cliccando qui - Riccardo Lattanzi

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TITOLO
Nei primi mesi dopo l’incidente, Hugh Herr aveva un sogno ricorrente. Gli
ricordava una scena dal libro “Lo Hobbit” di J.R.R. Tolkien, dove Bilbo,
perdutosi nella foresta, si arrampica in cima ad un albero per ritrovare
l’orientamento e rimane completamente inebriato dal vento freddo, che gli
soffia in faccia per la prima volta dopo giorni. Nel suo sogno, Hugh sentiva
l’aria fresca avvolgergli il volto ed insinuarglisi tra i capelli, proprio come
il protagonista del libro. Solo che la sua sensazione non era dovuta al
soffiare del vento, ma a qualcosa che da sveglio non poteva più fare:
correre. Con le sue gambe.
Sono passati tanti anni ed oggi Hugh Herr quel sogno non lo fa più. Seduto
davanti alla sua scrivania al Massachusetts Institute of Technology (M.I.T.)
ci sono però giorni in cui torna indietro col pensiero e si domanda se quel
sogno in realtà non fosse che una premonizione, l’anticipazione di un
futuro che, grazie alle sue ricerche, è sempre più vicino.
A 43 anni, Hugh Herr è considerato uno dei massimi esperti al mondo nel
campo delle protesi per arti inferiori. Il suo primo brevetto lo registrò che
ancora frequentava il college. Insieme ad un ingegnere, progettò una
protesi con dei cuscinetti deformabili che fungevano da ammortizzatori
nella zona di contatto con il moncone, gonfiandosi e sgonfiandosi a
seconda del tipo di movimento e del corrispondente carico meccanico. Si
rivelò un’invenzione molto utile, perché, alla fine degli anni ’80, le protesi
erano pensate più per sopperire ad esigenze estetiche, che per ripristinare le
funzionalità motorie e spesso la loro rigidità causava dolori insopportabili
durante la deambulazione. Questo primo successo fu il suo biglietto
d’ingresso al M.I.T., dove nei due anni successivi lavorò ad un’evoluzione
della sua idea, che prevedeva l’inserimento di un mini computer nella parte
prossimale della protesi, per regolare il sistema di ammortizzatori in base
alla pressione nel punto di giunzione. Da allora è stato un susseguirsi di
brevetti e scoperte scientifiche. Eppure, solo pochi anni prima, nessuno
avrebbe pensato ad una carriera accademica per Hugh Herr. Neppure lui.
Ultimogenito di un costruttore edile, Hugh Miller Herr è cresciuto in una
fattoria di Lancaster, in Pennsylvania, con due fratelli e due sorelle. In una
regione popolata da una delle più grandi comunità Amish, la confessione
religiosa che rifiuta la modernità e vive ai confini della civilizzazione,
l’agricoltura e l’artigianato erano nel destino della maggiorparte dei
ragazzi. Aspettando di vedere quale dei due gli sarebbe toccato, i giovani
fratelli Herr dedicavano gran parte del tempo alla loro passione:
l’arrampicata libera, o free climbing. Quasi ogni fine settimana partivano in
macchina per andare a scalare nuove pareti rocciose, sempre più lontano,
fino al confine col Canada. D’Estate, approfittando delle vacanze,
organizzavano lunghi viaggi in giro per gli Stati Uniti per affrontare i più
famosi percorsi per rocciatori, dalle falesie del Colorado a quelle del parco
nazionale dello Yosemite, in California. A quell’epoca, il free climbing era
ancora uno sport per pochi appassionati e ben presto i tre fratelli
diventarono famosi nell’ambiente degli scalatori. Hugh, in particolare,
dimostrava capacità tecniche ed una forza fisica sopra la media, tanto che a
soli diciassette anni era considerato il miglior rocciatore della costa Est.
Curava attentamente ogni dettaglio prima di un’arrampicata ed era così
ossessionato dalla ricerca della perfezione, da ritenersi infallibile. Ma non
lo era.
Nel Gennaio del 1982, lui e un suo amico guidarono fino al New
Hampshire per un’escursione sul monte Washington. Arrivarono al rifugio
che era notte fonda, andarono subito a letto e la mattina dopo furono i primi
ad uscire. Era prevista una bufera per il pomeriggio, ma la scalata che
avevano in programma era lungo un versante sicuro e richiedeva poche ore,
quindi decisero di partire lo stesso. ‹‹Lo sbaglio fu voler continuare per
raggiungere la vetta del monte, senza bussola e senza sacchi a pelo››,
ricorda Hugh, ‹‹non si trattò di spavalderia o inesperienza, fu un errore di
valutazione››. Quando furono ritrovati quattro giorni dopo da una squadra
di soccorso, Hugh aveva i piedi congelati e dovettero amputargli entrambe
le gambe pochi centimetri sotto il ginocchio. Non avrebbe più potuto
scalare; così almeno gli dissero i medici.
Qualche tempo dopo ricevette il suo primo paio di protesi ed iniziò la
riabilitazione. ‹‹Rimasi sorpreso da quanto dolorose e rigide fossero››,
racconta, ‹‹sarebbe bastato tanto poco per migliorarle››. La necessità, si sa,
è la madre di tutte le invenzioni e non ha fatto certo eccezione nel caso di
Hugh Herr. ‹‹Avevo imparato a scuola a costruire dispositivi meccanici,
così mi sono messo ai macchinari e ho cominciato a darmi da fare››.
Appena poté camminare, iniziò a frequentare assiduamente un’officina
protesica e a costruirsi prototipi di piedi artificiali per ricominciare ad
arrampicarsi. In pochi mesi era di nuovo in grado di scalare ai massimi
livelli e aveva protesi per ogni tipo di superficie. ‹‹Usavo piedi piccolissimi
per far leva su spuntoni rocciosi grandi quanto una moneta, ma potevo
anche aumentare la lunghezza degli arti per arrivare con le mani a degli
appoggi molto in alto. Chi ha detto che le gambe artificiali devono
assomigliare a quelle vere?››, scherza Herr, che oggi è professore associato
di Health Sciences and Technology al M.I.T. e si occupa proprio di protesi
biomimetiche, che mirano a riprodurre fedelmente non solo la funzione, ma
anche il peso e la forma dell’arto perduto.
Dal suo arrivo a Cambridge, la cittadina del Massachusetts che fronteggia
Boston dall’altra sponda del fiume Charles, la carriera di Hugh Herr è
proseguita in quei pochi chilometri quadrati che racchiudono il campus del
M.I.T., di Harvard e della Boston University, rappresentando una delle più
alte concentrazioni di intelligenza al mondo. ‹‹Il M.I.T. è diverso››, spiega
Herr, che ha studiato e lavorato spostandosi tra queste università. ‹‹Gli altri
istituti pretendono che lavori duramente per raggiungere standard
d’eccellenza; al M.I.T. vogliono di più, si aspettano che tu sia creativo››.
Una qualità che di certo non manca al gruppo di biomecatronica, il team di
ricerca da lui diretto e che, con un personale che varia tra i 15 e i 20 addetti,
è il più grande del Media Lab, la fucina del M.I.T. per le tecnologie del
futuro. La biomecatronica è la disciplina che studia l’integrazione di
componenti biologiche con dispositivi artificiali e nel caso del professor
Herr lo scopo è quello di ‹‹sviluppare sistemi robotici per la riabilitazione e
per l’amplificazione delle funzioni motorie umane››. Lui e i suoi
collaboratori, il cui interesse principale è la biomeccanica degli arti
inferiori e dell’equilibrio umano, hanno già all’attivo diverse invenzioni. La
più recente, la prima protesi di caviglia robotica, sarà commercializzata
entro la fine del 2009 da i-Walk, una giovane società di cui Herr è
cofondatore e responsabile scientifico.
Le protesi di caviglia attualmente in commercio funzionano in modo
passivo, non hanno generatori di potenza, ma usano sistemi di molle per
immagazzinare energia in certe fasi del cammino e poi restituirla in altre.
E’ stato recentemente dimostrato che la caviglia umana è invece attiva ed
esegue un lavoro netto positivo, con un picco di potenza nell’atto di spinta
col piede posteriore che è il più alto tra tutte le articolazioni del corpo
umano. ‹‹Più forte spinge il piede dietro, più morbido diventa l’appoggio a
terra del piede davanti. E’ una delle tante meraviglie del corpo umano››. Le
protesi passive non ci riescono, perché non possono regolare la potenza,
quindi l’impatto del piede anteriore è più violento, col risultato che il 70%
dei mutilati con amputazioni sotto il ginocchio accusano problemi alla
schiena. Non solo, il loro consumo metabolico è più alto in media del 30%,
perché cercano di compensare il meccanismo perduto usando i muscoli del
bacino e del ginocchio. L’andatura bipede dell’uomo si basa su uno
scambio continuo di energia potenziale, elastica e cinetica, che è
organizzato in modo che i muscoli non lavorino troppo. ‹‹Nella nostra
protesi cerchiamo di riprodurre questo ciclo energetico, usando molle per
modellare la componente elastica dei tendini, ma aggiungendo anche un
complicato sistema di attuatori, con dei motori elettrici che svolgono il
ruolo dei muscoli››. Due microprocessori regolano il funzionamento della
caviglia a seconda del tipo di andatura, lasciandola in modalità quasi
passiva quando si cammina piano ed aumentando la potenza quando ad
esempio si affronta un dislivello o si accelera. ‹‹In realtà, la nostra caviglia
robotica non sa quanto velocemente l’amputato cammina, o se sta andando
in salita piuttosto che in discesa; si limita ad ascoltare un sofisticato sistema
di misura inerziale, originalmente progettato per i missili, che fornisce in
tempo reale ai processori la posizione assoluta dell’articolazione,
consentendogli di adattarsi rapidamente ad ogni cambio di pendenza o
velocità››. Questo meccanismo permette un controllo efficiente del
consumo energetico e l’utilizzo di una batteria molto piccola, che rimane
nascosta all’interno della protesi, senza appesantirla. ‹‹L’autonomia
prevista è di cinquemila passi, corrispondente al valore medio giornaliero
per un adulto; quindi ogni sera la protesi dovrà essere messa in carica,
come una qualsiasi apparecchiatura elettronica››.
La caviglia robotica segue di qualche anno l’invenzione del primo
ginocchio artificialmente intelligente, il Rheo Knee, che nel 2005 ha fatto
vincere a Hugh Herr il “Breakthrough Leadership Award”, assegnatogli
dalla famosa rivista americana Popular Mechanics per il suo ruolo di
innovatore nella scienza e nella tecnologia. Si tratta di una protesi di
ginocchio capace di apprendere e di adattarsi ai movimenti della persona
che la utilizza. Il microprocessore riceve misure di pressione e
deformazione da un insieme di sensori e risponde variando la resistenza del
ginocchio, e di conseguenza la cinematica del cammino, fino a mille volte
al secondo. L’elemento chiave nel Rheo Knee è l’attuatore a fluido
magnetoreologico, un liquido che reagisce alla presenza di campi magnetici
modificando istantaneamente la propria viscosità. Un elettromagnete
inserito nella protesi permette di regolare l’intensità del campo magnetico e
quindi la consistenza del fluido, per controllare la resistenza meccanica del
ginocchio ed ottenere una camminata più naturale e stabile.
Hugh Herr non ama però parlare dei progetti conclusi. I suoi studenti
raccontano che è solito dedicarsi instancabilmente ad ogni nuova idea, per
poi annoiarsi e lasciare i dettagli ai collaboratori, subito dopo aver trovato il
modo di realizzarla. Lui stesso si definisce un risolutore cronico di
problemi e ammette ‹‹se c’è una difficoltà che blocca un progetto, ci penso
24 ore al giorno per 7 giorni alla settimana finchè non trovo la soluzione. Il
problema è che di solito ho 10 progetti su cui mi alterno, quindi va a finire
che ho la testa sempre impegnata!›› Il segreto è nella sua incredibile
capacità di concentrarsi, una dote sviluppata da ragazzo. Nella sua biografia
(cfr. Second Ascent: The Story of Hugh Herr) si legge di un Herr appena
adolescente che nei giorni precedenti un’arrampicata ripassa mentalmente
la posizione dei vari appigli e la sequenza di movimenti che dovrà eseguire
per arrivare in cima alla parete rocciosa. Quando arrivava finalmente il
momento, questa specie di allenamento virtuale gli permetteva di
concentrarsi interamente sul suo corpo, scacciando ogni altro pensiero,
inclusa la paura di cadere. Era come se la sua mente svanisse per lasciarlo
solo con i suoi muscoli ed i sui tendini: anche per questa particolare
intimità, per qualche tempo fu duro rassegnarsi a non avere più le gambe.
Poi un giorno, mentre lavorava alle sue protesi, capì che ‹‹non è vero che è
qualcosa da accettare e con cui bisogna convivere. Le infermità fisiche
possono essere superate attraverso soluzioni tecniche. In futuro la
tecnologia sarà abbastanza avanzata che la parola disabile scomparirà,
perché la verità è che oggi non è l’uomo, ma la tecnologia ad essere
disabile››. Queste riflessioni lo spinsero ad iscriversi all’università, dove si
accorse che poteva applicare con successo la sua concentrazione anche ai
principi della fisica e della matematica. Come quando scalava era solo
corpo, adesso che studiava riusciva a diventare solo mente.
Mente e corpo, però, non sono fatti per essere separati. Quando succede,
per tante persone è una disgrazia, un male con cui convivere tutta la vita.
Sono anni che scienza e medicina cercano inutilmente il modo di riparare la
spina dorsale per restituire il corpo ai paraplegici, ma, grazie alla risonanza
magnetica funzionale, che permette di associare pensieri ed azioni alle
specifiche regioni del cervello in cui hanno origine, una soluzione
alternativa potrebbe forse arrivare dalla tecnologia. L’idea è di creare dei
bypass elettronici per la spina dorsale danneggiata, in modo da trasmettere i
comandi direttamente dal cervello agli arti paralizzati. Un pò come nei casi
d’ischemia cardiaca, dove il chirurgo cuce nuovi vasi sanguigni all’aorta
per aggirare i segmenti otturati delle coronarie. Un articolo apparso su
Nature nell’Ottobre del 2008 riporta l’esperimento di alcuni ricercatori
dell’università di Washington che, usando degli elettrodi inseriti nella
corteccia motoria di alcuni macachi, hanno registrato l’attività cerebrale dei
neuroni addetti al controllo della muscolatura volontaria e l’hanno tradotta
in impulsi elettrici per riattivare muscoli temporaneamente paralizzati nelle
braccia delle scimmie. Sebbene restino ancora molte incognite da risolvere
prima che qualcosa di simile venga applicato clinicamente, si tratta di un
campo di ricerca molto attivo e già le prossime generazioni di protesi
potrebbero avere un’interfaccia per comunicare col sistema nervoso.
Da un paio d’anni, Hugh Herr collabora con ricercatori alla Northwestern
University di Chicago, per rendere la sua protesi robotica di piede e
caviglia un pò più umana. Normalmente chi indossa la protesi fa
affidamento solo sulla propria vista per capire dove sta mettendo i piedi, se
è su un prato, o se è finito in una pozzanghera. ‹‹Stiamo lavorando per
inserire un neuro-controllo in modo che chi indossa la protesi possa non
solo vedere, ma anche sentire il terreno sul quale cammina››. Questo
meccanismo di feed-back lavorerà in parallelo al sistema che misura la
posizione assoluta della caviglia, per consentire un adattamento più rapido
e naturale durante il moto. L’altra novità riguarda proprio l’esecuzione di
queste regolazioni on the fly, che sarà controllata volontariamente dal
paziente attraverso le terminazioni nervose della gamba. Parte del lavoro
tornerà quindi ad essere gestito dalla muscolatura residua del paziente, con
vantaggi enormi in termini di efficienza ed efficacia. La bioingegneria,
infatti, non ha ancora inventato un sistema che riproduca fedelmente le doti
dinamiche, contrattili e plastiche dei muscoli umani. Se paragoniamo la sua
funzione a quella di un motore, scopriamo che un muscolo produce 1000
Joule di lavoro per ogni grammo di glucosio, usando una fonte di energia
rinnovabile come carburante e scaricando sostanze non inquinanti
nell’ambiente. In aggiunta, non fa rumore, può ripararsi da solo quando è
danneggiato e può cambiare forma e dimensioni in seguito ad un aumento
della domanda esterna di potenza. Dove lo trovi un altro motore con queste
qualità?
Qualcosa di simile esiste. I ricercatori del laboratorio NASA per lo
sviluppo avanzato di attuatori hanno costruito protesi sperimentali usando
muscoli artificiali fatti di speciali fibre di polimero, ma, benché forti e
silenziosi come gli equivalenti umani, alla fine questi muscoli si sono
rilevati troppo poco robusti per costituire una valida alternativa ai motori
elettrici. Perché non usare muscoli veri? La risposta più breve è che
bisogna alimentarli e non è facile come usare una batteria. In linea di
principio, però, si potrebbe fare. Lo hanno dimostrato qualche anno fa
Hugh Herr e Robert Dennis, oggi professore alla University of North
Carolina, costruendo un pesce robotico che nuotava grazie al muscolo di
una rana. Il concetto di base è nulla di più di quello che scoprì Galvani nel
diciottesimo secolo, cioè che il muscolo della rana si contrae in risposta ad
impulsi elettrici. La novità è stata quella di attaccare il muscolo ad un
dispositivo artificiale e farlo funzionare come una pinna, usando degli
elettrodi controllati da un microprocessore. Il pesce ibrido ha nuotato per
42 ore in una vaschetta di acqua e zucchero, da cui estraeva il nutrimento,
poi è “morto”. E’ stato un esperimento importante e ha fatto arrivare un
grosso finanziamento dall’agenzia del Pentagono per i progetti avanzati di
difesa (DARPA), che vuole scoprire se un giorno sarà possibile utilizzare
muscoli viventi come attuatori robotici, pensando ovviamente ad
applicazioni militari. Da allora, Dennis è riuscito a generare nel suo
laboratorio tessuti muscolari che sopravvivono per diversi mesi in-vitro, ma
resta ancora da capire come tenerli vivi una volta collegati a dispositivi
robotici.
Nel frattempo, Hugh Herr ha avuto un’altra idea per accelerare la fusione
tra corpo e macchina. ‹‹Non esiste una singola tecnologia che riesce a far
meglio del corpo umano in tutte le sue funzioni››, spiega; ‹‹nel caso di
compiti specifici, succede invece continuamente e non ci facciamo neanche
più caso. Pensiamo alla bicicletta, che, a parità di energia spesa dalle
gambe, ci fa muovere più velocemente in orizzontale, o al trampolino, che
ci permette di saltare più in alto. Quello che diventa davvero imbattibile è
allora l’unione tra uomo e tecnologia››. Proprio questo è l’obiettivo delle
gambe meccaniche che il gruppo di biomecatronica sta progettando. Gli
esoscheletri finora realizzati hanno avuto come scopo principale quello di
aumentare la capacità per chi li indossa di trasportare carichi molto pesanti.
Al contrario, le gambe che ha in mente Herr ‹‹non trasporteranno dei
carichi al posto delle persone, ma trasporteranno le persone, attraverso
un’imbracatura fissata al bacino››. Sarà un esoscheletro agile, capace di
muoversi con la naturalezza delle gambe umane, e per questo
l’applicazione più immediata sarà in ambito riabilitativo, per aiutare
pazienti con problemi muscolari a camminare. In futuro potrebbero però
aprirsi nuovi scenari. ‹‹Stiamo parlando di una struttura esterna al corpo,
che una volta indossata permette di aumentare la resistenza aerobica nel
correre e nel camminare. Qualcosa di utile a chiunque, un nuovo mezzo di
trasporto››. La chiave risiede nel sistema di molle e componenti idrauliche,
che è studiato in modo da imitare il funzionamento delle gambe umane, per
minimizzare il consumo energetico. I dettagli sono ancora segreti, ma Hugh
confessa che è questo il progetto a cui sta dedicando granparte del suo
tempo e già immagina che ‹‹tra vent’anni le persone non gireranno più in
bicicletta, ma si sposteranno usando gambe meccaniche››. Forse non sarà
proprio così, ma è molto probabile che nei prossimi decenni la tecnologia
porterà le nostre capacità oltre i limiti del corpo umano.
C’è chi è convinto che ciò sia già possibile, come il professor Gert-Peter
Brüggemann, dell’istituto di biomeccanica dell’università di Colonia. Alla
fine del 2007, dopo una ricerca durata appena due giorni, lo scienziato
tedesco ha dichiarato che le protesi “ghepardo”, un modello di gambe
artificiali in fibra di carbonio per amputazioni sotto il ginocchio,
consentono di correre risparmiando il 25% di energia. Lo studio era stato
commissionato dalla federazione internazionale di atletica, che ha usato i
risultati per dimostrare il vantaggio competitivo di Oscar Pistorius, il
corridore sudafricano amputato bilaterale, decidendo di squalificarlo a vita
dalle competizioni per atleti abili. La storia di Pistorius ha fatto il giro del
mondo ed è arrivata anche alle orecchie di Hugh Herr, che ha fatto fatica a
digerirla, ritrovandoci gli stessi pregiudizi che aveva subito quando aveva
ricominciato ad arrampicarsi dopo l’incidente. ‹‹E’ la solita storia. Se un
disabile decide di gareggiare contro atleti abili, lo chiamano coraggioso.
Appena inizia ad essere competitivo viene accusato di barare››. Nominato
perito dai legali di Pistorius, Hugh Herr ha riunito una commissione di
esperti, insieme ai quali ha effettuato una serie di misurazioni che hanno
rovesciato le conclusioni del professor Brüggemann, costringendo la
federazione di atletica ad annullare la squalifica. Quei risultati lo avevano
subito sorpreso, perché ‹‹non è stata ancora inventata una protesi che riduce
i requisiti energetici per camminare o correre›› e secondo lui il vero
problema è stato la mancanza di accettazione da parte della gente per un
corpo dotato di una componente artificiale. ‹‹Non stiamo parlando di scarpe
speciali per correre più velocemente. Queste sono le sue gambe, senza di
esse Oscar [Pistorius] può solo andare a carponi. Perché è così difficile
credere che sia semplicemente un buon atleta?››. Nel caso di Pistorius, che
è nato senza peroni e ha subito l’amputazione di entrambe le gambe ad
undici mesi, è impossibile stabilirlo con certezza. In fin dei conti, non
avrebbe neanche tanto senso domandarselo. Se mettiamo sullo stesso piano
la genetica e la tecnologia, potremmo infatti argomentare che la prima
rende lo sport molto più sleale di quanto non faccia la seconda. Dovremmo
forse penalizzare Yao Ming, perché dall’alto dei suoi 2,29 metri ha un
vantaggio competitivo nei confronti dei giocatori di basket più bassi? Ad
avventurarsi in questi ragionamenti si rischia di rimanere intrappolati in un
circolo vizioso, ma la chiave per uscirne, scommette Hugh Herr, arriverà
proprio dall’unione tra genetica e tecnologia.
In gergo si chiamano biohybrids e sono un’evoluzione estrema delle
protesi, in cui le componenti meccaniche si mescolano a quelle biologiche.
Dal 2005, il gruppo di biomecatronica di Herr collabora con ricercatori
della Brown University per realizzare gambe artificiali che ‹‹invece di
avere un componente maschio che si aggancia ad un componente femmina,
saranno attaccate direttamente alle ossa residue››. L’idea è di far crescere le
cellule delle ossa, della pelle e dei muscoli attorno al metallo, in modo da
creare un sigillo perfetto. Il progetto, finanziato con 7,2 milioni di dollari
dal dipartimento per gli affari dei veterani degli Stati Uniti, prevede anche
l’impianto di neurosensori, per permettere all’amputato di muovere le
protesi col pensiero. Il problema più grande resta quello del rischio di
infezione, dovuto all’avere un oggetto estraneo contemporaneamente
dentro e fuori il corpo umano. Una volta risolto, la convivenza tra tessuti
vivi e materiale sintetico potrebbe raggiungere un nuovo livello di intimità
meccanica.
‹‹Grazie all’ingegneria dei tessuti, un giorno saremo in grado di sostituire
alcune parti della protesi con componenti biologiche››, sostiene Herr. ‹‹Per
ogni pezzo, ci dovremo chiedere se sia meglio usare metallo, materiale
composito, o tessuto umano››. Quest’ultimo potrebbe essere generato in
laboratorio a partire dalle cellule staminali del paziente, per avere protesi
totalmente biocompatibili e personalizzate. A quel punto, si potrebbe anche
pensare di realizzare l’intera protesi usando materiale biologico, ma ‹‹non
sarebbe una soluzione ottimale››, avverte Herr. ‹‹Penso invece che finiremo
con l’avere degli individui ibridi, che per certi versi saranno migliori dei
normali esseri umani››. Per chi è nato negli anni ’70 il paragone col
telefilm “l’uomo da 6 milioni di dollari” viene spontaneo, ma secondo Herr
è difficile che le generazioni attuali arrivino a conoscere un uomo bionico
con quel tipo di prestazioni. ‹‹Anche se la tecnologia oggigiorno
progredisce più rapidamente dell’immaginazione degli scrittori, quella resta
fantascienza. Credo che sarebbe già un gran risultato se entro 40 anni
riuscissimo a costruire gambe artificiali indistinguibili da quelle umane››.
Se questa previsione si realizzasse, non esisterebbero più casi come quello
di Pistorius e potremmo finalmente cancellare la parola “disabile” dal
nostro vocabolario. Nel frattempo, non ci resta che tenere d’occhio Hugh
Herr, aspettando di vederlo correre nel vento con un paio di gambe nuove.
Quel giorno sapremo che il suo sogno di tanti anni fa era soltanto un déjà
vu.
Riccardo Lattanzi