cliccando qui - Riccardo Lattanzi
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TITOLO Nei primi mesi dopo l’incidente, Hugh Herr aveva un sogno ricorrente. Gli ricordava una scena dal libro “Lo Hobbit” di J.R.R. Tolkien, dove Bilbo, perdutosi nella foresta, si arrampica in cima ad un albero per ritrovare l’orientamento e rimane completamente inebriato dal vento freddo, che gli soffia in faccia per la prima volta dopo giorni. Nel suo sogno, Hugh sentiva l’aria fresca avvolgergli il volto ed insinuarglisi tra i capelli, proprio come il protagonista del libro. Solo che la sua sensazione non era dovuta al soffiare del vento, ma a qualcosa che da sveglio non poteva più fare: correre. Con le sue gambe. Sono passati tanti anni ed oggi Hugh Herr quel sogno non lo fa più. Seduto davanti alla sua scrivania al Massachusetts Institute of Technology (M.I.T.) ci sono però giorni in cui torna indietro col pensiero e si domanda se quel sogno in realtà non fosse che una premonizione, l’anticipazione di un futuro che, grazie alle sue ricerche, è sempre più vicino. A 43 anni, Hugh Herr è considerato uno dei massimi esperti al mondo nel campo delle protesi per arti inferiori. Il suo primo brevetto lo registrò che ancora frequentava il college. Insieme ad un ingegnere, progettò una protesi con dei cuscinetti deformabili che fungevano da ammortizzatori nella zona di contatto con il moncone, gonfiandosi e sgonfiandosi a seconda del tipo di movimento e del corrispondente carico meccanico. Si rivelò un’invenzione molto utile, perché, alla fine degli anni ’80, le protesi erano pensate più per sopperire ad esigenze estetiche, che per ripristinare le funzionalità motorie e spesso la loro rigidità causava dolori insopportabili durante la deambulazione. Questo primo successo fu il suo biglietto d’ingresso al M.I.T., dove nei due anni successivi lavorò ad un’evoluzione della sua idea, che prevedeva l’inserimento di un mini computer nella parte prossimale della protesi, per regolare il sistema di ammortizzatori in base alla pressione nel punto di giunzione. Da allora è stato un susseguirsi di brevetti e scoperte scientifiche. Eppure, solo pochi anni prima, nessuno avrebbe pensato ad una carriera accademica per Hugh Herr. Neppure lui. Ultimogenito di un costruttore edile, Hugh Miller Herr è cresciuto in una fattoria di Lancaster, in Pennsylvania, con due fratelli e due sorelle. In una regione popolata da una delle più grandi comunità Amish, la confessione religiosa che rifiuta la modernità e vive ai confini della civilizzazione, l’agricoltura e l’artigianato erano nel destino della maggiorparte dei ragazzi. Aspettando di vedere quale dei due gli sarebbe toccato, i giovani fratelli Herr dedicavano gran parte del tempo alla loro passione: l’arrampicata libera, o free climbing. Quasi ogni fine settimana partivano in macchina per andare a scalare nuove pareti rocciose, sempre più lontano, fino al confine col Canada. D’Estate, approfittando delle vacanze, organizzavano lunghi viaggi in giro per gli Stati Uniti per affrontare i più famosi percorsi per rocciatori, dalle falesie del Colorado a quelle del parco nazionale dello Yosemite, in California. A quell’epoca, il free climbing era ancora uno sport per pochi appassionati e ben presto i tre fratelli diventarono famosi nell’ambiente degli scalatori. Hugh, in particolare, dimostrava capacità tecniche ed una forza fisica sopra la media, tanto che a soli diciassette anni era considerato il miglior rocciatore della costa Est. Curava attentamente ogni dettaglio prima di un’arrampicata ed era così ossessionato dalla ricerca della perfezione, da ritenersi infallibile. Ma non lo era. Nel Gennaio del 1982, lui e un suo amico guidarono fino al New Hampshire per un’escursione sul monte Washington. Arrivarono al rifugio che era notte fonda, andarono subito a letto e la mattina dopo furono i primi ad uscire. Era prevista una bufera per il pomeriggio, ma la scalata che avevano in programma era lungo un versante sicuro e richiedeva poche ore, quindi decisero di partire lo stesso. ‹‹Lo sbaglio fu voler continuare per raggiungere la vetta del monte, senza bussola e senza sacchi a pelo››, ricorda Hugh, ‹‹non si trattò di spavalderia o inesperienza, fu un errore di valutazione››. Quando furono ritrovati quattro giorni dopo da una squadra di soccorso, Hugh aveva i piedi congelati e dovettero amputargli entrambe le gambe pochi centimetri sotto il ginocchio. Non avrebbe più potuto scalare; così almeno gli dissero i medici. Qualche tempo dopo ricevette il suo primo paio di protesi ed iniziò la riabilitazione. ‹‹Rimasi sorpreso da quanto dolorose e rigide fossero››, racconta, ‹‹sarebbe bastato tanto poco per migliorarle››. La necessità, si sa, è la madre di tutte le invenzioni e non ha fatto certo eccezione nel caso di Hugh Herr. ‹‹Avevo imparato a scuola a costruire dispositivi meccanici, così mi sono messo ai macchinari e ho cominciato a darmi da fare››. Appena poté camminare, iniziò a frequentare assiduamente un’officina protesica e a costruirsi prototipi di piedi artificiali per ricominciare ad arrampicarsi. In pochi mesi era di nuovo in grado di scalare ai massimi livelli e aveva protesi per ogni tipo di superficie. ‹‹Usavo piedi piccolissimi per far leva su spuntoni rocciosi grandi quanto una moneta, ma potevo anche aumentare la lunghezza degli arti per arrivare con le mani a degli appoggi molto in alto. Chi ha detto che le gambe artificiali devono assomigliare a quelle vere?››, scherza Herr, che oggi è professore associato di Health Sciences and Technology al M.I.T. e si occupa proprio di protesi biomimetiche, che mirano a riprodurre fedelmente non solo la funzione, ma anche il peso e la forma dell’arto perduto. Dal suo arrivo a Cambridge, la cittadina del Massachusetts che fronteggia Boston dall’altra sponda del fiume Charles, la carriera di Hugh Herr è proseguita in quei pochi chilometri quadrati che racchiudono il campus del M.I.T., di Harvard e della Boston University, rappresentando una delle più alte concentrazioni di intelligenza al mondo. ‹‹Il M.I.T. è diverso››, spiega Herr, che ha studiato e lavorato spostandosi tra queste università. ‹‹Gli altri istituti pretendono che lavori duramente per raggiungere standard d’eccellenza; al M.I.T. vogliono di più, si aspettano che tu sia creativo››. Una qualità che di certo non manca al gruppo di biomecatronica, il team di ricerca da lui diretto e che, con un personale che varia tra i 15 e i 20 addetti, è il più grande del Media Lab, la fucina del M.I.T. per le tecnologie del futuro. La biomecatronica è la disciplina che studia l’integrazione di componenti biologiche con dispositivi artificiali e nel caso del professor Herr lo scopo è quello di ‹‹sviluppare sistemi robotici per la riabilitazione e per l’amplificazione delle funzioni motorie umane››. Lui e i suoi collaboratori, il cui interesse principale è la biomeccanica degli arti inferiori e dell’equilibrio umano, hanno già all’attivo diverse invenzioni. La più recente, la prima protesi di caviglia robotica, sarà commercializzata entro la fine del 2009 da i-Walk, una giovane società di cui Herr è cofondatore e responsabile scientifico. Le protesi di caviglia attualmente in commercio funzionano in modo passivo, non hanno generatori di potenza, ma usano sistemi di molle per immagazzinare energia in certe fasi del cammino e poi restituirla in altre. E’ stato recentemente dimostrato che la caviglia umana è invece attiva ed esegue un lavoro netto positivo, con un picco di potenza nell’atto di spinta col piede posteriore che è il più alto tra tutte le articolazioni del corpo umano. ‹‹Più forte spinge il piede dietro, più morbido diventa l’appoggio a terra del piede davanti. E’ una delle tante meraviglie del corpo umano››. Le protesi passive non ci riescono, perché non possono regolare la potenza, quindi l’impatto del piede anteriore è più violento, col risultato che il 70% dei mutilati con amputazioni sotto il ginocchio accusano problemi alla schiena. Non solo, il loro consumo metabolico è più alto in media del 30%, perché cercano di compensare il meccanismo perduto usando i muscoli del bacino e del ginocchio. L’andatura bipede dell’uomo si basa su uno scambio continuo di energia potenziale, elastica e cinetica, che è organizzato in modo che i muscoli non lavorino troppo. ‹‹Nella nostra protesi cerchiamo di riprodurre questo ciclo energetico, usando molle per modellare la componente elastica dei tendini, ma aggiungendo anche un complicato sistema di attuatori, con dei motori elettrici che svolgono il ruolo dei muscoli››. Due microprocessori regolano il funzionamento della caviglia a seconda del tipo di andatura, lasciandola in modalità quasi passiva quando si cammina piano ed aumentando la potenza quando ad esempio si affronta un dislivello o si accelera. ‹‹In realtà, la nostra caviglia robotica non sa quanto velocemente l’amputato cammina, o se sta andando in salita piuttosto che in discesa; si limita ad ascoltare un sofisticato sistema di misura inerziale, originalmente progettato per i missili, che fornisce in tempo reale ai processori la posizione assoluta dell’articolazione, consentendogli di adattarsi rapidamente ad ogni cambio di pendenza o velocità››. Questo meccanismo permette un controllo efficiente del consumo energetico e l’utilizzo di una batteria molto piccola, che rimane nascosta all’interno della protesi, senza appesantirla. ‹‹L’autonomia prevista è di cinquemila passi, corrispondente al valore medio giornaliero per un adulto; quindi ogni sera la protesi dovrà essere messa in carica, come una qualsiasi apparecchiatura elettronica››. La caviglia robotica segue di qualche anno l’invenzione del primo ginocchio artificialmente intelligente, il Rheo Knee, che nel 2005 ha fatto vincere a Hugh Herr il “Breakthrough Leadership Award”, assegnatogli dalla famosa rivista americana Popular Mechanics per il suo ruolo di innovatore nella scienza e nella tecnologia. Si tratta di una protesi di ginocchio capace di apprendere e di adattarsi ai movimenti della persona che la utilizza. Il microprocessore riceve misure di pressione e deformazione da un insieme di sensori e risponde variando la resistenza del ginocchio, e di conseguenza la cinematica del cammino, fino a mille volte al secondo. L’elemento chiave nel Rheo Knee è l’attuatore a fluido magnetoreologico, un liquido che reagisce alla presenza di campi magnetici modificando istantaneamente la propria viscosità. Un elettromagnete inserito nella protesi permette di regolare l’intensità del campo magnetico e quindi la consistenza del fluido, per controllare la resistenza meccanica del ginocchio ed ottenere una camminata più naturale e stabile. Hugh Herr non ama però parlare dei progetti conclusi. I suoi studenti raccontano che è solito dedicarsi instancabilmente ad ogni nuova idea, per poi annoiarsi e lasciare i dettagli ai collaboratori, subito dopo aver trovato il modo di realizzarla. Lui stesso si definisce un risolutore cronico di problemi e ammette ‹‹se c’è una difficoltà che blocca un progetto, ci penso 24 ore al giorno per 7 giorni alla settimana finchè non trovo la soluzione. Il problema è che di solito ho 10 progetti su cui mi alterno, quindi va a finire che ho la testa sempre impegnata!›› Il segreto è nella sua incredibile capacità di concentrarsi, una dote sviluppata da ragazzo. Nella sua biografia (cfr. Second Ascent: The Story of Hugh Herr) si legge di un Herr appena adolescente che nei giorni precedenti un’arrampicata ripassa mentalmente la posizione dei vari appigli e la sequenza di movimenti che dovrà eseguire per arrivare in cima alla parete rocciosa. Quando arrivava finalmente il momento, questa specie di allenamento virtuale gli permetteva di concentrarsi interamente sul suo corpo, scacciando ogni altro pensiero, inclusa la paura di cadere. Era come se la sua mente svanisse per lasciarlo solo con i suoi muscoli ed i sui tendini: anche per questa particolare intimità, per qualche tempo fu duro rassegnarsi a non avere più le gambe. Poi un giorno, mentre lavorava alle sue protesi, capì che ‹‹non è vero che è qualcosa da accettare e con cui bisogna convivere. Le infermità fisiche possono essere superate attraverso soluzioni tecniche. In futuro la tecnologia sarà abbastanza avanzata che la parola disabile scomparirà, perché la verità è che oggi non è l’uomo, ma la tecnologia ad essere disabile››. Queste riflessioni lo spinsero ad iscriversi all’università, dove si accorse che poteva applicare con successo la sua concentrazione anche ai principi della fisica e della matematica. Come quando scalava era solo corpo, adesso che studiava riusciva a diventare solo mente. Mente e corpo, però, non sono fatti per essere separati. Quando succede, per tante persone è una disgrazia, un male con cui convivere tutta la vita. Sono anni che scienza e medicina cercano inutilmente il modo di riparare la spina dorsale per restituire il corpo ai paraplegici, ma, grazie alla risonanza magnetica funzionale, che permette di associare pensieri ed azioni alle specifiche regioni del cervello in cui hanno origine, una soluzione alternativa potrebbe forse arrivare dalla tecnologia. L’idea è di creare dei bypass elettronici per la spina dorsale danneggiata, in modo da trasmettere i comandi direttamente dal cervello agli arti paralizzati. Un pò come nei casi d’ischemia cardiaca, dove il chirurgo cuce nuovi vasi sanguigni all’aorta per aggirare i segmenti otturati delle coronarie. Un articolo apparso su Nature nell’Ottobre del 2008 riporta l’esperimento di alcuni ricercatori dell’università di Washington che, usando degli elettrodi inseriti nella corteccia motoria di alcuni macachi, hanno registrato l’attività cerebrale dei neuroni addetti al controllo della muscolatura volontaria e l’hanno tradotta in impulsi elettrici per riattivare muscoli temporaneamente paralizzati nelle braccia delle scimmie. Sebbene restino ancora molte incognite da risolvere prima che qualcosa di simile venga applicato clinicamente, si tratta di un campo di ricerca molto attivo e già le prossime generazioni di protesi potrebbero avere un’interfaccia per comunicare col sistema nervoso. Da un paio d’anni, Hugh Herr collabora con ricercatori alla Northwestern University di Chicago, per rendere la sua protesi robotica di piede e caviglia un pò più umana. Normalmente chi indossa la protesi fa affidamento solo sulla propria vista per capire dove sta mettendo i piedi, se è su un prato, o se è finito in una pozzanghera. ‹‹Stiamo lavorando per inserire un neuro-controllo in modo che chi indossa la protesi possa non solo vedere, ma anche sentire il terreno sul quale cammina››. Questo meccanismo di feed-back lavorerà in parallelo al sistema che misura la posizione assoluta della caviglia, per consentire un adattamento più rapido e naturale durante il moto. L’altra novità riguarda proprio l’esecuzione di queste regolazioni on the fly, che sarà controllata volontariamente dal paziente attraverso le terminazioni nervose della gamba. Parte del lavoro tornerà quindi ad essere gestito dalla muscolatura residua del paziente, con vantaggi enormi in termini di efficienza ed efficacia. La bioingegneria, infatti, non ha ancora inventato un sistema che riproduca fedelmente le doti dinamiche, contrattili e plastiche dei muscoli umani. Se paragoniamo la sua funzione a quella di un motore, scopriamo che un muscolo produce 1000 Joule di lavoro per ogni grammo di glucosio, usando una fonte di energia rinnovabile come carburante e scaricando sostanze non inquinanti nell’ambiente. In aggiunta, non fa rumore, può ripararsi da solo quando è danneggiato e può cambiare forma e dimensioni in seguito ad un aumento della domanda esterna di potenza. Dove lo trovi un altro motore con queste qualità? Qualcosa di simile esiste. I ricercatori del laboratorio NASA per lo sviluppo avanzato di attuatori hanno costruito protesi sperimentali usando muscoli artificiali fatti di speciali fibre di polimero, ma, benché forti e silenziosi come gli equivalenti umani, alla fine questi muscoli si sono rilevati troppo poco robusti per costituire una valida alternativa ai motori elettrici. Perché non usare muscoli veri? La risposta più breve è che bisogna alimentarli e non è facile come usare una batteria. In linea di principio, però, si potrebbe fare. Lo hanno dimostrato qualche anno fa Hugh Herr e Robert Dennis, oggi professore alla University of North Carolina, costruendo un pesce robotico che nuotava grazie al muscolo di una rana. Il concetto di base è nulla di più di quello che scoprì Galvani nel diciottesimo secolo, cioè che il muscolo della rana si contrae in risposta ad impulsi elettrici. La novità è stata quella di attaccare il muscolo ad un dispositivo artificiale e farlo funzionare come una pinna, usando degli elettrodi controllati da un microprocessore. Il pesce ibrido ha nuotato per 42 ore in una vaschetta di acqua e zucchero, da cui estraeva il nutrimento, poi è “morto”. E’ stato un esperimento importante e ha fatto arrivare un grosso finanziamento dall’agenzia del Pentagono per i progetti avanzati di difesa (DARPA), che vuole scoprire se un giorno sarà possibile utilizzare muscoli viventi come attuatori robotici, pensando ovviamente ad applicazioni militari. Da allora, Dennis è riuscito a generare nel suo laboratorio tessuti muscolari che sopravvivono per diversi mesi in-vitro, ma resta ancora da capire come tenerli vivi una volta collegati a dispositivi robotici. Nel frattempo, Hugh Herr ha avuto un’altra idea per accelerare la fusione tra corpo e macchina. ‹‹Non esiste una singola tecnologia che riesce a far meglio del corpo umano in tutte le sue funzioni››, spiega; ‹‹nel caso di compiti specifici, succede invece continuamente e non ci facciamo neanche più caso. Pensiamo alla bicicletta, che, a parità di energia spesa dalle gambe, ci fa muovere più velocemente in orizzontale, o al trampolino, che ci permette di saltare più in alto. Quello che diventa davvero imbattibile è allora l’unione tra uomo e tecnologia››. Proprio questo è l’obiettivo delle gambe meccaniche che il gruppo di biomecatronica sta progettando. Gli esoscheletri finora realizzati hanno avuto come scopo principale quello di aumentare la capacità per chi li indossa di trasportare carichi molto pesanti. Al contrario, le gambe che ha in mente Herr ‹‹non trasporteranno dei carichi al posto delle persone, ma trasporteranno le persone, attraverso un’imbracatura fissata al bacino››. Sarà un esoscheletro agile, capace di muoversi con la naturalezza delle gambe umane, e per questo l’applicazione più immediata sarà in ambito riabilitativo, per aiutare pazienti con problemi muscolari a camminare. In futuro potrebbero però aprirsi nuovi scenari. ‹‹Stiamo parlando di una struttura esterna al corpo, che una volta indossata permette di aumentare la resistenza aerobica nel correre e nel camminare. Qualcosa di utile a chiunque, un nuovo mezzo di trasporto››. La chiave risiede nel sistema di molle e componenti idrauliche, che è studiato in modo da imitare il funzionamento delle gambe umane, per minimizzare il consumo energetico. I dettagli sono ancora segreti, ma Hugh confessa che è questo il progetto a cui sta dedicando granparte del suo tempo e già immagina che ‹‹tra vent’anni le persone non gireranno più in bicicletta, ma si sposteranno usando gambe meccaniche››. Forse non sarà proprio così, ma è molto probabile che nei prossimi decenni la tecnologia porterà le nostre capacità oltre i limiti del corpo umano. C’è chi è convinto che ciò sia già possibile, come il professor Gert-Peter Brüggemann, dell’istituto di biomeccanica dell’università di Colonia. Alla fine del 2007, dopo una ricerca durata appena due giorni, lo scienziato tedesco ha dichiarato che le protesi “ghepardo”, un modello di gambe artificiali in fibra di carbonio per amputazioni sotto il ginocchio, consentono di correre risparmiando il 25% di energia. Lo studio era stato commissionato dalla federazione internazionale di atletica, che ha usato i risultati per dimostrare il vantaggio competitivo di Oscar Pistorius, il corridore sudafricano amputato bilaterale, decidendo di squalificarlo a vita dalle competizioni per atleti abili. La storia di Pistorius ha fatto il giro del mondo ed è arrivata anche alle orecchie di Hugh Herr, che ha fatto fatica a digerirla, ritrovandoci gli stessi pregiudizi che aveva subito quando aveva ricominciato ad arrampicarsi dopo l’incidente. ‹‹E’ la solita storia. Se un disabile decide di gareggiare contro atleti abili, lo chiamano coraggioso. Appena inizia ad essere competitivo viene accusato di barare››. Nominato perito dai legali di Pistorius, Hugh Herr ha riunito una commissione di esperti, insieme ai quali ha effettuato una serie di misurazioni che hanno rovesciato le conclusioni del professor Brüggemann, costringendo la federazione di atletica ad annullare la squalifica. Quei risultati lo avevano subito sorpreso, perché ‹‹non è stata ancora inventata una protesi che riduce i requisiti energetici per camminare o correre›› e secondo lui il vero problema è stato la mancanza di accettazione da parte della gente per un corpo dotato di una componente artificiale. ‹‹Non stiamo parlando di scarpe speciali per correre più velocemente. Queste sono le sue gambe, senza di esse Oscar [Pistorius] può solo andare a carponi. Perché è così difficile credere che sia semplicemente un buon atleta?››. Nel caso di Pistorius, che è nato senza peroni e ha subito l’amputazione di entrambe le gambe ad undici mesi, è impossibile stabilirlo con certezza. In fin dei conti, non avrebbe neanche tanto senso domandarselo. Se mettiamo sullo stesso piano la genetica e la tecnologia, potremmo infatti argomentare che la prima rende lo sport molto più sleale di quanto non faccia la seconda. Dovremmo forse penalizzare Yao Ming, perché dall’alto dei suoi 2,29 metri ha un vantaggio competitivo nei confronti dei giocatori di basket più bassi? Ad avventurarsi in questi ragionamenti si rischia di rimanere intrappolati in un circolo vizioso, ma la chiave per uscirne, scommette Hugh Herr, arriverà proprio dall’unione tra genetica e tecnologia. In gergo si chiamano biohybrids e sono un’evoluzione estrema delle protesi, in cui le componenti meccaniche si mescolano a quelle biologiche. Dal 2005, il gruppo di biomecatronica di Herr collabora con ricercatori della Brown University per realizzare gambe artificiali che ‹‹invece di avere un componente maschio che si aggancia ad un componente femmina, saranno attaccate direttamente alle ossa residue››. L’idea è di far crescere le cellule delle ossa, della pelle e dei muscoli attorno al metallo, in modo da creare un sigillo perfetto. Il progetto, finanziato con 7,2 milioni di dollari dal dipartimento per gli affari dei veterani degli Stati Uniti, prevede anche l’impianto di neurosensori, per permettere all’amputato di muovere le protesi col pensiero. Il problema più grande resta quello del rischio di infezione, dovuto all’avere un oggetto estraneo contemporaneamente dentro e fuori il corpo umano. Una volta risolto, la convivenza tra tessuti vivi e materiale sintetico potrebbe raggiungere un nuovo livello di intimità meccanica. ‹‹Grazie all’ingegneria dei tessuti, un giorno saremo in grado di sostituire alcune parti della protesi con componenti biologiche››, sostiene Herr. ‹‹Per ogni pezzo, ci dovremo chiedere se sia meglio usare metallo, materiale composito, o tessuto umano››. Quest’ultimo potrebbe essere generato in laboratorio a partire dalle cellule staminali del paziente, per avere protesi totalmente biocompatibili e personalizzate. A quel punto, si potrebbe anche pensare di realizzare l’intera protesi usando materiale biologico, ma ‹‹non sarebbe una soluzione ottimale››, avverte Herr. ‹‹Penso invece che finiremo con l’avere degli individui ibridi, che per certi versi saranno migliori dei normali esseri umani››. Per chi è nato negli anni ’70 il paragone col telefilm “l’uomo da 6 milioni di dollari” viene spontaneo, ma secondo Herr è difficile che le generazioni attuali arrivino a conoscere un uomo bionico con quel tipo di prestazioni. ‹‹Anche se la tecnologia oggigiorno progredisce più rapidamente dell’immaginazione degli scrittori, quella resta fantascienza. Credo che sarebbe già un gran risultato se entro 40 anni riuscissimo a costruire gambe artificiali indistinguibili da quelle umane››. Se questa previsione si realizzasse, non esisterebbero più casi come quello di Pistorius e potremmo finalmente cancellare la parola “disabile” dal nostro vocabolario. Nel frattempo, non ci resta che tenere d’occhio Hugh Herr, aspettando di vederlo correre nel vento con un paio di gambe nuove. Quel giorno sapremo che il suo sogno di tanti anni fa era soltanto un déjà vu. Riccardo Lattanzi