Collana Tarantole 7

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Collana Tarantole 7
Collana Tarantole
7
M.E. Jeson
Il
segreto
della base Lacrosse
Questo
romanzo
è
frutto
della
fantasia.
Qualsiasi
riferimento a persone o fatti reali è puramente casuale.
Copyright © MMXIII
ARACNE editrice S.r.l.
www.aracneeditrice.it
www.narrativaracne.it
[email protected]
via Raffaele Garofalo, 133/A-B
00173 Roma
(06) 93781065
isbn 978-88-548-6667-6
I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica,
di riproduzione e di adattamento anche parziale,
con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi.
Non sono assolutamente consentite le fotocopie
senza il permesso scritto dell’Editore.
I edizione: novembre 2013
Abbiamo bisogno dell’amicizia sempre,
proprio come abbiamo bisogno dei proverbiali fondamenti della vita, il fuoco e
l’acqua.
M.T. Cicerone
Ai nostri amici
Carnaçon sur Mer, primavera 1995
Il tratto di spiaggia che costeggiava la base aereonavale
Lacrosse era vietato al pubblico. Il mare aveva il colore del
tè al latte; le nuvole spinte dal mistral si spostavano rapidamente e perdevano gocce di pioggia che pizzicavano la
superficie e lasciavano piccole impronte sulla sabbia.
Giunti a riva i due sub si sfilarono le maschere e si diressero correndo verso la recinzione, dove gli zaini neri con le
cinghie svolazzanti come grossi scarafaggi impazziti appesi
alle maglie metalliche resistevano agli assalti del vento.
Due colpi di fucile sparati in rapida successione sovrastarono il rumore della risacca. I sub scivolarono a terra. Morirono per mano di un ex mercenario che dopo il congedo
non aveva deposto le armi.
L’omicida si avvicinò lentamente ai corpi, affondò la
pala nella sabbia e iniziò a scavare.
Lavorava con vigore, aveva solo qualche ora prima che
il mare si riappropriasse di quella piccola insenatura circondata dagli scogli.
Scavò a lungo. Ansimando per la fatica conficcò il badile
nel mucchio di terra, si chinò sui corpi senza vita, sfilò le
piastrine di riconoscimento e con un coltello affilato incise
il cuoio capelluto di entrambi. Compiuto il macabro lavoro,
con una spinta li fece rotolare nella fossa che ricolmò rapidamente, e per impedire che la vivacità della risacca portas9
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se i cadaveri allo scoperto, raccolse alcuni massi sparsi sulla
spiaggia e li dispose uno sull’altro.
Si sfilò la tuta ed entrò in acqua per rinfrescarsi. Uscì
sbuffando, si strofinò il viso, si rivestì, riprese la sacca dove
aveva riposto il fucile e gli effetti personali delle vittime e
non si accorse che una piastrina di riconoscimento era scivolata sulla sabbia.
Con la caratteristica andatura regolare e spedita che distingue i militari dai civili, raggiunse la strada di terra battuta e dopo aver recuperato una canna da pesca che aveva
nascosto sotto un cespuglio di ginestra, al di là della linea di
battigia, fischiettando se ne andò, interpretando alla perfezione il militare in licenza che si era dedicato a una fruttuosa giornata di pesca.
Militare lo era stato, ex legionario di origini italiane, Wolfango M. aveva lasciato Milano negli anni Sessanta per sottrarsi ai creditori e per sfuggire alla prigione, che lo avrebbe
accolto se le forze dell’ordine fossero riuscite ad acciuffarlo.
L’arruolamento nella Légion étrangère, creata nel 1831 da
re Luigi Filippo di Francia, gli aveva garantito l’anonimato;
aveva combattuto in Ciad, guadagnando una discreta fortuna e una dubbia reputazione.
Si era presentato al centro di reclutamento con un’identità fittizia, e durante il servizio non aveva socializzato con
molti compagni d’arme.
Nei periodi di licenza si ritrovava a bere in un pub di periferia con Alfred Dubois, un tipo gioviale e refrattario alla
disciplina, che non era rimasto a lungo nella legione.
Amante del lusso e della bella vita, Alfred alla scadenza
del contratto se ne era andato e aveva accettato l’incarico
temporaneo di coordinatore della sicurezza presso una multinazionale. Vestiva abiti confezionati su misura, esibiva sul
panciotto la catena d’oro di un vecchio orologio a cipolla e
al mignolo un anello con una pietra rossa e si era costruito
un passato rispettabile. Frequentava belle donne, guidava
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fuoriserie e fumava sigari Partagàs Lusitania Double Corona.
Ogni sera lasciava l’attico in centro in cui abitava, saliva
sulla Porsche nera e si recava all’appuntamento con la ragazza di turno.
La portava a cena in un ristorante alla moda, la colmava di attenzioni e di champagne e al ritorno percorreva strade secondarie. Accostava in una piazzuola e spento
il motore iniziava le manovre di seduzione. Allungava la
mano per accendere il lettore cd e le sfiorava il ginocchio.
Lasciava che la melodia Every Time We Say Goodbye si diffondesse nell’abitacolo e restava qualche minuto in silenzio
con il braccio mollemente appoggiato sulla spalliera del
sedile. Adeguava la mossa successiva alla reazione della
giovane. Se la ragazza si ritraeva, schiacciava un pulsante,
bloccava le portiere e le si gettava addosso. Se la poveretta si divincolava Alfred la bloccava stringendole il collo in
una “presa a tenaglia”, reminiscenza dell’addestramento
militare. Si considerava il re dei baci rubati; non era mai
riuscito a ottenere un secondo appuntamento dalla medesima ragazza.
Wolfango M. dopo il congedo aveva ripreso a frequentare il mondo del crimine, si occupava di intimidazioni e
di recupero crediti; con il passare del tempo i contratti che
gli proposero furono più impegnativi e di conseguenza ben
remunerati.
Nell’ambiente gli avevano attribuito un appellativo poco
lusinghiero, il Cobra, per la postura che assumeva nei momenti di concentrazione: allungava il collo e restava immobile come un cobra pronto all’attacco; le orecchie appuntite
aderivano ai lati della nuca rasata e leggermente appiattita
e gli occhi obliqui si stringevano a fessura. Era a conoscenza
del nomignolo e non ne era turbato; se pagavano bene, potevano chiamarlo come preferivano.
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L’omicidio dei due militari alla base Lacrosse gli era stato commissionato tre mesi prima. Una busta era stata infilata nella cassetta che aveva affittato presso un ufficio postale
alla periferia di Marsiglia. All’interno del plico aveva trovato una fotografia e una chiave usb, che distrusse subito dopo
aver memorizzato le istruzioni.
Pianificato l’incarico in modo accurato, alla guida di un
furgone sul quale aveva applicato la scritta adesiva “Les
Vignerons d’abord” aveva compiuto diversi viaggi all’interno della base, tanto da diventare una presenza ricorrente.
Scambiava qualche battuta con i militari che presidiavano
l’entrata e regalava bottiglie di vino. Nel corso del suo servizio in legione aveva constatato che, quando si recapitano i
vini, i militari di guardia sono più interessati a esaminare le
etichette che i documenti. Era riuscito a carpire informazioni e a conoscere gli orari e le abitudini degli ufficiali.
Dopo aver portato a termine l’incarico, si recò all’aereoporto di Nizza, entrò nel parcheggio riservato alle partenze,
spense il motore e si incamminò verso gli uffici della società
di autonoleggio per restituire le chiavi.
Inserì in una cassetta postale il plico con le sezioni di
epidermide che aveva prelevato dai cadaveri e si recò all’imbarco.
Salì tranquillamente a bordo senza mostrare interesse
per i passeggeri che lo circondavano e si accomodò al posto riservato in business class. Si appisolò prima del decollo.
Nessuna ruga sulla fronte a dimostrare turbamento per l’omicidio appena compiuto, la postura rilassata e il viso disteso riflettevano la soddisfazione che provava per il compenso
che era stato accreditato sul suo conto corrente.
Qualche tempo dopo a Parigi incontrò un’amica, una
giovane ed eccentrica ragazza dai capelli rossi di origini italiane, Terry Larmando. La portò in un night dove cenarono e ballarono fino a tarda notte. L’ex legionario si sentiva
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vivo, voleva divertirsi, incontrare donne e bere. Dopo ogni
incarico era colto da stati di euforia che non duravano a
lungo. Svanita l’eccitazione ritornava a essere il tipo freddo
e asociale che non aveva amici e che neppure i vicini di casa
avrebbero potuto descrivere con precisione se fossero stati
interrogati al riguardo.
Appassionato di auto d’epoca, si era recato all’appuntamento alla guida di una Citroën ds cabrio del 1966, con la
carrozzeria verniciata di bianco e l’interno in pelle bordeaux.
Uscita dal locale ridendo e barcollando leggermente,
la coppia raggiunse il posteggio. La ragazza gli strappò di
mano le chiavi e si infilò sul sedile del guidatore. Nonostante
la mente fosse offuscata dall’alcol, il mercenario intuì il pericolo: le portiere della macchina erano aperte, ricordava di
averle bloccate. Fu il suo ultimo pensiero, non fece in tempo
a fermare la mano della compagna che aveva già inserito
la chiave di avviamento. Un terrificante boato scosse tutto
l’isolato.
Fu la fine di Wolfango M. e della sua ignara accompagnatrice.
In una strada laterale, da un’anonima berlina, un uomo
osservava la scena. Quando udì le sirene, si allontanò rapidamente.
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Carnaçon sur Mer, anno 2005
La base militare Lacrosse era stata dismessa da una decina d’anni quando l’amministrazione cittadina deliberò
di sfruttare quella vasta area per ricavarne un parco pubblico.
Durante i lavori di scavo un manovale lanciò un grido di
allarme: dalla sabbia affioravano resti umani.
All’arrivo della polizia la zona era già stata liberata dai
mezzi pesanti e gli operai badavano che i soliti curiosi, che
giornalmente osservavano l’andamento dei lavori, non si
avvicinassero.
La sabbia fu rimossa a mano fino a due metri di profondità e setacciata. Quello che restava dei corpi fu recuperato
e trasferito all’obitorio dove venne esaminato dal medico
legale, il dottor Maxim Laval.
Nel palazzo sede della polizia giudiziaria di Carnaçon
sur Mer, in un ufficio disadorno con pochi mobili dozzinali – una scrivania di metallo, un classificatore, un attaccapanni e due sedie spaiate –, con le pareti tappezzate
da gagliardetti e da fotografie incorniciate che testimoniavano le tappe salienti di un’onesta carriera e di una
numerosa famiglia, l’ispettore Petitò leggeva la relazione
del patologo e si godeva il calore del sole che entrava dalla
finestra.
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Il rinvenimento dei corpi sepolti in riva al mare gli rammentò un episodio avvenuto nei primi anni del suo servizio
in polizia.
Aveva risposto alla chiamata di un vecchio marinaio e
ascoltato incredulo il racconto del ritrovamente di un teschio umano.
Il pescatore, come ogni giorno di bonaccia, era uscito
all’alba. Aveva calato la menaide e nella rete, tra le sardine,
aveva scoperto il teschio: era integro e le ossa erano talmente levigate che parevano di avorio lucidato.
Il cranio era ancora conservato in laboratorio, in una
teca. Sull’etichetta il dottor Laval aveva scritto “Adamo”.
Petitò con un sorriso abbandonò i ricordi e si concentrò
nella lettura dell’esito dell’autopsia eseguita sui due corpi
ritrovati alla base Lacrosse.
Il decesso risaliva a diversi anni prima; sulle ossa temporali erano visibili leggeri solchi tracciati da una lama affilata.
Nella relazione il patologo aveva ipotizzato l’asportazione
di una piccola porzione di cuoio capelluto.
Sul luogo del ritrovamento la polizia scientifica raccolse
solo una piastrina militare che risultò appartenere a un ufficiale dell’aviazione, Adrien Fortin, di stanza alla base negli
anni dal 1990 al 1995 e misteriosamente scomparso contemporaneamente al maggiore Gaspard Lavrelle.
All’epoca, a seguito della denuncia di scomparsa, era
stato setacciato tutto il paese alla ricerca degli ufficiali, ma
invano. Nulla era stato trascurato, come potè leggere Petitò nei rapporti della procura militare. I due piloti erano usciti dalla base per una giornata di licenza, ed erano
scomparsi.
Dalla lettura si fece un’idea delle meticolose indagini che
erano state avviate nel 1995.
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Fortin e Lavrelle avrebbero lasciato ufficialmente la base
Lacrosse dopo qualche giorno. Si erano entrambi congedati
e avevano festeggiato con i colleghi i vantaggiosi contratti
sottoscritti con una compagnia aerea privata. La loro scomparsa era inspiegabile, era la concorde opinione di tutti, comandante compreso.
L’ultimo documento archiviato era l’elenco passeggeri di
un volo per Parigi nel quale figuravano i nominativi Fortin e
Lavrelle. Un’annotazione scritta a margine precisava che su
quel volo i due giovani non si erano imbarcati.
Gli investigatori avevano compiuto un’indagine minuziosa, avevano interrogato i colleghi sulle abitudini e sulle amicizie dei due piloti, avevano rintracciato i familiari
e passato al setaccio la loro vita privata. Pochi gli indizi:
non frequentavano persone al di fuori della base e durante
il tempo libero uscivano in mare e si dedicavano alle immersioni subacquee. In diverse occasioni avevano mostrato agli
amici piccoli oggetti e cocci di anfore.
Petitò leggeva le deposizioni e immaginava i due giovani
mentre perlustravano il fondo marino alla ricerca di tesori
sommersi.
Sollevò gli occhi dal fascicolo, girò la sedia verso la finestra e, fissando lo sguardo sulla facciata della basilica che si
ergeva sontuosa sul lato ovest della piazza, ripensò ai suoi
sogni giovanili.
Aveva tentato anche lui di praticare la pesca subacquea,
ma non era un abile nuotatore.
Le uscite in barca, specialmente in cappa secca, con le
vele ammainate e il timone banda all’orza, gli provocavano
una forte nausea e un malsano colorito verdastro; nascondeva la sua debolezza agli amici, che al contrario saltellavano sulle imbarcazioni come marinai provetti.
Anton Chantemer, il suo amico investigatore in pensione, lo ospitava spesso sulla Butterfly, un motorsailer
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ormeggiato al molo di Carnaçon sur Mer. In compagnia
del dottor Maxim Laval veniva invitato a salire a bordo,
rigorosamente a piedi scalzi, ed era costretto a indossare il
solito giubbotto di salvataggio con la scritta “L’uomo non è
solubile in acqua”.
Di buon grado sedeva a prua, con i calzoni rimboccati
e il ridicolo salvagente; si aggrappava alla battagliola e da
quella posizione si muoveva solo per scendere a riva.
La barca di Anton era dotata di motore 39hp e di una
discreta velocità a vela. Anton si metteva al timone. Maxim
non riusciva a stare fermo; nei momenti in cui non era richiesto il suo aiuto, o quando Anton spegneva il motore,
passeggiava da poppa a prua e iniziava lunghi monologhi.
«Dovete sapere che da studente universitario, per preparare gli esami, uscivo ogni giorno con un sandolino…»
«In alto mare per studiare? Figuriamoci!» sbottava Petitò, al quale la vista dell’amico che dondolava sul tavolato
dava il capogiro.
«Certamente! Per memorizzare dovevo ripetere ad alta
voce e il mare aperto era il luogo migliore, dove non rischiavo di essere richiamato per disturbo della quiete pubblica». «Pfui!» Petitò non riusciva a stare zitto, al contrario
di Anton che si limitava ad ascoltare con un sorriso divertito.
La voce di Maxim andava e veniva, disturbata dal vento.
«Questa non la conoscete! Un giorno» aveva raccontato
«me ne stavo disteso comodamente in barca e ripassavo ad
alta voce l’organizzazione del sistema simpatico… sciabordavo con un piede la superficie del mare, quando mi sono
sentito sfiorare… con uno scatto mi sono sporto a mezzo
busto e ho intravisto la piccola pinna dello squalo gattuccio… Potete credere che sono stato svelto ad afferrare il retino, ma il pesce, dopo aver catturato al volo un latterino, fu
più veloce di me e si inabissò. Deluso per la mancata pesca
e dato che la concentrazione era stata interrotta, calai i remi
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in acqua per rientrare. Il cuore mancò un battito quando la
pagaia di destra venne afferrata con forza… Avevo a rimorchio un subacqueo!»
Anton scambiò un’occhiata divertita con Petitò. Il medico nella foga del racconto gesticolava e calava pacche sulle
spalle prima all’uno, poi all’altro.
«Ho aiutato il sub a salire a bordo» aveva proseguito imperterrito, incurante dei sorrisetti degli amici «e durante le
manovre ho piacevolmente constatato che l’inatteso ospite
era una donna».
«Salire a bordo di cosa?» commentò Petitò, reso leggermente inacidito dai conati che lo disturbavano «Non si trattava di un sandolino? Praticamente un guscio di legno».
«All’asciutto la ragazza si tolse la maschera» aveva continuato Maxim che, impietosito dal colore giallognolo dell’amico, era fermamente deciso a ignorare il suo sarcasmo «si
sfilò la bombola dalle spalle e sciolse i capelli. Era una turista americana e si chiamava Sandy Harrison. Bella, intelligente… bel seno».
«Praticamente una sirena!» Petitò cercava di combattere
il mal di mare distraendosi con pungenti attacchi a Maxim
– negli ultimi due casi senza ottenere alcun effetto.
«Sandy mi spiegò che era uscita in mare per fare snorkeling con la boa attaccata alla cintura, ma la sagola si era
spezzata e si era ritrovata più lontano del previsto. Abbiamo trascorso tutta la giornata al largo, riso, cantato e diviso
i panini preparati da Madame Chevrefeuille, scolato una
bottiglia di vino conservata al fresco in una reticella calata a
poppa. Al crepuscolo, in prossimità della riva, dopo avermi
ringraziato e baciato calorosamente, si è tuffata allontanandosi con veloci bracciate».
«Ha più rivisto… Sandy?» chiese Anton.
Non l’aveva più rivista, anche se era uscito in barca tutti
i giorni durante l’intera stagione, ammise Maxim a malincuore.
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«Il sole in mare aperto fa brutti scherzi, allucinazioni
marine!» dichiarò Petitò, che desiderava solo mettere i piedi
sulla terra ferma «Per quanto mi riguarda ho salvato diverse
donne in circostanze molto più pericolose, ma non sono mai
stato ringraziato calorosamente. Anzi! Mentre le caricavo a
bordo del cellulare, sottraendole agli squali che bazzicavano
i marciapiedi, e vi assicuro che non erano squali gattuccio,
mi sono preso diversi calci negli stinchi».
Le gite in mare si concludevano nel loro bar preferito,
dove finalmente il povero ispettore rinveniva aiutato da un
paio di bicchieri.
Un’occhiata all’orologio distolse l’ispettore dai pensieri
personali. Accantonò i ricordi, terminò la lettura del fascicolo e lo richiuse nel cassetto della scrivania. Era stato convocato nell’ufficio del capo. Si infilò la giacca e raddrizzò la
cravatta. Prima di uscire passò automaticamente le mani tra
i capelli. Rabbrividì al contatto con quella superficie ispida
e poco uniforme.
Aveva dimenticato che dei suoi capelli non si occupava
più il vecchio barbiere.
Gli piaceva andare settimanalmente in quel negozietto
che aveva mantenuto l’antico arredamento. L’attività era
passata di padre in figlio e, tranne l’insegna che era stata di
volta in volta aggiornata, l’interno era rimasto invariato. Le
sedie girevoli rivestite di finta pelle rossa con il poggiatesta e
il predellino regolabili, la poltrona per i bambini con il cavalluccio; gli specchi che occupavano tutta la parete. Le fotografie appese al muro che ritraevano i vari titolari in camice
bianco, di foggia diversa a seconda dei tempi – alla caviglia,
a tre quarti, allacciato sul davanti, sulla schiena –, sorridenti
e in posa davanti all’entrata e il tavolino con le riviste dell’anno precedente. Le chiacchierate tra una sforbiciata e l’altra.
Da qualche tempo al taglio dei capelli provvedeva invece
sua moglie.
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