Gli occhi delle colline

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Gli occhi delle colline
di Fabio Calabrese
Immaginatevi questa situazione: state viaggiando in macchina in una zona di
campagna poco popolata. La vostra automobile improvvisamente si ferma, e non
riuscite a farla ripartire. Dopo un poco, un’altra automobile si ferma poco distante da
voi, e ne scende un uomo che si dirige verso di voi.
A questo punto, la nostra scena può avere due possibili esiti divergenti:
Primo: l’uomo si offre di aiutarvi: se se ne intende di meccanica, proverà a dare
un’occhiata al motore, nel caso lui abbia un telefonino e voi no, chiamerà i soccorsi
per voi, magari si offrirà di rimorchiarvi. In questo caso potreste essere in Italia,
comunque in quello che ordinariamente si definisce un Paese civile.
Seconda possibilità: l’uomo (che in questo caso di solito è un figuro inquietante)
estrae da sotto il cappotto un’ascia, una motosega o un fucile (perlopiù a canne
mozze) e comincia a fare a pezzi la vostra macchina e poi cerca di fare a pezzi voi,
oppure vi spara (nel caso sia armato di fucile); in questo caso, avete un’alta
probabilità di trovarvi negli USA.
Noi sappiamo che oggi gli Stati Uniti d’America, soprattutto dopo il 1991, dopo il
crollo dell’Unione Sovietica, per sfortuna dell’umanità, sono l’unica superpotenza
rimasta, i dominatori quanto meno della parte “occidentale” di questo pianeta che
hanno il potere di condizionare la nostra esistenza in svariati modi, talvolta sottili,
talvolta grossolani. Capire la mentalità USA non risponde a una curiosità di tipo
accademico, significa comprendere quale direzione ha imboccato il nostro mondo, e
da che cosa dobbiamo guardarci.
In mancanza di un’esperienza di vita negli USA, e avendo avuto con gli yankee
contatti non frequentissimi, una via maestra per comprendere la loro mentalità, mi
pare sia rappresentata da un’attenta analisi di quel che ci racconta il sistema
mediatico “made in USA”, tenendo conto che esso da un lato ha un aspetto di
rispecchiamento di quelli che sono i comportamenti, la mentalità, la “cultura”
americana, dall’altro un aspetto normativo, nel senso che questi comportamenti
diventano dei modelli che gli spettatori del sistema mediatico finiscono per
interiorizzare. Quest’ultimo aspetto riguarda da vicino anche noi perché è proprio
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attraverso il sistema mediatico che gli Stati Uniti hanno portato e continuano a
portare avanti da settant’anni una lenta e progressiva americanizzazione della
cultura europea che in definitiva tende a coincidere con la distruzione della stessa e,
se ne siamo consapevoli, non possiamo accettare il fatto che una delle più elevate
culture della storia umana venga poco per volta sostituita da una serie di modi di
pensare e di agire rozzi, beceri, infantili.
Tutto questo io l’ho già spiegato in una serie di articoli, “Lugubri pagliacci”
pubblicato sul sito del Centro Studi La Runa, a cui avevano fatto seguito, apparsi su
“Ereticamente”, “Pagliacci lugubri e sanguinari” e “Pagliacciate sempre più lugubri”
cui ha fatto seguito “Political Correctness” dedicato alla visione politica yankee,
mentre i primi tre sono incentrati sui fenomeni di costume.
E’ come una miniera dove più si scava, più si trova, e adesso è forse il momento di
aggiungere qualche nuovo tassello al nostro puzzle.
Se per l’europeo medio la campagna rappresenta almeno nell’immaginario un
luogo idilliaco in cui cercare tranquillità e relax, per l’americano si direbbe che
l’ambiente rurale sia carico di minacce e di terrori, a considerare la produzione
mediatica, a cominciare da alcune dele pellicole più osannate della storia del cinema,
come “Un tranquillo week end di paura” di John Boorman del 1972 e “Le colline
hanno gli occhi” di Wes Craven del 1977, quest’ultimo in particolare oggetto di
diversi seguiti e rifacimenti. In entrambi la gente delle campagne viene presentata
come rozza, aggressiva, pericolosa, regredita a uno stato selvaggio, brutale, e o
stesso si può dire per svariate pellicole della serie “Halloween” ed episodi televisivi
di “X-Files” e “Supernatural”. In un informe e brutto “girato” che ebbe uno
straordinario successo, “The Blair Witch Project”, l’ambiente naturale stesso diventa
qualcosa di ossessivo e angoscioso, sottilmente repellente.
La cosa interessante è che il sistema mediatico USA non sembra avere nessuna
remora, nessun pudore a far conoscere al mondo intero gli aspetti peggiori degli
Stati Uniti stessi, ma questo non ci deve meravigliare. Per gli yankee tutto il resto del
pianeta è un’indistinta periferia degli Stati Uniti stessi, dimenticano volentieri che
esiste ancora un po’ di mondo a nord de Maine, a sud del Texas e oltre le rive degli
oceani Atlantico e Pacifico. Questo li spinge talvolta a soprassalti di eccessiva
sincerità. Ad esempio, in una recente pellicola sulla seconda guerra mondiale hanno
definito i loro combattenti “Bastardi senza gloria” e se noi consideriamo i
bombardamenti di massa contro obiettivi civili, gli assassinii e le torture di
prigionieri, gli stupri di donne e tutti gli episodi vergognosi che hanno costituito
l’altra faccia della “liberazione”, non abbiamo difficoltà a credergli.
Non è neppure il caso di pensare che la violenza così generosamente snocciolata
sugli schermi sia “soltanto fiction”: non bisogna mai sottovalutare il potere
condizionante del sistema mediatico: la sistematica esibizione di determinati
comportamenti finisce per indurre la loro riproduzione, l’associazione tra media e
violenza è estremamente chiara e ben evidenziata ad esempio dalla strage avvenuta
in occasione della prima de “Il cavaliere oscuro”.
La “cultura” yankee è posta per intero sotto il segno della violenza; ad esempio gli
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USA sono “cristiani” con un fondamentalismo che ricorda quello parallelo e
contrapposto dei Talebani e degli altri estremisti islamici, tuttavia è altrettanto noto
che la loro “religiosità” tiene sostanzialmente in non cale il Nuovo Testamento, ed è
sostanzialmente veterotestamentaria al punto che è piuttosto come un neo-giudaismo
che la si potrebbe definire.
L’Antico Testamento presenta, giustifica e “santifica” un’orgia di violenza contro
gli altri popoli con cui gli antichi Ebrei sono venuti a contatto, al punto che un
cattolico devoto come Maurizio Blondet è arrivato al punto da definire questa realtà,
imbarazzante per un credente, come “Un residuo dell’Età del Ferro”. Ebbene, io
credo che sia proprio questo aspetto violento dell’Antico Testamento ad attirare gli
yankee, come mezzo per giustificare e “santificare” LA LORO violenza, e prima di
tutto il fatto che la pseudo-nazione americana si fonda sul massacro, il genocidio dei
veri Americani nativi, i cosiddetti “pellirosse”.
Tuttavia, in questa immagine dell’abitante delle campagne come individuo brutale
regredito quasi a uno stato scimmiesco, c’è sicuramente qualcosa di più, un
pregiudizio che cercheremo di analizzare.
Credo sia stato Oswald Spengler il primo a far osservare, anche se l’osservazione
è stata poi ripresa da molti, che per gli agricoltori americani nessuno si sognerebbe
di usare il termine di “contadini”, termine troppo ricco di implicazioni che alla realtà
americana sono del tutto estranee: l’appartenenza a un ordine sociale sedimentato
attraverso un lunghissimo percorso storico, il senso delle tradizioni, il radicamento
nella terra, tutte quelle realtà che facevano del ceto contadino europeo la riserva di
forze pure e incorrotte, tutto ciò con cui il “farmer” americano, puro e semplice
operaio agricolo, così come tutti gli altri yankee non ha nulla a che fare.
Sicuramente si tratta di un ambiente molto chiuso e intessuto di pregiudizi
Tuttavia, in questa immagine irrisoria dell’agricoltore statunitense come bruto
degenerato, c’è probabilmente qualcosa di più e di diverso, un pregiudizio che è
verosimilmente RAZZIALE, perché la triste verità riguardo al razzismo, è che noi
siamo abituati a coglierlo immediatamente quando colpisce soggetti “di colore”,
magari a vederlo dove non c’è nel caso qualcuno si azzardi semplicemente a criticare
qualcun altro che per caso ha nella pelle una concentrazione di melanina più alta
della nostra, ma a non vederlo nemmeno nei casi più lampanti quando va a colpire
una popolazione bianca.
Un errore nel quale non dobbiamo cadere, è quello di pensare che la società
statunitense sia OMOGENEAMENTE multietnica, a spiegarci con molta efficacia che
le cose non stanno così, è stato Eugenio Benetazzo, un “sociologo fuori dagli schemi”
e decisamente controcorrente, dedito a quel tipo di analisi che solitamente i sociologi
ufficiali disdegnano e che sono precisamente quelle che possono farci comprendere
davvero il mondo in cui viviamo.
In un articolo pubblicato nel suo sito nel 2010, “Gheto capio?” (in veneto, “Hai
capito?”), Benetazzo ci ha dato un’immagine degli Stati Uniti inedita per molti di noi.
La composizione etnica degli USA non è quella che probabilmente immaginiamo.
“Secondo l’ultimo censimento la popolazione statunitense è costituita dal 60% di
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bianchi caucasici, il 15% da afroamericani, il 15 % ispanici, il 5% da orientali ed il
restante da una molteplicità di etnie. Presa in senso generalizzato questa è la
statistica media della popolazione americana. Tuttavia i 2/3 degli americani vive in
aree metropolitane od urbane con più di 100.000 abitanti: l’intera economia
statunitense è radicate e sviluppata nelle grandi aree metropolitane. Ma nelle aree
metropolitane non abbiamo questa ripartizione”.
La situazione delle aree metropolitane è riportata in una tabella dalla quale vi
stralcio qualche dato: a New York la popolazione caucasica di origine europea
costituisce il 35%, a fronte di un 25% di neri, un 20% di “ispanici” (definizione
estremamente inappropriata, che tiene conto della lingua e non delle caratteristiche
antropologiche, per indicare gli immigrati dall’America meridionale che perlopiù di
spagnolo non hanno nulla) e un 10% di asiatici. A Chicago e Dallas i caucasici sono il
30%, a Houston il 28%, a Los Angeles il 20%, a Miami il 15% e a Detroit appena il
12% (Il dato di Detroit si spiega in parte con il fatto che è la “città dell’automobile”, e
le industrie preferiscono assumere operai non caucasici, ritenuti più malleabili dal
punto di vista sindacale).
Un terzo circa degli Americani, vive invece in piccole comunità rurali
relativamente isolate, che non hanno alcun peso né economico, né politico, né
culturale.
“Se invece andate a visitare i paesini rurali in cui vive il restante 1/3 degli
americani scoprirete con grande sorpresa che la popolazione è costituita al 98% da
bianchi caucasici (ad esempio Springfiled in Nebraska rappresenta una insignificante
nucleo cittadino con appena 1500 abitanti, il 99% dei quali sono bianchi caucasici).
Sono i nuclei di insediamento nelle aree rurali che alzano abbondantemente la
percentuale dei bianchi per tutta la popolazione, tuttavia queste piccolissime
comunità vivono di una economia stanziale caratterizzata da relazioni commerciali
quasi rarefatte: difficilmente vi troverete la sede di una grande corporation o il jet
market di una famosa catena alimentare”.
Occorre dire che i dati dell’ultimo censimento citato da Benetazzo si riferiscono a
dieci anni prima, quindi al 2000, dato che l’articolo è del 2010. Nel frattempo
abbiamo tutti i motivi di pensare che l’ago della bilancia demografica si sia spostato
nettamente a sfavore della popolazione caucasica; inoltre già allora, in riferimento a
tredici anni fa, il censimento non teneva conto della folta presenza di “ispanici”
clandestini soprattutto nella parte meridionale degli Stati Uniti.
Bisogna rilevare che quando delle comunità caucasiche si trovano a dover
convivere senza nessuna forma di protezione, di difesa della propria identità, di
consapevolezza della necessità di questa difesa, con comunità non caucasiche ormai
maggioritarie, sono esposte a un sottile avvelenamento culturale che preme per
un’integrazione che nei fatti significa il disprezzo per tutto ciò che è “bianco”, si
verifica una vera e propria de-europeizzazione culturale. Prendiamo un esempio solo
apparentemente innocuo: l’usanza dei giovani yankee di portare il caratteristico
berrettino da baseball con il frontino girato sulla nuca; sapete da cosa deriva?
Dall’usanza dei mussulmani neri e dei rapper, che discende dal fatto che l’islam
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proibisce di coprirsi la fronte.
Il discorso sulla “musica” (o meglio cacofonia d’impronta chiaramente negroide)
rap non può essere evitato in questo contesto: che i rapper neri vomitino nei loro
testi insulti, odio, minacce di morte, inviti alla violenza contro i “bianchi”, non viene
percepito come razzismo, perché siamo stati preventivamente abituati a considerare
il razzismo come colpa esclusivamente “bianca”, e i giovani “bianchi”
masochisticamente si adeguano.
Un capitolo a parte, ed è un approfondimento che prima o poi converrà fare, è la
diffusione dell’islam nell’America sia settentrionale sia meridionale, che oggi si sta
espandendo a macchia d’olio e a una velocità esplosiva. E’ certamente anche questo
un sintomo della sempre più accentuata de-europeizzazione delle Americhe.
Per quanto riguarda l’Europa, oggi tutto il Vecchio Continente deve fare i conti
col problema dell’immigrazione allogena che sta assumendo proporzioni sempre più
drammatiche, ma non si può non notare come in Gran Bretagna in particolare questo
fenomeno ha innescato dinamiche molto simili o identiche a quelle della società
americana: l’insediamento nelle città degli allogeni provoca la fuga degli Inglesi
nativi verso i sobborghi e la campagna. In venti anni Londra ha perso 600.000 inglesi
nativi a fronte di un aumento complessivo di un milione di abitanti, il che significa
che nell’area metropolitana londinese si è insediata una “città” allogena delle
dimensioni di Roma.
Un tempo la Gran Bretagna era la madrepatria da cui si sono staccate le colonie
che hanno dato vita agli Stati Uniti; oggi i rapporti si sono ribaltati, ed essa è
semplicemente un’appendice degli USA posta davanti al nostro continente. Molto
appropriatamente Gianantonio Valli e Silvano Lorenzoni parlano di Angloamerica o
Puritania, ma già George Orwell era stato profetico parlando di Oceania. “L’oceano”
a cui faceva riferimento non era, ovviamente, il Pacifico ma l’Atlantico.
Ora siamo in grado di capire meglio questo disprezzo yankee verso “i
campagnoli”, non si tratta della semplice rivalità fra città e campagna, ma di
razzismo, una forma specifica di razzismo che va oltre quello “normalmente”
espresso dai colorati verso i bianchi, e sopportato dai bianchi che credono di poter
essere i soli a incorrere nella colpa razzista, con masochistica pazienza, una forma
inedita e paradossale di razzismo che si può definire RAZZISMO MULTIETNICO, una
sorta di convinzione dichiarata solo a metà o sottintesa, che il convivere, lo sposarsi,
avere figli con persone della propria etnia o razza sia qualcosa di simile all’incesto, la
presunzione della bontà e della naturalità del meticciato, per cui “i campagnoli”
bianchi che si sposano e fanno figli con altri bianchi non possono essere che dei
degenerati, e la stessa cosa deve valere per gli Europei, visto che vogliono imporci il
meticciato “per il nostro bene”.
Si tratta ovviamente di una falsità ridicola: i popoli europei sono andati avanti per
millenni e hanno costituito le forme di civiltà più alte di questo pianeta senza
mostrare alcun segno di degenerazione, mantenendo la loro identità etnica e
genetica, ma a un “popolo” rincretinito da decenni dal sistema mediatico si può far
credere quello che si vuole purché lo si ripeta abbastanza a lungo e con sufficiente
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frequenza.
In un mio precedente articolo dallo stesso titolo, avevo definito “razzismo rosso”
quello basato sul disprezzo di chi ha un’identità etnica, ha genitori della stessa
nazionalità, vive nel luogo dove è nato , eccetera, è un subumano non inserito nel
mondo multirazziale e globalizzato che vogliono imporci. In parte, mi devo
correggere: per nutrire questo tipo di razzismo non è necessario essere “rossi” cioè
marxisti, si può essere ugualmente bene essere “liberal” e “democrat”, basta che si
sia di sinistra.
Essere orgogliosi della propria identità e volerla preservare, è considerato
legittimo e doveroso per gli appartenenti a qualsiasi popolazione “colorata”, ma se
dei “bianchi” hanno il medesimo proposito, allora si tratta di razzismo anche se non
abbiamo intenzione di offendere, discriminare, umiliare l’etnia di nessun altro.
E’ una trappola nella quale non siamo più disposti a cadere: noi vogliamo
preservare un futuro per i nostri figli e i figli dei nostri figli. “Le colline hanno gli
occhi”, ma noi abbiamo occhi, cuore e cervello.
Fabio Calabrese
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