia anche nel 1576 restano alcuni
Mita (un certo Sebastiano di Bellone per esempio), che in seguito da un certo Vigo Mita danno
origine alla famiglia Vighi o Vicchi che esiste tuttora nella zona. Quanto a Clarice o Claradia Alidosi,
per debito di precisione debbo dire che trovo due versioni: questa che la dà come figlia di Berto e
un'altra tratta dalla Chronica (manoscritto di ignoto che trascrive dall'operetta del Mita, facendo a
volte lievi digressioni, e che si conserva presso la biblioteca di Imola) che la fa figlia naturale di
Ricciardo. Come che sia Pietro, il nipote di Mita, potè permettersi questo matrimonio con casa
Alidosi. Sulle nozze pesò certamente il fatto che la famiglia Mita aveva un certo patrimonio che
poteva far gola sia a Ricciardo, infeaudato da Clemente VII conte di Tossignano e Fontanelice (ma
non di Castel del Rio) il 28 febbraio 1526, e ancor più al fratello povero, Berto. Ci è impossibile
conoscere se Perusino Ficchi debba identificarsi con quel famoso personaggio di cui al n.32 o se sia
invece un suo fratello. Purtroppo a questa data non ci possono venire in soccorso gli archivi parrocchiali che datano solo dalla fine del secolo XVI e i vari atti notarili da noi reperiti non ci hanno
illuminato in proposito. Troviamo invece numerosi atti di comprevendita di Ceruno Ficchi e del padre
Tommaso (cfr. Dionisio Cattani 7-7-1535) che ci confermano la veridicità di quanto asserisce il
nostro storico sull'agiatezza della casata
- 33 –
Ex Brunorio prodiit Raphael, qui militarem indolem armorum studiis sacratam apud Venetam Rempublicam variis in præliis, summo labore, ac periculo peditibus præfectus ea tempestate exercuit, qua inter summos Principes
Cameraci adversus ipsam Rempublicam confoederatum erat. Is cum aliquando Bononiæ
sub Ramazotto Alexandri a Scaricalasino stipendia mereret (quippe nomen hoc Ramazotti
Ceroniis maxime exercrandum) amore Luciæ
ejusdem natæ accensus illam a patre sibi in
uxorem petiit. Ramazottus vel quia filiam digne collocaret, vel quia vaferrimus mortalium
tali affinitate accessum ad Ceronias regiones
perlustrandas, moresque hominum, qui Guelfas partes sequebantur, exploran-dos sibi censuit tutum, Raphaelis cupidini facile obsecundat, quod nostratum funestæ tragediæ exordium fuit. Etenim Ficchii præ aliis subdolum
Ramazotti ingenium, virtutem in armis Ghibellinæque factionis alpinis in regionibus primatum satis superque agnoscentes, id gravius tulere supra quam quisquam cogitaverit, veriti
ne Raphael, qui Patriam arcem tenebat ad avitas partes soceri fraude traheretur, et a nostris
deficeret, vel conjuratione aliqua Ceroniensium robur deleret, et nomen. Jurgia itaque, et
discordiæ ultro citroque exortæ singulorum
animos in diversa pertrahebant.
Da Brunorio nacque Raffaele che, secondando la
sua inclinazione, si dedicò alla professione delle
armi al soldo della Repubblica Veneta e fece pratica in diverse battaglie come capitano di fanteria
nel tempo in cui fra i principi della lega di Cambrai c'era un patto d'alleanza contro la stessa Repubblica (10.12.1508). Poichè per un certo periodo di tempo si trovò a Bologna a militare sotto
Ramazzotto figlio di Alessandro da Scaricalasino,
(questo nome di Ramazzotto era addirittura
odioso ai Ceroni), si innamorò della di lui figlia
Lucia e gliela chiese in moglie. Ramazzotto ben
volentieri acconsentì al desiderio di Raffaele sia
perchè reputava ben collocata la figlia, sia perchè, da uomo astuto qual'era, vedeva offrirsi,
con questa parentela, il modo di introdursi tranquillamente fra i Ceroni per spiare e conoscere il
modo di vivere di questa gente che parteggiava
per la parte guelfa. Questo (matrimonio) fu
come l'inizio della tragica rovina dei nostri Ceroni. I Ficchi che conoscevano molto meglio degli
altri l'infida natura di Ramazzotto e la sua bravura nelle armi e che sapevano come egli tenesse un pò il comando, su quegli Appennini, di
tutto il partito Ghibellino, accolsero il fatto più a
malincuore di quanto si potesse pensare. Forse
temevano che Raffaele, che aveva il comando
della patria rocca, venisse raggirato e attratto
dalla fazione del suocero abbandonando i nostri
o che per una congiura venisse distrutta la potenza ed il nome dei Ceroni. Le discussioni e i
dissapori sorti fra le due parti tenevano gli animi
(dei Ceroni) divisi su due fronti.
NOTE AL PUNTO 33
Si è trattato la casata più illustre dei Ceroni; ora il Mita illustra le gesta del personaggio più famoso:
il Capitano Raffaele. Figlio di Brunorio, Raffaele nasce attorno al 1490 in una famiglia dove l'attività
principale era quella delle armi. Il fratello Alessandro sarà Capitano e custode della rocca di Monte
Battaglia nel 1505 per la Repubblica Veneta e Giacomo, altro fratello, è Capitano d'armata anche
lui. Il sogno di Raffaele è di poter, non dirò imitare le leggendarie figure dei Capitani di ventura
come i romagnoli Alberico da Barbiano o Giacomazzo di Attendolo Sforza di Cotignola, ma di poter
far una certa strada sulle orme di quell'ormai famoso Dionisio Naldi, che fra l'altro è anche un pò
parente coi Ceroni. Dionisio è passato, nel momento in cui si apre il racconto, al totale servizio di
Venezia e si è già imposto come un'autorità in campo militare. Dionisio Naldi sta appunto reclutando
soldati di fanteria dalle nostre parti come si rileva anche da lettere scritte dal Magistrato della
Repubblica Fiorentina al vicario di Firenzuola: "...Impiegati ancora di ritrovare se Dionigio Naldi fa
fanteria e ritrovandone cosa alcuna, ce ne avviserai" (Missiva del 23.5.1502 Archivio di Stato di
Firenze). Forse già in questo periodo Raffaele inizia il suo servizio militare per Venezia. Avrà avuto
così modo, pur giovane, di mettersi in bella mostra. Oltre Dionisio Naldi, fedelissimo a S. Marco,
un'altro oriundo dei nostri Appennini stava facendosi gran nome: Ramazzotto da Scaricalasino; un
uomo piuttosto tozzo e di non bell'aspetto, ma con un coraggio ed una crudeltà a tutta prova: le
qualità fondamentali d'un condottiero del tempo. Ramazzotto è figlio di Alessandro, come si rileverà
anche dal suo testamento, di Scaricalasino a Monghidoro. Suo padre, detto appunto Sandro, gli fu
ucciso quando era ancora un ragazzo. La sua sete di vendetta lo portò ad attendere con determinata
spietatezza di raggiungere l'età per menar vendetta. Fece strage degli assassini di suo padre e ne
bruciò le case. Per potersi poi sottrarre alla giustizia di Bologna, sotto cui stava il suo paese, riparò
in Toscana e si mise al servizio dei Medici. Qui si distinse presto come un uomo sagace e con doti
di comando ed in breve ebbe la sua piccola condotta di militari coi quali vagò un pò per tutta l'Italia
vendendo i suoi servizi ora a questo ora a quello. Non sappiamo quale fu il motivo per cui Raffaele
contattò Ramazzotto, ma notando che ciò avviene a Bologna, dobbiamo arguire che Ramazzotto
facesse incetta d'armati. Il suo terreno di ricerca erano le zone delle nostre vallate già riserva di
centinaia di soldati. A Bologna c'erano appunto i Medici esiliati da Firenze: il Card. Giovanni e Giuliano figli di Lorenzo il Magnifico. Questi tentavano il ritorno a Firenze con l'aiuto del Valentino,
l'astro politico emergente; Ramazzotto, fedelissimo di casa Medici, corre a Bologna e si mette al
loro servizio. Siamo verso il 1510 ca. Due anni dopo i Medici rientrano a Firenze a prezzo di spaventosi saccheggi che le armate di Ramazzotto e degli Spagnoli fecero ai danni di Borgo S. Lorenzo
e Prato. Che fra i saccheggiatori ci fosse anche Raffaele? Difficile saperlo, ma sta di fatto che in
questo periodo nasce l'idillio fra la figlia di Ramazzotto, Lucia, ed il nostro Raffaele Brunori. Ci fu il
matrimonio che sorprese grandemente il resto dei Ceroni. Ramazzotto non era certamente guelfo
viste le amicizie che praticava come il Vaina ed il Gozzadini, ma all'occorrenza sapeva anche cambiar bandiera. Tutti però conoscevano Ramazzotto come uomo pieno d'ambizioni e di perfidie ed il
minimo che potevano fare era di disapprovare una tal parentela. Non avevano torto. L'unica cosa
buona era forse il fatto che i due giovani si univano per vero amore e che Lucia seppe cattivarsi la
stima di tutti i Ceroni che alla fine l'accettarono. Il padre invece fece di tutto per farsi detestare.
Cominciò a rifiutare il pagamento della dote promessa che eluse ripetutamente rivelando un animo
gretto perfino con la propria figlia che difficilmente glielo perdonò.
- 34 Hæc ubi audit, videtque Ramazzottus, amplam Appena Ramazzotto ebbe sentore di tutto ciò, gli
ad novos affines perdendos opportunitatem raparve che gli si offrisse un ottimo pretesto per
tus rem omnem Guidoni Vainæ consociato
rovinare i nuovi parenti e confidò il tutto al suo
amico aperit, et ex composito in nostrorum
amico e socio d'armi Guido Vaina e di comune
perniciem uterque conjurat, ut vires nostraaccordo giurarono di distruggere i nostri pentium, qui Guelfas partes tutabantur, et
sando così di fiaccare le forze dei Ceroni fautori
Raphaelis audaciam, qui pactam sibi uxoris dodel partito guelfo e di reprimere la insolenza di
tem petulantius forte quam par esset, a socero
Raffaele che con insistenza, forse oltre il conveflagitabat, compri-mant. Negotium itaque
nevole, esigeva dal suocero la dote della moglie
propa-lam exequendum Vaina suscipit, cætera
come era stato pattuito. Il Vaina dunque si asRamazottus fraudolenter molitur ex occulto.
sunse il compito di agire in modo scoperto nella
Erat Guido ex Forocornelio militum Præfectus
vicenda, Ramazzotto invece tramava nascostaDominis carus, opibus, et authoritate potens,
mente per il resto. Guido, Capitano di milizie, in
simul Ghibellinæ factionis nostra in regione fabuone relazioni coi Signori, era di Imola. Ricco e
cile princeps. Hunc post Ravennatem cladem
potente, era il capo indiscusso del partito ghibel(in qua ex nostris aliquot pugnando occubuere,
lino nelle nostre contrade. Dopo la sconfitta suet Ramazottus ipse ingenti securis ictu in terbita a Ravenna, dove combatterono e morirono
ram depulsus, semivivus a proximis Hispanis
anche alcuni dei nostri (Ceroni), e dove lo stesso
servatus est) cupido maxima invaserat domiRamazzotto colpito da un gran colpo di scure era
nandi; sed ægre id assequi posse rebatur, ni
ruzzolato a terra mezzo morto e tratto in salvo
prius universos Guelfos, qui montanas incoledagli Spagnoli che gli erano accanto, si era fatto
rent regiones, subegisset, sicuti eosdem in plaprendere dalla smania di dominio, ma pensava
nitiis commorantes sibi dudum subjecerat:
che difficilmente avrebbe realizzato i suoi proCæterum Ceronios haud mediocriter pertimegetti prima di avere sottomesso tutti i guelfi della
scebat, quos nulla adhuc inimicorum potentia
montagna così come aveva fatto con quelli di
subactos, domitosve novisset: illis attamen in
pianura. Aveva anche timore dei Ceroni perchè
dies nimio plus succensebat quia Saxatellis
sapeva che nessun nemico li aveva ancora doVainæ apertis hostibus adhærentes sibi pecumati e sconfitti. La sua rabbia verso di loro creliari odio infensos arbitrabatur. Hæc ubi Vaina
sceva continuamente anche per il fatto che i Cevarius animo volvit, tandem Rectori Provinciæ
roni si erano alleati con i Sassatelli suoi nemici
deferuntur Ceronii, quod Pontificium vectigal
dichiarati e pensava per questo di essere da loro
pendere renuentes, lictores ad distrahenda piodiato in modo particolare. Mentre il Vaina va rignora missos a finibus suis laceratos repulemuginando tutto ciò nel suo animo irrequieto,
rint. Ramazottus, et Vaina ea occasione incitati
capita che i Ceroni vengono denunziati al Rettore
Rectori peropportune suadent, universa Cerodella provincia d'essere renitenti a pagar le tasse
niensium tecta armato milite circumveniri, ab
al Papa e di aver malmenato e scacciato dalle
eisque vi pignora capi, nullum omnino aliud saloro terre gli incaricati a riscuoterle. Il Ramazlutare remedium esse. Idque astu consulunt,
zotto ed il Vaina cogliendo al balzo l'occasio- ne,
quo repugnantes Ceronios trucident, ac ædifisuggerirono subito al Rettore di mandar soldati
cia comburant. Rector dictis annuens Chiappiad assediar il villaggio dei Ceroni, come il rimedio
num Vitellium, qui ductor equitum levioris curpiù salutare, e di esiger con la forza le tasse nesus pro Pontifice erat accersit, et ut cohorte ingate. Con questo consiglio miravano a trucidar
structa, auxiliariisque sociis accitis, quæ supra
tutti i Ceroni che si fossero opposti e ad incenconsulta sunt, mature exequatur, jubet.
diarne le case. Il Rettore accolse la proposta e
chiamato Chiappino Vitelli, capitano della cavalleria leggera, che militava per il Papa, gli ordinò
di formar una squadra e di eseguire, con l'aiuto
degli alleati, quanto, come sopra detto, era stato
consigliato.
NOTE AL PUNTO 34
Raffaele viene a trovarsi tra due fuochi; da una parte i Ficchi e più in generale i Ceroni che non
approvano il matrimonio, dall'altra lo stesso suocero che rifiuta di mantenere i patti della dote
nunziale. Per inciso va detto che Ramazzotto specie dopo il suddetto sacco di Prato e dintorni, si
era grandemente arricchito e aveva un palazzo a Bologna dove ammassava specialmente opere
d'arte, argenterie tutto frutto dei saccheggi. Più tardi si farà costruire una splendida sepoltura di
marmo a S. Michele in Bosco dal Lombardi (La si può ammirare ancora oggi nella Pinacoteca-Museo
di Bologna) e un sontuoso palazzo a Tossignano. Non aveva quindi motivo di essere tanto taccagno,
eppure ... . Certo Raffaele insisteva e forse con una eccessiva petulanza per essere soddisfatto. Ma
il dissidio per la dote doveva essere il meno. Ramazzotto frequentava già precise amicizie in campo
ghibellino e ciò significava che per quel partito Ramazzotto sarebbe anche passato sopra il suo
sangue. Si è già accennato all'amicizia con la casa Gozzadini, ghibellina; ora entra in scena addirittura il campione dei ghibellini di Imola: Guido Vaina o Vaini. Era questi un arrabbiato avversario
dei guelfi o per meglio dire della casa Sassatelli che a Imola e per tutta la nostra Romagna, capitanava questa fazione. Già da tanti anni Guido capeggiava i Ghibellini e Giovanni Sassatelli detto
"Cagnaccio" i Guelfi. Ambedue validi capitani avevano servito sotto Giulio II, che li aveva arruolati
insieme cercando così di sedare le continue lotte fra le due casate. Nel 1504 i Sassatelli rispondono
acremente ad un assalto dei Vaini che avevano fatto strage di questi e praticamente assoggettata
la città. I nostri Ceroni sono sempre stati Guelfi e di conseguenza sostenitori della casa Sassatelli
(oriunda fra l'altro di Sasso sopra Borgo Rivola). Possiamo anzi ritenere che nella valle del Senio i
Ceroni erano i fedelissimi degli interessi della casa Sassatelli. Qui non c'era spazio per i Ghibellini.
Dal 1503 la Repubblica di Venezia aveva conquistato tutta la valle del Lamone e la parte alta della
valle del Senio, cioè Casola e Baffadi (e giù fino a Gallisterna) e sulla Rocca di Monte Battaglia
sventolava lo stendardo col Leone di S.Marco. I Ceroni, che parteggiavano sicuramente anche per
Venezia, avevano favorito questa espansione dietro la pressione dei Naldi; ma nel 1505, dopo
appena due anni, Venezia aveva restituito in gran fretta al Papa tutte queste terre occupate pensando di farselo amico. Il Papa che rispondeva al nome di Giulio II, non si accontentava di così
poco, voleva indietro Faenza, Ravenna, Cervia, ecc. cioè tutto il territorio che la Repubblica Veneta
aveva strappato alla Chiesa già da un secolo almeno. All'atto della consegna di Monte Battaglia il
castellano che cede le chiavi al Teodoli, delegato del Papa, è Brunori Alessandro, il fratello di Raffaele. Torniamo al Vaini. Sono passati parecchi anni da che Guido Vaini si è imparentato col Card.
Francesco Alidosi di Casteldelrio del quale ha sposato la sorella. Il Card. Alidosi, legato di Bologna,
è la figura più influente nella corte di Giulio II e quindi è per Guido un grande protettore. Però casa
Alidosi si è imparentata anche con i Sassatelli perchè un fratello del Cardinale ha sposato una sorella
di Cagnaccio, così siamo pari. Il 24 Maggio 1511 a Ravenna avviene un fattaccio di cui si parlò a
lungo. Il nipote del Papa, Francesco Maria della Rovere, che odiava a morte il Card. Alidosi, avendolo
incontrato in via S. Vitale gli si avventò addosso e lo passò da parte a parte con un pugnale. Accanto
al Cardinale c'era appunto il cognato Guido Vaini che lo assistette come potè. La morte di questo
discusso personaggio segnò per lui una gran perdita. Un anno dopo, sempre a Ravenna, ci fu una
terribile battaglia fra le forze del Papa ed i Francesi. Vinsero questi ultimi, ma ci rimise la vita il loro
capo: Gastone de la Foix e ciò fu come una sconfitta. È di questa battaglia, che si combattè il giorno
di Pasqua 11.Aprile 1512, che parla il Mita quando ricorda che il Ramazzotto venne colpito da un
colpo di scure e si salvò per miracolo. Penso proprio che un gruppo dei nostri Ceroni fossero su quel
campo di battaglia e quasi certamente anche Raffaele che in questo tempo aveva già conosciuto e
forse deciso di sposare la sua Lucia. Nell' agosto il Ramazzotto con gli Spagnoli (il Valentino è già
in disgrazia e scompare dalla scena) va a riportare i Medici a Firenze. Il Card. Giovanni Medici di lì
ad un anno diventa Papa e per Ramazzotto questa elezione è la fortuna più ambita. Diventerà il
fedelissimo del Papa. Guido Vaina ha dunque tutti i vantaggi a legarselo con amicizia. Nella battaglia
di Ravenna c'è anche Cagnaccio, ma per lui c'è una piccola crisi di fortuna. Una sua figliola ha
sposato un Bentivoglio e questo non è un vantaggio per goder del favore del Papa. Per di più il
nuovo presidente di Romagna si dimostra piuttosto imparziale e uomo di polso anche con i Sassatelli
guelfi. Nel 1517 troviamo Cagnaccio al servizio della Serenissima e quindi lontano da casa. Il 1
Dicembre 1521 muore Papa Leone X e un mese dopo viene eletto Adriano VI che però è lontano da
Roma. C'è come un prolungamento della sede vacante. Un tentativo dei Bentivoglio per riprendersi
Bologna vede i Sassatelli al loro fianco e questo provoca lo sdegno del legato del Papa, Giulio dè
Medici, che autorizza Ramazzotto a venir a Imola per catturare Gentile Sassatelli come guelfo traditore. È arrivato per il Vaini il momento tanto atteso per rifarsi delle uccisioni del 1504. Siamo al
maggio del 1522. La vendetta del Vaini sui Sassatelli pareggiò abbondantemente il conto. Il massacro impressionò un pò tutti ed ebbe fra i Ceroni larga risonanza. Si parlò di oltre cinquanta morti.
Molti palazzi furono distrutti e si saccheggiò anche nelle case dei guelfi dei dintorni. A Croara in un
agguato ci lasciò la vita anche Don Paride fratello di Don Domenico Cornetta parroco di Casola
Valsenio che proveniva dal Poggio di Casola. Si moltiplicarono le vendette individuali e le immancabili rapine e uccisioni sotto pretesto di lotta di parte.
- 35 –
Igitur pridie nonas Decem-bris, qui dies Divæ
Così il 4 Dicembre del 1522, S.Barbara, il Vitelli,
Barbaræ Virgini ac Martyri solemnis erat, anno
con cento cavalli ed il Vaina con quasi altrettanti
a Virginis partu vigesimo secundo supra millearmati del partito ghibellino raggiungono Casola
simum quingentesimum, Vitellius cum equitidel Senio e schierano le truppe contro i Ceroni.
bus centum, Vainaque fere cum totidem GhiAppena entrati nei campi di Casola devono però
bellinæ factionis armatis Casulam Senii concefermarsi presso il rio perchè i nostri Ceroni redunt, et arma in Ceronios vertunt. Cæterum
spingono gagliardamente i primi che si avanzano
ubi primum arva CAsulana occupant, ibi secus
e minacciano di strage chi osa avvicinarsi. Si
rivum subsistere compelluntur, armatis passim
mandano subito, da parte dei Ceroni, ambasciaarcendo adventantes inspectis, ac necem, si
tori al Vitelli per conoscere le ragioni di tutto
propius accede-rent, inclamantibus. Mox a Cequello apparato militare contro di loro. Il Vitelli
roniis missi percunctatum oratores ad Vitelrispose che non era mandato dalla autorità per
lium: Quidnam rei esset, ut instructa cohorte,
muovere guerra, ma per discutere di giuste raarmatisque hostibus ad eos accederet? Quibus
gioni che egli avrebbe pacificamente loro esposto
Vitellius se Pontificis authoritate missum,
se gli avessero inviato degli ostaggi. Gli ambahaud-quaquam hostilia facturus, sed justa
sciatori sentito questo ben volentieri promisero
nonnulla cum eis acturus, quæ si obsides dendi aderire a quanto richiesto a patto che egli altur, pacifice explicabit. Ad hæc facturos se ex
lontanasse immediatamente Guido Vaina e gli alanimo, quæ velit, Oratores respondent, si Guitri armati del partito (ghibellino) loro contrario.
donem et adversæ sibi factionis milites
Ciò udendo il Vaina abbandonò liberamente l'imquoscumque primum omnium ad suos remitpresa vedendo che i suoi raggiri andavano a
tat. Vaina hæc audiens libenter abstitit
vuoto e anche perchè poco prima con un colpo di
incæpto, tum quia artes suas sibi perire cenbalestra scoccato dalla cima di una piccola torre
suit; tum quia ictu veruti, quod dudum e proxvicina dal balestriere Galbetto, gli era stato sfiima turricula Galbettus balista ejecerat sibi delato il cappello dalla testa e questo aveva messo
trac-tus e capite pileus, Ghibellinis occultæ
spavento di oscura imboscata nelle file dei Ghifraudis pavorem incusserat; quare celeriter
bellini. Vaina tornò dunque donde era venuto imcum suis qua venerat revertitur: moxque ut
mediatamente coi suoi. Come videro partirsene
Vainæ reces-sum nostri vident, obsides dant
il Vaina i Ceroni consegnarono a Chiappino i due
Chiappino Io. Petrum Ficchium, et Babinum a
ostaggi: Gian Pietro Ficchi e Babino dalla Soglia
Solea, quibus ad arcem Rioli sicci in custodiam
che furono condotti a Riolo Secco (Riolo Terme)
deductis, Vitellius cum equitatu omni triduum
per esservi custoditi nella rocca. Il Vitelli poi con
apud Ceronios mansit, et egregie habitus ad
tutta la cavalleria si fermò ospite dei Ceroni per
Rectorem postmodum justa æque ac nostris
tre giorni, trattato splendidamente e se ne tornò
grata relaturus rediit.
quindi dal Rettore dando una relazione giusta e
favorevole sul conto dei nostri.
NOTE AL PUNTO 35
È in questo contesto che si svolge il primo tentativo di piegare i guelfi Ceroni. Ormai Guido è padrone
di Imola e Cagnaccio non ha ardire di entrarvi. Ramazzotto e Guido deliberano di far cavalcata a
Casola, ma ci vuole un pretesto. Non ci è facile capire in che consistette il fatto della recusazione
di pagar i contributi da parte dei Ceroni.
Sembrerebbe che questi non avessero accettato l'imposizione di certe tasse e che si fossero resi
rei di alcune condanne capitali nei confronti di Alberto Orsi e Giovanni Marocchi, due imolesi che
per motivi sconosciuti erano stati fatti impiccare dai Ceroni dopo regolare processo.
Le accuse sono formulate al presidente di Romagna, Mons Carretti Orlando di Savona, dallo stesso
Ramazzotto. Mons. Orlando era appena entrato nell'ufficio e non conosceva minimamente l'animo
di Ramazzotto; credette tutto sulla parola e diede ordine al capitano Chiappino Vitelli di unirsi ai
fanti di Guido Vaina per cavalcare contro Casola e ridurre all'ordine i Ceroni. Ramazzotto però, per
ovvie ragioni, non volle apparire come attore effettivo di questa spedizione e si limitò a fornir Guido
Vaina di armi e munizioni.
La spedizione si mosse il venerdì 4 Dicembre 1522 e si svolse come racconta il Mita. Notiamo solo
che il capitano di Casola in quel periodo era Pantaleone di Giovanni Pantaleoni di Imola che però
non pare entrare minimamente nella vicenda nè per sventare la minaccia delle armi nè per rendersi
mediatore col Vitelli. Il tutto si risolse nel migliore dei modi per i nostri Ceroni e Guido Vaina dovette
riprendere, scornato, la via di casa. Forse se il Vitelli non avesse avuto quei duecento e passa cavalli
di cui parlano le memorie di Tossignano, Guido avrebbe anche potuto sperare in un colpo di mano
forzando la situazione; ma capì che non era il caso e, se vogliamo dar credito al Mita, era anche
fresco di un certo terrore per aver scampato la vita per pochi centimetri. Infatti dalla Torre di
Galbetto, che non era altro che la porta (detta la Purtaza) del paese, Antonio Ficchi, detto Galbetto,
gli aveva scoccato un colpo di balestra da maestro. Purtroppo il dardo aveva solo sfilato via dalla
testa il cappello al Vaina che sul guado del rio Casola (fra il ponte delle Poggi e la casa di Pietro
Tabanelli, esattamente dove ora si trova il nuovo palazzo delle sorelle Masini) cercava di incitare i
suoi all'attacco. I Ceroni si erano dunque rinserrati nelle case che si affacciavano sul rio pronti a
fare difesa ad oltranza a tutta la soldatesca. Fortunatamente Chiappino Vitelli fu un uomo di cervello
e volle prima trattare con i Ceroni che lo convinsero delle accuse ingiuste. Gli ostaggi: Gian Pietro
Ficchi e Babino Soglia sono due capitani dei Ceroni. Per pochi giorni sono custoditi nella rocca di
Riolo Secco e quindi restituiti sani e salvi ai Ceroni
- 36 Ramazottus, et Vaina ira flagrantes, quod Ramazzotto e Vaina scoppinado di rabbia perchè
primæ amborum insidiæ Ceroniis nil attulerint i piani di entrambi non avevan fruttato alcun
detrimenti, novas in dies sine effectu struunt danno ai Ceroni, si misero, ma inutilmente, a tramachinationes. Coeterum abeunte e vivis Adrimar nuove insidie. Essendo morto il 14 Settemano Sexto Pontifice Maximo XVIII. Kal. Octobris bre dell'anno 1523 Papa Adriano VI, in Romagna,
anno 1523, qua tempestate apud Flaminienses
data la situazione del momento, si ricorreva alle
ex conditione temporum jus omne erat in armis, armi per ogni questione. Ramazzotto e Vaina veiidem, quos supra dixi, postquam dolis viam ob- dendo che la strada dell'inganno non era pratiseptam vident, bellum ut creditur, per speciem cabile, decisero di muover guerra apertamente
negati vectigalis, ut supra significavimus, aperte ai Ceroni con il pretesto di quelle tasse di cui si
moliendum censent.
è accennato.
NOTE AL PUNTO 36
Lo smacco subito a Casola al contrario di calmare i bollenti spiriti di Ramazzotto e Vaina ne fomentò
le ire. I Ceroni erano un osso duro anzi il più duro della zona visto che ancora nessuno li aveva
messi in ginocchio. L'anno 1523 si aprì, si può dire, con la visita del Presidente della Romagna,
sempre l'Arcivescovo di Avignone mons. Orlando Carretti, a Imola. Non credo che in quel frattempo
nè il Ramazzotto nè il Vaina avessero modo di riproporgli l'affare dei Ceroni. Del resto mons. Orlando si fermò poco ad Imola. Guido Vaina in Aprile parte per Roma dove ha un incontro con il
Papa. Non sappiamo bene se il Papa avesse qualcosa da rimproverargli, ma è probabile, visti i
continui omicidi che insanguinavano Imola e dintorni. Fu l'ultimo colloquio che Guido ebbe col Papa.
Di li a pochi mesi infatti Adriano VI morì. La notizia arrivò da noi dopo un paio di giorni dalla morte
avvenuta a Roma il 14 Settembre 1523. Si apriva un nuovo periodo di Sede Vacante e ciò significava
che ognuno si faceva vendetta e giustizia a piacimento. Le cronache elencano un numero impressionante di delitti compiuti in città e nei paesi vicini. Anche a Tossignano ci furono morti per un
assalto dei guelfi al paese. Si uccideva, si bruciavano le case degli avversari, si rubava a man bassa
soprattutto.
E a Casola?
Qui si rimaneva fermi alla causa dei guelfi e si aspettava che prima o poi il magnifico messer
Giovanni Sassatelli venisse a ripristinar l'ordine e all'occorrenza i Ceroni sarebbero scesi. Tipico il
caso successo ad Imola a un povero montanaro di quassù che era sceso per vendere il carbone: "li
fu domandato non so da chi che fa e che fanno quelli di Ceruno e lui respose: "non fanno altro se
non gridare Cagnazo Cagnazo!" (Dal diario di G.B.Cattani-Archivio Sassatelli). Mal gliene incolse
perchè come fosse lui un Ceroni lo pestarono ben bene con con i bastoni e con il calcio dei fucili
portandolo da Guido Vaina. "Como fu christo nante Pilato". La tensione è dunque alta. Per giunta il
24 Ottobre verso le parti di Cotignola, dove sembrava ci fosse il Cagnaccio, i ghibellini diedero
caccia ai guelfi uccidendone una decina e strappando loro due bandiere e due tamburi. Imbaldanzito
da questa vittoria Guido Vaina sempre affiancato e questa volta in modo scoperto dal Ramazzotto,
decide di dar nuovo assalto ai Ceroni di Casola e in fretta e furia obbliga il consiglio ad approvare
una tassa per armare i difensori della città, ma in realtà per armare la cavalcata che intende fare
contro Ceruno. In gran segreto infatti, si fa giurare dai consiglieri di non dire parola sulle sue
intenzioni che sono appunto di incendiare il paese di Casola Valsenio e di ridurre all'obbedienza i
Ceroni. Tutti giurano e così il giorno dopo che era il martedì 27 Ottobre, la masnada si mosse da
Imola che non era ancora giorno, tagliando verso i monti per raggiungere la vallata del Senio come
si dirà in seguito.
- 37 –
Guido igitur quatuor millium Ghibellinæ factioGuido Vaina dunque armò una schiera di 4.000
nis armatorum acie contracta, quos inter
Ghibellini nella quale si potevano numerare
agnitæ sunt gentes diversarum supra quadracomponenti di ben 44 casati diversi, che parteginta quatuor familiarum, quæ plurimæ voluncipavano per lo più spontaneamente, ma non
tarie confluxe-rant, visique experti milites duc'erano che 200 soldati (veramente) addestrati
centi ferrea tormenta plumbea glande inalla guerra e armati di archibugi a palle di
structa ferentes, quos e Ramazotica cohorte
piombo (ferrea tormenta plumbea glande insecreto acciverat, paratisque universis, quæ
structa!) che egli aveva fatto venire di nascosto
ad expugnationem, bellumque ciendum oppordagli arsenali di Ramazzotto.
tuna videbantur, VI. Kal. Novembris eodem
Fatto ogni preparativo per l'espugnazione e la
adhuc vertente anno 1523 Forocornelio citato
guerra, il giorno 27 Ottobre dello stesso 1523
profectus agmine Casulam recta pergit, et
partì da Imola e,per la strada più corta, ragquaqua armata multitudo pertransit, agrestes
giunse Casola. Lungo la traversata i soldati coobvios una secum proclamare compel-lat: Vistringevano i contadini che incontravano a grivat, Vivat Guido, qui Ceronios perditum vadit.
dare con loro:"Evviva Guido che va a sterminare i Ceroni!".
NOTE AL PUNTO 37
Inizia col capitolo 37 la pagina epica delle gesta dei Ceroni che il Mita ci riporta in un latino alla
Tacito intingendo spesso la penna nel più genuino entusiasmo. Noi dovremo tuttavia , per amor del
vero, sfrondarla dai troppi allori, ma soprattutto ridimensionare le cifre non suffragate da documenti
sicuri. Da dove attinge il Mita per questa storia? Certamente dai quaderni di Tossignano, come
confermerà anche il Linguerri nel suo libretto, ma purtroppo di detti quaderni (Specie di storia locale
conservati per lunghi secoli negli archivi di quella comunità) non c'è attualmente più traccia. Altra
fonte dovettero essere quelle tradizioni scritte od orali che lo storico consultò presso i Ceroni del
suo tempo e alle quali accenna nella prefazione dell'operetta; ma si sa, le tradizioni ingigantiscono
sempre per un verso o l'altro e alle cifre su riportate dobbiamo fare un po’ di sconto.
Penso si possa accettare quella dei 200 soldati ben addestrati, ma ridurre a un 300 o 400 persone
tutti gli altri. Conoscendo come andavano le cose in occasione di "Cavalcate" o saccheggi, possiamo
ben credere che all'armata vera e propria si siano aggiunti un bel numero di sciacalli pronti a far
man bassa di ciò che i soldati potevan lasciar indietro. A questi anche i soliti curiosi.
Che strada avranno preso Vaina ed i suoi? Certamente la strada carreggiabile che, oltrepassato il
Santerno, si inerpica verso Pediano e Mazzolano per poi scendere nella piana di Gallisterna. Il 27
Ottobre di quell'anno era un Martedi.
Da "Ricordi" di Ser Battista dei Cattanei di Toranello (biblioteca di Imola) tratto dal libro di S.
Bombardini "Il diavolo nel tamburo":
- adi 27 d octovere 1523 el marte matina a lalba
Recordo como guido vaino insieme cun la parte gubellina ando a casula de valde senno e comenzorno a brusare case asai e el primo che apizo el focho in casula fu fra zuano antonio de dondo
brocardo e dapoi che hebene brusato tutto quello che parsene a lori como veri e legiptimi traditori
brusorno la giesia de santa lucia de casula e una altra giesia da pogio e la casa del comune dela
villa da casula e non sacii de mal fare operare e robare presene ardire de andare a ciruno...27 ottobre 1523, all'alba del martedì.
Guido Vaini e i ghibellini andarono a Casola Valsenio e cominciarono ad incendiare case in gran
numero e il primo che appiccò il fuoco in Casola fu frà Giovanni Antonio di Dondo Broccardi e dopo
che ebbero arso tutto ciò che parve loro, come veri e legittimi traditori incendiarono la chiesa di
Santa Lucia di Casola, un'altra chiesa a Poggio e la casa del Comune della villa di Casola, quindi,
non sazi di compiere del male e di saccheggiare, ebbero l'ardire di dirigersi a Ceruno.
-secondo che se disse ne muri circha da quaranta o cinquanta e de quilli da ceruno mori tolomeo e
dui o tri altri compagni cun lui e notta che quilli da ceruno zoe rafaello insieme cun li altri messene
in fuga la parte gubelina e li tolseno doe boche da focho zoe dui sagri (26) e uno tanburo el quale
tolseno lori suso quello de cudignola a quilli de messer zuano sassatello e anchora quilli da ceruno
li tolseno una bandiera e multi butorno via li schiopi e le arme e veste e scharpe per fugere de
modo e sorte che se non era guido vaino erano tutti tagliati in pezi perche lui senpre mai secondo
che se disse se retirava conbatendo e cusi furni fugati da li cerunischi fino lontano uno miglio a
tauxiniano...
A quanto si disse, ne morirono circa quaranta o cinquanta, mentre fra i Ceronesi morì Tolomeo e
altri due o tre suoi compagni e nota che quelli di Ceruno, cioè Raffaello e i suoi, misero in fuga la
parte ghibellina e le tolsero due bocche da fuoco, cioè due sacri e un tamburo, che essi avevano
preso a quelli di messer Giovanni Sassatelli in quel di Cotignola, e anche una bandiera, e molti
buttarono via gli schioppi, le armi, le vesti e le scarpe per fuggire, in modo che se non c'era Guido
Vaini sarebbero stati fatti a pezzi tutti perchè lui, a quanto fu detto, si ritirava sempre combattendo.
Così furono inseguiti dai Ceronesi fino a un miglio da Tossignano.
-e nota che cezaro de traiano brochardo fu ferito de septe ferite e multi furni presi apresuni e li
bravi da jmola zoe vangelista brochardo sipione tartagno enea de guido vaino christofano zavatiero
e jacomo e michele de vaino e multi altri che tuta la speranza de guido era in loro tuti fugirno e lo
abandonorno e lui quasi remase in le peste e se volesse scrivere ad plenum como fu ad plenum
questa rotta non poteria perche non era li presente per audito scrivo e li cerunischi cridavano
cagnazo o ceruno o ramazotto suficit.
Sappi che Cesare di Traiano Broccardi ebbe sette ferite e molti furono presi prigionieri e i più spavaldi d'Imola, cioè Evangelista Broccardi, Scipione Tartagni, Enea di Guido Vaini, Cristoforo ciabattino e Giacomo e Michele Vaini e molti altri, sui quali si fondava tutta la speranza di Guido, fuggirono
in massa, abbandonandolo, cosicchè lui rimase quasi in pericolo di vita e se volessi descrivere
pienamente come fu completa questa rotta non potrei perchè io non ero presente e scrivo per
sentito dire. I Ceronesi gridavano "Cagnaccio Cagnaccio, e Ceruno, o Ramazotto!" Basta.
- 38 –
Hæc ubi Ceroniensium gentibus initio relata
sunt, plurimi eorum unanimes Raphaelem Brunorii, qui Patriæ Arci præsidebat, adeunt, et in
illum tamquam imminentium malorum causam
indignabundi verba aspera vertunt, necem ni
primus omnium in confertos hostes ipse irruat
militan-tes. Raphael gnarus militiæ, ejusque
periculis assuetus suis se placidum insinuans,
eos bono animo esse suadet, neque rem in
summo periculo, ubi imbellis turba veretur,
monet: neque ausuros per ardua, atque iniqua
loca, subire latrones verius, quam hostes
justos cum majoribus, ut ajunt, tormentis, se
opinari obtestatur: quod si conentur, vel parva
manu prohiberi, aut deturbari posse, cum ipsa
asperitas loci insuetos avertere, et Deus Opt.
Max. qui primus agens est, plectere sontes
maxime soleat. Neque multitu-dinem adventantium timendam ait, dum magis industria,
quam numero superantur hostes; Sæpe enim
ante adversus multitudinem a paucis strenuis
bene pugnatum scire; idque Deo propitio futurum nunc se confidere, si solita animi, corporisque virtute utantur; insuper et auxiliarios,
quos possint periculorum socios adsci-scant,
ut arte sociata viribus multitudinem haud assuetam montibus parva manu superent, fugientesque, asperrima quæque ad laborem,
periculumque subeundum ipse deposcens.
Hæc audientes approbant Ceronii, universorumque eadem vox fuit pro Patria, pro liberis,
pro uxore, insuper et pro gloria, dum verbis
Raphaelis facta respondeant, ex indicando sibi
loco impigra manu se se pugnaturos usque
dum aut opprimantur, aut vincant. Itaque ex
composito cunctis in unum coeuntibus Ceroniis, pagum turrimque eorum muniunt, eo pretiosiorem suppellectilem convehunt, subsidiaria auxilia e montibus evocant, loca dispo-nunt
insidiis; foeminas in unum redactas intra
domum arci proximam strue lignorum substrata claudunt, ut si forte hostes victoria lætabundi vicum occupent, igne mox per custodes
immisso, foeminæ ad unam, ne adver-sariis
ludibrio existant, incendantur. Et quamquam
Ceronium montem universi ferme ex suis, reliquisque accolis concesserant, pars tamen insolita rerum bellicarum trepidans exinde proximos montes occupaverant, ut per occasionem vel eo se se abderent vel ad summa montium cacumina refugerent. Itaque vix dum trecenti ex Ceroniis, auxiliariisque sociis armis instructi Raphaelem sequun-tur, quibus trifariam
divisis, unicuique parti proprium assignavit
munus.
Non appena i Ceroni ebbero notizia di tutto ciò si
recarono in massa da Raffaele (Brunori) che custodiva la Rocca (di Ceruno) e pieni di sdegno,
come fosse lui la causa prima di quella imminente sventura, lo affrontarono con aspre parole
minacciandolo anche di morte se non si fosse per
primo avventato contro i nemici in armi. Raffaele, pratico di guerra e ben uso ai rischi delle
armi, li tranquillizza dicendo che non bisognava
valutar il tutto così tragicamente come temeva il
popolino. Li rassicura affermando d'essere convinto che quel branco di briganti più che veri nemici, non avrebbero osato inoltrarsi in quei luoghi erti ed impraticabili con le artiglierie pesanti,
ma se lo avessero tentato, sarebbe stato possibile fermarlo e disperderlo con un pugno di uomini grazie alla stessa asperità del luogo del
quale quelli non sono pratici e (pensa) infine che
Dio Onnipotente, prima causa d'ogni cosa, è solito punire in modo tremendo gli ingiusti. Raccomanda di non aver paura di quella gentaglia che
si avvicina perchè, dice, i nemici si vincono di più
con l'abilità che col numero. Sapeva come
spesso nei tempi antichi con pochi, ma valorosi
soldati si erano sostenute vittoriose battaglie
contro una moltitudine di nemici e afferma di essere fiducioso che, con l'aiuto di Dio, ciò sarebbe
accaduto anche in questa occasione purchè (i
Ceroni) si fossero impegnati con il consueto valore del cuore e del braccio. Raccomanda che si
radunino amici nel maggior numero possibile per
compagni di battaglia in modo che unita l'abilità
alla forza sia possibile con piccola schiera battere
la preponderanza numerica degli avversari inesperti di questi luoghi di montagna e così metterli
in fuga. Per conto suo egli era pronto ad affrontare qualsiasi prova e a sostenere fatiche e pericolo. I Ceroni accolsero con approvazione queste
parole e gridarono ad una voce di voler combattere valorosamente, se i fatti daran ragione alle
parole di Raffaele, per la patria, i figli, le mogli e
la gloria fino alla vittoria o alla morte, scegliendosi anche il luogo di battaglia. Deciso questo, i
Ceroni tutti uniti si mettono a fortificare il villaggio e la rocca dove ammassano tutte le loro masserizie più preziose. Chiamano dai monti i loro
amici in aiuto, preparano il luogo degli agguati,
raccolgono insieme le donne in un'abitazione
presso la Rocca e ve le rinchiudono dopo aver
messo sotto la casa delle cataste di legna che.
nel caso i nemici avessero occupato il villaggio, i
custodi avrebbero incendiate, bruciando così le
donne piuttosto che lascirle come oggetto di ludibrio per i nemici.
Benchè quasi tutti gli amici chiamati in aiuto fossero accorsi al monte dei Ceroni (Ceruno) tuttavia una parte non usa alle armi e paurosa aveva
preso la via dei monti vicini in attesa o di ricongiungersi con i propri familiari o di cercare
scampo sulle vette. Appena trecento fra Ceroni e
soci, tutti forniti di armi, seguirono Raffaele che
li divise in tre schiere assegnando a ciascuna il
suo compito particolare.
NOTE AL PUNTO 38
Al N. 38 giganteggia la figura di Raffaele Brunori "Defensor Patriae". Costituisce un pò la figura del
protagonista quasi il Mita avesse tracciato, senza avvedersene, la trama di un piccolo romanzo nella
vicenda Ceroni. L'eroe che per amore si è messo contro i propri familiari e dai quali è emarginato e
offeso che però nel momento del pericolo si rivela il salvatore di tutto il parentado e strumento della
vendetta divina contro l'usurpatore. Certamente Raffaele rimane nella tradizione dei Ceroni la figura
più significativa e, dopo questo fatto d'arme, l'indiscussa guida. Il particolare delle donne rinchiuse
e pronte ad essere sacrificate ci documenta a sufficenza a quale spirito di combattimento aveva
saputo portare i suoi Ceroni.
La cifra di 300 (fra i nostri e gli alleati) è accettabilissima. A tanto assommava infatti la forza militare
di Ceruno. Quanto ai soci abbiamo più avanti notizia di un certo Francesco da Pietramala capo di
balestrieri che raggiunge Ceruno con 40 armati. Vista la distanza, è da pensare che per questi
preparativi fossero occorsi diversi giorni. La spedizione del Vaina dunque non doveva aver colto i
nostri di sorpresa, cioè solo con un giorno appena di anticipo, ma o da giorni ne era trapelato
sentore o quei balestrieri erano già nei pressi di Ceruno fra i contingenti di armati che (cfr nota al
N.36) il povero carbonaio del 17 Settembre dice si vanno ammassando verso Ceruno. In realtà i
Ceroni, dall'anno precedente non avevano deposto nè la paura del Vaina e del Ramazzotto, nè le
armi.
- 39 –
Ficchii, quorum rationibus supra narratis abaI Ficchi che per i motivi ricordati più sopra si
lienati ab Raphaele animi quamplurimum
eran ormai alienati dall'amicizia con Raffaele, in
erant, non satis in re dubia eidem fidentes, Arquella occasione tanto pericolosa si fidavano
cis, Pagique tutandi suscepere munus; et ut
ben poco di lui. Avevano perciò scelto il compito
periclitantibus subsidio esse possent, Francidi presidiare la Rocca ed il villagio (di Ceruno).
scum a Petra mala virum impigrum, et experPronti poi a dar man forte ai combattenti, avetum militiæ socium, qui cum quadraginta balivano ingaggiato Francesco da Pietramala uomo
stis armatis, animis, corporibusque rigentibus
valido ed esperto nelle armi che era accorso con
ad eos accesserat, assumunt. Joannes Baptista
40 vigorosi e coraggiosi balestrieri. Gian BattiRavalei filius cum sexaginta non longe a Pago
sta figlio di Ravaleo (Bartolomeo detto Ravaad occidentem inter virgulta, et saltus ad obsiglia) con sessanta sol- dati si nascose nella bodenda itinera latitat intra vallum. Raphael cum
scaglia come in una trincea, verso ovest, poco
centum triginta ex strenuioribus prope Meletæ
lontano dal villaggio, allo scopo di tendere aglocum secus monticulum, et arbores ad clauguato sulla strada dei nemici. Raffaele poi, con
dendum regressum delitescit; et Luciam
130 dei più valorosi si appostò presso Meleta
uxorem, quæ Ramazotto, ut dixi, genita erat,
ripa- rato dal colle e dagli alberi per tagliare la
prælonga hasta armatam, et una in hostes
ritirata. Aveva preso con sè la moglie Lucia, fipropriumque genitorem si forte, uti fama erat,
glia di Ramazzotto, che si era armata d'una
adesset, irruat, adducit, et universi adventanlunga picca pronta a gettarsi sui nemici e antes hostes dispositis speculatoribus, præstoche sullo stesso padre qualora, com'era presulantur.
mibile, l'avesse incontrato. In questo modo, le
sentinelle al loro posto, aspettavano l'arrivo dei
nemici.
NOTE AL PUNTO 39
Siamo convinti che tutti questi preparativi dovevano richiedere più tempo di 24 ore e che quindi o
una spiata aveva messo in allarme i Ceroni o già da tempo meditavano qualche intervento a favore
di Cagnaccio ed erano già in armi. Sulla disposizione del piano difensivo il Mita ha certamente
attinto dalla voce dei più vecchi che in seguito tramandavano nei particolari questa vicenda gloriosa.
Il teatro di battaglia è ben individuabile: a sinistra, verso nord di Meleta e verso sud-sud ovest il
bosco dello Smuraglio o meglio la cresta del monte che lo sovrasta. La strada per Ceruno, atta a
trainarvi grossi pezzi di artiglieria, è praticamente quella attuale che dal piazzale della chiesa scende
verso il fiume per poi inerpicarsi verso la Soglia. Di qui si saliva, più o meno come adesso, tagliando
la valletta dei Pavarotti. Raffaele e Ravaglia hanno dunque ideato di prendere a tenaglia il grosso
del nemico appena a metà della valletta.
- 40 Igitur v. Kal. Novembris, quo die Apostolis SiIl 28 Ottobre, festa degli apostoli S. Simone e
moni, et Thadæo sacrum anniversarium erat, Taddeo, si vide Guido Vaina, con truppa schieGuido cum instructa acie Senii planitiem occurata, occupare la piana del Senio e seminar
pare, lateque terrorem agrestibus incutere visiovunque terrore fra quei contadini. Dopo aver
tur: præmissisque ad Casulæ vicum explorato- mandato avanti esploratori fino alla borgata di
ribus, ubi deserta habitatoribus tecta præsentit, Casola e saputo che gli abitanti ne avevano abeo cum tota armatorum manu properus accedit, bando- nato le case, l'occupò con la truppa e peret quæ inter festinationem aut exportari, aut oc- mettendo così fosse preda dei soldati ciò che per
cultari a nostris nequiverant, ea militibus initio la fretta i nostri non avevan nascosto o portato
diripienda permittit. Inde suorum agmine biparvia. A questo punto Guido divise in due parti il
tito, partem expeditioribus armis instructam suo esercito ordinando a quelli d'armatura legante præire jubet, et ut primi omnium flumine gera di precederlo attraversando il ponte sul
supra pontem trajecto Ceronium montem dispo- fiume e affrontando in ordine la salita del monte
sitis ordinibus subeant, loca præoccupent, et fino a Ceruno dove dovevano cercar di espuvici oppugnationem adoriantur, mandat; se se gnare il villaggio, lui subito li avrebbe seguiti con
cum tormentis muralibus, ac altera aciei parte l'altra parte dell'esercito e coi cannoni per atterad expugnandam arcem, tectaque diruenda pro- rare la Rocca e le case. Per recar danno e incuxime accessurum. Mox igne subjecto ædes Ce- tere terrore ai Ceroni cominciò quindi ad incenronias Casulæ palatim et circa ad octoginta in- diare le case che avevano in paese e furono
cendit, damno juxta ac terrori nostris ut esset, un'ottantina, ma questo atto servì ad eccitar anquod tamen haud parum fuit in hostes irritacor di più l'ira dei Ceroni contro i propri nemici.
mentum.
NOTE AL PUNTO 40
Rimandiamo a questo punto a ciò che il già citato Gian Battista Cattani scrive nel suo diario (Archivio
SassatelliPresso Bibl.Com. d'Imola) a questa data.
"Adi 27 d'octovere 1523 el marte matina a lalba.
Recordo come Guido Vaino insieme con la parte gubellina andò a Casula de Val de Senno e comenzorno a brusare case asai e el primo che apizò el focho in Casula fu fra Zuan Antonio de Dondo
Brocardo e dapoi che ebene brusato tutto quello che parsene a lori, come veri e legiptimi traditori
brusorno la giesa de S. Lucia de Casula e una altra giesa da pogio e la casa del Comune de la villa
de Casula e non sacii (sazi) de mal fare, operare e robare presene ardire de andare a Ciruno ..."
È una notizia di prima mano. Il Cattani, di parte guelfa, è per i Ceroni, ma la sua testimonianza va
presa tranquillamente perchè conosce a menadito tutti i personaggi più ragguardevoli che presero
parte alla spedizione e può citar nomi e imprese con la meticolosità d'un cronista. Impariamo così
che oltre tutte quelle case il Vaina fece dar fuoco anche alla chiesa di S. Lucia dove si erano appena
sistemati i padri Domenicani e alla Chiesa di Sopra (giesa da pogio) e alla casa comunale. Il Cattani
però registra tutto sotto il giorno 27, cioè al momento della spedizione da Imola, e sembra far tutto
concludere in una giornata; in realtà la traversata con quei grossi pezzi d'artiglieria ha richiesto
molte ore e quindi ci par attendibile accettare il 28 come giorno della battaglia.
- 41 –
Maximam montis partem arduo, difficilique
Intanto questi nemici erano giunti quasi alla
ascensu subie-rant adversarii, cum Ravaleus
cima del monte su per una salita erta e difficile,
ex latebris erectus pauca tormenta in antesiquando Ravaleo, uscendo dall'agguato sparò
gnanos hostes tonitru displosit, ac repente occon gran fracasso addosso a loro un pò di articulitur. Consistere parumper Ghibellini, dein
glieria. I Ghibellini s'arrestarono, sparando di
missilium globorum tormenta, adversus disporimando contro gli assalitori e si apprestarono
sitas insidias displodunt, eoque mox animum
ad inseguirli, quando dall'alto del colle ecco
dirigunt, et corpus. At illico Ficchii dolia plena
precipitare botti (da vino) ripiene di sassi, fatte
lapidibus superne devolventes in hostem, perruzzolare appositamente dai Ficchi. Ciò spaterrefactam, læsamque aciem dissipant. Proventa e mette in fuga la turba.
tinus Raphael a tergo, et sinistro latere exilAll'improvviso ecco uscire dal fianco sinistro del
iens, primum clamore omnium sublato exterrimonte Raffaele coi suoi che con alte grida gettat ipse hostes, dein proximos quosque cirtano il terrore nei nemici fulminando i più vicini
cumfre-mentibus missilium globorum fulmincon archibugiate. Nello stesso tempo dà fuori,
ibus petit, vulnerat, necat. Eodem tempore Racon tutti i suoi, Ravaleo dall'ag-guato e urlando
valeus e latebris a fronte cum omni comitatu
minacce di strage contro i più vicini, con già gli
prosiliens in propinquiores, qui jam tormenta
archibugi scarichi, e presi dal panico per il fatto
disploderant, atque diffundebantur doliorum
delle botti, scarica (sui fuggiaschi) archibugiate
pavore, inclamata nece acri impetu irruit, et
e frecce. I Ghibellini feriti ed accerchiati da ogni
plumbeas glandes, telaque varii generis jacit.
parte non riescono a sostenere l'urto; fanno
Ghibellini infesto loco insidiis circumventi, vuldietrofront e come un torrente impetuoso, balnerati-que non sustinent impetum, sed terga
zando su dirupi e luoghi per loro sconosciuti, si
dant hostibus, et per aspera, et insolita loca,
precipitano verso il basso. Non vi sono precipizi,
non secus quam torrentis modo ruunt cæci:
balzi, rupi che li trattengano. Non hanno altra
nulla præcipitia, nulla invia, nullæ rupes
paura che quella dei nemici (Ceroni). Fu così
obstant, nil præter hostem metuunt: Ita pleriche la maggior parte precipitò nel fiume (sottoque præci-pites per vastam altitudinem in flustante) da grande altezza e vi perì.
men prolapsi exanimantur. Nostri hostes jam
I nostri, grazie anche alla particolare natura del
fugientes insequuntur, eosque natura etiam
posto, li incalzarono nella fuga menando strage
loci adjuvante post ingentem cædem fuderunt,
e sbaraglian doli.
profligarunt, et majori pro parte delerunt.
NOTE AL PUNTO 41
Nelle note precedenti abbiamo opinato che il Mita abbia attinto i particolari della famosa "Battaglia
delle botti" (28.10.1523) dai vecchi Ceronesi del suo tempo ai quali i padri li avevano trasmessi
con appassionato ricordo. Sarà questo infatti l'ultimo segno di unità della Consorteria Ceronese. A
questo fatto d'arme segue l'inarrestabile decadenza dei Ceroni che si lacereranno in faide fratricide
come vedremo. Fra i vecchi consultati, primo fra tutti, va certamente ricordato don Sebastiano
Carretti, Arciprete di Fontanelice, alla cui scuola il Mita mosse i primi passi sulla strada del sapere.
Don Sebastiano era una figura singolare. Dotato d'una certa cultura che gli permetteva di reggere
discussioni con i più versati in teologia, per aver contrastata l'affermazione di un frate (fra Cornelio
da Codogno) che in una predica di quaresima a Fontana aveva assicurato che Adamo ed Eva avevano peccato mangiando "un fico", ebbe noie tali da parte dei frati Serviti da essere denunziato
all'Inquisizione. A Imola don Carretti subì un severo processo in cui si fece anche uso degli strumenti
di tortura secondo l'uso del tempo, ma dal quale ne uscì prosciolto dall'accusa di eresia e potè
tornare a far il parroco a Fontana. Ebbene, da don Sebastiano il Mita non imparò solo i primi rudimenti della grammatica e del latino, ma anche le affascinanti storie dei nostri paesi e in specie
quelle dei Ceroni con la descrizione minuziosa di questa ormai famosa battaglia "delle botti" che
don Sebastiano si sarà sentito ricordare infinite volte dai vecchi della famiglia Rinaldi Ceroni, abitanti al Casoletto, o della famiglia Ravaglia, abitante ai Paverotti.
Egli, don Sebastiano Carretti, era stato parroco di Pagnano dal 1563 per alcuni anni e quella strada
che dal ponte della Soglia costeggia la rupe sul fiume, a piedi o a cavallo, l'avrà percorsa forse ogni
giorno. E così salendo su per la strada, avrà fissato a sinistra i campi della Soglia e a destra il
pauroso balzo che fu tomba a tanti ghibellini terrorizzati.
Ecco spiegata la vivacità del racconto, pari a quella di un inviato particolare.
- 42 Guido equo insidens more cataphractorum ar- Guido Vaina (seduto) sul suo cavallo e tutto rimatus vixdum ponte trajecto, qua fugam cernit coperto d'una armatura da corazziere, ha apsuorum cum præsidio omni occurrit; et stare pena attraversato il ponte (della Soglia) quando
primo, deinde redire ad conflictum jubet; pavosi accorge della precipitosa fuga dei suoi. Si getta
rem ex paucis agrestibus conceptum, et turpem subito contro di loro con tutta la guardia di scorta
ipsorum fugam increpans. Minæ exinde erant, in
ordinando di fermarsi e tornar a combat-tere.
perniciem suam cæcos ruere, ni dicto parerent: Rinfaccia loro di aver avuto paura di quattro conpostremo dat signum subsidiariis, ut primos fu- tadini dandosi vergognosamente alla fuga; li migientium cædant, turbam insequentium ferro, naccia di sterminarli tutti se non tornan indietro
vulneribusque in hostes redigant, se cum tor- e dà ordine alla guardia di passare per le armi i
mentis majoribus subsidio per ardua, utcumque primi che cercano di fuggire e di spinger di
possit properaturum. Hic major timor minorem
nuovo la turba al combattimento intanto che con
vicit: ancipiti coacti metu primo consistere, quelle grosse artiglierie non verrà tosto a portar
deinde et ipsi se verterunt ad pugnam: sed itemanforte in cima all'erta. Il timore più grosso
rum urgentibus ab alto Ceroniis, et Ficchiis sub- vinse il minore. Si fermarono e tutti si volsero di
sidiariis, e vico paulatim erumpentibus, quo nu- nuovo per combattere. Ma ecco che i Ceroni inmerus eorum amplior vero videretur, magnis calzavano di nuovo e quegli alleati dei Ficchi
clamo-ribus, ac tonitru tormentorum valle cir- scendevano a gruppetti, per far credere d'essere
cumsonante, saxisque in proclive pondere suo un maggior numero, dal villaggio (di Ceruno) grigraviter provolutis in hostem, tantus terror dando selvaggiamente. La valle rimbombava per
aciem adversariorum incessit, ut iterum terga
il tuono dei cannoni e grossi massi ruzzolavano
darent, atque integrata fuga cominus, eminu- lungo il declivio piombando sui nemi ci. Gli imosque a nostris petebantur telis. Nec potuit unus lesi ne furono tanto spaventati che rin- novarono
Guido inconditam, trepidamque turbam ulterius la fuga bersagliati anche da lontano dalle frecce
infesto loco retinere, ne fugeret, dum neque su- dei nostri.
stinere alii super alios inferentes se se valebant. Guido Vaina non riuscì da solo a trattenere la
Haud parum abfuit, quin ipse Guido extrema in- turba terrorizzata e disordinata che fuggiva e
dignatione perculsus tor-menta majora in suos dalla rabbia mancò poco che costringesse i canturpiter fugientes explodere librato-res cogeret, nonieri a sparare sui fuggitivi rivolgendo contro i
et necem, quam nostris paraverat, suis co invito suoi la strage che avevano preparato per i nostri
sic terga dantibus inferret: iram tamen, qua po- (Ceroni).
tuit ratione cohibet, et a cunctis desertus certaFrenò come potè l'ira e, rimasto solo, dovette riti
men, periculumque declinare compellitur. Itararsi dalla battaglia. Lasciò sul posto quanto aveque universa, quæ ad expugnationem advexe- vano portato per l'assalto e attraversando le rirat deserens, citato cursu invios colles Tussigna- pide colline si portò a Tossignano. Gli altri, senum versus subit; cæteris ferme universis per guendo il fondovalle,fecero ritorno alla loro città
arva plena retro, qua venerant, se se recipienti- da dove erano partiti.
bus.
NOTE AL PUNTO 42
La descrizione della rotta degli Imolesi e l'ira di Guido Vaini è degna d'un Tacito o di un Giulio
Cesare. Traspare la segreta gioia di vedere il Vaini umiliato e la sua impresa banditesca non solo in
fumo, ma ritorcersi in proprio danno.
L'arrabbiato capo ghibellino che in arcione corre incontro ai suoi in fuga imprecando e minacciando
ci conferma a sufficenza l'orgoglio e l'impetuosità di questi caratteri singolari di capitani di ventura
del XVI secolo. Non è improbabile che un qualche sventurato ghibellino sia rimasto vittima dell'ira
di Guido impotente a frenar la fuga.
L'entrata in campo dei 40 balestrieri di Pietramala che scendono a gruppetti con urla selvagge
dev'esser stata di indiscusso effetto. La posizione offriva loro buon gioco per bersagliare i fuggiaschi
con colpi di balestra. Verso questa nuova insidia deve essersi rivolto il Vaini salendo in tutta fretta
verso Meleta col suo bel cavallo.
- 43
Ficchii nullum ulterius imminere vico certaminis
periculum rati eductas e custodia foeminas, quo
fuga, atque formido hostium latius cresceret,
tamquam armatos milites circa vicum circumspiciendas proponunt, et modico seniorum ibi
relicto præsidio, hostes haudquaquam a tergo
insequi, sed per obliquum cum sociis flectere
iter, hortantibus Thesuccio, et Galbetto, censent; Sic amne subter Casulam vadato magnis
passibus agrum Bur-rattæ subeunt, et hostibus,
et se se recipientibus occursant. Consistunt Ghibel-lini, qui necdum cum nostris conseruerant
manus, et æquiore loco, et multitudine freti,
coacti prælium incipiunt, et exiguum tempo-ris
utrinque aliqua forma pugnæ confligitur. Præda
si quidem ab hoste cis flumen deserta Raphaelem, ne fugientes ulterius insequeretur, morata
fuerat, aliis, quod satis actum esse cum hoste
dicerent, prosequi renuentibus. Cæterum ubi
cum Ficchiis renovatum certamen vident, exiguo
præsidio mox ad prædæ custodiam relicto, frequentes arva Casulana subeunt, et hostes jam
primo fusos a tergo invadunt. Pars hostium a
tergo sic petita converso agmine, parsque a
fronte cum Ficchiis pertinaciter dimicans passim
cæsa, vulnerataque prosternitur, donec reliqui,
qui integri erant, in fugam concitati, qua possunt per invia per aspera, magis pedes, quam
arma tutati ad proximas latebras elabuntur, indeque noctis tenebris effusi patrios repetunt lares: Sic cæde, fuga hostium certamine dirempto
Ceronii dant receptui signum.
–
Quando i Ficchi furono rassicurati che nessun
altro pericolo d'assalto minacciava il villaggio,
condussero fuori le donne dalla casa dove le
avevano rinchiuse, e per intimorire i nemici le
schierarono torno torno alla rocca come tanti
soldati in armi. Lasciato quindi un piccolo presidio di vecchi, pensarono di aggirare alle spalle
i nemici tagliando loro la stra da. Tesuccio e
Galbetto caldeggiavano questo progetto. Guadarono dunque il fiume sotto Casola e di gran
corsa entrarono nei campi della Buratta parandosi così di faccia ai fuggiaschi. I Ghibellini si
arrestarono. Non si erano ancora azzuffati coi
nostri e il terreno era pianeggiante. Rassicurati
dal loro grosso numero e del resto costretti a
farlo, diedero mano alle armi. Presto e da una
parte e dall'altra si accese quasi una vera battaglia. Raffaele intanto era rimasto ancora al di
qua del fiume trattenuto dall'abbondante bottino lasciato sul campo dai nemici e stava in
pensiero se inseguirli o meno poichè gli pareva
che si fosse già fatto abbastanza per la loro disfatta; così pure gli consigliavano altri che si
fermavano dallo inseguimento. Quando però
arrivò la notizia che i Ficchi avevano ripreso a
combattere, lasciarono qualcuno a guardia
della preda e tutti presero la corsa attraverso i
campi di Casola e assalirono alle spalle gli Imolesi già prima sconfitti. Così i nemici presi tra
due fuochi: i Ficchi di fronte e alle spalle Raffaele, già feriti e malmenati, furono nuovamente battuti. Gli scampati, fidando ormai più
nelle proprie gambe che nelle armi, cercarono i
più vicini nascondigli e col favor della notte, per
sentieri impervi, così come poterono, ripararono alle loro case. Con la sconfitta e la fuga del
nemico ebbe fine il combattimento e i Ceroni
suonarono allora la ritirata.
NOTE AL PUNTO 43
Il pieno successo della strategia di Raffaele ha inorgoglito i Ceroni che non paghi d'aver messo in
fuga il nemico, cercano ora di anniettarlo impedendogli anche la ritirata. Tesuccio e Galbetto prendono quasi l'iniziativa autonoma di tagliar loro la strada. Per Raffaele si è già fatto abbastanza. Per
loro invece ci vuole la disfatta totale. Scendendo da Ceruno verso la Buratta, scendono al Senio
sotto il Molino d'Arsella e si trovano così di fronte alla turba sorpresa e disordinata. Forse è una
mossa audace e non giustamente valutata. L'atto poteva tramutarsi in una rivincita dei Ghibellini
che ora si trovavano su terreno pianeggiante e in numero preponderante sui Ceroni. Quest'atto
strategico ha certamente il pregio del coraggio, ma non quello della prudenza. Difficilmente, senza
il decisivo intervento di Raffaele, i Ceroni avrebbero cantato definitiva vittoria. Tesuccio e Galbetto
avranno magari ricevuto una lavata di testa da Raffaele a fatto concluso, con l'accusa di aver messo
a repentaglio la vittoria ormai certa; ma tant'è che anche il coraggio e l'audacia hanno il loro fascino.
Per ciò che riguarda la ritirata degli imolesi, va detto che i nostri Ceroni mirarono a spingerli verso
la collina del Poggio lasciando aperta loro quell'unica via di scampo. Si era ormai verso sera e la
maggior parte, quelli si intende che non eran nè feriti nè prigionieri si gettarono tra la boscagliae
le vigne di Prugno puntando verso Tossignano, da dove, via Santerno, riparare a Imola. Scendeva
il buio della notte e questo facilitava ... l'imboscata. I Ceroni li inseguirono su su verso la vetta della
collina che guarda campiuno e si arrestarono al suono della ritirata.
- 44 Ravaleus arrepto equo Vainam fugientem antea cum aliquot ex suis insequutus, pluribus
missilium tormentis ipsum nequidquam petit,
firmissimo undequaque ferro, quo tectus erat
illum protegente. Is tamen in periculo fuit,
dum circa profundam latamque fossam ad instar præaltæ rupis equo est imprudenter advectus: ubi enim exitum non videt retroque redire nostris insequentibus ducit periculosum,
dum varius incertusque agitatur, unus ex Ceroniis aduncum sparum inter commissuras illius armaturæ figit, et ipsum ab equo præcipitare conatur. At Vaina factus periculo intrepidus, subdens calcaria equo, saltu unico liber ad
alteram fossæ partem prosiliit, rostrumque
spari confractum secum pertrahens vitæ incolumis ad patriam rediit, cognomenque fossæ
saltus Vainæ factum indidit. Fuere ex nostris,
qui Ravaleum imperitiæ, aut avaritiæ accusarent; Is enim Guidonem captivum haud semel
habere cum posset, si in cædem equi, cui insidebat tela vertisset, ubi spe potiundi equi id
agere detrectat, uno tempore pre-tiosum
equum, nobilem ascensorem, et supremam
omnium gloriam victor, aut imperi-tus, aut
avarus declinavit.
Fusis, cæsisque hostibus spolia collecta sunt.
Aenea tormenta duo ingentibus ponderibus
(Bombardam vocant) quorum alterutrum juga
boum quatuor trahebant, altero Senatus
Imolæ, altero Vainæ domus insignia præseferente, Ferrea octo alternis plaustris vecta, hæc
omnia ad arcem devexere Ceroniam, ubi fuerunt usque ad annum Domini 1610, quo tempore Aenea in frusta collisa a Mario Raphaelis
nepote Florentiam ad magnum Ducem sunt
advecta, Ferrea ab Stephano Marii filio in varios usus distracta. Ad hæc commeatus omnis,
et tormentaria materies, plaustra, et boves. Ex
interfectis, fugatisque diversa armorum genera, signa militaria, indumenta haud vilia,
prædaque non consumpta e domibus nostrorum surrepta: Hæc plurima in suos sociosque
Raphael ex composito militum divisit, bobus,
ac prætio-sioribus rebus pro uxoria dote, quam
socer spoponderat, et signis militaribus sibi retentis. Dehinc hostium cadavera eo fere loci
humata, ubi ceciderunt: In arvis Burattæ paulominus trecentum, cis flumen juxta Soleam
pæne centum. Ex nostris aliquot vulnerati,
quatuor occubuere tantum, Virgilius nempe, et
Fridericus Jacobetti, Ptolemæus Cilotti Ficchii,
et Masottus a Petra mala: Horum corpora in D.
Mariæ Casulæ a suis delata honorifico condita
sunt sepulcro. Deim quotannis Deo Opt. Max.
gratias agendas ipsa die solemnitatis Aposto-
Ravaleo (Giambattista Ravaglia) afferrato un
cavallo si era messo, con un gruppo dei suoi,
alla caccia del Vaina in fuga prendendolo di
mira con molte archibugiate che però non raggiungevano lo scopo essendo il Vaina tutto ricoperto d'una solida armatura. Guido Vaina
corse tuttavia un pericolo di morte quando il
cavallo lo portò sopra un fossato largo e profondo come sopra un'alta rupe. Egli vedeva
com'era pericoloso tornar indietro coi nostri alle
calcagna e non trovava via d'uscita. Mentre girava su e giù incerto, uno dei Ceroni gli piantò
la punta di una lunga roncola fra le connetture
dell'armatura facendolo quasi cadere da cavallo. Fatto intrepido dal pericolo, il Vaina cacciò gli speroni nel fianco dell'animale e saltò con
un balzo dall'altra parte, libero, ma con ancora
la punta della roncola indosso e potè così sano
e salvo ritornarsene a casa. Per questo fatto
quel fossato porta il nome di "Salto del Vaina".
Fra i nostri ci fu chi accusò il Ravaleo di avarizia
e di incapacità perchè aveva avuto più di un'occasione di far prigioniero Guido Vaina, solo che
con l'archibugio avesse mirato al cavallo su cui
quello stava; ma il Ravaleo sperava invece
d'impadronirsi della bella bestia e non volle ucciderla perdendo così o per incapacità o per
avarizia la possibilità di conquistare la gloria più
ambita, il prezioso cavallo e il nobile cavaliere.
Sbaragliati i nemici si raccolse il bottino di
guerra. C'erano due pesantissimi cannoni di
bronzo chiamati "bombarde" ognuno trainato
da quattro paia di buoi. Il primo con lo stemma
del senato d'Imola e il secondo con quello del
casato dei Vaini. C'erano otto cannoni di ferro,
ognuno su un carro. Tutti furono sistemati nella
rocca di Ceruno dove vennero custoditi fino
all'anno 1610 quando Mario, il nipote di Raffaele, fatti a pezzi quelli di bronzo, li fece trasportare a Firenze (regalati o venduti) al Gran
Duca. Quelli di ferro furono impiegati per vari
usi da Stefano figlio di Mario. Ai cannoni va aggiunto il bottino delle vettovaglie, delle munizioni per l'artiglieria e poi gli archibugi, i carri, i
buoi, i vari tipi di armi, le bandiere militari, le
vesti preziose e inoltre tutta la roba depredata,
ancora intatta, dalle nostre case. D'accordo coi
soldati, Raffaele divise tutto fra i soci. Tenne
per sè i buoi e le cose più preziose come risarcimento della (mancata) dote promessa dal
suocero e tenne per sè pure le bandiere militari.
I cadaveri dei nemici furono sepolti pressochè
dov'erano caduti. Nel campo della Buratta ne
erano morti un trecento e un altro centinaio
erano caduti al di là del fiume vicino alla Soglia.
Dei nostri i feriti furono un certo numero, ma
lorum Simonis, et Thadæi a se posterisque pie
concelebran-da, communi edixere voto.
quattro solamente i morti: Virgilio e Federico
Giacometti, Tolomeo di Cilotto Ficchi e Masotto
di Pietramala. I loro corpi furono portati (solennemente) alla chiesa di S. Maria di Casola per
una onorevole sepoltura. Si decretò infine con
voto pubblico, come ringraziamento a Dio, di
solennizzare la festa dei SS. Apostoli Simone e
Taddeo (28 Ottobre) ogni anno in perpetuo.
NOTE AL PUNTO 44
Nel racconto della disfatta un fatto particolare. Ravaleo, uno degli artefici della vittoria e valido
collaboratore di Raffaele, ha visto il prode Guido Vaina inerpicarsi col cavallo verso i Paverotti e
Meleta. Decide di inseguirlo. Forse dalla casa paterna, i Paverotti appunto, preleva un cavallo e con
pochi altri si mette alla caccia del Vaina che come un leone si difende da eroe. C'è qui un omaggio
all'audacia del nemico. Ravaleo lo incalza seguito da altri e spara all'indirizzo di Guido diversi tiri di
archibugio che però non sortiscono effetto alcuno. Il Vaina è ben protetto dall'armatura. Ed eccoli
così giunti al fosso che sta sotto Meleta e i Ronchi sulla riva del fiume alta in quel punto diverse
decine di metri. Era un momento da non perdere. il nemico poteva essere facile bersaglio, ma
ceratmente qualcosa ha impedito a Ravaleo di approfittarne. Il desiderio d'impadronirsi del bel
Cavallo? La soggezione di fronte a questo indiscusso campione di coraggio? Non lo sapremo mai,
come non sapremo mai il nome del Ceroni che con la lunga roncola arpionò il Vaina.
Certo furono pochi attimi, ma sufficenti per Guido per salvarsi dalla morte e per il Ravaleo a rodersi
il fegato per l'accusa di avaro e poco furbo che l'accompagnò per il resto della sua vita.
Quanto al racconto sul bottino di guerra e il numero dei morti, dobbiamo fare qualche riserva.
Indubbiamente bottino ci fu e in specie i due grossi cannoni e bombarde furono il pezzo forte. Avrei
invece dei dubbi su tutto il ben di Dio che il Mita enumera. Certo un pò d'armi e di vettovaglie, vesti
e scarpe comprese, visto che i fuggitivi si sbarazzavano di tutto, posso passargliele, ma tutti quei
cannoni sono un pò troppo forse. Ricuperarono certamente ciò che avevano rapinato gli Imolesi
nelle case di Casola, ma poco più. Tutto vero invece per i tamburi e la bandiera.
Anche sul numero dei cadaveri va fatta una buona riserva. Stando al racconto si parla addirittura
di 400 morti fra i ghibellini e appena 4 fra i Ceroni. Sono troppi, e ci atterremo piuttosto a ciò che
scrive il pluricitato Ser Battista dei Cattani di Toranello (Cfr manoscritto, Bibliot. Com. di ImolaDiarioal giorno 27.10.1523) che qui riportiamo:
"...presene ardire di andare a Ciruno e cusì andorno e se afrontorno insieme de modo e de sorte
che vene morto per divino judicio, fra Zuan Antonio zia (fu) de Dondo Brocardo che era andato per
robare e per brusare e non per combattere e Marochio de Matio de Vigo e quello traditore de
Baptistone di Zucheli de Favenzia immeritatamente capo de scopitieri e vene morto quello ladro
assassino de Zan Piero dela Voltolina e Piero Antonio de Zantomie e multi altri e multi altri forastieri
furono morti che io non lo so e secondo che se disse ne murì circha da quaranta o cinquanta e de
quilli da Ciruno morì Tolomeo e dui o tri altri compagni cun lui e notta (nota) che quilli de Ciruno
zoe (cioè) Rafaello insieme cun li altri messene (misero) in fuga la parte gubelina e li tolseno doe
boche da focho zoe dui sagri e uno tamburo el quale tolseno lori suso quello de Cudignola a quilli
de messer Zuano Sassatello (Cagnaccio) e ancora qilli da Ceruno li tolseno una bandiera e multi
butarono via li schiopi e le arme e veste e scharpe per fugire ... e cusì furni fugati da li Cerunischi
(Ceroni) fino lontano un miglio a Tauxiniano". Quella bandiera e quel tamburo erano dunque stati
un trofeo di una sortita che il Vaina aveva compiuto in territorio di Cotignola contro i Guelfi e questo
il giorno 24 Ottobre 1523 cioè appena quattro giorni prima della nostra battaglia. Accettiamo allora
quei 40/50 morti? Probabilmente saranno stati proprio così tanti, ma visto che anche il Cattani
afferma per sentito dire, possiamo pensare a qualche decina in più, tutto qui. Forse nemmeno gli
Imolesi sapevano fare un calcolo dei caduti giacchè molti erano quelli che si erano aggregati alla
turba con la speranza di far bottino nelle rapine. Per i nostri invece il conto torna: appena quattro
dei quali si registrano i nomi religiosamente. Il bravo Masotto di Pietramala pagò dunque con la vita
l'alleanza coi Ficchi e riposa con gli altri tre Ceroni entro le mura della Chiesa di Sopra per sempre.
Certamente si fece voto di solennizzare il 28 Ottobre in perpetuo, ma l'usanza durò per vari secoli
e fino a pochissimi anni fa e si esauriva celebrando una S. Messa nella chiesina di Ceruno. Non
sarebbe un'idea malvagia ripristinare l'usanza abbellendola con qualche raduno folkloristico che
abbia come meta la passeggiata a Ceruno.
- 45 –
Guido paucos post dies litteris ad Raphaelem
Pochi giorni dopo Guido Vaina scrisse una lettera
conscriptis illum Montanæ regionis Regulum,
a Raffaele nella quale lo qualificava, come coroet ab se corona donatum appellat; ejusque, et
nandolo lui stesso, del titolo di "Piccolo Re" (Resuorum exinde consuetudinem exposcit; hinc
gulus) di questi monti e con calorose espressioni
eadem tempestate simultas Vainam inter ac
chiedeva di poter stringere con lui e i Ceroni un
Ceronios evanuit.
patto di amicizia. Si spense così, da quel momento, quasi ogni inimicizia fra i Vaina e i Ceroni
- 46 Plurimi ex finitimis Civitatibus ad nostros de inParecchi dalle città vicine vennero a congratusigni victoria gratulatum concesserunt. Alii epis- larsi coi nostri per la bella vittoria riportata e altri
tolis conscriptis Ceroniensium glo-riam summis inviarono lettere in cui magnificavano la gloria
extulere laudi-bus. Fuere aliqui ex Hetru-ria, qui dei Ceroni. In Toscana ci fu chi paragonò i nostri
nostros Romanis Fabiis comparantes dicerent,
(Ceroni) ai Fabii di Roma dicendo che come aveut quemadmodum illi fere omnes agrorum cul- vano fatto loro, pur intenti tutti alla coltivazione
turam exercentes tanta Romæ fuere potentia, ut dei campi, raggiungendo in Roma tanta potenza
soli cum clientibus, ac servis ex levibus aliquot
da vincere con piccole battaglie condotte col solo
præliis sæpius victoriam retulerint: Ita Ceronii aiuto degli schiavi e dei clienti, così pure i Ceroni,
plerique agre-stes, nequaquam imperio, sed au- per la maggior parte agricoltori, avevano potuto
thoritate, et potentia montana loca regentes, battere i nemici sconfiggendo e sbaragliando
propriis viribus, et indu-stria prosternere eserciti, con la sola loro forza e abilità, domihostes, exercitus fundere, et pro parte necare nando su questi monti non con signoria, ma con
potuisse. Quin imo in spem apud aliquos ventum autorità e potenza. Si sperava addirittura che la
erat, Ceroniensium robur in dies actum iri, atque potenza dei Ceroni sarebbe aumentata ogni
sempiternum fore, ubi neque posteri a parenti- giorno di più e che sarebbe durata in eterno se i
bus degenerent, neque intestina discordia, aut
discendenti non avessero tralignato dai padri e
seditione inter se met desæviant. Id quippe pro- non si fossero fra loro lacerati in discordie e parbatum Jacobo Florentiæ nobilissima Salvia-to- titi. A riprova di quanto s'è detto ecco ciò che
rum gente orto, cui cum nunciatum esset, Ceroaccadde a Jacopo fiorentino della nobile fami-glia
nios a Forocornelianis coram Clemen-te VII. dei Salviati: essendogli stato riferito che quelli
Pont. Max. gravi querela delatos (is tunc tempo- d'Imola avevano mosso querela contro i nostri
ris Bononiæ degebat coronam Carolo V. Impe(Ceroni) presso Clemente VII (in quel tempo il
ratori Maximo daturus) quod portæ Urbis custo- Papa si trovava a Bologna per la incoronazione
dibus, ut illuc se se intruderent, vim maximam
di Carlo V imperatore) accusandoli di aver usato
intulerint, summo Pontifici illum dixisse ferunt: violenza ai custodi d'una porta della città per inConscius rerum, Beatissime Pater, quas pro Do- trodursi in Imola, (il Salviati) a quello che si dice,
minis, Principibus per occasiones strenue gessi rivolse al Papa con queste parole: "Beatissimo
sere Ceronii, Sanctitati vestræ obtestari pos- Padre, conoscendo molto bene come i Ceroni nei
sum, hosce veluti Pagum Helvetiorum pro Sede momenti di bisogno hanno sempre agito in faAposto-lica, ac Medicea Domo suis in montibus vore dei Signori e dei Principi, posso assicurare
esse, qui labores, et pericula quæcumque ad nu- a Vostra Santità che essi, come un cantone di
tum Dominorum cupide subeunt: dignique in
Svizzeri, se ne stanno sui loro monti, sempre in
quos levi hac noxa minime inquiratur. Hæc, et difesa della Santa Sede e di Casa Medici, pronti
similia ab iis, qui partes nostras æqui, bonique a sostener fatiche e ad esporsi ad ogni pericolo
fovebant, acta dictaque fuisse comperii.
a un cenno dei (loro) Signori. Penso perciò che
non debbano essere perseguitati per così lieve
mancanza". È fuor di dubbio che così agirono o
parlarono quanti, ben disposti nei nostri confronti ci favorivano.
NOTE AL PUNTO 45
A commento di quanto sopra riportiamo quanto il Cattani scrive sotto il giorno 8 Novembre 1523:
"Recordo come quilli da Ciruno e la parte Gubelina da Jmola se dene la fede de non se offendere
ne fare offendere ne le persone e ne la roba e tolse la fede el Veschovo de Chiusa Presidente de la
Romagna, secondo che se diceva, la quale cosa mi non la credo, e Ramazzotto cun pacto che li dicti
da Ciruni non havessene a dare ne favore ne aiuto ali Sassatelli alias (altrimenti) se intendeva
essere rotta e cusì era susu li capituli". Il Presidente della Romagna è appunto il vescovo di Chiusi
Mons. Nicolò Buonafede che inteso questo fatto d'arme costringe il Vaina e i Ceroni a far pace.
Interessante la lettera inviata da Guido a Ceruno per chiederla. Certamente Ramazzotto non fu
mallevadore. Un certo peso nel cercar pace, l'avrà avuto anche il desiderio di liberare gli eventuali
prigionieri rimasti in mano ai Ceroni.
NOTE AL PUNTO 46
Fra le lettere gratulatorie che si inviarono a Ceruno fa spicco quella della comunità di Tossignano a
firma del notaio Alessandro Bassi, riportata dal P.S.Linguerri Ceroni "Cenni storici sulla valle del
Senio" pag. 14 che dice tratta dal quaderno autentico di Tossignano.
È indirizzata "Agli illustrissimi Signori Capitano Raffaele Brunoro, Bartolomeo Ravaglio, Vincenzo di
Simone Linguerri e Taddeo Loli, consobrini ed agnati, signori di Cerone".
Abbiamo così ben definito il gruppetto guida della Consorteria Ceronese, cioè i più ragguardevoli, a
un mese e mezzo appena dalla vittoria. Ci stupisce un pò di non trovarvi cenno di Ficchi. C'era già
della ruggine? Forse i meno entusiasti erano loro ed i Tossignanesi lo sapevano certamente. Passate
le smaccate frasi adulatorie ecco invece una frase misteriosa che convien rileggere:
"... pregandovi dal cielo ogni glorioso avvanzamento e mentre attendiamo esaudite le ultimissime
istanze che per bocca del latore Messer Luciano nostro concittadino, vi verranno porte, profondamente inchinandoci restiamo ...". Quali istanze? certamente non è opportuno metterle per scritto;
meglio che il Messer Luciano le esponga a voce. Non è che dalla risposta data da quelli di Ceruno
si sia fatto gran lume, sentite: "...in quanto a ciò che chiedeste per il vostro mandato, quando il
tempo il richiederà saremo sempre intenti al vostro sollievo. Rocca di Cerone 15.12.1523".
Una vaga promessa che a tempo debito interverranno. Non ci vuol troppo accume per scoprire che
i Tossignanesi hanno fatto regolar richiesta ai Ceroni di aiutarli a togliersi dal giogo della signoria
di Ricciardo Alidosi. Ricciardo, come i suoi di Castel del Rio è un piccolo despota. Fortunatamente
non è precisamente nelle grazie del Presidente di Romagna al quale pervengono in continuazione
da Tossignano lamentele contro di lui. I Ceroni sono al momento sulla cresta dell'onda. In pace con
i Vaini, ubbidienti al Presidente che li ha invitati a far pace, in buoni, anzi in ottimi rapporti con i
Sassatelli della fazione Guelfa e soprattutto temibili come corporazione, come la vittoria ottenuta
ha dimostrato. Sono perciò buoni mediatori. Quello però che i Tossignanesi nè i Ceronesi dimostrano
di capire al momento è che sul fuoco di questa ribellione a Ricciardo Alidosi soffia a più non posso
il nostro Ramazzotto che proprio in quei giorni ha una delle sue più grosse soddisfazioni.
Il 19 Novembre 1523 sale al soglio pontificio Clemente VII di casa Medici. Un Papa Medici è per
Ramazzotto un vero terno al lotto! I Medici conoscono bene questo tristo figuro di capitano di
ventura che è odioso fin che si vuole, ma è per loro di una devozione a tutta prova.
Quando i Medici banditi da Firenze ritentarono la presa della città, cosa che riuscì loro anche abbastanza facile nel 1512, Ramazzotto si rese tristemente famoso accanto al capitano spagnolo Cordona per il terrore seminato per tutta la valle del Bisenzio e soprattutto col sacco di Prato che fece
un numero impressionante di morti. Gli storici parlano che in quel sacco furono compiute nefandezze degne di barbari. Quel terrore aprì le porte di Firenze. A Roma nel 1518, Leone X, decorò
addirittura il Ramazzotto e lo riempì di onori. Sotto i Papi Medici Ramazzotto era più che sicuro.
Ora, giunto ormai all'età di 60 anni, vagheggiava per sè qualcosa di grande come una contea, per
esempio, e Tossignano, con la sua Rocca imprendibile, pareva fatto apposta per esserne la piccola
capitale. Cosa non avrà fatto il piccolo uomo di Scaricalasino per soppiantar il povero Alidosi, Dio
solo lo sa. Fatto si è che nel giro di appena sette anni, ecco che il Presidente di Romagna che ora
si chiama Lionello Pio da Carpi, muove con armi alla conquista di Tossignano. Troviamo nei documenti che egli si servì "del benefizio delle armi dei signori di Ceruno". I Ceroni mantengono così la
promessa di "esser intenti al sollievo" dei Tossignanesi. Ricciardo Alidosi fu dunque scacciato da
Tossignano nonostante che pochi anni prima Clemente VII lo avesse infeudato (28.2.1526) dello
stesso Tossignano Fontanelice e distretti.
Due mesi dopo Clemente VII creava Ramazzotto Conte di Tossignano, Fontanelice, Belvedere, Valmaggiore. I Ceroni avevano dunque scavato il nido colle proprie mani al serpe velenoso che sarà la
loro rovina. Sull'episodio che vede protagonista il Salviati, non abbiamo che questo documento del
Mita, ma non possiamo non accettarlo; fatti del genere come quello di attaccar lite anche coi gabellieri eran tipici dei nostri Ceroni di carattere robusto
- 47 Coeterum Ramazottus natus adversus Ceronios Ramazzotto invece, nemico nato dei Ceroni, alihostis, pravos spiritus in eos jugiter fovens, rem
mentando contro di loro sentimenti malvagi, si
dolis nequiter incoatam, nequius ad exitum per- apprestava a condurre a iniquo compimento
ducere molitur: Mox enim ut Tussignani, Fon- quanto malvagiamente aveva incominciato. Era
tanæ, et Saxi leonis Comes a dudum memorato stato eletto dal già nominato Pontefice (ClePontifice renuncia-tus est (id fuit anno 1530) mente VII) Conte di Tossignano, Fontana e Saspropior nostris factus, Raphaelem, aliosque ex
soleone e ciò fu nel 1530, e si era già molto riavsuis crebrius evocat ad colloquium; et primo vicinato ai nostri prima con frequenti abboccapurgare se se de conjuratione cum Vaina adver- menti con Raffaele e altri dei suoi, facendo cresus eos facta nititur: dehinc culpam totius mali dere innanzi tutto che il sospetto di aver egli conin Ficchios, ut reliquis Ceroniis suspectos eos crigiurato col Vaina a loro danno era una falsità, poi
minando redderet, vertens, eosdemque struere mettendo in cattiva luce i Ficchi agli occhi dei Ceinsidias, occultaque facinora in Raphaelis, alio- roni riversando su di loro la colpa dell'accaduto
rumque ex Ceroniis perniciem moliri, cunctaque con l'accusa di macchinazioni segrete contro Rafpropediem in eos eruptura libero mendacio per- faele e gli altri Ceroni. La quale falsità non mansuadere conatur. Nec erat hæc fraus tota a veri
cava d'una certa parvenza di vero, soprattutto
specie dissimilis. Ficchios etenim manu impigra, perchè i Ficchi eran considerati gente svelta di
acrique animo esse, injurias ægre pati, gloria,
mano, d'animo bellicoso e che mal sopportavano
opibus, Principibusque tutelis, quorum stipendia le ingiurie. Poi eran superiori a tutti gli altri per
longo temporum cursu strenue meruerant, coe- la gloria, ricchezze e favori dei Principi negli eserteros anteire, unum Raphaelem tunc eos citi nei quali avevano per lungo tempo combatæquare, inter nostrates majorum erat opinio.
tuto. Non c'era fra i nostri che il solo Raffaele che
Cumque iis ædium, suppellectiliumque supra potesse stare alla pari con loro. Poichè nell'inmemorata crematio non minus nummum octo cendio delle case e delle robe, di cui s'è parlato,
millium detri-mento fuisset; sociusque insuper, essi avevano avuto un danno valutabile a non
et consanguineus in Vaino prælio occubuissent, meno di ottomila scudi e inoltre nello scontro (col
quippe Raphaelem, mali caput, severo, turbatoVaina) avevano perduto un loro consanguineo e
que ore intuebantur. Ad hæc et illud magis acun loro socio, riguardavano con astio Raffaele
cendit animos, quod quidam e Polis, dum noctu, considerandolo la causa della loro disgrazia.
ut solent juvenes, per arva vagatur, vel segetes, Inoltre ci fu un'altra occasione che peggiorò le
vel poma forte populaturus, a quibusdam inco- cose e cioè che uno dei Poli, nottetempo, come
gnitis fuste percussus binos post menses obiit sogliono far i giovani, entrò in un campo a rubar
mortem; et quamquam de reis noxæ inter of- frutta o grano. Fu sorpreso e da alcuni sconofensos ambigebatur, Ficchios tamen, in quorum sciuti fu bastonato in modo tale che in capo a
agris hæc facta dicebantur, facile suspectos ha- due mesi morì. Benchè non si potessero scoprire
bebant, quæ singula, ut ad ultionem percurre- i colpevoli, fu gettato facilmente il sospetto sui
rent, non parva irritamenta fuere. Ramazzotto Ficchi, perchè, così si vociferava, il fatto era acautem frequens sermo cum domesticis erat, caduto nei loro campi. Tutto ciò servì da grosso
magnum, profundumque flumen, ut vadosum stimolo per la vendetta. Ramazzotto intanto anfiat, in partes deducendum: sic Ceronianum rodava spesso asserendo, coi più intimi, che per
bur a se facile proster-nendum, si illud in partes poter passare a guado un fiume largo e prodistrahere valeret: et voti compos justo Dei ju- fondo, occorreva dividerlo in ruscelli. Così lui podicio satis superque factus est.
teva fiaccare la potenza dei Ceroni solo se gli
fosse riuscito di dividerli in fazioni. Dio permise
che il suo desiderio fosse appagato.
NOTA AL PUNTO 47
Che il Ramazzotto fosse un'anima nera, d'accordo, ma tanto perfido da decretare la distruzione
definitiva dei Ceroni, suoi stretti congiunti, dovremmo un pò dubitarne. Veramente qui è dipinto
come un vero e machiavellico intrigante con un preciso disegno: rompere l'unità della consorteria.
Sa che il punto debole può essere il rancore che regna tra i Ficchi e il resto dei Ceroni. Suggerisce,
calunnia, inganna. Ci fa meraviglia la grossa ingenuità di Raffaele che accetta tutte le scuse del
suocero quando doveva esser ben chiaro che nella vicenda col Vaina c'era, e preponderante, lo
zampino di Ramazzotto. Forse il fatto di saperlo ora tanto potente per l'amicizia col Papa, e vederlo
pochi anni dopo addirittura Conte, lo avranno un pò abbagliato e anche un pochino lusingato; in fin
dei conti sua moglie Lucia era la figlia del conte Ramazzotto! Purtroppo il dissidio coi Ficchi ha qui
il suo inizio, ma lo stesso inizio ha pure la fine della Consorteria dei Ceroni. Ramazzotto aveva visto
giusto. Qualcuno ci chiederà come se la cavava come Conte di Tossignano. Poche battute tratte dal
Benacci, lo storico di Tossignano: "non dissimile da quello dell'Alidosi fu il governo di Ramazzotto
.. di carattere prepotente, ambizioso, di costumi dissoluti non potea essere che acerbo e duro
padrone."
- 48 Conjurant itaque Ceronii a Serina oriundi, qui
et Lancerii appellabantur, de Ficchiis, qui Casulam incolebant, interficiendis, eam rem moliente potissimum Raphaele, qui tunc authoritate, et opibus eorum omnium longe primus
erat: et beneficam in Ficchios voluntatem initio
simulantes apud eos familiariter esse, una
convivari, seria agere, in communes adversarios ore paratius invehi, aliaque per dissimulationem præstare contendunt, quibus incautos
opprimere queant. Pacta igitur die Morandus
Salvutii, Octavianus Brocoli, Gabronus Feferici,
Beliccus Meri, Octavianus Berti, Ugutio Rainaldi, Octavianus Sforzini, Babinus Poli, aliisque ex Lanceriis ad numerum vigintiquinque
(aberat Raphael tunc temporis quartana febre
correptus) Thesuccium Catonis et Ser Mengottum Alexandri ex Fecco natos, qui e D. Luciæ
Casulæ. ubi sacro interfuerant cum aliis egrediebantur, frequentibus telis inopinatos veluti
ad aras mactant, et cita fuga se se recipiunt in
tutum. Hac cede Lancerii, Ficchiique hostes effecti, non satis est dicere, qui tumultus, quæ
seditiones, atque insidiæ omnis generis ultro
citroque molirentur, donec authoritate Bartholomæi Valoris Præsidis Aemiliæ inducias inter
se se ad poenam aureorum mille Fisco partim,
partim offensis a nocentibus solvendam sponsoribus utrinque datis ad certum tempus universi paciscuntur. Interim Ficchii inter se met
fiunt voluntate diversi. Qui ex Ceronio nuncupato Mida originem trahebant, quoniam Brunoriis per reciproca connubia affines erant, et
ob id astu Ramazzotti seducti fuere, tertio idus
Quintilis anni 1532 pactis induciis annorum viginti quinque cum reliquis Ceroniis, nullo se se
Ficchiis Casulam incolentibus auxilio fore contra eos spondent. Dein binos post menses cum
eisdem perpetuum foedus ineunt, mulcta
pacta aureorum mille in eos eorumque bona,
qui frangerent illud. Cæteri Ficchii, quibus spiritus magis magni, quam utiles erant, in ulciscendam suorum necem animum obfirmantes
in personam Raphaelis præcipue conspirant, et
unde tota culpa orta erat, ibi et poena consisteret. Igitur pridie Idus maii insequentis anni
1533. Antonius cognomento Galbettus, Annibalque fratres ex olim Simone Ficchio a Ceronio, comitantibus se se Hectore, agnomine
Temprono, Baptista, Baronioque ex suis,
Raphaelem Brunorium Foro cornelii prope Divi
Quei Ceroni che erano oriundi di Serina, detti anche Lancieri, congiurarono per uccidere i Ficchi
che abitavano a Casola ed era soprattutto Raffaele (Brunori) che per autorità e ricchezza sovrastava tutti i suoi, a caldeggiare questo progetto. Dapprima simularono una grande amicizia
e familiarità verso i Ficchi: inviti a pranzo, affari
in comune, infuocate parole contro i nemici, progetti da realizzare insieme, ma tutto coperto
dalla falsità. Stabilito il giorno adatto, Morando
di Salvuzio, Ottaviano di Brocolo, Gabrone di Federico, Relicco di Mero, Ottaviano di Berto, Uguzzone di Rinaldo, Ottaviano di Sforzino, Babino
Poli (di Paolo) e altri per un numero di 25 persone, Raffaele mancava perchè era stato colpito
da febbre quartana, uccisero a tradimento, vibrando numerosi colpi (sulle vittime) Tesuccio di
Catone e Ser Mengotto di Alessandro, ambedue
della famiglia Ficchi. Furono assassinati, come
vittime sacrificate sull'ara, mentre stavano
uscendo con gli altri dalla chiesa di S. Lucia, subito dopo la messa. Gli assassini si misero in
salvo con la fuga immediata. Per questo delitto i
Ficchi e i Lancieri divennero nemici fra loro e non
è facile enumerare i tumulti e le sedizioni nate
da questo contrasto, dall'una e dalla altra parte
si macchinò ogni sorta di insidie finchè per l'autorità del Presidente di Romagna Bartolomeo Valori, tutti fecero pace promettendo tregua sotto
pena di 1.000 scudi d'oro da versare metà al fisco e metà agli offesi; il tutto con garanti a
tempo determinato. Nacque nel frattempo una
divisione anche tra i Ficchi. Quelli che erano discendenti da quel Ceruno detto Mida, avendo
contratto parentele coi Brunori, il 13 Luglio 1532
si staccarono dagli altri (Ficchi) facendo patto
con gli altri Ceroni di far tregua per 25 anni e di
non aiutare in nessun modo i Ficchi di Casola.
Questo grazie alla scaltra perfidia di Ramazzotto.
Altro patto, due mesi dopo di osservare in perpetuo detta tregua con gli stessi, sotto pena di
1.000 scudi d'oro a chi rompe la fede, a garanzia
i beni (terreni o case) posseduti. Il resto dei Ficchi, con sentimenti di orgoglio più che di saggezza, giurarono di far vendetta della morte dei
loro congiunti soprattutto con l'uccisione di Raffaele come per punire la sorgente dell'intera
colpa. Ecco perciò che il 14 Maggio dell'anno
dopo, 1533, i fratelli Antonio detto Galbetto e
Annibale figli di fu Simone Ficchi da Ceruno, in
compagnia di Ettore Temprone, Battista e Baronio, a Imola presso il Duomo di S. Cassiano, si
Cassiani aliquot stipatum armatis inventum dimicando interimunt, et Octavianum Berti in
dextero brachio lethali vulnere sauciatum prosternunt, qui ægre supervixit ad mensem, et
Urbe protinus exeunt incolumes.
imbatterono in Raffaele Brunori che camminava
in mezzo a un gruppetto di armati e, attaccata
baruffa, lo uccisero. Ferirono anche gravemente
Ottaviano di Berto al braccio destro per cui dopo
un mese di sofferenze spirò. Loro invece, incolumi, fuggirono dalla città.
NOTA AL PUNTO 48
L'innesto dei Ceroni della val Serina in provincia di Bergamo presumibilmente è avvenuto verso la
metà del 1300. Non sappiamo di quanti soggetti fosse composto il gruppo dell'innesto. Si trattava
di una piccola compagnia di soldati perseguitata dal Torriani di Milano e vaganti per l'Italia a servizio
ora di questo ora di quel principe. Una volta insediatisi qui si sposano e danno origine a un ben
definito gruppo di Ceroni. Il capostipite è un certo Matteo che ha figli: Cristoforo, Giovanni e Francesco. Anche i figli fanno carriera militare e di Giovanni la tradizione ci dice che sapeva destreggiarsi
bene con la lancia per cui ebbe il soprannome di LANCIERE.
Mentre da Cristoforo ha origine Laulo, capostipite dei Lauli o Loli o Lolli, da Francesco detto Cecco
nascono Salvuzio e Silvestro. Salvuzio è il padre di Brunoro da cui i Brunori e Silvestro è il padre di
Baldassarre da cui i Baldassarri.
Giovanni ha invece ben sette figli maschi: Alberto detto Bertone o Berto da cui discende la famiglia
Berti; Paolo o Polo da cui i Poli; Michele detto Marondolo da cui i Marondoli; Bartolomeo detto
Ravaglio da cui i Ravagli; Rinaldo da cui i Rinaldi; Giacomo o Giacometto da cui i Giacometti ed
infine Don Melchiorre. I Lancieri sarebbero dunque propriamente i Berti, i Poli, i Rinaldi, i Ravagli, i
Giacometti e i Marondoli, ma vi si affiancano i Brunori, i Baldassarri e i Loli come stretti cugini.
Per quest'alberetto si è data un'occhiata, ma con prudenza, ai manoscritti dell'Abate Ferri di Imola,
ma ci siamo attenuti soprattutto agli atti notarili cfr G. Cattani 4 Luglio 1463 e Baldo Rocca di
Tossignano 19 Novembre 1506)
Sono estremamente interessanti i nomi dei congiurati.
Nella traduzione del 1884 sono stati evidentemente letti male i nomi che qui abbiamo tranquillamente corretto: Morando di Salvuzio è un Brunori, Ottaviano di Brocolo è un Ravagli, Gabrone di
Federico è un Giacometti, Relicho di Mero è un Loli, Ottaviano di Berto è un Berti, Uguzzone è un
Rinaldi, Ottaviano di Sforzino è un Baldassarri, Babino un Poli.
Le vittime sono cugini fra loro. Catone e Alessandro sono infatti i figli di Feco Ficchi.
Quando avvenne il delitto? Il Mita non cita l'anno, ma arguendo dalle paci fatte, l'assassinio dei
Ficchi va collocato fra la fine del 1530 e la primavera del 1531 certamente in giorno di festa o di
Domenica. Il fatto che Raffaele sia a letto con la febbre potrebbe confermare il periodo invernale.
Visto poi l'uso locale anche allora in auge di girare nei mesi freddi tutti avviluppati in larghi mantelli
"le capparelle", fa sospettare che i congiurati potessero nasconder sotto il mantello il pugnale assassino. Niente possiamo arguire sulla scelta dei due Ficchi da uccidere.
Il fatto che Mengotto è qualificato come "Ser" ce lo fa ritenere o un notaio o comunque una persona
di riguardo. Forse è il fratello di Giampietro, il proprietario, come vedremo, del grosso podere di
Montecatone che fa gola a Ramazzotto. In Ottobre, precisamente al 10, sempre del 1531 i Ficchi
Mida stringono un primo patto di tregua coi Ceroni staccandosi dagli altri Ficchi. Ciò si rileva dalle
carte del notaio Conti che stilerà l'atto trascinato al Corso di Orsara nella piccola chiesa di S.Maria
del Carmine dove un pugno di frati carmelitani reggevano il minuscolo convento. Il conventino del
Corso era sotto la giurisdizione di Ramazzotto conte di Tossignano e non si poteva dir di no al conte.
Nuovo patto il 13 Luglio 1532 e il definitivo e perpetuo due mesi dopo. Sulla vendetta dei Ficchi c'è
da sottolineare che Raffaele, come avveniva spesso, era ospite in città della famiglia Sassatelli che
aveva appunto una casa (ora Palazzo Monsignani) con cortili che davano sulla piazza di S.Cassiano.
È certamente dopo questo nuovo delitto che interviene anche il Presidente di Romagna Bartolomeo
Valori per far stringere le paci.
- 49 –
Plurimi ex amicis casum miserati, ne latius doIl triste caso mosse alla commiserazione un
mesti-cum deflagraret incendium, interpositis
gran numero di amici i quali, per impedire il dirationibus persuadere nituntur, negotium ad
lagarsi di questo domestico incendio, si interineundam universorum pacem jam pari digniposero preoccupandosi di convincere con buone
tate esse deductum; et plerique ex nostris hinc
ragioni le due parti a stabilire una decorosa
inde ad illam consulto propendebant. Quæ res
pace per tutti.
ubi ad Ramazottum, qui incendium non aqua,
Sia gli uni che gli altri erano già sul punto di acsed ruina extinguere gestiebat, perlata est,
condiscendervi quando Ramazzotto, che cermature Lanceriis ferme universis in D. Mariæ
cava di spegnere l'incendio non con l'acqua, ma
de Cursu ad colloquium evocatis, ipse turbavit
con la rovina, venutone a conoscenza, convocò
omnia. Etenim Raphaelis interitum dum verbis
subito tutti i Lancieri nella Chiesa di S.Maria del
lacrymisque se condolere simulat, vires suas,
Corso mandando a monte ogni progetto di
subsidiaque universa Lanceriis adversus Ficpace. Con false lacrime e parole deplorava l'ucchios spondet; oreque et manu cunctorum anicisione di Raffaele promettendo loro ogni suo
mos tantopere exasperat, ut eo amentiæ deaiuto contro i Ficchi. Si diede da fare anima e
duxerit, ut iniqua multa, ac stulta, quæ mox
corpo in modo da inasprire l'animo di tutti e
dicentur, intra semet fuerint adstricto juraportarli al punto di pazzia, come in seguito si
mento pacti. Videlicet, ne quis ex Ceroniis padirà, da legarsi con giuramento a molti patti incem inire, inducias pacisci, fide aut securitatis
giusti e stolti; cioè che nessuno dei Ceroni popactione obstringi cum Ficchiis, cæterisque eotesse osare di far pace o armistizio coi Ficchi o
rum hostibus audeat; nisi id ex Ramazotti, Moessere indotto a trattati di alleanza o difesa con
randique, Marci Antonii, et Jacobi e Brunoriis
loro e gli altri nemici senza l'unanime assenso
unanimi consensu fiat. Ad hæc ut injurias uni
di Ramaz-zotto, Morando, Marc'Antonio e Giaeorum factas, vel quæ fient omnibus comminicomo Brunori. Che inoltre le offese ricevute o
ter illatas statuant, ita ut vicissim alter pro alda riceversi anche da uno solo di loro venissero
tero rem, vitam, honorem profundat, ut sinconsiderate come offese rivolte a tutti loro in
gulorum honos, utilitasve quoquomodo incolumodo che vicendevolmente l'un per l'altro immis permaneat. Præterea nequis eorum
pegnasse il patrimonio, la vita e l'onore onde
Guelfas, aut Ghibellinas partes tueatur, aut immantener in ogni modo intatto e l'onore e l'inpugnet. Romanæ Ecclesiæ, ac Mediceæ Domui
teresse di ciascuno. Che nessuno di loro parfidelitatem, ac eorum (qui supra) ministris
teggiasse nè per la parte guelfa nè per quella
studium, et obedientiam singuli præstent:
ghibellina, che prestassero devozione alla Roquod si secus fiat, poenam biscentum auremana Chiesa e alla casa dei Medici obbedendo
orum Ramazoti Cameræ persolvant. Hic tanai ministri delle sunnominate autorità; in caso
dem nostrorum fortunis, dignitatique magis ilcontrario si pagassero 200 monete d'oro alla
lusurus, dum furor rationem a mentibus eorum
Camera (=cassa) di Ramazzotto. Così infine luablegaverat, tam foeda, abominandaque alia
singando i nostri nell'interesse e ancor più
eodem instrumento quod Alexander Bassus
nell'onore, nell'ardore della passione ogni buon
octavo Kal. Maii ipso anno 1533 describebat,
senso aveva abbandonato le loro menti, fece
notari compulit, ut nisi libens ea omnia præteredigere per mano di Alessandro Bassi un atto
riissem, risum simul et stomachum procul dunotarile in data 24.04.1535 con tante altre ribio Lectori movissent.
pugnanti e vergognose clausole che se non decidessi di passar tutto sotto silenzio certamente
muoverei al riso e al voltastomaco il lettore.
NOTA AL PUNTO 49
Di nuovo la povera chiesa del Corso deve accogliere Ramazzotto per le sue sceneggiate di suocero
affranto e far da teatro agli ennesimi raggiri. Il conventino del Corso venne fondato verso il XV sec.
dai padri Carmelitani come luogo di preghiera e ritiro. Qui nel 1506, nel mese di Ottobre, sostò
Papa Giulio II nel suo viaggio da Palazzuolo a Tossignano. Era piuttosto stanco ed ebbe modo di
essere ristorato un poco dai frati. Del convento non è rimasto più nulla eccetto una vecchia cisterna
sulla destra della strada , subito dopo la discesa della casa Sellustra. Il convento venne soppresso
nel 1783 anche perchè, a torto o a ragione, i superiori ritennero che la vita religiosa condotta dai 5
o 6 frati in questa zona molto isolata era calata di tono e i frati si interessavano soprattutto di
caccia.
- 50
Haud multo post foedus Ramazotti animus
etiam bona nostra devorare cupidus apparuit,
dum prædium satis pingue in agro Montis Catonis vilissimo mille centum viginti septem aureorum pretio a Fisco recepit, quod Joanni Petro
Alexandri Ficchii ob ruptas Lanceriis inducias
ademerat, septingen-tos Brunoriis, Bertisque,
reliquos Fisco soluturus: a quo jura mille nummum, quos Lancerii ob neces in Ficchios patratas Apostolicæ Cameræ pendere justi erant, simul adquirens, septigentos aureos Lanceriis obnoxios eorum jussu Fisco persolvit, ac quadruplum in Prædio lucratus est.
–
Non molto tempo dopo l'animo turpe di Ramazzotto si rivelò avido di divorare i nostri beni.
Aveva infatti acquistato dal Fisco un ottimo podere in quel di Montecatone pagandolo con la
misera somma di 1127 scudi d'oro; il podere
era stato confiscato a GianPietro di Alessandro
Ficchi per la rottura coi Lancieri. Poichè doveva
pagare ai Brunori e ai Berti 700 scudi e il rimanente al Fisco Ramazzotto, acquistò da questo
ultimo il diritto di 1000 scudi che i Lancieri (medesimi) dovevano sborsare alla Camera Apostolica per l'uccisione dei Ficchi e soddisfece a
nome dei Lancie-ri con 700 scudi d'oro. Fece
così fruttare per sè quell'acquisto quattro volte
tanto.
NOTA AL PUNTO 50
Sul balletto finanziario che il nostro Ramazzotto sa intrecciare nella faccenda del podere dei Ficchi
a Montecatone non è che il Mita sia precisamente trasparente; ritengo che voglia dire in sostanza:
prezzo del podere 1127 scudi. Di questi 427 vanno al Fisco e 700 ai Lancieri. È il frutto di una pace
infranta. Però i Lancieri ne debbono pagare 1000 per altra pace infranta al Fisco e incaricano il
Ramazzotto di soddisfare per loro. Non si sa come, ma al Fisco Ramazzotto versa solo 700 scudi.
- 51 Ficchii domesticos inter hostes positi, infestum
sibimet Ramazotti in exitium suum, nati, dominatum horren-tes, simul Principis iram, suorumque furorem vitabundi, patria excedere statuunt. Consultant itaque ad Alexandrum Mediceum Hetruriæ Ducem, veluti ad asilum, profugere: reque per amicos cum magno illo Principe
acta, Antonius Galbettus, et Hector Tempronus, qui jam pridem experimentis serenissimo
cogniti erant, in Duces peditum ab eodem, transmisso diplomate, eliguntur, reliquis ex suis ad
alia militiæ decora ascitis. Dumque opportuna
paucos per dies ad commigrandum parant, Marradii apud Fabronios diversantur. Hæc ubi Lanceriis per exploratores renunciata sunt, re ut
creditur, quia non abhorret a cætero scelere,
cum Ramazotto consultata, posteaquam per
homines proditionis artifices negotia, itinera
egressusque Ficchiorum, postea loca atque tempora cuncta Lancerii explorata habent, armata
suorum, et sociorum cohorte supra Marradium
in locum, cui infaustum Biffurci nomen est, nocturnis itineribus conscendunt, et per saltus ac
nemora apta insidiis se multifariam occultant,
Ficchios illac postera die transituros expectabundi. Prima luce viri quatuordecim ex Ficchia
gente vix dum ensibus armati, exiguo colonum
comitatu, qui sarcinas ducebant, Marradio proficiscuntur; ac paulo post, ubi minus proditionis
timebant, sclopis, balistisque ex insidiis uti supra dispositis petuntur. Hi districtis gladiis, qua
possunt, vertunt se in hostes, et periculosa dimicatione armorum disparitate initia, satis diuque propugnant, donec Galbettus, Christophorusque plumbeis globulis iterato transfixi concidunt exanimes: Temprono autem Viro omnium
fortissimo, nullique Ceronensium ea tempestate
secundo ictu tragulæ spina dorsi configitur. Ubi
vident Lancerii ad votum sibi adspirasse multa,
veriti, ne si diutius eo loci digladiando morarentur, ab agrestibus, et oppidanis sublato clamore
ad subsidium confluentibus obsideri possent,
cita fuga retro, quam venerant, turmatim revertuntur. Tempronus Marradium regressus extracta sibimet e dorso tragula vulnus haud
lethale ratus æquo animo erat: verumtamen
quia cuspis fuerat infecta veneno, ante quadragesimum diem migrat e vita, et vita Lanceriis
sua morte prorogatur.
I Ficchi si trovavano ora a vivere fra i nemici
domestici. Non sopportavano la signoria di Ramazzotto, loro nemico nato, e non volendo incorrere nelle ire del Papa nè nel furore dei loro
consanguinei, decisero di abbandonare la loro
patria. Presero dunque la decisione di rifugiarsi
(nei territori) del Gran Duca di Toscana Alessandro dei Medici e con la mediazione di amici
trattarono con lui per quest'asilo. Antonio Galbetto e Ettore Temprone erano già da tempo
ben noti al Serenissimo (Principe) e furono
quindi eletti con patenti tosto inviate loro, come
capitani di fanteria; altri loro parenti furono
chiamati ad altre cariche militari. Mentre si preparavano al trasferimento, alloggiarono per alcuni giorni presso i Fabroni di Marradi. I Lancieri, per mezzo di spie, vennero presto a conoscenza di tutto e dopo aver con ogni probabilità, poichè non perdeva occasione di delitti,
consultato Ramazzotto, informatisi, ancora con
spionaggio, sul percorso e sulla partenza dei
Ficchi, con un drappello armato dei loro, nottetempo salirono sopra Marradi in un luogo che
ha il tristo nome di Biforco e si prepararono
all'insidia nascondendosi fra i boschi e attendendo i Ficchi che il giorno dopo dovevano passare di là. All'alba ecco che i Ficchi, in numero
di 14 uomini, armati di sole spade e accompagnati da un piccolo gruppo di contadini che portavano i bagagli, escono da Marradi, ma appena
arrivano a quel posto che meno sospettavano
di agguato sono subito assaliti da colpi di fucili
e di balestre. Nonostante l'enorme sproporzione di forze, i Ficchi con le spade si difesero
valoro- samente combattendo a lungo finchè
Galbetto e Cristoforo caddero crivellati di colpi.
Temprone, valorosissimo e a nessun Ceroni secondo, ebbe una freccia piantata nella schiena.
I Lancieri quando videro che ormai il loro desiderio si era realizzato, temendo di esser presto
circondati dai terrazzani levatisi a rumore se si
fossero attardati al combattimento, con svelta
fuga, a drappelli, raggiunsero le loro case.
Temprone si tolse con le proprie mani la freccia
dalla schiena e tornò a Marradi non giudicando
la ferita mortale, se ne stava ormai tranquillo,
ma la freccia era stata avvelenata e Temprone
in 40 giorni morì. Colla sua morte allungò la vita
ai Lancieri.
NOTA AL PUNTO 51
Stranamente il Mita tutto intento a descrivere lo svolgimento della drammatica fine dei suoi cari
Ficchi, (non dimentichiamoci che è lui stesso un Ficchi-Mida) passa sotto silenzio un avvenimento
che che avrebbe dovuto invece mettere in rilievo: l'elevamento a Contea di tutta l'alta valle del
Senio. Forse la breve vita di questa contea non ha lasciato traccia nella memoria dei casolani e il
Mita ne tralascia l'annotazione. La contea comprendeva: Casola, Prugno, Mongardino, Valsenio,
Baffadi, Settefonti, Montefiore (Valle di Budrio), proprio il 14 Gennaio 1532, con decreto pontificio,
venivano creati conti di Valsenio e Castro Pagano (Mercatale a S. Apollinare) Domenico Maria Calderini e il nipote Lodovico Calderini di Bologna. Clemente VII, con gran dispetto del nostro Ramazzotto, c'è da immaginarselo, aveva smembrato tutto il nostro territorio dal comune di Imola e creato
la contea. Che Ramazzotto ci avesse fatto più di un pensierino sulla nostra valle è fuor di dubbio,
ma la sua buona stella cominciava ad appannarsi.
Ma per tornare alle note, diremo che al momento della emigrazione dei Ficchi verso la Toscana qui
a Casola c'erano già i Calderini che avevano sede alla Buratta. Loro commissario fu dapprima Valerio
Passeri di Tossignano e quindi il bolognese Urso Caccianemici. A Marradi dove rimangono ospiti dei
Fabroni per alcuni giorni, vengono spiati da un certo Giovanni Maria Manini (cfr. manoscritto Linguerri pag 217) che salito lungo la grossa vite di un pergolato si era avvicinato alla finestrella della
camera dove i Ficchi prendevano gli accordi. In seguito alla strage di Biforco praticamente tutte le
famiglie dei Ficchi abbandonarono Casola e la valle e da questa data non troviamo più cenni di
questa illustre casata che ha avuto tanta parte nella storia del paese e tanta importanza in seno
alla consorteria dei Ceroni. Rimasero solo i Mita prima ad Osta di Castel del Rio poi a Fontana e a
Tossignano.
- 52 –
Qui ex Ficchiis incolumes ab insidiatoribus evaI Ficchi superstiti dello agguato e i loro parenti
serant, et qui propinquiore cognatione eos
si cercarono qua e là per l'Italia un luogo dove
contingebant, diversas per Italiam tunc pririsiedere affidandosi alla sorte e non fecero
mum, quo sors detulit, in exilio sibi quæsiere
mai più ritorno alla loro patria. Un gran nusedes, haud amplius in Patriam regressi. Homero di famiglie perseguitate dalla sfortuna
rum familiæ quamplures, quibus res adversæ,
ovunque andassero, piene di timore per la fequocumque intenderent, erant, cum parvulis
rocia dei nemici i quali con la forza del diritto,
natis sævam adversariorum insaniam, qui
con l'ingiuria, la delazione, la calunnia mirajure, injuria-que apud Judicem calumniando
vano ad occupare i loro beni, se ne partirono
proscriptiones vel innoxiorum ad occupanda ilcoi propri figlioli abbandonando nelle valli del
lorum bona intendebant, timentes, præ-dia,
Senio e del Lamone le proprie case e i propri
tectaque propria in partibus Senii, Ammoniicampi diventando per lo più molto povere da
que hostium potestati derelin-quentes, alio doricche che erano e arricchendo coi loro beni i
micilia transtulerunt; et ex locupletibus egenpropri nemici. I Mita e i loro congiunti non fites ut plurimum factæ inimicos suis facultatidandosi per niente dei patti stipulati, per sotbus ditarunt. Mitæ cum agnatis pacto jam sutrarsi a tutte le insidie dei Ceroni, andarono
pra foederi nequaquam fidentes, Arcem montis
ad abitare per alcuni anni alla Rocca di Monte
Battaliæ, quæ Comitis Alexandri Bonmercati
Battaglia che era sotto la giurisdizione del
ex Foro Cornelio ditio erat, ut ab insidiis, quas
Conte Alessandro Bonmercati di Imola.
multi-fariam in eos struebant Ceronii sibi caverent, per aliquot annos incoluere.
NOTA AL PUNTO 52
L'impietosa faida scoppiata attorno al 1530 prosegue il suo corso. I Ficchi sono costretti, come
perdenti, ad abbandonare la nostra valle. Di loro non sappiamo pressochè più nulla, e non ho modo
di sapere se da qualche parte della Romagna si possa trovare questo cognome. Tempo fa, sfogliando un libro della storia di Brisighella, notai che architetto della Villa Spada era stato un Ing.
Ficchi, ma in provincia non mi risulta che ci sia più un tal cognome. Insieme ai Ficchi partono i Mita
e di questi c'è possibilità di seguirne un pò le tracce. In parte vanno verso la valle del Lamone, in
parte verso quelle del Santerno. Il Mita ha certamente notizie di prima mano, perchè si tratta dei
suoi e quindi va presa come vera la notizia del loro breve soggiorno su Monte Battaglia. Certamente
hanno accettato di diventarne i custodi a servizio del Conte Buonmercati. Verso il 1538 li troviamo
ad Osta di Castel del Rio e più tardi in quel di Fontanelice. Quasi nello stesso tempo sono anche a
Tossignano. Alcuni di loro lasciano il cognome Mita per prendere quello di Vighi o Vicchi da un certo
Vigo Ficchi. A Fontanelice il 20 Gennaio 1590 nascerà lo storico Don Domenico. Il Benacci, storico
di Tossignano e il Vesi, storico di Fontana polemezzano fra loro nel 1840 (cfr Dichiarazione di Giuseppe BenacciImola Tipi Benacci 1840 e Risposta alla dichiarazione di Giuseppe Benacci intorno al
ragionamento di Antonio Vesi sulla vera terra natale del sacerdote Domenico MitaFaenza presso
Montanari e Marabini 1840) su quale dei due paesi debba aver la gloria di dirsi patria del nostro
storico. Sembra che abbiano ragione tutti e due anche se Fontana può dirsi vera terra natale e
Tossignano terra di adozione.
Ritorniamo ai Ceroni. Le faide anche in quel tempo non erano uno scherzo e il Guicciardini, lo
storico, che ha vissuto come Presidente di Romagna proprio le vicende di quegli anni, non è precisamente tenero coi nostri; dice infatti: "Li Ceroni ... uomini bestiali ... micidiali ... da fare ogni
male" (cfr Opere Inedite volume IX pp. 287). Forse ha dovuto giudicare più d'una volta questi fatti
di sangue. Erano tempi così, quindi da non invidiare come "i bei tempi antichi", no davvero.
- 53 Lancerii rem foedam, indignamque in suos, affiI Lancieri compresero di essersi comportati in
nesque fecisse rati propriæ existimationi satis
modo vergognoso e indegno verso i propri
recte consuluisse crediderunt, si publico licet
congiunti e per salvare il proprio onore decimendaci docu-mento edicerent, Ficchios nomen
sero di pubblicare un documento, completapatriamque haudquaquam ex Ceronio Pago tramente falso, attestante che i Ficchi non erano
xisse: sed ex quodam Sylvestro Calamelli milite
oriundi di Ceruno, ma discendevano da un solprogenitos Ceroniis tantummodo sociatos fuisse
dato di nome Silvestro Calamelli e ai Ceroni si
(perinde ac si et ipsi non acciti, sed post homierano uniti soltanto per patto di società, come
nes natos Pagum ipsum incoluerint). Igitur gense (proprio loro), i Lancieri, avessero abitato
tilitia stemmata utrisque adhuc usque commua Ceruno a memoria d'uomo invece di esservi
nia Ramazotti fraude variantes, ut cæteri Cerostati chiamati. Per istigazione di Ramazzotto
nii natura, et genere a Ficchiis. Mitisque
cambiarono pure lo stemma che era fino allora
disjuncti penes omnes haberentur, Lineam facomune alle due famiglie aggiungendovi una
sciam transverso stemmatis Cervo addiderunt,
fascia in lino traversante il cervo dell'arme in
et ut ad posteros suos tantum, non autem ad
modo da distinguere del tutto i Ceroni dai FicFicchios et Mitas mos iste transiret, publico edichi e dai mita ed emanarono un decreto che
xere documento. Quod ubi Ricciardus Alidosius,
questo fosse lo stemma riservato ai Ceroni
qui Castri Rivii dominus erat, resciit, portentum
anche in futuro, sempre Ficchi e Mita esclusi.
id esse ratus, quasi indignabundus proclaIl signore di Castel del Rio, Ricciardo Alidosi,
masse dicitur: Ecquidnam restat Lanceriis, qui
venuto a conoscenza di tutto ciò sembra sia
talia moliti sunt, nisi intersemet brevi desaevire?
uscito, sdegnosamente in questa battuta:
Cervi intersectio astruit, ni fallor, domesticam
"Dopo questo cosa manca ai Lancieri se non
internecionem: lintea vero obligandis, abstersbranarsi fra di loro?". L'intersecazione del
gendisque mutuis vulneribus convenienter apCervo, se non mi sbaglio, simboleggia veraposita stemmati quicumque dicet. Neque exitus,
mente l'odio mortale nella stessa famiglia e
ut dehinc ostendam, ejus conjecturam fefellit.
ognuno converrà che giustamente è stata agSed primum de Ramazotto dicam, quem magna
giunta allo stemma la fascia di lino (come
ex parte voti compotem factum nec diu divina
benda) per fasciare le reciproche ferite. E quejustitia passa est in lætitia exilire, nec poenam
sta supposizione si dimostrò purtroppo vera
suis dignam sceleribus effugere.
come più avanti io mostrerò. Ma parlerò per
prima di Ramazzotto al quale, realizzando in
gran parte il (nostro) desiderio, la giustizia divina non permise di spadroneggiare allegramente nè di sfuggire la degna pena delle sue
scelleratezze.
NOTA AL PUNTO 53
È interessante notare come dopo l'unione secolare i due gruppi: Ceroni, o meglio Lancieri e Ficchi
vogliano perfino negare le loro radici. In quel documento falso a noi interessa saper intravedere
che invece del glorioso passato di Perugini ora i Ficchi vengono qualificati come discendenti d'un
semplice soldato: Silvestro Calamelli. La verità è probabilmente più semplice. Nei tempi andati fra
una famiglia di Ceruno e una della Rocca di Calamello c'è stato un matrimonio. Forse proprio un
soldato di quella Rocca, appunto Silvestro, ha sposato una Ceroni. Questa parentela ha dato modo
all'unione sotto la stessa arma: il cervo in campo azzurro. Effettivamente lo stemma antico era
senza la benda trasversale come può far fede lo stemma della famiglia Tozzoni di Imola che per
esser stata vari anni qui a Casola (Proveniva da Ozzano Emilia? Lucca?) prima di scendere a Imola,
come dice lo storico Angeli, verso il 1400, ha adottato lo stemma Ceroni e cioè il cervo azzurro
senza benda. Visto che parliamo di stemma non sarà male notare che le varie famiglie muteranno
in seguito il colore del fondo; così i Rinaldi Ceroni prenderanno il colore rosso, i Soglia Ceroni quello
verde, i Poli quello d'oro mentre altre famiglie lo manterranno azzurro. Per chi ha curiosità di documentazione suggeriamo l'elenco degli stemmi della città di Imola reperibile in quella biblioteca e
una scappatina nella chiesa di Pagnano dove restano due cassapanche seicentesche indubbiamente
dei Rinaldi Ceroni allora ancora proprietari del Casoletto e nella chiesa dei frati a Casola dove ancora
sui due primi banchi presso l'altare ci sono gli stemmi del Cardinale Soglia col campo verde.
- 54 Mox enim ut ille Paulo III. Sum. Pont. delatus
Venne riferito al Papa Paolo III che Ramazest, quod Franciscum Montinum a Valle Abbatis
zotto per punire la violenza carnale subita
pedibus fenestræ arcis suspensum mori coegisdalla propria figlia Attilia, attribuita a Franceset, et alios vel parvulos adhuc lactantes ejusco Montino di Val Abate. Aveva fatto morire
sdem familiæ a sicariis obtruncari curasset, ut
costui appendendolo per i piedi ad una finestupri quod ipse Franciscus in Altiliam Ramastra della Rocca (di Tossignano) e aveva ordizotti natam nefarie commisisse criminabatur,
nato la strage di tutta la sua famiglia, compoenas repeteret, aliaque indigna, quorum copreso i figli lattanti. Fu pure accusato di altre
gnitio Præsidi Provinciæ permissa fuit, patrascriminali azioni presso il Presidente della Proset: dum ad dicendam causam vocatus non
vincia, per cui fu chiamato a comparire in giucomparet, Præses Ramazottum absentem, uti
dizio, ma egli non si presentò. Venne condanSedis Apostolicæ rebellem læsæque majestatis
nato come contumace e tutti i suoi beni conreum damnat, atque universa illius bona Fisco
fiscati a pro del Fisco. Il Presidente mise in
addicit. Tum acie quinque millium pene armatoarmi una compagnia di cinquemila solda-ti e
rum protinus contracta; Octobri mense anno
nel mese di Ottobre dell'anno 1536 marciò
1536 a Virginis partu, Tussignanum concedit, et
contro Tossignano. Prese tosto il paese per
Castro Oppidanis se se dedentibus potito, ibi alispontanea resa degli abitanti, ma per diversi
quot dies oppugnanda Arce nequicquam absugiorni dovette battere la Rocca perchè il Vimit. Dum Ramazotti Procomes, qui ei consobrisconte di Ramazzotto, che era suo cugino, pur
nus erat, nulla vi repugnando, sed tantum ex ea
non opponendo attiva resistenza, rifiutava di
inscio Ramazotto abscedere renuens, Præsidis
abbandonarla prima di aver informato Ramazconatus protrahit, ac differt. Coeterum Præses
zotto. Il Presidente fu costretto a prolungare
ratus se procrastinatione delusum, majora torgli sforzi; poi finalmente irritato per l'indugio,
menta ex aptiori loco displodens muros ferreis
diede ordine di battere la Rocca da un'altura
globulis incessanter perfrin-gere, atque labefacopportuna, con le artiglierie pesanti smanteltare non cessat, donec Procomes timore percullando e sberciando senza sosta le mura con
sus paucos post dies ex composito exit ab arce,
palle di ferro. Pochi giorni dopo il Visconte
et eam liberam Præsidi dimittit. Hanc Præses repieno di paura scese ad un accordo e abbanceptam, hosti-literque invasam nimis impie didonò la Rocca vuota nelle mani del Presidente.
ruit, moxque ad propria cum armatis recedit. InQuesti la fece assalire ed atterrare senza pietà
terea Ramazottus inops consilii initio ad Alpes
prima di ritirarsi colla truppa. Intanto RamazPetræ malæ perfugerat, et apud Altiliam dudum
zotto senza più scampo, si era rifugiato sui
memoratam, quæ paullo ante cuidam ex dicto
monti di Pietramala presso la figlia Attilia, ivi
loco nupserat, dehinc vitam omnes omnibus
maritata, e dovette qui condurre una vita
ærumnis plenam, uti fama est, intra foetida, obpiena di sofferenza fra i nascondigli più fetidi
scuraque latibula domus, ut Principi cælaretur,
e oscuri della casa per restar nascosto al Prinetiam diris Pontificiis execratus, tamdiu traxit,
cipe, colpito dalle censure ecclesiastiche, fino
donec miseram efflaret animam, fideliumque
al giorno della morte e non ebbe neanche sesepultura caruit, quoad post tempora fuit reconpoltura cristiana fin al giorno in cui fu poi riciliatus Ecclesiæ. Coeterum quoad nostrates
conciliato colla Chiesa. Tornando ai nostri dirò
tarde fera in tendiculas pedem injecit, tardiuche troppo tardi la mala bestia aveva messo il
sque Ceroniis ab teterrimo hoste insidiæ occidepiede nella trappola. E ancora troppo tardi
runt; quippe jacta inter eos alea erat, jam vires
erano cessate le trame di quel nemico crueorum irreparabiliter expugnatæ.
dele. Ormai fra loro il dado era stato tratto.
Ormai le loro forze erano state fiaccate.
NOTA AL PUNTO 54
Con l'avvento al soglio pontificio di Paolo III (Alessandro Farnese) nel 1534, la stella di Ramazzotto
più che declinare precipita. Sotto il Papa di casa Medici, Clemente VII, aveva potuto arrivare al
rango di Conte, come abbiamo visto, e oltre a governare Tossignano, Fontana, Belvedere, Sassoleone, ecc., avrebbe aspirato a fare il conte anche nella nostra valle del Senio, ma qui, inspiegabilmente, la famiglia Calderini di Bologna che aveva già vasti possedimenti in Valsenio e Casola frutto
di enfiteusi concesse dal priore Zilini o Gillini Piero di Bologna verso il 1382/83 sui beni del monastero di Valsenio, viene investita della contea di Casola Valsenio e parrocchie limitrofe costituita
smembrando il nostro territorio dal contado di Imola. Il 14 Gennaio 1532 gli Homines Casulae Vallis
Senni et aliarum villarum suppositarum che sarebbero: Prugno, Valsenio, Settefonti, Montefiore
(Valle della cestina), Baffadi, Castel Pagano (S. Apollinare e Mercatale), Mongardino (cfr atti del
notaio Ser Valerio Passeri di Tossignano riportati dal manoscritto Linguerri) giurarono fedeltà al
conte Domenico Calderini e a suo nipote Lodovico. I nuovi conti ricevono dal Commissario di Casola
Ser Pietro (si ignora il suo cognome e la sua patria) le chiavi del palazzo comunale colle quali aprono
e chiudono la porta in segno di possesso e quindi passeggiando su e giù per la piazza e la strada
sempre come prova di reale possesso, pertinenza, giurisdizione ecc. Sono presenti come testi:
Giovanni Bartolomeo Malvezzi e Gian Francesco Ottoboni di Bologna e il Sig. Carlo di fu Gregorio di
Brisighella e il Sig. Francesco di Giovan Battista Ravagli dei Pavarotti (Territorio) della Valle del
Lamone. Notate dunque come appena di là dal fiume si è già in Val di Lamone, cioè sotto la giurisdizione di Brisighella. I Pavarotti, e così Soglia, Pagnano, ecc., non entrarono nel territorio della
nuova contea. Ma anche questa nuova contea ebbe vita effimera. Il nuovo Papa aveva visioni diverse per ciò che concerneva il territorio dello Stato Pontificio e vedeva malvolentieri questo pullulare di Conti che in qualche modo intralciavano il buon governo dell'intero territorio. Quando cominciarono a fioccare le accuse di ingiustizie e atrocità commesse dal Ramazzotto, il nuovo Presidente di Romagna, che è il Vescovo di Chiusi Mons. Gregorio Magalotti, imbastì tosto un processo
a carico del truce conte. Uno dei tanti delitti era proprio stato la morte di un certo Francesco Montino
o di Montino di Val Abate in territorio di Belvedere. Forse si tratta di uno dei suoi scherani che lo
seguono anche nel palazzo di Tossignano. La comunanza delle figlie del Conte con questi baldi
soldati creava certi inconvenienti dalle conseguenze imprevedibili e tragiche. Non sarei troppo propenso a credere ad una violenza e del resto Ramazzotto stesso stava dando un pessimo esempio
di moralità alle proprie figlie in questo campo, vecchio e ormai malandato come era; ma sorvoliamo.
Monsignor Magalotti assale Tossignano appunto nell'Ottobre del 1536. Ramazzotto se n'è fuggito
alle Valli di Pietramala. Qui la presunta vittima della violenza carnale, la figlia Attilia, si è sposata
con un certo Adamo di Baldo Pagnoni del luogo e presso di lei si rifugia Ramazzotto bandito dallo
Stato della Chiesa a pena capitale. Nella Rocca di Tossignano c'è rimasto suo cugino: Cornelio di
Michelino che tentenna e poi cede alle prime scariche della artiglieria pesante. Ogni bene di Ramazzotto è confiscato, palazzo e robe e perfino un'arca di marmo per la sua sepoltura che si era preparato come aveva già fatto a Bologna in S.Michele in Bosco. Morì il 14 Agosto del 1539, probabilmente a Scarperia, come rileva il Casini (cfr. Dizionario Biografico, Geografico e Storico del comune
di Firenzuola vol. III p.69) che riporta integralmente anche il testamento di Ramazzotto dettato
appunto in Scarperia il giorno 13, cioè un giorno prima di morire. Poichè incorso nelle censure
ecclesiastiche non potè avere sepoltura religiosa che molto più tardi quando i discendenti (che detto
per inciso sono gli attuali rinomati produttori dell'amaro Ramazzotti) lo trasportarono nel suo sepolcro di Bologna. Dal testamento rileviamo che oltre Lucia sposa di Raffaele Brunori e l'Attilia o
Antilia sposa di Pagnoni Adamo, aveva avuto un figlio, già defunto al'atto del testamento, di nome
Pompeo. Figli di fu Pompeo sono nominati Alessandro e Ramazzottino. Questi sono i suoi eredi
universali. Si ricorda però anche delle figlie e dei nipoti. Stende il testamento il notaio Ser Bernardo
di Benedetto. Colla morte di Ramazzotto si estingue una gran fonte di guai per i Ceroni, ma ormai
l'incendio è stato appiccato e la gloria e la fama della consorteria Ceroni definitivamente fiaccate,
proprio come dice il Mita.
- 55 Dejectis Ficchiis, uti mox dictum est, tantus Ceroniorum, qui patrios Lares adhuc tenebant, numerus
supererat, ut anno 1552 Cardinalis Sangiorgius,
qui Flaminiæ Legatus pro Pontifice erat, novam militum cohortem pro sede Apostolica instauraturus,
viros trecentum ex Ceronia gente, qui supra vigesimum, ac infra quinquagesimum annum essent, in
numerum militum referri mandaret. Itaque Ceroniensium propagatio, resque sibi secundæ pavorem exteris, finitimis invedentiam parere, ipsos
vero intollerabili audacia, furentique inter eos petulantia effere sic potuerunt, id maxime moventibus Gellino, Relicco, atque Garrino, proles genitæ
ad ea, quæ majores pepererunt, subvertenda, ut
quanto altius elati sunt, eo fædius corruerint. Mutuæ igitur simultates, hostiles invidiæ, nefariaque
inter eos odia ab exiguis profecta initiis, ubinemo
omnium, qui nascentem comprimeret flammam,
affuit, tanto incremento aucta sunt, ut Lancerii
præpotentiores bifariam disjuncti, alteram partium
Ravalei amplecterentur, quibus potissimum Lauli,
Polique auxilio erant, alteram Raynaldi, quos Jacobetti, Bertique sequebantur. Dumque alter ab altero sibi malum suspicatur, infestis animis mutuo
se se intuentibus, verbisque interdum insultan-tibus, eo tandem deducta res est, ut ab exteris in se
tantum verterent arma, et manus dum affuit occasio, sibi pertinaciter consere-rent, neque data quies
donec intra sex mensium, et anni spacium ex ipsis
numero viginti, qui ferme omnes ex primoribus
erant, hinc atque illinc summa impietate fuerint interempti.
Una volta allontanati i Ficchi, come ho accennato poc'anzi, ad abitare i patrii luoghi non eran
rimasti che i soli Ceroni. Quando il Card. Sangiorgio, legato pontificio della Emilia, nel 1552
dovette rinnovare una coorte di soldati per la
Sede Apostolica, arruolò i Ceroni di età compresa fra i venti ed i cinquant'anni e questi assom- marono a 300 uomini.
Il propagarsi dei Ceroni e la loro fortuna suscitò
i timori fra quelli lontani, invidia fra i confinanti
e gonfiò di tanta audacia e furibonda prepotenza i Ceroni stessi (e ciò soprattutto a causa
di Gellino, Relicco e Garrino nati per tralignare
dalla razza generata dai nostri antenati),
quanto più si levarono in alto, tanto più vergognosamente ruzzolarono in basso. Per loro si
destarono inimicizie, feroci invidie, odi scellerati generati da futili motivi, non essendovi alcuno pronto a spegnere l'incendio nel suo nascere, e crebbero in modo tale che i Lancieri, i
più potenti, si divisero in due partiti; da una
parte i Ravagli sostenuti soprattutto dai Loli e
dai Poli e dall'altra i Rinaldi seguiti dai Giacometti e dai Berti. Si sospettavano di male a vicenda e si guardavano in cagnesco e non di
rado si sbranavano fra loro con liti sanguinose.
La situazione raggiunse un punto tale che non
solo richiamò contro di loro le armi straniere,
ma li accanì ostinatamente a combattersi senza
sosta tanto che nel breve spazio di un anno e
mezzo ci furono e da una parte e dall'altra, ben
venti vittime, e quasi tutte fra i maggiorenti,
uccise con crudele ferocia.
NOTE AL PUNTO 55
Con la morte di Ramazzotto, si poteva ben sperare in un periodo di pace per i nostri Ceroni, ma la
mala pianta della discordia allignava vigorosa nella "Famiglia" stessa dei Ceroni che pur era notevolmente diminuita di numero dalla scomparsa di tutti i Ficchi e aderenti. Il Mita ha modo tuttavia
di registrare che in occasione di un arruolamento ordinato dal Card. Legato, il Card. Girolamo Ricenati del titolo di S.Giorgio, nel 1552 i Ceroni assommano a 300 uomini atti alle armi. Un numero di
tutto rispetto. Perchè questo arruolamento? Giulio Cesare Tonduzzi, lo storico di Faenza, registra
in quell'anno una piccola sommossa di militari comandati da Carlo Orsini, proprio a Faenza. Sembra
che il tumulto fosse generato da un caso singolare: un soldato moro, arruolato fra le truppe dell'Orsini, aveva probabilmente usato violenza o molestato una donna della città. Il popolo rumoreggiò
al punto che l'Orsini fece prendere il disgraziato e lo sottopose a tortura sulla pubblica piazza.
L'infelice ne morì straziato. Ora si sollevarono i commilitoni che si mossero contro la corte e i capi
e ci volle del bello e del buono per riportare la pace. Il Card. Legato, sentita la cosa, ordinò vari
processi specie contro i fautori della sollevazione e minacciò Faenza stessa. In torbidi del genere,
contro la città, si ricorreva con facilità alle compagnie dei territori vicini tutt'altro che tenere verso
la città madre e può essere che fosse precisamente quella la ragione dell'ingaggio. Si sa poi che
tutto si acquietò e anche il Legato venne a più miti consigli.
Quando i Ceroni avevano modo di scaricare sul campo di battaglia le loro energie prepotenti, c'era
pace fra loro, ma appena si ritrovavano di nuovo sulle rive del Senio, scoppiavano invariabilmente
feroci rivalità fra i vari casati. Si sentono importanti, si arrogano diritti sugli altri, si sospettano. Fra
tutti i casati il gruppo più forte è costituito dai Lancieri, i discendenti di Giovanni il Lanciere, che
comprende le ben note famiglie: Rinaldi, Ravaglia, Berti, Giacometti, Poli e Marondoli. Impossibile
trovar le cause di questo dissidio che divampa fra le due famiglie più in vista: i Rinaldi e i Ravaglia.
Futili motivi che degenerano in delitti, certamente. Come ieri coi Ficchi, oggi fra loro i due gruppi si
divorano. Si avvera la profezia di Riccardo Alidosi. È la tipica faida delle famiglie protagoniste. In
18 mesi 20 morti: più di uno al mese. Lo spettro funesto del Ramazzotto ghigna di compiacimento.
- 56 Ad hæc apud Pium IV. Pont. Max., Magnumque
Gli uni e gli altri sporgevano denunzia o presso
Hetruriæ Ducem Cosmum Primum alteri alteros
il Papa Pio IV o presso il Gran Duca di Toscana
criminando, infanda-que alia super alia facinora,
Cosimo I, accusando gli avversari di aver
quæ in Ditione eorumdem Principum percommesso numerosi delitti nei territori di quei
petrasse culpabant, sibi invicem objiciendo, eam
Principi.
Dominorum indignationem subierunt, ut nullum
Si tirarono dunque addosso anche l'indignajussit omnino prætermissum, quo res perzione di quei Signori che non tralasciarono
sonæque eorum plexæ non fuerint, citatique Rei
legge alcuna per punirli nei beni e nelle perabsentes, quibus ad causam dicendam adesse
sone. Venivano citati in giudizio e loro non
non fuit consilium, exulaverint, bonaque Fisco
comparivano, così si attiravano l'esilio e la
fuerint adjudicata.
confisca dei beni.
NOTE AL PUNTO 56
Fino a quando le rivalità si esauriscono in loco, più o meno le cose rimangono allo stesso punto, ma
se nel gioco si coinvolgono interessi esteriori e soprattutto le autorità, c'è sempre da aspettarsi il
peggio. Capita così ai Ceroni. A cavaliere fra le Romagna e la Toscana, o meglio fra lo Stato Pontificio
e il Gran Ducato, era facile sconfinare nell'attuare le proprie vendette. L'autorità del Duca e quella
del Legato veniva spesso annoiata da un susseguirsi di querele che fruttavano, quando fruttavano,
solo disgrazie per i Ceroni. Il Fisco incamerava e da una parte e dall'altra e i due gruppi contendenti
non si rendevano forse neppur conto che la loro sete di vendetta veniva puntualmente soddisfatta
con l'acqua salata delle punizioni e delle confische.
- 57 Sed omnium sibi perniciosissimum facinus, quod
Possentes e Polis pessimo consilio ausus est moliri, fuit. Is enim a Fabroniis, apud quos duxerat
uxorem, verborum contumeliis laceratus dum
rationem ulciscendæ jnjuriæ molitur, viginti ex
suis Marradium ducit, Fabronios quotquot invenerit interfec-turus: coeterum spe frustratus,
ubi cum armatis ab eo loco se se recipere tentat,
Pellinguerram Zannotti filium, qui Marradianæ
arcis custos, Serenissimoque in primis carus,
atque compater erat, sibi obiter occurrentem,
ne gratuito illinc excederet, interimit, fugaque
incolumis ad propria revertitur. Hæc ubi magno
duci nunciata sunt, indignatione sceleris Princeps ille percitus necem, supra quam quisquam
cogitaverit, ulcisci molitur; reque omni cum
Pont. Max. acta, exercitum tandem duorum millium delectorum Angelo Guicciardino tradit, et
quæ agenda sint imperat. Guicciardinus ex Alpinis montibus descendens cum acie instructa,
quæ ex voluntariis, qui Ceroniis infensi erant,
seu prædam rapinasque meditabantur, confluentibus augebatur in horas, Sosenanam pervenit quarto idus septembris anno a Virginis
partu 1563. Huic ex composito apparitores
multi, ac Pontificiæ copiæ, quas paulo minus
mille armatorum ex proximis civitatibus, et agris
contraxerant Præfecti opem ferendo occurrunt,
et dum adjuncti quatriduum apud nostrates stativa habent, universa quæ a Baffadio ad Saxatellum circa erant, hostiliter diripiunt, vastant,
populantur, nulla re, cui ferro, aut igne noceri
possit, incolumi relicta: divinaque simul, et humana jura polluentes, perinde ac si Turcæ,
atheistæve essent nullo sceleri parcunt. Ad hæc,
tecta innoxia Ceroniorum ferme centum omni
prius suppellectili exhausta nemine resistente,
paulatim incendunt: (nostri quippe declinando
milites alio se se receperant, ne armis repugnando sæveriorem Pontificis manum experirentur). Dein Bartholomæum, Laurentiumque
ex Ravaleis jam dudum proscriptos, quorum
apud Cirrum Alidosium in Castro Rivii tuta rebatur statio, eo comprehendunt, et in vincula ductos Florentiæ obtruncant. Nefarii prædones
verius quam milites postquam igne, et ferro
constravere cuncta, sero tandem Rectoris Provinciæ litteris recedere jubentur, et præda omnis generis onusti ad propria lætantes revertuntur. Hac clade recepta damni æstimatio
supra octoginta millia aureorum fuit.
Mox Romam missi Legati Petrus e Polis, et Annibal Ungania ad pedes Sanctissimi publico
nomine de injuriis, damnis sibi nequiter illatis
conquestum. Casum sera æstimatione Pontifex
miseratus anathematis litteras in surreptores,
Ma il delitto più funesto fu quello che commise
insensatamente Possente Poli. Poichè era stato
profondamente offeso dai Fabroni (di Marradi),
casato nel quale aveva preso moglie, studiava
il modo di vendicarsi. Guidò venti dei suoi a
Marradi con l'intento di sopprimere i Fabroni
che vi trovava, ma non riuscì nell'impresa e
mentre coi suoi armati stava già ritirandosi, si
imbattè in Pellinguerra, figlio di Zanotto, custode della Rocca, e, per non restare a mani
vuote, lo uccise e se ne fuggì. Era quest'uomo
molto caro al Gran Duca (di Toscana) e suo
compare per cui il Serenissimo, informato
dell'efferato assassinio, profondamente colpito,
decise di vendicarlo nel modo più impensato.
Infatti, dopo aver avuto abboccamento col
Papa (Pio IV), su questa faccenda, affidò ad Angelo Guicciardini il comando di duemila soldati
con ordini ben precisi. Il Guicciardini scese dai
monti alpini con l'esercito schierato che andava
ingrossandosi per l'afflusso di volontari, nemici
dei Ceroni, attratti dal miraggio di bottino e
saccheggio, che mano a mano gli venivano incontro. Giunse a Susinana il 10 Settembre
1563. Qui lo raggiunsero, secondo quanto era
stato concordato, un circa mille fra guardie e
soldati delle milizie pontificie che i Prefetti avevano arruolato nelle città vicine e nei contadi
allo scopo di prestare aiuto al Guiciardini. Le
truppe si riunirono e per quattro giorni stazionarono nella valle mettendo a ferro e fuoco
quanto si trovava fra Baffadi e Sassatello. Violado diritti umani e divini, al pari di Turchi o di
senzadio, non tralasciando alcuna scellerità.
Un centinaio di case dei Ceroni, del tutto innocenti, furono date alle fiamme dopo essere
state saccheggiate, senza che alcuno facesse
resistenza. (i nostri, evitando i soldati, si erano
recati altrove per non incorrere, se avessero
combattuto, nelle più severe repressioni del
pontefice). Infine furono catturati Bartolomeo e
Lorenzo Ravagli, già da tempo proscritti, che si
ritenevano al sicuro a Castel del Rio presso Ciro
Alidosi. Condotti in catene a Firenze qui vennero decapitati. Tutta questa accozzaglia, che
più giusto sarebbe dire di banditi invece che di
militari, ricevette finalmente l'ordine dal Prefetto della Provincia di ritirarsi. Cosa che fecero
lietamente carichi com'erano di robe depredate. Il danno di tanta rovina fu stimato a ottantamila monete d'oro. Furono subito spediti
a Roma ai piedi del Papa, come ambasciatori
del Comune: Pietro Poli e Annibale Ungania a
presentar querela per le ingiurie e i danni ingiustamente subiti. Il Papa, conosciuto troppo
tardi come erano andate le cose, ne restò
damnificatoresque concessit, si ter moniti ablata
reddere, vel danna compensare abnuerent.
Cæterum ubi primum in Florentina ditione Pontificia mandata Parochorum ministerio evulgantur, Legati minis, pavoreque a sicariis perterriti, negotio infecto illinc abscedere compelluntur. Sic Ceronii, ubi cum moribus fortuna immutata est familiari re destituti, prostrati animo, viribusque perculsi arma deponere, rei agrariæ
sedulam navare operam, tecta resarcire, foedus
inter semet pacisci, necessitate coarctantur.
Defuncto dehinc Magno Cosmo, ubi suffectus est
illi in regnum Franciscus primus, is cæpit Ceronios benevolentia complecti, ad quorum humiles
preces viros ex ipsis centum viginti olim a sua
ditione proscriptos gratis absolvit, exiliaque remittens, universos in suam gratiam rediisse voluit: rem hanc Pauli Manutii, qui Officii Octo
scriba erat, attestante documento IV. Nonas Julii anno 1577 acto. Itaque ex eo tempore Ceronii
ad veterem servitutem cum Serenissimis illis
Principibus promerendam restituti in annos multos belli pacisque tempore, et stipendia meruerunt, et gratiis, atque decoribus cohonestati
sunt ab eis.
scosso e fece inviare lettere in cui si comminava la scomunica ai predatori che, alla terza
ammonizione, non avessero restituito il mal
tolto. Quando, a ministero dei parroci, furono
divulgati in Toscana gli ordini del Papa, i nostri
ambasciatori furono fatti segno a minacce e
paure da parte dei sicari e così a mani vuote
dovettero partirsene. Così i Ceroni dei quali la
fortuna era mutata come i loro costumi, privi di
mezzi, fiaccati di animo e di forze, costretti
dalla necessità, deposero le armi, si diedero
con cura ai lavori agricoli, al restauro delle loro
case e a ricercar di nuovo di strin- gersi fra loro
in buoni accordi. Morto il Gran Duca Cosimo il
Grande, gli successe Francesco I. Questi trattò
con bontà i Ceroni; accolse lo loro suppliche e
fece grazia a 120 dei loro già banditi dai suoi
stati e tutti riammise nel suo favore. Paolo (o
meglio Aldo) Manuzio che era segretario degli
Otto, descrive tutto ciò in un documento scritto
il 4 Luglio 1577. Da quel momento dunque i Ceroni, ritornati nell'antica obbedienza di quei Serenissimi Principi, li servirono per molti anni sia
in guerra che in pace ottenendo da loro favori
e dignità.
NOTE AL PUNTO 57
Siamo già così verso il 1560. Brevemente va ricordato che nel 1555 al Papa Giulio III succede a
Marcello II (Cervini) che però muore 21 giorni dopo e gli succede Gian Pietro Carafa, Paolo IV.
Al Card. Legato di San Giorgio succede il Card. di Fano e nel momento dell'efferato delitto di Possente Poli è Presidente di Romagna Mons. Federico Martoro. A Paolo IV nel 1559 è succeduto Pio
IV. Il Gran Duca Cosimo gioì grandemente all'udir di tale elezione perchè Pio IV è un Medici anche
lui, sia pure di quelli di Milano, Giovan Angelo Medici detto "il Medichino" e si ripromette di trattare
col nuovo eletto senza più difficoltà.
Ciò spiega dunque come al fattaccio di Marradi si sia potuto rispondere tanto prontamente e definitivamente.
Se fosse intervenuto solo il Gran Duca, i colpevoli se ne stavano al sicuro nelle terre dello Stato
Pontificio; se fosse intervenuto il Papa, sarebbero in poche ore passati in quelle del Gran Ducato.
Era un giochetto ben collaudato da secoli!
Questa volta invece Duca e Papa si alleano e prendono a tenaglia tutta la valle del Senio. Qualcuno
ha cercato già da tempo di trovar rifugio altrove; per esempio a Castel del Rio dove c'è forse l'anima
più infida e losca che si possa pensare: Ciro Alidosi legato a Firenze per cento catene e che fa il
margiasso ospitando delinquenti vari nel suo castello a dispetto del Papa. È la rovina di Bartolomeo
e Lorenzo Ravaglia, come si vedrà.
Con la breve descrizione della manovra militare che fiacca per sempre la potenza e la grandezza
dei Ceroni il Mita chiude il suo racconto. A queste brevi note non resta che precisare che mentre
l'esercito fiorentino è comandato dal Guicciardini, della famiglia dello storico famoso, quello pontificio è ai comandi di Francesco Dal Monte. Più che di battaglia, è chiaro, si dovrà parlare di rappresaglia condotta all'insegna del piglia e arraffa. Con tanti soldati, dopo 4 giorni, c'era rimasto ben
poco!
CONCLUSIONE
Sed de Ceroniis antiquis hæc pauca reperta sufficiant, recentiora describet alter; ego enim vetera hæc meo fideli studio Dei gratia compilata
animis præsentium insinuata velim, ut quales
initio, antiquoque tempore nostri majores fuerint ex parte cognoscant, discantque quid sit societates connubiave cum hoste inire, ejus consilia sequi, jurata foedera violare, pacem poscenti
jurejurando denegatum cavere, in domesticos
veluti in hostes sævire, magistratibus obedientiam pauci pendere, scelera sacramento abnegata committere, stemmata intercidere: et intelligant, quod si fortitudo præsentium dissipata
est, ipsi sibi posterisque malum progenuerunt.
Plura si quis noscere avet accuratius perquirat,
et quod ego naturali imbecillitate nequivi, ipse
forsan sua sedulitate inveniet, opusque perficiet.
Laus Deo semper, B. V. Mariæ, ac cunctis Coelitibus. Amen.
Sac. Domenico Mita
Ma bastino queste poche cose da me trovate
sulla storia degli antichi Ceroni, qualche altro ne
scriverà le più recenti. Io amerei che queste vecchie storie che con fedeltà e coll'aiuto di Dio ho
qui raccolte, si imprimessero nell'animo dei miei
contemporanei perchè conoscano, almeno in
parte, quali furono i nostri antenati nei loro tempi
antichi e imparino a cosa può condurre il fare alleanze e parentela coi nemici, seguire i loro consigli, il non mantenere i patti giurati, il negar con
giuramento la pace a chi l'invoca, l'esser crudeli
coi propri consanguinei e trattarli da nemici, la
disobbedienza alle autorità, il commettere azioni
nefande che s'era giurato di non compiere, il tagliare gli stemmi; sappiamo inoltre che se per i
contemporanei è cessata ogni grandezza, questo
danno fu procurato colle proprie mani e trasmesso ai posteri innocenti. Se poi qualcuno desidera conoscere più minutamente altre notizie,
se le cerchi con cura maggiore e quanto, per mia
naturale incapacità ho tralasciato, lo trovi lui e
perfezioni l'opera.
Siano sempre lodati Dio, la B. V. Maria, e tutti i
Santi. Amen.