ring 05|aprile 2003 - Parliamo Di Videogiochi

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ring 05|aprile 2003 - Parliamo Di Videogiochi
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www.project-ring.com
101101000 – Claudio Grilli
101101000
pROJECTrING
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aPRILE2003
101101000__________________________________
[Cover Story]
::sOMMARIO::
rUBRICHE
(r)UMORISMO
Shinobi
mE nINTENDO
RetroBottega
tESORI sEPOLTI
Brave Fencer Musashi
kAKKA bANZAI
Racconti Indecisi
sEGA sAGA
Smilebit
iL dAVIDE
Il Davide Cinque
pEOPLE
John Hare
fRAMES
JRPG e l’ottava…
In Nomine Ludi
Strati
Cittadino del mondo
GameWood Babylonia
iNDEPTH
The Sims [Versus]
Soul Reaver
rECENSIONI
Jet Set Radio Future
Contra S.S.
Primal
Panzer Dragoon Orta
Burnout 2
Surveillance
Denki Blocks!
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Questo mese Ring propone la
recensione del tecnomontato
Primal. Un grazie a Cristiano
Bonora per l’impegno, e un grazie a chi lascerà sullo scaf-fale
questo prodotto…
Alle pagine 28 e 30, invece, è
guerra aperta tra sostenitori e
detrattori di The Sims: La vita
in diretta. Paolo Ruffino e Fe rruccio Cinquemani dipingono
concezioni simiotiche pericolosamente divergenti. E meravigliosamente complementari…
I modi di vedere non restano sempre uguali a
se stessi ed è generalmente un bene che sia
così. Il movimento è fertilità, laddove l’inamovenza è invece segno di un fare improduttivo,
sterile e vuoto. Il VG, già lo si diceva, ribolle e
si reinventa di continuo. L’altro ieri il personaggio principale dell’espressione videointe rattiva era nel One-Man-Game e nella forma
del gioco sviluppato da un solo geniale autore,
intento a dar vita a precedenti di storia videoludica e ad inserire, nascostamente, il proprio
nome all’interno del gioco (chémmai gli editori
vollero che si ringraziasse l’autore in luogo del
munifico produttore). Anni dopo, il VG è saldamente ancorato fra mani capricciose e unte
di marmellata, Mario prende a calci il topo di
casa Disney e ingaggia un duello appassionante con un porcospino dal manto electric blue;
un duopolio dalla prospettiva p otenzialmente
101101000
eterna, destinata a fissarsi nella Storia della
Claudio Grilli 2003
videointerazione.
Parallelamente, il VG indossa i panni del Personal Computer e comincia a
dismettere le vestigia affumicate delle sale giochi. Sony si affaccia al mercato, con prepotenza. Una prepotenza dichiarata prima che dimostrata,
messa in mostra dalla finzione della pubblicità, dall’ostentazione del nome
e del logo, dall’imposizione di un’ipnotica simbologia geometrica. E’ un prestare ascolto ai moderni modi del commercio, una maniera fatta di lusinghe
e promesse. Sony propone un’immagine cool del VG, un entertainment
dall’aspetto massificato e ampliato, adatto a tutte le età e caste socio/culturali. Si apre la pista ad un nuovo modo di intendere e vivere il VG,
un modo fatto sì di videogiochi ma anche di simboli, di intenzioni e di mercato. Nintendo è reduce dalla stoica e coraggiosa resistenza dell’N64 (prodotto che vince sul piano economico ma che tramonta su quello
dell’immagine); con GameCube, Nintendo vede il rilancio di Sony e prende
le carte distribuite da essa, accettando di giocare secondo le nuove regole.
Regole che corrono a fianco dell’inevitabile compenetrazione dei media,
non più comparti stagni inconciliabili. Via dunque allo scorrere di sangue e
di un incremento dell’età dell’utenza giocante, via alle concessioni alle third
party e via parte di quella grandeur che Nintendo ostentava, dopo un d ecennio di incontrastabili spadroneggiamenti. Le nuove regole sono ribadite
anche dall’ingresso di un altro colosso elettronico esterno al fare VG (su
console), Microsoft, che impone il suo peso politico/commerciale e sbatte
una macchina grossa e impacciata che pure porta un buon numero di novità sia tecniche sia commerciali, con una campagna distributiva basata largamente sul rilancio ad oltranza. E Sega, piccola piccola e legata a schemi
vecchi, cola a picco. Perché a questo nuovo gioco, il Gioco non conta più
così tanto.
Oggi, più di ieri, il mondo del VG si mostra su una serie di prospettive
multiple, difficili da prendere in un solo scatto. Il VG di oggi si propone a più
livelli: l’interazione viaggia su binari spesso divergenti, dal ludico a tutti i
costi al Non-Gioco, noi si oscilla fra la condizione di giocatore e quella di
spettatori (qualcuno parlerebbe di declassamento). Qualche volta diventiamo persino degli interpreti e come tali ci viene chiesto di districarci fra input
contrastanti e criptici, lanciati dagli schermi ai nostri occhi. Il VG del terzo
millennio non si attua solo davanti allo schermo, diventa centro gravitazionale di fiumane di discorsi telematici, muove studi sui new media, propone
tematiche pregne e che persistono dopo il reset della console, il gioco non è
più l’unica espressione dispensata dal VG, il quale veicola sovente messaggi
più vicini ad altri medium. I VG si contorcono e talvolta neppure sembran
più tali, ma non importa, non deve avere importanza perché il VG non è più
solo Gioco, il VG non è più solo intrattenimento ma anche e soprattutto interazione con realtà in divenire e da noi (parzialmente) plasmate. Il VG è
cambiato, pare invece che molti di noi non l’abbiano fatto e seguitino a
fissare in una direzione s ola, anziché guardarsi d’intorno; essi continuano a
parlare una lingua morta e sperano, ciò nonostante, d’esser capiti. D’essere
ascoltati.
Nemesis Divina
:RUBRICHE:
Ring#05
(r)UMORISMO____________________________________
[Shinobi]
di Strix, Amano 76 e Gatsu
3
:RUBRICHE:
Ring#05
4
:FRAMES:
Ring#05
jRPG e l’oTTAVA pIAGA dIVINA_
___________________
[Accidia e viltà tra i fiori di ciliegio]
di Gatsu
Ci eravamo lasciati tempo fa con
L’Insostenibile Leggerezza Degli RPG
[Ring#2], dove tentavo di spiegare
perché il gioco di ruolo classico manteneva una netta superiorità ri spetto al suo parente videoludico pur
vantando radici decisamente poco
moderne. Stavolta voglio soffermarmi sul ramo che preferisco degli RPG
per console, i Japan RPG, ed evidenziare una serie di mancanze riscontrabile nella maggior parte di essi.
Badate bene, quando parlo di “mancanze”, non mi riferisco come l’altra
volta a feature difficilmente implementabili in tempi brevi per evidenti
problemi tecnici, ma a carenze spesso del tutto ingiustificate. Non sembra anche a voi che le SH jappe a bbiano formato una sorta di “cartello
del minimo indispensabile” attorno al
genere JRPG? E’ ora che Ring illumini le vostre menti e vi renda consapevoli di questi comportamenti da
“squadra che vince non si cambia”…
__Anatema 2: spostamenti nella
mappa e PNG
Uno degli aspetti sicuramente più
evidenti della staticità del genere è
dato dalla vergognosa riproposizione
del medesimo schema per villaggi e
città nel 99% dei JRPG. Il villaggio
tipico è composto, in ordine, da: un
negozio d’armi, un negozio di item,
locanda, albergo, case sparse, castello o villa (a volte). Ora, alcuni
titoli tentano di introdurre anche
qualche nuova tipologia di negozio,
come i negozi di alimenti o di materie prime di Star Ocean: Se -cond
Story (funzionali al pregevole sistema di abilità inserito da Enix, forse
uno dei pochi tentativi di av-vicinare
i JRPG agli RPG classici) o i negozi
dei curatori di Golden Sun (gradevole intuizione, in nessun RPG serio
un personaggio può guarire completamente dopo una sola notte di sonno).
La scarsa fantasia dei game designers è francamente sconvolgente
se pensiamo che la medesima struttura ci viene riproposta fin dagli albori del genere: è possibile ridurre
un villaggio a cinque edifici in croce?
Inoltre, un altro punto totalmente
irreale che mi ha sempre urtato è la
possibilità presente nella maggior
parte dei titoli di entrare bellamente
nelle case della gente, fregarsi item
nascosti nei forzieri e negli armadi e
andarsene come niente fosse. E’ evidente che una soluzione di questo
tipo sia stata adottata per aumenta-
re leggermente la scarsa interattività che spesso il genere ci propone
(nella maggior parte dei casi ci si
limita a parlare con la gente – premendo ripetutamente lo stesso tasto
– e navigare fra menù di combattimento, ma questa caratteristica p otrebbe non essere un difetto se
l’aspetto tattico del gioco fosse ben
implementato), ma non sarebbe o ra
di aggiornare questa faccenda a degli standard più moderni?
In nostro soccorso viene Shenmue
di Sega: la struttura degli esterni, la
varietà delle ambientazioni, la ricchezza di particolari – spesso inutili
– dovrebbero servire come base
sulla quale edificare delle città maggiormente interattive (nota: è chiaro
che dietro a Shenmue /Shenmue 2
c’è un lavoro mostruoso da parte di
un team enorme, e che non tutte le
case saranno disposte a sobbarcarsi
una fatica del genere solo per rendere un po’ più interattiva la loro
proposta, ma non è insensato credere che in futuro sarà possibile includere molti di questi elementi con
fatica sempre minore…gli sviluppi
dell’informatica non smettono mai di
stupire, basti vedere come è semplice oggi costruire un sito w eb perfettamente funzionante senza sapere
una riga di html, o come è semplice
realizzare modelli 3D…). Che poi in
Shenmue il bussare ad una porta si
rivelasse spesso senza speranza è
un dato di fatto…ma d’altra parte
non è giusto così? Perché diavolo ci
dovrebbero aprire tutti? Inutile ripetere che anche nel caso venisse adottata una struttura simile a quella
del titolo Sega, saremmo ben lontani da una accettabile rappresentazione di villaggio o città, in quanto
spesso un videogioco tende ad indirizzare il giocatore verso compiti
specifici e utili al proseguimento
(potenziare l’equipaggiamento, comprare item indispensabili, ecc…)… La
soluzione a questa (apparentemente) ineluttabile realtà sarebbe
proprio quella di aumentare le possibilità di interazione fra giocatore e
ambiente circostante e rendere in
5
qualche modo utile questa
sua interazione.
___Anatema 3: riproposizione
dei ruoli
Non posso ovviamente non citare
brevemente il ricorrente stereotipo nella caratterizzazione di almeno due dei personaggi principali. In quanti giochi l’eroe principale è un guerriero dal pas-sato
oscuro e la sua compagna una
ragazzina dalle capacità curative? E in quanti di questi giochi
poi alla fine i due finiscono per
innamorarsi? Fortunatamente negli ultimi tempi si sta cercando di
variare un po’ il classico cast o rmai stantio, concentrandosi pe-rò
troppo spesso sugli altri personaggi e non sui due ruoli di
“protagonista assoluto maschile”
e “protagonista assoluta femminile”.
E’ indubbio poi che personaggi
ben caratterizzati aggiungano diverso valore ad un JRPG, ma è
anche facilmente riscontrabile come spesso questa caratterizzazione sia spesso troppo specifica e univoca.
In Final Fantasy X, ad esempio,
un personaggio come Wakka sarà
sempre e comunque il t ontolone
del gruppo, in qualsiasi punto del
gioco lo si analizzi, quasi come se
il viaggio per sconfiggere Sin non
fosse mai stato compiuto. La c aratterizzazione dei personaggi è
ancora troppo spesso superficiale, in un certo senso assoluta: o
bianco o nero, senza nessuna
gradazione (esistono le debite
eccezioni, Vagrant Story ad esempio…). Qualcuno di voi si s arebbe aspettato forse, nel già c itato FFX, qualche cattiveria da
parte di Yuna? Eppure un evento
del genere non apparirebbe strano, nella realtà, da parte di qualcuno sottoposto a forti pressioni
psicofisiche come lo è Yuna in
FFX. La semplicità con cui sono
:FRAMES:
costruite le personalità dei personaggi appare oggi più che mai inadatta e obsoleta… gli unici ad accorgersi di questo limite sembrano e ssere sta ti, per il momento, Hideo
Kojima (che sia in MGS che in MGS2
costruisce personalità intriganti e
totalmente imprevedibili) e Yu Suzuki (che nel mai troppo lodato Shenmue 2 ci mette di fronte a “personalità analogiche” e non “digitali”)1.
Che poi i titoli citati centrino poco
con i JRPG poco ci importa: fondamentale invece sarà in futuro prendere il meglio prodotto in ogni ambito e condensarlo in qualcosa di nuovo e meraviglioso.
___Anatema 4: combattimento e
ambiente circostante
Resta da trattare una tematica centrale nell’ambito dei JRPG: il combattimento. Solitamente questo aspetto
è il punto forte dei titoli presi in esame, o perlomeno dovrebbe esserlo
(visto che per la maggior parte del
tempo il nostro party è costretto a
combattere). Indubbiamente ci sono
dei validi sistemi sulla piazza, da
quello famosissimo di Final Fantasy
(che pur variando leggermente ad
ogni episodio mantiene sempre una
certa profondità tattica, specialmente negli episodi VII e X, grazie rispettivamente ai Materia e alle “armi
modificabili”) a quello bilanciato e
potenzialmente ultra-strategico (merito anche della possibilità di ritardare gli attacchi nemici e di spostarsi
sul campo, senza per questo tradire
la filosofia a turni) della serie di
Grandia (attualmente lo ritengo il
migliore sulla piazza). Nonostante
questo, ci sono delle palesi mancanze in tutti i sistemi presi in esame
dal sottoscritto 2, va-gamente intuite,
per esempio, in FFX: l’interattività
con l’ambiente circostante durante
un combattimen-to. Nel titolo Squaresoft, in qualche rarissimo caso
(non credo siano più di 3-4 nell’intero gioco) ci veniva data la possibilità di interagire con qualcosa che
non fosse il nemico: ricordo chiaramente un macchinario Albhed che
necessitava di essere caricato a forza di Thunder o una batteria che d oveva essere colpita ripetutamente
per liberare un passaggio ostruito
con la sua esplosione. Tutto questo,
ovviamente, mentre attorno a noi
infuriava il combattimento. Ora,
l’idea di per sé era pregevolissima,
perché in qualsiasi RPG l’ambiente
circostante è perfettamente funzionale allo svolgersi del combattimento, tanto che l’interazione con oggetti e strutture può essere vitale per
l’esito dello scontro (pensate solo ad
un combattimento in una locanda in
legno dove un incantesimo del fuoco
Ring#05
può incendiare tutto, dove un colpo
maldestro può abbattere la colonna
portante del primo piano -non ridete, fateli voi 9999 danni ad un palo
di legno, poi vediamo-, dove rovesciare i tavoli vuol dire potersi riparare dalle frecce o dagli incante simi
più blandi…). Insomma, le possibilità
di sviluppo in questo senso sono i nfinite e implementabili con un minimo di buona volontà. Invece continuiamo a sorbirci scontri casuali
immersi in ambienti neutri e ripetitivi, e ciò ci basta. Non sarebbero più
interessanti meno scontri ben pianificati, piuttosto che una moltitudine
di combattimenti tutti uguali tra loro?
Un altro particolare che non viene
mai implementato nei giochi che
sfruttano sistemi a turni (più facile
vederlo negli action RPG) è la possibilità del colpo contemporaneo.
Qualsiasi RPG prevede la possibilità
che due colpi vengano portati nello
stesso momento, e che il danno
venga subito contemporaneamente
da ambedue gli sfidanti. Attenzione,
prima che pensiate ma in un sistema a turni non si può vi faccio notare che TUTTI gli RPG classici funzionano a turni (per ovvie necessità
umane di risolvere prima un’azione
poi l’altra) e che questa faccenda del
“colpo contemporaneo” è più importante di quanto non sembri: se il
vostro nemico ha la vostra stessa
iniziativa però la CPU decide a priori
che sempre e comunque saranno i
nemici a sferrare il primo colpo, a
voi non resterà altro che subire il
danno (e magari soccombere). Se il
danno invece fosse portato simultanea-mente, il sacrificio di uno dei
membri del vostro party potrebbe
significare vittoria dello scontro.
vari membri (influenzando magari anche leggermente lo svolgersi
degli eventi), senza magari disdegnare la possibilità di simulare
la costruzione di edifici, rifugi,
ambienti, armi e manufatti ex
novo.
That’s all.
__Anatema 5: varie ed eventuali
[2] I più celebri sostanzialmente,
vi invito a farmi presenti eventuali sistemi misconosciuti che
meritano attenzione a [email protected]
Per concludere qualche altro appunto sparso. Ritengo che a volte un
aumento della parte simulativa nei
JRPG potrebbe solo far del bene. A ttenzione, non intendo sacrificare
storia e personaggi in virtù di una
fantomatica quanto spesso sterile
completa personalizzazione del
party, ma è indubbio che a volte a nche gli RPG di stampo occidentale
qualche buona idea ce l’abbiano.
Negli ultimi anni sembra essere di
moda consentire, nei JRPG, la personalizzazione degli oggetti (armi,
principalmente)…
sarebbe
auspicabile che questa tendenza (che
vista in azione in diversi giochi sembra funzionare senza snaturare nulla) venisse estesa anche ad altri aspetti del gioco: partendo dall’equpaggiamento, fino ad arrivare ad
una maggior possibilità decisionale
nelle relazioni interpersonali fra i
6
____________________Note
[1] Con “personalità analogiche”
intendo personalità in grado di
assumere molti comportamenti
diversi all’interno di due (o più –
in questo caso si tratterebbe di
ragionare in maniera N-dimensionale) estremi. Per esempio:
possiamo definire per Lishao Tao
(Shenmue 2 ) i tre estremi Fragilità – Severità – Saggezza.
All’interno di questo spazio Lishao
Tao assume dei comportamenti
diversi ma che lasciano trasparire, ognuno in maniera diversa,
ognuno di questi 3 aspetti. Per
semplicità non prenderò in considerazione le inevitabili “ca-gate
fuori dal vaso”, anche perché
stiamo ancora ragionando su e ntità (videoludiche) piuttosto elementari. Di contro le “personalità digitali” (o binarie) tendono
invece ad assumere un numero di
atteggiamenti molto più basso
(non due come il termine digitale
o binario ci suggerisce, ma un
valore che comunque non si distacca troppo da questa cifra).
“Personalità digitali” si adatta bene a tutta una serie di personaggi di vecchia concezione,
molto (troppo) basilari e prevedibili nei loro comportamenti (ad
esempio: Ganon/Ganondorf nella
serie di Zelda, il tipico “cattivo
assoluto” delle favole).
:FRAMES:
Ring#05
iN nOMINE lUDI__________________________________
[Terminologia Ludica]
di Nemesis Divina
Non che sia un accesissimo amante
della terminologia, eppure è da
tempo che questa parola mi è scomoda in bocca: videogioco. E capisco bene come sia la particella 'gioco' a rendermela indigesta. Poche
volte, ormai, mi ritrovo nell'atto di
agire entro i confini digitali di un
videomondo e di pro-ferire, convinto e innocente: "questo gioco mi
sta divertento parecchio". Anche
perchè non sono solito parlare da
solo, ne convengo. In un altr oquando parlavo di Videoesperienza
come un sovrainsieme che includesse, nella propria definizione,
sia il quid primigeno del mezzo di
cui discutiamo (‘gioco’, appunto)
sia l'eventualità sempre più pertinente e calzante delle nuove espressioni digitali ('esperienza'). Ma
è un abbaglio, giacchè l'atto ludico
è un ente autonomo, non subordinato a quell'insieme di eventi/emozioni/espressioni che denomino Videoesperienza. D igressione,
indico con 'Videoesperienza' un
prodotto videointerattivo che non si
limiti alla proposta ludico/competitiva ma che cerchi di saturare la
sessione d'uso di contenuti emotivi, comunicativi o scenici. Una
'partita' (altra terminologia orrendamente arcaica) a Silent Hill
2 NON è divertente e NON è un
gioco, non così come lo si è soliti
intenderlo nel senso c omune. A tal
proposito mi aiuta Bruno Fraschini
nel saggio Videogiochi & New Media
(tratto da "Per una Cultura dei Videogames", Ed. Unicopli, 2002),
citando Johan Huizinga:
[il termine] 'Game' è definito dal
dizionario [...] un divertimento o
uno sport che prevede una forma di
competizione basata su regole.
'Game' è la matrice astratta che
permette l'esecuzione di un'azione
piacevole: 'to play', il verbo che in
lingua inglese non significa semplicemente
giocare,
ma
anche suonare e recitare.
Una distinzione semantica non da
poco. In italiano il termine 'giocare'
è univoco e include unicamente il
nesso di 'cimentarsi in un'attività
ludica o sportiva' con ragioni essenzialmente competitive. D'altra
parte il comune termine anglosassone di riferimento all'atto videoludico è 'videogaming' e non un
più attinente 'videoplaying'. Nell'uso di videoplaying possiamo invece
accludere, in perfetta sintesi semantica, sia l'occupazione ludica
che quella immersiva di esperienza
(vissuta ricalcando il proprio io su
quello del protagonista delle vicende videointerattive, 'recitando'
dunque il ruolo del propagonista).
Ora, rendendomi conto che l'assunzione di nuove definizioni è
quasi sempre un atto naturale e
non coercibile, prendo comunque la
forza di dare voce ad una proposta
non già mia ma che comunque a ppoggio in pieno. E' Federico Res
che, nell'Indepth "Chiare e fresche
e dolci acque" (RING #2, 2002),
propone una distinzione terminologica sufficientemente accurata e
largamente accettabile1. Egli assume il termine 'Videogioco' come
indicativo di attività videointerattiva
a fine ludico, dunque senza r imandi
espressivo-comunicativi di sorta (la
filosofia dell'arcade). A questa contrappone la dizione 'Videoesperienza' per distinguere l'altra parte della medaglia, il fruire videointerattivo che non si propone c ome fine il
sTRATI
divertimento o lo scopo primo
del competere, quanto piuttosto
includente l'accezione inte rpretativa
del verbo 'to play'. Ambedue le
forme collimano dando forma al
medium di cui sono il manifestarsi,
l'insieme di regolamenti audiovisivinterattivi che va sotto la sigla di
VG 2. E' dunque importante riferirsi
al medium come VG, s aranno poi le
caratteristiche intrinseche del prodotto in esame a definirlo videogioco o alternativamente videoesperienza. Si badi poi d'avere l'accortezza di utilizzare l'acronimo
maiuscolato (VG) anzichè la dizione
estesa (Videogioco) poichè essa,
giocoforza, sarà continua latrice di
incomprensione e sposterà il peso
del nesso verso l'emanazione ludica, verso la particella 'gioco' la cui
eliminazione è appunto il motivo
del nostro discorrere.
_____________________Note
[1] In quell’occasione, l’eroico sardo, ebbe a proferire: “il voler a tutti
i costi dar dignità a quel termine
[videogioco] credo abbia fatto solo
male all'affermazione di una critica
come Cristo comanda”.
[2] Qualcuno, giustamente, osserva
che la G della sigla VG si-gnifica
pur sempre ‘gioco’, giusto? Sbagliato. La sigla VG è semplice-mente
una convenzione, VP (videoplaying)
sarebbe stato più corretto ma ben
più difficile da radicare nell’uso c omune.
_____
[Visioni]
di DarknessHeir
E’ sempre più tardi di quanto può
sembrare.
Avete mai visto un falco? Fino a
circa un mese fa ne ho visti diversi,
distribuiti in un’area decisamente
estesa. Di solito, il falco non si riconosce direttamente: vedi una bestiaccia con le ali, e dopo una frazione di secondo ti accorgi che il
tuo inconscio… “non l’ha in me-
moria”. Perché il falco non vola come i suoi colleghi. Levandosi in verticale, o risalendo una corrente a lui
opposta, mostra talvolta dei movimenti insicuri (per non dire sgraziati). Ma quando fende l’aria in modo
solenne, leggiadro, deciso… Il falco
lo riconosci dalla postura, poi. Non
è becera come quella del piccione,
non ha la sciallata, apparente indif-
7
ferenza del corvo, né la vivacità s olare della gazza ladra. Il falco è
immoto, fiero; la “schiena” (se così
si può chiamare) ritta, il capo reclinato a scrutare verso il basso, in
cerca di una nuova preda. Solo. Il
falco, solo, scruta verso il basso.
Poiché non è aduso a muoversi in
gruppo, né a calcare luoghi facilmente raggiungibili.
:FRAMES:
Una sorta di urlio. Lieve.
Un capannello di persone. Al centro un anziano signore, si stringe il
petto con un’espressione che non
promette nulla di buono. Fortunatamente la via su cui si affacciava il
bar da cui era appena uscito, in
compagnia della moglie, è discretamente affollata, ed i soccorsi
vengono chiamati il prima possibile.
Eppure il vecchio sta a terra, scosso
dalle convulsioni, cianotico in volto.
Io?
Beh, io stavo lavorando, l’ambulanza era in arrivo... Non s ono un
medico, e a differenza di tutti i curiosi attorno al malato, francamente
non me la sentivo di rubare preziosi
centimetri cubi d’aria a chi faceva
sempre più fatica ad inalare.
5 gradi, a dir tanto.
Il bar è piccolo ma arredato con
gusto. Quattro persone: due ragazzi sui 25, una signora sui quaranta, una ragazza (davvero carina,
complimenti) poco oltre i venti.
Tutti, fanno parte della famiglia che
gestisce il bar. Ci saranno cinque
gradi, a dir tanto, eppure una ragazza è seduta ad un tavolino fuori
al bar, e beve un tè. Niente di particolare in lei, se non per il fatto
che pare presa decisamente male;
sembra essere stata ferita, di fresco, da qualcosa. Entro. Il bar è
piccolo, ma arredato con gusto, mi
aggrada ed ho fame, quindi soprassiedo sull’impossibilità di fumare all’interno e chiedo una lista. La
signora mi risponde, con aria abbastanza seccata. Prezzi/cosa mi è
rimasto/guarda, la lista è solo per
chi si siede fuori. Fuori? Ma ci saranno 5 gradi. In ogni caso, rispondo che è dalle 3 che sono in
piedi (erano le 19.30) e che alla
faccia dei prezzi volevo soltanto
consumare qualcosa di commestibile possibilmente al caldo,
magari accompagnato da una birra
decente, prima che l’istinto di conservazione, cara signora, mi spinga
ad azzannarle l’avambraccio. Detto
fatto; tempo di lavarmi le mani ed
una franca piadina fumigante mi
giace dinnanzi, al suo fianco una
weis ceca di cui non ricordo il nome, ma che comunque svolge bene
il suo lavoro. Buon appetito/grazie
da parte della figliola, adorabilmente timida, e che l’ecatombe abbia
inizio. La signora è cambiata completamente. Gentile mi rivolge
qualche parola di circostanza, ascolta e parla con una sincerità più
che professionale, empatica. In
questa zona, in questo periodo, non
ci deve essere in giro gente molto
raccomandabile, almeno questo è
quello che intuisco; come me, per
lavoro la signora si trova a contatto
con molta gente ogni giorno, e
questo tipo di selezione è quasi n e-
Ring#05
cessario per evitare futili litigi. Bella
storia, vai di caffè shakerato crema
whisky allora, che con questo freddo l’alcool mi aiuterà a scaldarmi, il
caffè a rimanere lucido per le 5 ore
che mi separano dal mio anelato
giaciglio. Mi sento una sorta di eroe
da romanzo d’avventura otto centesco nel fare questi ragionamenti. Ed è un bene, perché di solito non riesco a fare a meno di p aragonarmi ad un eroe dannunziano, ma senza titolo nobiliare e
conseguente dispensa dall’obbligo
di farsi il chiurlo per portare a casa
la pagnotta.
“Già che,
come
tu
dici, la parola è un
segno imperfetto.”
Gabriele
D’Annunzio,
Trionfo
della
Morte
Allora lasciami entrare. A questo
punto, lasciami entrare.
“Io ci sto provando, ma non riesco
proprio a godere di questa giovinezza schifosa!!”
Hiroyuki Asada, Generation Basket (volume 2)
Finito. Congratulazioni. Hai ottenuto una tuta mimetica ed una fotocamera digitale.
Una fotocamera digitale…
E’ un piacere bruto, lo ammetto.
Puntare l’M9 in faccia ad una di
quelle maledette guardie in Metal
Gear Solid 2. Osservare il nemico
terrorizzato. Pensi di cavartela con
una sana carica di mazzate, previo
esborso della Dog Tag, non è così?
Illuso… E se per caso mi hai tirato
matto, magari costringendomi a
rifarti le basette con un colpo di M9
perché la mia SOCOM era scarica, e
sapevi che i tuoi colleghi sarebbero
arrivati di lì a poco, o ancora, b astardello, hai cercato di riprendere
il fucile giudicandomi troppo lontano per tenerti sotto tiro…
Una fotocamera digitale mi farebbe comodo. Dico, avete mai v isto un falco in picchiata, trascorrere
l’aria velocissimo? Vale la pena, parola mia. Oppure… Mi ricordo una
giornata, direi, benedetta da un
cielo straordinariamente liquido, e
luminoso, grigio. Irreale. Il sole di
sé non dava altra tracce, all’infuori
di una sorta di macchia lucente,
8
abbacinante. La sagoma nera di un
albero, altissimo, ed in cima un falco, solo, attorniato dalla macchia di
luce. Immortalare quell’immagine… Per farlo, non so cosa darei.
Ma ormai è tardi, il momento è
passato.
Il capannello di persone si apre.
Un’ambulanza fende la folla che nel
frattempo ha gremito (o ghermito)
la via, ed io non riesco ad esimermi
dall’aiutare a fare largo. Perché
quando lavoro, mi viene naturale
aprirmi un varco tra le persone a
forza di “Permesso!”, “Grazie!”, di
contatti e circostanziali, moderate
spinte. Quando giro con gli amici è
un’altra questione. Quando mi
muovo da solo, invece, mi viene
naturale scivolare nella calca evitando il più possibile non solo di
essere toccato, ma anche di essere
visto. E di vedere. Un gruppo di paramedici scende dall’ambulanza, e
tra loro c’è una bella ragazza (complimenti), che da poco ha superato
i 20. No, non è quella del bar, questa è adorabilmente vigorosa. P ochi
minuti, ed il vecchio è seduto. Ha
ripreso i sensi, il suo consueto colorito, e parla con i suoi… salv atori.
A volte mi chiedo perché siamo
così affascinati dalla genialità di cui
gli artisti danno prova nel concepire
mondi suggestivi come, che so,
quello di Final Fantasy VII (avrei
voluto dire anche Ocarina of Time,
ma purtroppo non ho mai avuto
modo di godermi il detto capolavoro, solo straziarmi nell’assistere e
giocare alcune sessioni). Penso a
quella scena del falco, e dannazione, chissà quante simili o forse ancora migliori sono visibili in
tutto il mondo, magari anche in
questo momento.
Ma saprei coglierle? Saprei apprezzarle?
Se non fossi stato iniziato alla
(sobria ed equilibrata) degustazione
degli alcolici da alcuni miei amici,
avrei scelto quella weis od avrei
optato per una birra comune e molto meno soddisfacente? Se avessi
avuto una fotocamera digitale, se
avessi scattato una foto della
signora e della ragazza che, nonostante i 5 gradi di temperatura, aveva accettato di farsi sbattere in
un tavolino all’aperto, riguardandole saprei valutare se la signora si è
comportata ingiustamente verso la
sua cliente, se vedendola affranta
l’aveva giudicata male?
So soltanto, bastardello, che se
mi hai tirato matto prima di cedermi la tua Dog Tag, io non mi limito
ad ammazzarti. Ti addormento,
tranquillo. Poi una carica di C4 sulla
schiena non te la leva nessuno. Uso
lo spray refrigerante, e ti sveglio.
Mi faccio vedere così puoi chiamare
rinforzi, poi mi nascondo, e aspet-
:FRAMES:
to, e uno ad uno vi a mmazzo tutti,
alla faccia del “Caution” che appare
sotto il radar. Vi sento tediati, o
sbaglio? Quando ritengo che il tempo sia giunto, infine, lascio che la
squadra d’attacco se ne vada, e
sotto i tuoi occhi sbuco alle sue
spalle. Sono in fila, guarda, già
pronti: 4, 5 proiettili e sono giù,
tutti. E tu vorresti chiamare rinforzi? A parte il fatto che, ogni volta
che minaccio una guardia (o dopo
averle fatto perdere i sensi, dipende dalle situazioni) le metto fuori
uso la radio, ti ricordo che hai una
carica di esplosivo attaccata alla
schiena…
Troppo tardi. La deflagrazione è
già avvenuta. Eccome.
“There's the moon asking to stay,
long enough for the clouds to fly
me away…”
Jeff Buckley, Grace, da Grace,
Ring#05
Alcuni la chiamano evasione. Dalla
realtà. Gli psicologi/giornalisti/
taumaturghi, in diverse occasioni
hanno avuto modo di banchettare
alla grande, bacchettando appunto
coloro che “evadono”. Anzitutto,
che c’è di male ad “evadere” dalla
“realtà”? Nessun uomo possiede
una sapienza trascendente, divina.
La conoscenza umana è avanzata,
certo, ma ci sono centinaia di misteri che deve ancora chiarire: ne
consegue che il mondo in cui viviamo è più eidetico che reale. Alla
faccia dell’ evasione dalla realtà.
Cos’è, poi la realtà? Esiste?
“Where would Jesus be if no one
had written Gospels?”
Chuck Palahniuk, Fight Club
E poi, io chi sono? Sono quello che
rimane affascinato dalla scena del
falco, o dai fondali di FFVII? Sono
quello che si prende male nel vedere il vecchio agonizzante, la ragazza a gelare fuori dal bar, quello che
disperde la folla o, ancora, quello
che infrange tutti i buoni sentimenti
vessando le guardie di MGS2? Io
sono ognuno di essi, alternativamente. Sono un cumulo di strati
d’essere che mostro a seconda delle situazioni, degli stimoli. Bella
scoperta. Dice il superno David B owie, nella sua Sunday (da Heathen,
2002):
“For in truth, it’s the beginning of
nothing, and nothing has changed,
everything has changed”
Da qui la domanda. Uno “strato”
vale l’altro? Ce ne sono di più utili,
illuminanti, oppure tutti hanno lo
stesso valore? A voi la risposta.
cITTADINO dEL mONDO____________________________
[I pensieri di Hideo Kojima]
di Gunny
____________ Introduzione
Questo frame rappresenta la conclusione dell’excursus iniziato con il
people su Hideo Kojima (Ring #3) e
proseguito con il frame Tra i Lego
di Hideo Kojima (Ring#4).
Ancora, si invita alla lettura di
quanto già pubblicato per un’esaustiva comprensione del lavoro
svolto.
Vedremo ora di analizzare cosa
Hideo Kojima cerca di comunicare
tramite i mezzi che finora abbiamo
esaminato.
Per quanto infatti sia implicito
compito di ogni sceneggiatore definire ideali, pensieri e motivazioni di
ogni personaggio, l’insistenza e
l’evidente trasporto con cui Kojima
approfondisce alcune tematiche evidenziano una serie di convincimenti che è ragionevole attribuire
all’autore stesso anziché alle marionette che ci consente di muovere.
‘Impegno’ e ‘videogiochi’ sono
due concetti storicamente piuttosto
distanti e che buona parte dei videogiocatori preferirebbe rimanessero
tali.
Ma, come sappiamo, una caratteristica peculiare di Kojima, rispetto
a tanti suoi colleghi creatori di evasione e di mondi illusori, è quella di
veicolare tramite i suoi videogiochi
tematiche tutt’altro che prive di importanza, trasmettendo così quella
che potremmo considerare una sua
‘eredità’.
E’ davvero difficile elencare tutte
le tematiche e le sotto-tematiche di
carattere politico, sociale e strettamente umano menzionate nella saga di Metal Gear, ma è un’operazione che, per quanto meccanica e
burocratica consente di apprezzare
la poliedricità della riflessione kojimiana:
-Autoisolamento dalla società (Otacon, specchio degli otaku)
-Futuro della democrazia (coerenza
di essa, opportunità di essa)
-Etica del videogioco
L’elenco potrebbe continuare anco-ra a lungo. Tuttavia ci sentiamo
di attribuire a Kojima solo le principali tra queste tematiche, essendo
ragionevole ritenere che le altre
possano essere circostanziali alla
trama o solamente accessorie allo
sviluppo di alcuni personaggi.
___________________Potenza
-Assetto geopolitico pre e postGuerra Fredda
-Risorse energetiche (ed eventuale
esaurimento)
-Equilibrio da deterrenza nucleare
-Sperimentazione genetica ed etica
scientifica
-Schizofrenia legata all’emorragia
informativa e mnemonica tipica del
nostro tempo
-Costruzione e distruzione del reale
-Eredità biologica ed emotiva
-Rispetto della vita
9
Cominciamo con le più semplici e
ricorrenti prese di posizione che Kojima assume dal punto di vista politicostrategico.
Lo scenario tipico del gioco bellico/d’azione prevede solitamente
l’esistenza di una qualche crisi internazionale concernente WMD
(armi di distruzione di massa) e la
saga di Metal Gear non fa eccezione: le opinioni più significative
in merito possono essere desunte
dal dialogo tra Solid Snake e Kenneth Baker, presidente della Armstech (MGS), e dalle conversazioni
via CODEC con Nastasha Romanenko.
Il problema è scottante: con la
fine della Guerra Fredda l’equilibrio
:FRAMES:
nucleare esistente tra NATO e Patto
di Varsavia si è dissolto; l’informatizzazione delle procedure e il
disperdersi del know-how sovietico
fanno sì che anche una piccola n azione possa condurre con successo
un programma di ricerca per armi
nucleari, basti pensare alle recenti
conquiste in questo campo fatte da
Pakistan, India e Corea del Nord (o
alle Outer Heaven e Zanzibar della
finzione Kojimiana).
La risposta da dare a questo stato di cose non è certo scontata: vi è
chi trova nel costante aggiornamento dell’arsenale termonucleare
l’unica risposta possibile (Baker) è
chi, invece, lo ritiene semplicemente una spirale priva di conclusione e
destinata a crollare su se stessa, e
propone il disarmo totale (Romanenko).
La soluzione preferita da Kojima
è ovviamente la seconda e lo si desume da mille altri elementi secondari: in primo luogo dall’importanza
dell’incubo nucleare nella coscienza
e nella vita privata di Otacon, che
sembra farsi portavoce di quella
‘coscienza sporca’ tipica della comunità scientifica dopo il lancio su
Hiroshima (per quanto possa essere
un elemento insignificante, vale la
pena di ricordare che Yoji Shinkawa
è nativo proprio di Hiroshima).
In secondo luogo vi sono diversi
sotto-elementi che ad una prima
analisi difficilmente emergono, ma
che concorrono in modo piuttosto
efficace a demolire il discorso del
presidente Baker: egli sostiene infatti che gli USA necessitano di
un’arma di deterrenza ancora più
potente per inibire l’uso, da parte di
nazioni potenzialmente ostili, della
loro neo-acquisita capacità offensiva. Questo, a pensarci bene, è un
discorso ben fragile, in quanto le
capacità di ritorsione degli Stati Uniti sono già tali da non richiedere
alcun perfezionamento (i sottomarini lanciamissili della classe Ohio
sono in grado di effettuare un lancio di oltre 120 testate con un preavviso di mezz’ora); oltretutto,
nessuna nazione sarebbe verosimilmente tanto folle da tentare un
first-strike con vettori missilistici o
aerei, in quanto sarebbe matematicamente annientata dal contrattacco. L’unico tipo di minaccia nucleare degna di concreta preoccupazione è quella portata da singoli atti terroristici tramite i quali
uno stato ostile offenda senza possibilità di riconoscimento da parte
dell’aggredito (nel qual caso il contrattacco diviene impraticabile, a nche con un Metal Gear).
Il continuo aggiornamento dell’
arsenale conduce inoltre all’accumulo di straripanti quantità di
materiale fissile inutilizzato, ogive
Ring#05
in disuso, e con esse tutto ciò che
concerne i vettori atti al trasporto
di armi atomiche. Se la finzione Kojimiana suggerisce con i nsistenza la
dimensione del problema (Baker:”hai mai visto un deposito di
armi smantellate? File e file di contenitori stoccati alla buona. Perché
non c’è nessun modo di eliminare
quella roba…”), la realtà può fornire
un quadro ancora più agghiacciante
della situazione. E’ sufficiente una
visita al porto di Vladivostock per
ammirare coste rnati file e file di
giganteschi sottomarini atomici a
corto di equipaggi e manutenzione,
ognuno con il proprio nocciolo radioattivo pronto a contaminare
l’ambiente marino.
Sono a decine i siti ‘a rischio’ sul
territoro russo, come la base navale di Polyarnji-Murmansk (base operativa tra l’altro del Kursk), i cantieri per sottomarini atomici a Novosibirsk o la Chernoton citata in
Snatcher, dalla quale sarebbe fuoriuscito l’agente batteriologico ‘Epsilon Omega’ responsabile dell’annientamento della popolazione euro-asiatica.
Il fatto che le oltre 65.000 testate cosparse sul territorio sovietico
siano sovente oggetto di calorose
attenzioni da parte di organizzazioni criminali è un altro fatto che induce alla riflessione (più di una volta la dirigenza militare russa ha
candidamente ammesso la ‘scomparsa’ di ordigni subcritici o, in un
paio di casi, di vere e proprie testate strategiche da oltre 200 Kilotons1
di potenza).
Diviene così ovvio come Kojima
propenda per il totale disarmo nucleare, sottolineando come l’equilibrio vigente sia fragile e traballante, suscettibile di alterazione da
parte di qualunque arma o tecnologia sufficientemente innovativa (il
Metal Gear da lui inventato, ma anche lo Scudo Spaziale del presidente Reagan). E’ altrettanto ovvio che
ci stiamo limitando a a parlare della
politica di deterrenza AMERICANA,
a tutela di interessi AMERICANI.
E’ forse un fatto dovuto all’onnipresenza statunitense nelle questioni politiche del nostro pianeta, e
al ruolo simbolico degli USA che li
rende portabandiera di qualsiasi
conquista attribuita al mondo ci-
10
vilizzato. Cosa pensa Kojima a questo proposito?
________________Superpotenza
Kojima è cresciuto nutrendosi di cinema americano, e quest’influenza
è palese soprattutto nella saga di
Metal Gear: Snake ha molte cose
in comune, come tutti sanno, con
Snake ‘Jena’ (nome attribuitogli i nspiegabilmente nella versione italiana) Pliskin, celebre personaggio
dell’accoppiata Kurt Russel/John
Carpenter; le citazioni cinematografiche nelle sue opere sono molteplici e candidamente dichiarate
(‘2001: Odissea nello spazio’ per
l’accoppiata Dave-Hal in MGS, ‘Titanic’ per l’affondamento del ta nker e il rapporto Jack/Rose in
MGS2, ‘Armageddon’ per la scena
nella computer room subito dopo
la morte di Emma ancora in
MGS2). L’omaggio più manifesto è
comunque rappresentato dall’ambientazione di Snatcher, una New
Kobe che non può non r icordare la
Los Angeles di Blade Runner, con
i suoi problemi di ordine pubblico a
causa dei Replicanti (gli Snatchers)
fronteggiati ogni giorno dai blade
runners (i Junkers).
Questo affetto per il cinema m ade in USA è di sicuro il lato più conosciuto del suo sfaccettato rapporto con il paese dello Zio S am, ed
è spesso motivo di fraintendimento
per alcuni sui detrattori che vedono
in Snake il consueto, eroico agente
segreto sempre intento a sculacciare il terroristuncolo di turno e
a permettere che l’America regni
pingue e sovrana. Inutile dire come
basti anche una superficiale conoscenza di Metal Gear e di Kojima
per evitare questo malinteso, e analizzare più correttemente il profondo e per certi versi contrastante
sentimento di Kojima verso la superpotenza (che con il realizzarsi
del piano dei Patriots diverrebbe di
fatto un’onnipotenza).
Il racconto di Black Color ( Metal
Gear2: Solid Snake) sulla distruzione di Outer Heaven dopo la
fuga di Snake e del conseguente
massacro di vittime civili da parte
dell’America, l’accusa di Sniper Wolf
in Metal Gear Solid relativa alle
responsabilità americane per la tragedia curda, le terribili rivelazioni
sugli esperimenti genetici della
Guerra del Golfo sono solo tasselli
di un ritratto tutt’altro che benevolo
della superpotenza da parte di K ojima, la cui summa sarà il velenoso
anatema contro la civiltà occidentale ad opera del Colonnello in
MGS2, che successivamente analizzerò più dettagliatamente. Tuttavia vi è dell’altro: l’evidente amore
:FRAMES:
che Kojima nutre per la libertà e la
democrazia di cui gli Stati Uniti sono il simbolo (è un fatto oggettivo il
loro ruolo nella creazione della d emocrazia moderna e nella sua protezione durante i conflitti mondiali e
la Guerra Fredda), chiaro nella s equenza finale di MGS2 avente come sfondo la Statua della Libertà. È
innegabile, per quanto spietate siano certe accuse, che in fondo Kojima ami quello che l’America rappresenta, o dovrebbe rappresentare. È altrettanto innegabile,
tuttavia, il dubbio relativo ad una
situazione mai creatasi nella storia,
un dominio tanto assoluto e incontrastato da far riflettere sulla neccessità di una pluralità di vedute, di
una suddivisione delle responsabilità e sulla tutela, soprattutto, di
molteplici e differenziati interessi.
La vertigine dell’onnipotenza, per
dirla in breve, può dare alla testa
anche a chi, come l’America, è cresciuta in modo relativamente libero
e democratico, e trascinare il resto
delle umane genti nella sua caduta.
Dalle numerosi riflessioni presenti
all’interno dell’opera Kojimiana capiamo come l’America rappresenti,
nel bene e nel male, pregi e difetti
della nostra cultura, mai così vicina
ad elevare l’essere umano all’ i mmortalità (tramite la genetica, altro
tema cardine della saga di Metal
Gear) e nel contempo mai così v icina all’autodistruzione (armi di d istruzione di massa, inquinamento…). La cosa più curiosa è che
l’avanzamento procede altrettanto
speditamente su entrambi i fronti.
Un’interessante analisi compiuta
da un noto giornalista ipotizzava
che l’intera popolazione terrestre
‘vivesse all’americana’: ne derivava
un modus vivendi all’insegna dei
con sumi smodati, delle macchine
di grossa cilindrata, della dieta ipercalorica.
Le conseguenze di un tale stato
di cose si prospettavano catastrofiche: il pianeta Terra sarebbe divenuto inospitale per la vita umana
nel giro di 15 anni, crollando sotto i
colpi dell’inquinamento come un
organismo cede ad un terribile cancro.
Proviamo ad accostare a queste
preoccupanti prospettive uno degli
aspetti più radicati del sentire contemporaneo: sono in molti a sostenere che i privilegi tipici della vita
lussuosa appena descritta andrebbe estesi ai paesi del terzo
mondo, nel tentativo di livellare
l’enorme disparità tra i due emisferi
del globo e di creare un mondo uguale per tutti.
Pur essendo l’idea in sé perfettamente comprensibile e legittima,
viene da chiedersi se il punto da
raggiungere non sia una soluzione
Ring#05
intermedia tra il sovrabbondante
benessere e la più nera miseria,
piuttosto che un balzo generalizzato
della qualità della vita agli standard
occidentali. Uno ‘sviluppo sostenibile’, per dirla in breve.
Ma chi si dovrebbe fare carico di
una simile ciclopica iniziativa? Non
certamente le popolazioni dei paesi
poveri, spesso e volentieri oppresse
da tiranni locali che le dirigenze occidentali non hanno la volontà o la
capacità di affrontare (Sniper Wolf:
”fummo cacciati come cani, giorno
dopo giorno; fummo strappati dai
nostri miserabili rifugi…e il mondo
chiuse gli occhi di fronte alla nostra
miseria”), spesso addirittura contrastate nel loro timido agire dalla
candida avversione della popolazione occidentale ad ogni azione violenta ma risolutiva (basti pensare
alla vibrante opposizione levatasi
durante l’intervento dell’ ONU in
Kosovo), nella convinzione che sia
possibile risollevare le sorti di un
popolo stremato senza spezzare il
gioco del dittatore che su tale debolezza fonda la propria autorità.
Posto comunque che tale redistribuzione delle ricchezze fosse possibile, sarebbe la stessa società o ccidentale a rifiutarla. Gli slogan s ono qualcosa di gradevole se ascoltati nel corso di un dibattito televisivo, ma sarebbe curioso verificare la reazione del cittadino m edio di fronte alla privazione di qualcosa che ritiene suo indiscu-tibile
patrimonio e che un funzio-nario
statale prelevasse per fini umanitari, o più semplicemente all’ emanazione da parte di un qualsiasi governo di una pesantissima tassa sui
consumi da destinare alla causa di
uno stato centroafricano di cui la
stragrande maggioranza della popolazione non riuscisse nemmeno a
pronunciare il nome.
Questo fenomeno avverrrebbe
comunque a livelli ben più alti e i nfluenti, paralizzando uno sviluppo
lesivo di troppi interessi scottanti
(un esempio perfetto è la lentezza
della produzione di auto a idrogeno,
o la scarsa collaborazione degli USA
nella stipulazione di trattati per la
limitazione delle emissioni inquinanti).
Si tratterebbe di reazioni del singolo, spontanee e istintive (presenti
tanto nell’operaio sottopagato
quanto nel magnate del petrolio),
11
tese all’autoconservazione, e che
solo in seguito otterrebbero risonanza pubblica; pretendere di cambiare questo stato di cose sarebbe
come pretendere di impedire al sole
di sorgere.
Solo un improbabile monarca illuminato, un ‘filosofo reggitore’ estratto dalle opere di Platone avrebbe la lungimiranza e l’auto rità
per indirizzare unilateralmente l’umanità in questa direzione.
La società democratica ha invece,
affianco ai suoi pregi, il difetto di
aderire talmente tanto alla natura
umana da lasciarne manifestare
anche l’avidità, la meschinità, l’incapacità di ‘guardare lontano’.
Di sicuro gli USA sono la voce più
significativa di questa cultura, che
in buona parte è ormai anche la
nostra, a causa delle circostanze
del secondo dopoguerra, dell’odierno annullamento delle distanze,
della capillarizzazione dell’economia, di tutto ciò che si sottointende
con il termine ‘globalizzazione’. Ma
è equivalente dire ‘voce più significativa’ e ‘unica voce’? Ha senso
parlare di un’unica espres-sione in
una società basata su principi democratici? Le ‘mille voci’ della società digitale del XXI secolo possono essere ricomprese in un campione affidabile, e convertite in
indicazioni che una dirigenza politica sempre più ottusa ed economicamente interessata possa interpretare e tradurre in paratica?
_____________Libertà/Società
In un’enigmatica intervista precedente al lancio americano di MGS2,
Kojima affermò che il gioco avrebbe
messo in discussione le basi della
moderna società digitale. Inizialmente poco comprensibile, quest’
affermazione suonò a molti come
un proclama pubblicitario. Niente di
più lontano dalla verità: chiunque
abbia capito (non solo giocato)
MGS2 probabilmente ricorda gli
svariati dialoghi nei quali venivano
discussi aspetti dell’odierna comunicazione digitale.
Citiamoli in ordine di apparizione:
Presidente Johnson: “L’Arsenal Gear è più di una
semplice arma. E’ un mezzo per mantenere tale il
mondo. Eserciterà una
nuova forma di controllo. I
Patriots lo useranno per
conservare la loro posizione dominante. In questo
momento si sentono sotto
pressione e minacciati…”
Raiden: “Da cosa?”
J: “Temono una sovrabbondanza di informazioni
:FRAMES:
digitali. Che il mondo venga sommerso da un flusso
inarrestabile di informazioni, e con esso anche l oro”
….
J:“Una volta operativo, GW
diventerà una forma di
controllo completa mente
nuova nelle mani dei Patriots, permettendogli di
plasmare la ‘verità’ secondo i loro desideri.”
In MGS, ci eravamo abituati a considerare le armi nucleari come i veri
status symbol del potere contemporaneo. Ci aspettavamo qualcosa
del genere anche in MGS2, ma eccoci di fronte ad un’arma ben più
potente e versatile: il controllo
dell’informazione. La reverenza con
cui Johnson subordina le funzioni
militari dell’Arsenal a quelle informative (o meglio ‘disinformative’) del GW rendono un’idea di
questa potenza e rilevanza. Il discorso viene approfondito poco più
avanti da Emma:
Emma: “GW è un’enorme
sistema di elaborazione dati, capace di controllare le
informazioni
su
scala
globale […] Oggigiorno le
informazioni provengono
da tutte le direzioni e sono
liberamente distribuite. Informazioni di tutti i tipi,
raccolte da server provvisti
delle reti di comunicazioni
più veloci in assoluto e
dell’ultimissima tecnologia
P2P, vengono liberamente
divulgate ai singoli. Il processo accelera sempre di
più e i Patriots sembrano
temere questi sviluppi.
Credono, da dominatori, di
diventare dominati.”
Raiden: “Qualcuno li scoprirà.”
Emma: “No. La capacità
mnemonica, e naturalmente la vita, sono estremamente limitate. Al contrario, le informazioni digitali
durano praticamente in eterno. L’alfabeto ha 21 lettere, giusto? Potrebbe averne 30… cosa accadrebbe se le altre 9 le controllasse un programma?”
Raiden: “Impossibile…”
Emma: “Per niente. Anzi,
qualcosa del genere è già
in atto. Sai quanti geni ha
un essere umano?”
Raiden: “30 o 40 mila?”
Emma: “Giusto. Questo è
quanto fu annunciato dalla
comunità scientifica all’inizio del secolo. Ma ce ne
Ring#05
sono all’incirca 100 mila,
nell’originaria teoria formulata dagli scienziati. Le
informazioni relative ai 60
geni mancanti sono state
occultate dai Patriots.”
Raiden: “Impossibile!”
Emma: “Come lo potresti
sapere? Sai com’è fatto un
gene? Li hai contati personalmente?”
Purtroppo le frasi di Emma sono
terribilmente veritiere: il più significativo effetto delle innovazioni politico-tecnologiche dell’ultimo secolo
è la decostruzione della verità. Se
c’è una cosa che i principi democratici ci insegnano è che ognuno può
avere la sua opinione a qualsiasi
proposito. Ma un’opinione non nasce da sola: cresce sul terreno
dell’informazione, sterile o fertile a
seconda
della
qualità
di
quest’ultima.
E il problema dell’informazione odierna è che non è quasi mai personalmente verificabile.
Una teoria, ad esempio, vorrebbe
che gli USA non abbiano mai mandato degli uomini sulla Luna, inscenando lo sbarco in uno studio hollywoodiano. Fa ridere, è inutile n egarlo; è un’ipotesi grossolana,
ridicola (oggetto anche del curioso
film ‘Capricorn One’), smentita da
qualsiasi fonte. Ma posso IO, cittadino italiano privo di conoscenze
astronomiche e fruitore di organi di
informazione ufficiali o quantomeno
riconosciuti, dimostrare che ciò non
sia accaduto, magari allo scopo di
utilizzare, per inimmaginabili scopi,
i colossali fondi stanziati per il progetto Apollo? Ho in mano prove
convincenti ed esaustive?
Cambiamo il punto di vista: posso io, addetto alle relazioni pubbliche della NASA, portare al pubblico
delle prove assolutamente affidabili
allo scopo di dimostrare la veridicità
dei fatti, smentendo le ipotesi farneticanti del fastidioso dietrologo
innescatore della controversia? Le
foto possono essere contraffatte, i
filmati alterati. Non so a chi dare
ragione. Non so a chi dare torto.
Forse il nostro problema è che
l’uomo di un tempo si preoccupava
delle immediate vicinanze e della
comunità a cui apparteneva, mentre al giorno d’oggi l’annullamento
delle distanze spinge ad una necessità informativa smisurata rispetto
al passato, e ad un’offerta informativa spropositata rispetto alle nostre facoltà di assimilazione e alla
nostra intelligenza.
Il mondo di tecnologie che stiamo
creando ha la caratteristica di evidenziare impietosamente i nostri
vincoli biologici. Approfondiamo il
12
discorso. La parola al Colonnello
Roy Campbell, dell’Esercito degli
Stati Uniti:
Campbell&Rose “Ci sono
cose che esulano dalle informazioni genetiche… i ricordi; le idee; la cultura; la
storia. I geni non contengono alcuna informazione
sulla storia umana, ma non
si tratta forse di cose meritevoli di essere trasmesse? ….abbiamo sempre
conservato dei ricordi sulle
nostre vite, tramite simboli, immagini, parole, su
tavole di pietra e libri
stampati. Ma non tutte le
informazioni venivano tramandate. Una piccola parte
di esse veniva elaborata e
quindi trasmessa. Ma nella
attuale società digitale, informazioni trascurabili vengono accumulate ogni secondo, nella loro pura futilità. Informazioni su rumori, indiscrezioni, calunnie,
crescono e si moltiplicano
ad un ritmo allarmante.
Non faranno che rallentare
il progresso e ridurre il ritmo dell’evoluzione… La società digitale incoraggia i
difetti dell’uomo e favorisce
la formazione di comode
mezze-verità. Ti è sufficiente osservare le curiose,
opposte moralità che ti circondano: si spendono miliardi in nuove armi, capaci
di sterminare in modo ‘umano’ altri essere umani; i
diritti dei criminali sono più
rispettati della privacy delle
loro vittime; vi sono milioni
di persone che crepano di
fame, ma noi devolviamo
enormi donazioni per proteggere specie in pericolo…. tutti crescono sentendo gli stessi moniti: ‘sii
buono con le altre persona,
ma fai a pezzi la concorrenza’.
Tu eserciti il tuo diritto alla
‘libertà’, e questo è il risultato: tutta retorica, per evitare il confronto e proteggerci dal dolore. Verità
che invece sono frutto di
interessi contrastanti continuano a essere accumulate
nel bidone della correttezza
politica e del potere. Tutti
si richiudono nella loro piccola tana, limitandosi a riversare nella cloaca della
società quelle verità che
possono essere loro utili.
Le differenti verità cardinali
non si armonizzano, né
:FRAMES:
vengono a collidere. Tutti
dicono la verità, ma nessuno ha ragione.”
Siamo a poche fermate dal capolinea, nella visione del Colonnello.
Siamo l’unica razza animale tanto
intelligente da procedere alla distruzione del suo stesso pianeta, e
messi di fronte alle conseguenze
del nostro operato ce ne usciamo
con un ‘tanto morirò prima di pagare il conto’.
Nella nostra infinita superiorità
siamo capaci di disprezzare la legge
della giungla e le usanze dei p opoli
meno ‘avanzati’, salvo poi riproporre in forma attenuata lo
stesso modello travestendolo da
capitalismo e chiamandolo mondo
libero. Siamo tanto umani e compassionevoli da difendere a spada
tratta il diritto alla vita di ogni essere umano, quando è palese che tra
qualche decennio, sconfitte le malattie e forse anche la morte, saremo talmente tanti da doverci sbranare per sopravvivere. Siamo gli
specialisti del grigio, della terza via,
del compromesso, del ‘cambiamo
canale’.
Così la vede il Colonnello: siamo
le feci del ventesimo secolo che
ammorbano il ventunesimo e non
abbiamo neanche la capacità di
ammetterlo.
“Addestriamo dei ragazzi a
scaricare napalm sulla gente, ma i loro superiori non
vogliono che essi scrivano
‘cazzo’ sui loro aerei. Perché ‘cazzo’ è una parola
oscena’
[Col. Kurtz, Apocalipse
Now
di
Francis
F.
Coppola, 1979]
Questo perché ipotizziamo mille cose, e non ne crediamo nessuna.
Peraltro nessuno tra coloro che in
teoria occupano una posizione che
li dovrebbe investire del dovere di
vivere e morire per diritti e ideali
(la dirigenza politica) è disposto a
dare il buon esempio, preferendo
fare della propria posizione un
semplice perfezionamento della
normale nicchia che altrimenti gli
spetterebbe nella società.
E’ un fatto di cui ci si potrebbe
rendere conto solo nel caso in cui,
in un improbabile slancio di onestà,
qualche politico confessasse la bassezza delle sue reali ‘motivazioni
lavorative’, sbattendo in faccia al
suo attonito elettorato volgarissimi
vizi, sporche ambizioni personali
dalle quali sarebbero in un primo
momento schifati ma nelle quali
non tarderebbero a riconoscersi in
modo speculare.
Ring#05
Basterebbe un simile scricchiolio,
e il fragile castello di carte della
‘moralità’ come la intendiamo oggi
vacillerebbe piacevolmente.
Un tempo lo Stato, L’imperatore,
lo Zar, il Kaiser, il Duce, il Presidente o chi per esso stabiliva una M orale, corretta o abbietta che fosse.
A seconda dell’errore o del successo della nuova formula, si muoveva
il passo nella direzione successiva.
Il problema della democrazia flessibile di oggi è, secondo il Colonnello,
la sua staticità, la sua incapacità di
evolversi coerentemente, preda
dell’assordante vociare dei suoi
componenti, tutti parimenti influenti nella determinazione del percorso
evolutivo da perseguire eppure tutti
parimenti incapaci di valutare la
reale influenza/opportunità delle
loro scelte per manifesti limiti personali (‘io voto Berlusconi perché è
il presidente del Milan’, ‘io voto PRC
perché così legalizzano la marijuana’ ecc.’ ), rintronati come s ono dal
loro stesso vociare e dal bombardamento informatico-televisivo che
impedisce loro di r icordare alcunchè
per più di qualche minuto (stupiti di
fronte a come un anziano ricorda
nei dettagli la sua gioventù? Ricorda meno cose e le custodisce m eglio, decidendo con più raziocinio).
Conclusione: i Patriots vogliono
proteggerci
dalla
decadenza,
dall’autodistruzione. Il Colonnello
ha detto la verità. Peccato che ‘verità’ in MGS non significhi niente.
sua fantasia, la vita gli ha insegnato a credere in quanto di
buono possiamo incontrare lungo il
nostro cammino, o a quanto di
buono possiamo strappare alla vita
lottando e sperando.
Il progetto dei Patriots ha un p uro e semplice obbiettivo:
Colonnello: “sarà così che
avverrà la fine del mondo.
Non con un’esplosione, ma
con un sussurro. Noi stiamo cercando di fermare
questo processo.”
Sopravvivenza biologica, quindi;
trasmissione della propria eredità
genetica.
I Patriots ragionano come un apicoltore desideroso di privilegiare la
specie più produttiva, rendendola
vincente e curandone l’equilibrio,
come se la sopravvivenza rappresentasse l’ultimo obbiettivo, la soddisfazione di ogni sogno, di ogni
aspirazione, come se la mera sopravvivenza subordinasse a sé m igliaia di anni di letteratura, scienza,
filosofia, musica e poesia. Sopravvivenza: questo è quanto. Ma siamo sicuri che per un uomo sia tutto? Lo era per Liquid Snake:
Snake: “vuoi dire che sono
i tuoi geni ad ordinarti di
prenderti cura dei tuoi parenti? Davvero toccante…”
Liquid: “Io non ho intenzione di disobbedire ai miei
geni”
Mentre Solidus non ne era altrettanto convinto:
_____________Verità. Eredità.
Se quanto abbiamo detto corrispondesse ad assoluta verità, ne potremmo dedurre che Kojima sia una
sorta di nostalgico della monarchia
assoluta, che proponga un rapido
ed immediato disinnesco della società umana per come essa è oggi
strutturata. La potenza concettuale e la spietatezza del monologo del Colonnello mi avevano
quasi convinto di questo (e mi ero
quasi convinto che avesse pure r agione).
Ma Kojima, sposato e padre di un
bambino, non è capace di racchiudere il suo pensiero in una visione
tanto micidiale, per quanto scientifica e comprovata. Oltre ad usare la
13
Solidus: “La torcia viene
passata, di padre in figlio.
E’ così che tutto funziona.
Ma noi non abbiamo eredi,
né eredità. Ci hanno clonati
da nostro padre, ma rendendoci incapaci di riprodurci. Qual è il lascito di
noi, che non possiamo passare la fiaccola della vita?
Una prova, un segno della
nostra esistenza. L’eredità
trascende il DNA, comprende anche informazioni… tutto ciò che voglio
è essere ricordato… da a ltre persone, dalla storia.”
Il desiderio di lasciare una traccia,
ossessione di Solidus, rappresenta
l’impulso ad emergere, l’autoaffermazione, l’atto d’orgoglio di un
Prometeo m oderno, il massimo terrore dei Patriots. Il concetto è caro
anche allo stesso Snake, che nelle
battute finali evidenzia a Raiden la
necessità di comunicare le proprie
convinzioni, ciò che per noi è ‘ab-
:FRAMES:
bastanza importante da spingerci a
combattere’. Il problema consiste,
nell’ottica dei Patriots, nell’eccessiva risonanza che il pensiero
individuale può ottenere grazie alla
tecnologia odierna, con p aralizzanti
conseguenze sulla società e sulla
politica. Non è per loro concepibile
che l’equilibrio di una specie possa
essere messo in discussione dall’arrogante pretesa del singolo di vedere riconosciute le proprie idee:
Rose: “l’individuo è per definizione debole. Ma tutt’
altro che privo di potere:
una sola persona è potenzialmente in grado di
rovinare il mondo”.
Essendo la loro unica preoccupazione quella di mantenere in vita la
razza umana, sono disposti a snaturarla, privando l’uomo a sua insaputa della possibilità di incidere
sul suo habitat (il colonnello peraltro si dimostra dubbioso circa
l’effettiva importanza di questa ‘natura umana’, basti pensare alle d isquisizioni riguardanti il termine
self). Ma se è giusto che la vera
forza risiede nelle idee, allora è sufficiente un’idea di Solid Snake per
demolire questo unico obbiettivo, il
risultato della perfetta ma asettica
equazione del colonnello:
Snake:“ Probabilmente un
giorno la razza umana si
estinguerà, e nuove specie
popoleranno questo pianeta. La stessa terra potrebbe non durare in eterno,
ma abbiamo comunque la
responsabilità su quali
tracce di vita lasciamo dietro di noi…”
Snake, nel corso delle sue avventure, ha rischiato la vita più di una
volta. Più di una volta è morto sotto
i nostri occhi. Da quanto leggiamo è
Ring#05
chiaro che il pensiero che un giorno
l’uomo possa estinguersi, il terrore
del digicolonnello (e lo stesso motivo della sua esistenza: “noi stiamo
cercando di fermare questo processo“), l’incubo dell’apicoltore che vede le sue api morire, non lo angustia in modo eccessivo. Non è la
vita biologica ciò che interessa a
Snake: l’uomo ha commesso molti
terribili errori, nel corso della sua
storia, e la sua scomparsa sarebbe
solo l’ultimo dei tanti.
dono che abbiamo ricevuto? Perché, anche se il colonnello avesse
ragione (come è probabile) e fossimo alle porte dell’ora più oscura
della nostra storia, avremmo comunque il dovere di tentare e di
sbagliare, e di pagare il massimo
della pena, piuttosto che subordinare la nostra natura di uomini
che ‘vivono’ alla necessità di sopravvivere.
E’ questo, secondo me, quello di
cui Kojima è convinto.
Naomi Hunter: “Non devi
lasciare che siano i tuoi
geni a dominarti. Gli uomini sono in grado di scegliere il tipo di vita che desiderano vivere. E allo-ra…
vivi.”
Snake: “Dobbiamo ricordare, e ricordare a tutto il
mondo di lottare per il
cambiamento. Ed è questo
che mi mantiene in vita”
Si ripropone un conflitto irrisolvibile
(peraltro già citato nell’Indepth su
MGS2-Ring#1), una dicotomia tra
verità assoluta (basata sull’obbiettiva necessità di riorganizzare una
società che sta impazzendo) e verità relativa (basata sul sentire individuale, più ‘umana’ ma pericolosa
alla luce di quanto detto).
Il Colonnello individua la soluzione privilegiando l’utilità, mentre
Snake la sceglie su basi etiche.
Non ho certo la pretesa di indicare in questa sede l’una o l’altra soluzione, anche perché francamente
mi è difficile scegliere. Ma è un
problema che indubbiamente Kojima si è posto, o che quantomeno
ha voluto suggerire al videogiocatore.
Non è peraltro difficile individuare
l’opinione di Kojima in merito: come al solito è Snake a farsi tramite
delle sue idee.
I Patriots provvedono affinché
l’uomo sopravviva. Snake lotta a ffinché l’uomo viva. Perché, in quanto uomini, ci è concesso peccare di
presunzione e arrogarci il diritto di
pensare e sognare, di godere del
14
Ed è quello che lo mantiene in vita
dentro di noi, anche quando spegniamo la console e ci dedichiamo
ad attività secondo gli altri più serie
di quanto non siano i videogiochi.
Ma ciò non ci deve illudere: gli
spettri evocati dai Patriots (inquinamento, ipocrisia, autodistruzione)
sono qualcosa di terribilmente reale, qualcosa a cui TUTTI diamo il
nostro contributo ogni giorno, inconsciamente o meno.
Il conto alla rovescia per la fine
del mondo è iniziato da tempo, e
non avremo bisogno né di invasioni
aliene né di asteroidi per arrivarci.
Il finale di MGS2 privilegia la soluzione di Snake, ma con MGS3
Kojima potrebbe compiere una u lteriore riflessione, e rimettere tutto
nuovamente in discussione.
Nel frattempo avremo tutto il
tempo di rifletterci per conto nostro, e di considerare scelte che
nessuna lezione scolastica, nessun
libro, nessuna pellicola ha mai avuto modo di proporci.
Snake:”It’s for you to decide. It’s up to you”
:FRAMES:
Ring#05
gAMEWOOD bABYLONIA____________________________
[Game’s History]
di Amano 76
I protagonisti. Le stelle. Gli idoli. Ring traccia la storia dei
miti più popolari del mondo videoludico, in una biografia
non ufficiale senza peli (pubici) sulla lingua.
Parappa. Il bastardo di L.A.
"L'uomo da sempre sfrutta il cane bianco, e gli fa fare
film idioti. Non dobbiamo accettare film razzisti come la
Carica dei 101, o Antartica, o Balto."
Parappa agli Mtv music awards 1999
Parappa nasce il 1994, a Los
Angeles, ma viene venduto a ncora in fasce ad un canile di p eriferia; un fatto che lo segnerà
indelebilmente, tanto che più
volte il cantante si difenderà ai
microfoni dei giornali dichiarando che "non sono stronzo, è
che mi è mancata la figura paterna". Cresciuto orfano nei
sobborghi di L.A, Parappa è un
semplice cane bianco in un
quartiere di mastini neri, e non
passa molto tempo prima che
un giorno un gruppo di randagi
lo assalga, pestandolo selva ggiamente. Dopo diverse settimane dal veterinario, Parappa
compra due 45, guarda tutti i
film di John Woo per farsi coraggio, e poi esce di casa per
andare a fare "giustizia".
Il resto è storia. L'ascesa di
Para ppa mette in soggezione
tutta la criminalità organizzata
americana, e la sua crudeltà è
tale che Tarantino lo vuole per
la parte di Jules in Pulp Fiction
(assegnata all'incapace Samuel
Jackson dopo il rifiuto del gangsta -rapper). Nel gennaio 1996
lancia il suo primo singolo "dog
the way I am", che per sette
mesi domina le classifiche di
Mtv, e che lo lo lancia nello
stardom del rap. Due mesi d opo pubblica il suo primo album
"ain't nothing but Pal", in cui il
rapper di colore si scaglia co ntro il cibo per cani, gli amici ipocriti, e le conversioni europee. Nel 1997 n
i contra, in uno
strip club di sua proprietà, il
programmatore Masaya Matsuura e i due decidono di ideare un videogioco che ritragga il
piccolo bastardo bianco nella
veste che più gli si addice,
quella di innocuo fanciullo
spensierato; "perchè in realtà
anche io ho dei sentimenti", d ice. Il gioco, prodotto con il ricavato del concerto Drop the
Debt (che Para ppa ruba dal
camerino di Bono Vox) si rivela
una killer application e il rapper
di L.A. diventa un icona pop a
tutti gli effetti.
Nel 1999, sospettato dell'omicidio di J.J. Cool L., viene incarcerato per breve tempo. E'
l'indiziato numero uno, ma i
cani hanno il divieto di ingresso
in tribunale e il processo non
può quindi avere luogo. Para ppa resta impunito, la fedina p enale intatta, ma il rapporto con
Sony si incrina. Alla notizia di
Un-jammer Lammy, Parappa
perde la testa: con l'amico di
sempre Pluto (diventato alcolizzato dopo una breve ca rriera su
Topolino), entra in casa di Kakato Maiscocciato, produttore di
Un-jammer Lammy, e crivella
di colpi l'uomo, la moglie, i due
figli, e il 49 pollici al plasma
appena co mprato dalla vittima.
Sony corre ai ripari e tenta il
tutto per tutto con Parappa 2:
la lavorazione è difficile. L'alce
Mooselini, dopo il successo o ttenuto come protagonista nel
video dei Queens of the Stoneage, si rifiuta di fare da spalla a
Parappa e scoppia la rissa: M asaya Matsuura seda gli animi,
ma ormai è ufficiale, nessuno
vuole più il gioco del canerapper. Incapace di stare lontano dalle luci della ribalta, di recente "il bastardo di L.A.", è
riapparso a fianco di Snoopy
Doggy Dog nel brano "you lil'
skum-fagg", in cui i due controversi artisti denunciano la
15
corruzione all'interno dei cinodromi. Il prossimo progetto di
Parappa è al momento ancora
sconosciuto, ma siamo sicuri
che nel frattempo si divertirà a
crivellare di colpi qualcun altro.
__Snake. Significati nascosti
"La mia guerra è finita, colonnello"
La frase di cui Rambo e
Snake si contestano a vicenda i diritti di sfruttamento da più di vent' anni.
Appassionato di nascondino e
sigarette sin dall'età di 6 anni,
Solid Snake, nome d'arte che il
bambino prende in prestito da
un suo mito d'infanzia (un attore porno con due cazzi, protagonista di innumerevoli cult) si
arruola a 18 anni nell'esercito
degli Stati Uniti. Dopo un paio
di missioni in cui Solid sopravvive a tutti i membri del
plotone (mimetizzandosi nella
vegetazione mentre i comp agni
crepano uno dopo l'altro), viene
reclutato per missioni della
massima importanza. È un successo: Snake trafuga bombe
atomiche, uccide centinaia di
mercenari innocenti alle spalle,
e colleziona innumerevoli poster di giapponesine in costume. Nel 1986 scrive un autobiografia che vende milioni di
copie, una delle quali fin isce
sulla scrivania di Hideo Kojima,
giovane designer di videogiochi
con la predilezione a guardarsi
allo specchio, attività che lo
stesso definisce "esercizio alla
metarefere nzialità".
I due si incontrano, ed un
:FRAMES:
anno d opo viene prodotto Metal
Gear Solid: Snake diventa il
pers onaggio di videogiochi più
popolare del mondo. Ma il successo è breve. Durante la lavorazione del secondo capitolo,
sparisce misteriosamente: nella
fretta di portare a termine il
sequel, Kojima lo sostituisce
con un ex-Backstreet Guys,
Sugar Raiden. Snake si è in realtà nascosto a scopo dimostrativo sotto la scrivania di Kojima, ma la sua abilità è tale che
nessuno riesce a individuarlo e
la lavorazione va avanti. Tra il
furore popolare, Mgs2 esce sul
mercato, ma le critiche sono
tante. Solid Snake e il noto
game designer hanno un violento diverbio, in seguito al
quale l'eroico/codardo soldato
dà le dimissioni da Konami, e si
dedica a consumare gli ultimi
giorni di popolarità che gli sono
rimasti.
Dopo una breve relazione con
Ayame, eroina di Tenchu, che
recentemente in un intervista
rilasciata per Times confessa di
non averlo mai dimenticato,
Snake è stato implicato in una
grave rissa nel locale Dessert
Storm, abituale ritrovo di militari in pensione. A quanto pare
qualcuno gli ha urlato alle spalle "meglio Winback!", e l'exdipendente di Konami ha perso
il controllo e ha cominciato a
pestare tutti quelli che gli capitavano a tiro.
Si sono di nuovo perse le sue
tracce finchè non è riapparso
alla ribalta un anno fa, quando
è stato arrestato per molestie
sui minori. "Stavamo solo giocando a nascondino", ha detto
alle telecamere, ma il processo
è ancora in corso e non si sa
cosa il futuro riserverà all' ormai invecchiato Solid.
_______Mario, Luigi, Wario.
Figli di miyamoto
"Lo sai dove ge lo infilo il tub-
Ring#05
bo?"
Il campionamento vocale, in
seguito censurato, che Mario declamava nella versione
giapponese di Donkey Kong.
L'associazione mafiosa conosciuta come Mario Bros, composta dai fratelli Mario, Luigi, e
Wario, nasce a Kyoto durante il
Dopoguerra. Di origini palermitane, i tre cominciano le loro
attività con una pizzeria che in
breve fallisce, e li costringe a
reinventarsi idraulici (mestiere
di cui ben poco si intendevano)
come da tradizione di famiglia.
E' il 1983 quando un tale di
nome Shigeru Miyamoto chiede
soccorso ai tre fratelli per un
water otturato (da cui il gergale
modo di dire dei playstationari:
"una gran stronzata di Miyamoto"), e i Mario Bros, notata la
bonarietà dell'uomo, gli estorcono 20'000 degli attuali euro
con la ripromessa che "jorn eranno prescio".
Tuttavia con il secondo prelievo i fratelli aggiungono un
ricatto ulteriore: vogliono diventare famosi e Miya moto d eve aiutarli. Il pover' uomo, disperato, esaudisce le loro richieste nell'unico modo che gli
è possibile: li mette in un videogioco. I tre, non avendo altre
possibilità di sbocco (in Giappone non esistono i sindacati),
attendono con fiducia: ma ecco
che Yamauchi, che non si piega
e non si spezza, viene a conoscenza del folle progetto, prende una delle sue centinaia di
mazze da golf e la frantuma
sulla testa di Miyamoto, gridando che il progetto verrà
immediatamente interrotto.
Alla notizia, i Mario Bros non
esitano a "cercare di convincere" il nonno-samurai: la mattina successiva, Yamauchi si ritrova nel futon 4 teste di cava llo, 2 teste d'asino, 8 teste di
panda, e 5 teste a caso tra amici e parenti. Il resto è storia.
Donkey Kong vede la luce, e i
16
Mario Bros danno il via al loro
regno di terrore.
Stabilitisi a Kyoto, i tre
inaugurano vari progetti solisti
(Luigi, il più fesso dei tre, dovrà
aspettare ben vent'anni per un
gioco tutto suo) ma la loro unione resta salda nel tempo, e
anche Miyamoto con gli anni
diventa sempre più "uno di famijja". Eppure "tutto inizia per
finire" diceva il poeta, e non ci
vuole molto perchè nascano i
primi contrasti. All'origine, ovviamente, una donna: conosciuta col solo nome di Peach,
nome d'arte scelto per lei dal
suo pappone James Woods,
viene raccolta dalla strada da
Mario, che nel frattempo s'era
anche comprato un paio di la uree ad Harvard ed era diventato dottore, cosa che lo aveva
reso un pò spocchioso nei co nfronti dei due p arenti. In breve
tempo Peach viene però sedotta da Wario, che tradisce i suoi
fratelli e si porta via la donna.
Coinvolto da faide intestine, il
clan Mario si scompone, e Miyamoto lascia il mondo dei videogiochi per dedicarsi al
salvataggio dei delfini.
Di lì a poco, Luigi finisce in
prigione per tre accuse di plagio (una per ciascun ghostbuster) e muore in un orgia s odomita tra carcerati, per cause
a tutt'oggi ancora sospette.
Wario, reinventatosi spacciatore, viene ucciso in un agguato
dagli Snow Bros, clan emergente di mafiosi esquimesi residenti a Kyoto, che si era fatto strada attraverso lo smercio della
"polvere bianca". Mario, incapace di dimenticare i fratelli,
pur con tutto quello che c'è stato tra loro, si è risposato con
Peach e si è comprato un isola
ai Caraibi, dove pare tiri ava nti
gestendo uno spaccio di cocomeri e cocktail, in attesa che
Martin Scorcione finisca di girare il film tratto dalla sua autobiografia.
:INDEPTH:
Ring#05
iL fASCINO dISCRETO dELLA bORGHESIA [Fitter Happier More Productive]
[VERSUS: The Sims]
Round One, di Ferruccio Cinquemani
“Nel mezzo del cammin di nostra
vita…”
Dante Alighieri
Mentre su PS2 esce The Sims il videogiocatore consolaro non può
non sentire la necessità di comprendere perché.
Perché The Sims è il videogioco
per PC più venduto al mondo? Perché? Cosa c’è di così attraente in
una “simulazione di vita”?
I videogiochi per PC sono sempre
stati un mistero per i possessori di
console: l’opinione media del giocatore consolistico medio è che i
giochi per computer siano senza
centro, che ruotino attorno a concetti oscuri e presuntuosi. Che siano, in qualche modo, dilatati, senza
un vero scopo.
Stereotipi, è vero. Pregiudizi. A rgomentazioni vecchie e poco obiettive.
Ma se c’è un videogioco capace di
rafforzare questi stereotipi, questi
non può che essere The Sims.
Quello che vi raccontiamo è il viaggio di un giocatore di console nei
lidi lontani del gioco per PC, fra estetica, sociologia, etica e politica.
Tenendo sempre presente la domanda ultima: perché The Sims ha
avuto un successo senza precedenti?
____________Estetica dei sims
Musica lounge. Easy listening molto
fuori moda. Colori pastello e musica
da-ba-da-ba-dà e shalla-la-là. Immagini e suoni che introducono il
giocatore in un mondo cannabinoide…
L’aspetto grafico-sonoro di The
Sims lascia spaesati: tutto è ovattato, semplice e caldo. I menu sono
essenziali, tinti di blu, pieni di tanti
bei bottoni da premere. Le musiche
sembrano canticchiate da una tranquilla casalinga mentre allegramente (!) svolge il proprio lavoro.
In The Sims non si trova l’allegria
caciarona di un qualsiasi Super M ario. Sì, i colori pastellosi ci sono. Sì,
le musichette facili facili anche. Ma
se Mario è anfetamina, The Sims è
hashish. La grafica del mondo dei
Sims non è allegra, è serena, tenue, rassicurante. Sarebbe allegra,
se solo l’umanità non fosse così
cronicamente insoddisfatta. Sarebbe realistica, se solo la vita fosse
come una puntata di Happy Days.
La verità è che c’è qualcosa di
profondamente inquietante nell’aspetto grafico di The Sims.
La casa, luogo di esistenza della
little computer people, è tutta imperniata attorno al sacro concetto
di ordine. La casa, in The Sims, è
come le astronavi nei film di fantascienza degli anni ’60: rigida,
fredda, simmetrica, paurosamente
ordinata. L’arredamento, per fare
un esempio, può essere collocato
soltanto in posizioni perpendicolari/parallele rispetto alle pareti. E
ancora. Gli oggetti non si usurano.
Tutto si perpetua, niente si rompe,
niente cambia.
C’è qualcosa di profondamente
sbagliato nelle case dei sims.
E il giocatore consolaro capisce
presto cos’è quel qualcosa: queste
case non sembrano case. Tutto è
efficacia, razionalità, niente può
stupire, diceva Manuel Agnelli; ed è
questo il punto. Le vere case, per
definizione, sono un centro di entropia centrifuga: sono calde, asimmetriche, spesso brutte da vedere.
Le vere case sono luoghi in cui si
riflettono le imperfezioni della gente, le loro incoerenze. Le case in
The Sims, invece, sembrano delle
macabre parodie delle vere case.
Delle parodie naziste, imbevute di
assurdi ideali di perfezione, di normalità. Anche il massimo del kitsch,
in The Sims, non riesce a stupire.
Anche i mobili più assurdi sembrano un semplice divertisse-ment che
in fondo non aggiunge nulla al grigio della casa simsiana. Quella dei
sims è un’estetica da casa di bambole, da set di telenovela: è un abisso di banalità straniante. Il giocatore consolaro, alla visione dell’omino anonimo vestito in maniera
anonima che si aggira fra il tavolo
minimalista verde chiaro e la poltrona blu scuro di fronte al megatelevisore del cazzo… il giocatore
consolaro, dicevamo, sente un sottile brivido lungo la schiena.
“Tutto questo è orribile”, pensa
per un attimo.
Poi sviene.
E cade, come corpo morto cade.
__________Sociologia dei sims
Le relazioni sociali sono reticolari.
Ogni essere umano inserito in una
società ha una serie di rapporti e
conoscenze che creano delle vere e
proprie reti di relazioni. Amicizie,
17
rapporti di lavoro, amori, conoscenze superficiali… tutti questi legami potrebbero venire rappresentati come linee che si intersecano
formando ragnatele. E non solo:
queste “ragnatele” spesso si incrociano fra di loro, formando delle
matasse difficilmente districabili.
Quando un tuo ex compagno delle
elementari conosce la tua ex ragazza del liceo durante la tua festa di
compleanno si crea un imprevedibile collegamento fra due reti relazionali lontane. E allora?
Cosa c’entra tutto questo con The
Sims?
Nulla, ed è questo il punto.
Le relazioni, in The Sims, non
vanno oltre la tripartizione amore/odio/amicizia: niente complessità, niente profondità. I personaggi
si salutano, si baciano, si fanno r egali, ballano assieme, a volta si
schiaffeggiano, ma… ma nulla. Tutto rimane in superficie. Come
l’iniziale ritratto della perfetta famiglia (americana) di American Beauty, l’affresco dei rapporti so-ciali
di The Sims è desolante nella sua
iperreale normalità. Il massimo che
possa succedere è che un tuo vicino
di casa ti venga a trovare. Lo accogli in casa e parlate del più e del
meno. Poi lui saluta e se ne va.
Il giocatore, a questo punto,
mormora fra sé e sé: “allora è questa l’amicizia?”. Horror vacui. Come
si può ridurre l’amicizia a delle conversazioni sporadiche sul più e sul
meno? Perché il mio stronzissimo
sim ha fatto amicizia col suo stronzissimo vicino di casa? Cos’hanno in
comune? Cosa? Che fa nella vita il
vicino di casa? Come ha vissuto f inora il mio sim? Chi era dieci anni
fa?
Tutto questo è troppo per il giocatore consolaro. Il poveretto si
guarda attorno, osserva le foto dei
propri amici, della propria ragazza,
fruga nei ricordi. E si chiede, il p overo consolaro, come ci si possa
affezionare a dei personaggi senza
storia, come si possa essere affascinati da reti relazionali ordinate,
simmetriche,
cartesianamente
schematiche e, soprattutto, spaventosamente inutili. Più che reti, o
ragnatele, le relazioni simsiane s ono linee parallele e perpendicolari.
Griglie, insomma.
:INDEPTH:
Il fatto è che più si tenta di simulare la vita reale, più ci si scontra con il caos. L’entropia che avvolge la vita umana è ciò che, in
ultima analisi, permette alla vita
stessa di essere imprevedibile. Il
fascino della realtà sta in questo.
Ma il videogioco non può ricreare il
caos, se vuole essere divertente. Il
videogioco, infatti, ricostruisce dei
limitati ambiti di realtà, in cui le
regole sono infinitamente meno
complicate rispetto alla vita reale.
Tutto ciò permette una maggiore
densità delle esperienze ludiche,
proprio perché molto più controllabili rispetto a quelle reali. Il videogioco, cioè, non imita la realtà tout
court. Il videogioco elimina dalla
realtà tutto ciò che non è divertente; quindi la interpreta. C’è una
bella differenza fra emulazione e
interpretazione. Ma ciò sembra
sfuggire ai creatori di The Sims.
The Sims annoia per la sua volontà di replicare la vita, senza distinguere fra ciò che ha senso portare
su schermo e ciò che, invece, su
schermo non funziona.
E il videogiocatore consolaro i ntuisce che fare amicizia è diverte n-
Ring#05
te, ma far fare amicizia al proprio
sim con un vicino di casa non è , in
nessun caso, piacevole. Non si a vvicina nemmeno al concetto di divertimento. E allora il consolaro si
incazza. Perché questo non è videogioco. Questo è reality gaming.
È TV. È Grande Fratello.
Il consolaro si incazza.
Ma il suo viaggio di conoscenza
non finisce qui. E quindi il consolaro, ebbro di rabbia, cade, come
corpo morto cade.
_______Etica e politica dei sims
Il bravo sim compra. Il bravo sim
non è depresso. Il bravo sim lavora. Fitter, happier, more productive, direbbero i Radiohead. Qual è
lo scopo della vita? O meglio: qual
è lo scopo della vita di un sim?
Comprare.
Avere un divano nuovo fa star
meglio. La carta da parati è una
scelta importante. Un televisore al
plasma migliora l’equilibrio psicofisico di un individuo.
Perché i giocatori si The Sims
gioiscono quando comprano arredi
per la casa dei propri personaggi?
Cosa c’è di così fantastico in tutto
ciò?
Se un sim litiga con la propria
moglie, l’unico modo per tirarlo su
è fargli guardare la sua fantastica
tv al plasma: difficilmente si era
vista una simile parodia involontaria del consumismo. Se il videogioco è medium, cosa è The Sims?
Sicuramente una visione distorta e
accelerata della società americana/occidentale. Ma anche un tipico
caso di boria da game designer. Il
tentativo di simulare la Vita, con la
v maiuscola, si traduce in una deprimente sequela di azioni da compiere. Inutili considerate singolarmente (che senso ha la necessità
di decidere quando il mio personaggio deve andare al cesso?), inutili considerate tout court (che senso ha scegliere lo stile di vita del
mio personaggio se poi viene premiato soltanto uno stile di vita,
quello più conformista?).
The Sims è immorale per colpa
del suo ultra-moralismo, della sua
correttezza politica.
Alla fine del suo viaggio di conoscenza, il videogiocatore consolaro
guarda con più affetto le proprie
console. Come per magia gli è to rnata la voglia di uccidere zombie, di
scatenarsi in un’orgia di ultraviolenza digitale. Quindi ripone il CD di
The Sims nella custodia con aria di
sufficienza. Ma ciò non toglie che,
nel profondo del suo animo, anche
se la vergogna lo frena dall’ammetterlo apertamente, un po’ si è
divertito a scegliere che divano a cquistare per il soggiorno digitale.
Perché, nonostante tutto, il videogiocatore è incoerente, sempre e
comunque.
“E quindi uscimmo a riveder le stelle”
Dante Alighieri
sO sIMS________________________________________
[VERSUS: The Sims]
Round Two, di Paolo Jumpman Ruffino
“The Sims è un gioco estremamente noioso e frustrante. Come lo è, del resto, la mia esistenza.”
Matteo Bittanti, [(Dis)simulando The Sims]
“Ho visto certa gente discutere abilmente della psicanalisi come fosse
l’uncinetto.”
Bluvertigo
“Conosco le abitudini so i prezzi e non voglio comperare né essere comprato.
Attratto fortemente attratto, civilizzato sì civilizzato. Comodo ma come dire
poca soddisfazione”
C.S.I
Dare un giudizio definitivo su The
Sims è chiaramente impossibile,
perché è impossibile stabilire in
modo oggettivo se un videogioco,
come qualunque altra produzione
umana, sia bello o brutto, noioso o
divertente, simpatico antipatico.
Quello che si può fare è affidarsi
all’opinione della maggioranza, consapevoli che esiste un margine di
possibilità non indifferente che il
18
singolo individuo si trovi poi in disaccordo.
Quello che ci dice la maggioranza
dei videogiocatori su The Sims è
che è un gioco brutto, perché assolutamente privo di spunti diver-
:INDEPTH:
tenti. Ma questa opinione sembra
contrastare con quella della maggioranza degli osservatori del videogioco tout court, che invece ritiene
che The Sims sia un gioco molto
interessante per molti aspetti diversi. Stando dunque all’opinione
dei più, sembrerebbe che The
Sims, un po’ come un bel acquario,
sia tanto noioso quanto interessante. Una situazione forse paradossale, e che, sempre forse, merita un approfondimento. Ma a questo punto, dimostrata l’impossibilità di essere oggettivi nel giudicare questo o qualunque altro gioco, chi scrive si rassegnerà a descrivere quella che è la propria opinione personale perché sarebbe
contraddittorio mettersi adesso a
parlare per massime inconfutabili e
incrollabili sillogismi. Quella che è
dunque la mia personalissima opinione su The Sims partirà dal gioco in sé per andare poi a perdersi
tra quelli che potrebbero essere
degli spunti interessanti per una
riflessione sul vivere moderno.
The Sims ha un difetto principale:
è poco longevo. E’ un gioco che d eve appoggiarsi ad un continuo scaricamento di patch e update per
non perdere il suo appeal. Dopo
aver visto e provato tutti i mobili
disponibili ed aver commesso le
peggiori nefandezze contro i propri
omini resta ben poco con cui divertirsi. Ed ecco che spuntano fuori
nuovi costumi, o diventa possibile
organizzare party e comprare animali domestici. La fruizione di The
Sims può essere maniacale, ci si
può attaccare al gioco e non riuscire più a lasciarlo, oppure può essere saltuaria, con visite non troppo
frequenti alla propria Sim-famiglia
giusto per vedere come stanno. Il
giocatore tipo di The Sims è del
tipo maniacale, è a questo giocatore che sono indirizzati gli infiniti file
di aggiornamento scaricabili via i nternet. Tutti gli altri che non vengono colpiti al cuore da The Sims
si annoiano presto e lasciano il gioco senza che questo modifichi la
loro esistenza.
Il fascino di The Sims che colpisce
alcuni gamers è lo stesso che si può
trovare in un qualunque catalogo
IKEA. Ho notato personalmente
Ring#05
che tutti coloro che amano l’IKEA
amano anche il gioco di Will Wright,
una coincidenza che si spiega facilmente perché The Sims è il gioco che permette ad ognuno di noi
di arredare la casa che vorremmo
nel modo che vorremmo e c’è sempre grande soddisfazione nel vedere la propria abitazione crescere in
bellezza e splendore con la fatica
del duro lavoro. E’ il piacere del f eticismo più sfrenato quello che
muove i giocatori di The Sims.
Un’altra ragione di divertimento è
data dalle condizioni in cui si possono ridurre i propri Sims, soprattutto quando devono vivere in
tanti in piccoli spazi. La situazione
tende drammaticamente verso il
caos e tenerla sotto controllo è un
compito duro. Alla fine, il sottile
piacere di giocare a The Sims è lo
stesso che si trova in tutti i giochi
della serie inaugurata da Sim City:
è il godimento morboso per
l’ordine, la pulizia. Il vedere la Simcasa pulita equivale a vedere la
Sim-città senza traffico o criminalità, o il Sim-ospedale senza topi
che corrono per i corridoi. In un
mondo incontrollabile, dove gli i mprevisti possono essere di tutti i
tipi, avere sempre la possibilità di
rimediare e controllare la situazione
è il piacere più grande che si possa
immaginare.
Da questo ne deriva che The
Sims è forse il gioco che meglio
incarna il nostro mondo (moderno
occidentale). La paura dell’uomo
moderno è quella di non controllare
la propria vita, la caduta dell’autorevolezza di alcun mezzi di comunicazione ha creato una sorta di
sfiducia e diffidenza verso qualunque tipo di informazione. In un
mondo dove ormai ognuno può dire
la propria l’unica certezza è che
qualunque informazione può essere
smentita da qualcuno ma non ne
può essere dimostrata la falsità.
Mai come oggi sappiamo di non s apere, Socrate aveva precorso i
tempi. Si affacciano nuove f obie, e
dunque nuove (ma non troppo) necessità di sicurezza. Il nostro piccolo mondo interiore deve essere protetto dagli attacchi esterni, ma
guardare solo il proprio isolato è
una visione limitata. La famiglia
Sims non è chiusa a “coltivare il
proprio orto”, lavora fuori da casa e
frequenta il vicinato, eppure noi
vediamo solo la nostra abitazione
perché è l’unica cosa che ci interessa. La cosa importante è che la c asetta sia in ordine, capire cosa succede fuori sarebbe troppo complesso. The Sims è l’incarnazione
videoludica del bisogno di limitare i propri orizzonti. Un bisogno quanto mai sentito da chi avverte, seppure inconsciamente, la
19
sempre maggiore impossibilità di
capire il mondo.
L’isolato si isola, non vuole neppure sentir parlare di quartieri o
arcipelaghi.
Non sappiamo se considerare questa come un’interpretazione del
pensiero di Wright, perché forse
questa idea non ha neppure sfiorato la mente del programma-tore.
Ma di certo si spiegherebbe il piacere che molti trovano a giocare a
The Sims, e cioè l’effetto catartico
del poter ordinare qualcosa di così
disordinato.
Eppure, molti segnali ci indicano
che, tra le righe, c’è una certa critica a questo modo di vivere. La rappresentazione della comunicazione
è decisamente significativa in questo senso. I Sims comunicano tra
loro attraverso delle icone, ogni icona rappresenta un argomento di
discussione. Il tempo atmosferico,
la guerra, la pace, i soldi. Questo e
niente più sono capaci di dire i
Sims. Se intendiamo la comunicazione come una razionalizzazione di
un complesso processo interiore,
una semplificazione dei propri sentimenti per renderli comprensibili a
chi ci ascolta, ecco che la stessa
sfera interiore dei Sims è (anche
questa) ordinata. I Sims parlano
ma soprattutto ragionano per luoghi comuni, non sono capaci di riflettere, non hanno sentimenti
complessi. Odio, amore, indifferenza o amicizia. E’ un numero da
zero a cento a dirci quanto due
Sims legano tra loro. E ancora la
lettura di libri è funzionale ad aumentare di un punto le proprie abilità in cucina, o in altre attività domestiche. Comprare oggetti artistici aumenta di un punto la felicità.
E’ sempre così, felicità o tristezza
sono numericamente calcolabili e
sono l’effetto di una causa precisa.
Ma la cosa più sconcertante di
The Sims è che è il primo videogioco in cui non c’è niente di diverso dalla realtà. Non c’è nulla che
non potremmo fare anche nella n ostra vita, non ci sono supereroi o
eventi innaturali, non ci sono mondi
da salvare, non c’è una conclusione. The Sims non promette di
farci vestire i panni di chi vorremmo essere, anzi ci propina la vita di
tutti i giorni. Eppure ha divertito 20
milioni di utenti PC.
Ecco il punto più difficile da accettare. I Sims siamo noi. Contenti
e realizzati dall’acquisto di un div ano, così stupidi, noiosi, ignoranti,
superficiali. Diverte guardare i Sims
come probabilmente sarebbe divertente guardare le nostre vite
dall’esterno.
Così ridicoli, eppure così SIMili a
noi.
:INDEPTH:
Ring#05
l’eREDITA’ dI cAINO_______________________________
[Il nichilismo nel tempo e nello spazio di Soul Reaver]
di Cristiano Bonora
L'antieroe Raziel ha fatto la sua
comparsa nel mondo degli
horror adventure 3D senza portarci in casa lo splatter un po'
pacchiano di Resident Evil,
senza forzarci nello studio di
uno psicanalista come ha fatto
Silent Hill, e senza quel brivido tutto inglese e vittoriano dei
quattro Alone in the Dark.
L'esperienza offerta dalle peregrinazioni di Raziel attraverso
l'angoscioso Reame di Nosgoth
è fondata su di un' inquietudine
tutta particolare, generata attraverso una singolare rappresentazione delle categorie di
tempo e spazio.
Ma prima di tutto, chi è Raziel?
Non si tratta di un eroe bello ccio in lotta per il bene dell'umanità, quanto di un individuo
distrutto, nella storia e nella
presenza ("Quale abbietta forma è questa che sono venuto
ad abitare?!?" Si domanda risentito al principio del gioco). Il
suo unico obiettivo è costituito
dal proverbiale piatto freddo
della vendetta. Raziel è l'icona
consumata di un trascorso incancellabile.
Soul Reaver non ha quindi
una trama positiva, rivolta al
futuro. Raziel è una figura gualcita, senza speranze. Egli stesso non considera neppure l'eventualità di un'esistenza redenta, ma si limita a sguinzagliare contro Kain l'accidia
che ha invecchiato nel Lago dei
Morti. Eppure Soul Reaver ha
una storia, peraltro molto co mplessa, ma tutta rivolta al passato: di Raziel, di Kain di Nosgoth. Ogni passo per le desolate lande di questo reame
imprime un'orma appesantita
da un futuro impossib ile, da un
passato deflagrante e da un
presente devastato.
Nosgoth è finita. L'impero di
Kain è finito. Il suo malgoverno
ha ridotto il reame a un'infertile
terra di nessuno. La nobile ra zza dei vampiri è precipitata a
consumare pasti pietosi assumendo il profilo di animali randagi ("dai loro versi si direbbero cani rabbiosi ma la loro carne odora di vampiro").
Ma questa perdizione porta il
segno incancellato di un passato grande e ambizioso. La ca ttedrale silenziosa, l'abbazia
sommersa e i Pilastri di Nosgoth (una volta alti fino al cielo, ora dei miseri ruderi da museo) producono un effetto destabilizzante all’occhio dell’osserva tore. Lo spazio di queste
costruzioni è vertiginosamente
verticale. Le volte e gli archi
che sorreggono queste imp onenti architetture di ispirazione
gotica e moresca sono talmente
svettanti che a malapena se ne
riesce ad adocchiare la sommità.
Tremano le gambe di fronte a
certe montagne di mattoni. S o-
20
no templi che chiamano in causa un tempo che ha costruito,
ma oramai degenerato nell'a bbandono.
Il cielo di Soul Reaver è
impietoso,
una
lastra
di
piombo, senza giorno né notte.
Il suono di Soul Reaver è agghiacciante: urla disperate, ringhi sboccati e un vento incostante che tenta di convincerci
pateticamente che a Nosgoth
qualcosa si muove ancora.
Alla luce, o all'oscurità, se
preferite, di queste considerazioni, risulta quasi plausibile il
finale inconclusivo del gioco,
che vede Raziel frustrato dal
mancato o ttenimento della sua
personalissima giustizia.
Soul Reaver non va da nessuna parte, è semplicemen-te il
riecheggiare di un'apoca -lisse
consumata in un abisso senza
uscita.
Appositamente ho scelto di
non richiamare nessun frangente di gioco. Perché Soul Reaver non ha picchi nè momenti
di ristagno: è un ossessivo e
turbante Bolero che si trascina
con gli stessi strumenti scordati
dall'inizio a una fine che non
c'è.
:RECENSIONI:
Ring#05
tHE cONCEPT oF tHE gAME_________________________
[Jet Set Radio Future]
di Emalord
.:scHEda:.
gENERE
Stylish Action
eTICHETTA
SEGA
sVILUPPATORE
SmileBit
sISTEMA
XBOX
aNNO
2002
gIOCATORI
1-3
vERSIONE
USA
Jet Set Radio Future è un gioco
stylish, pieno di tocchi di classe, un
prodotto con tutte le curve a posto
e di riflesso una calamita per gli
sguardi.
JSRF è un gioco per Softcore Gamers, per giocatori occasionali che
guardano soprattutto al divertimento a breve termine, a controlli
immediati e ad una suadente combinazione di suoni ed immagini.
JSRF è lo specchio della filosofia
Smilebit degli ultimi due anni: un
quadro dalla splendida cornice e dai
colori invitanti, che però non sempre equivale ad un'opera d'arte.
Ma cominciamo dall'inizio, come
si conviene alle cose che hanno un
inizio.
Definire JSRF come un gioco
stylish non è cosa che necessiti
gran dispendio di energie. I suoi
mille piccoli tocchi di classe, affogati nella piattezza di gameplay,
risaltano come il sorriso di una bella donna affiancato al sorriso di una
palla da bowling con parruc-cone
biondo, per simulare un con-fronto
che sia il più serio possibile.
Il gioco trasuda classe, ricerca
del dettaglio, avversione per la b analità. A cominciare dall'uso del celshading, oggigiorno di moda ma
primo esponente del genere quando l'originale Jet Set Radio calcò
le scene Dreamcast nell'anno 2000.
Il cel-shading non era, ai tempi,
una delle possibili tecniche da usare. Il cel-shading era, ai tempi,
qualcosa che doveva ancora essere
inventato. Smilebit lo fece, e i fumetti presero vita.
Classe, in soldoni, è anche creare
mode, stili, generi.
Si perché JSR, tre anni fa, era
anche uno dei primi esponenti di
una nuova generazione di videogiochi. Innovativo nella tecnica ma
anche esponente di una contaminazione di generi che per pigrizia o
intraprendenza pura potesse movimentare un mercato ormai saturo
di simulazioni tutte uguali fra loro,
gravido di cloni che imitavano cloni.
JSR univa due concept sicuramente poco sfruttati: usare degli
sk8ter boy come protagonisti e
riempire una città di graffiti come
finalità, variegando l'azione con
forze dell'ordine sempre più agguerrite, corazzate e armate di d etergenti. Il tutto condito da una
21
musica mai noiosa, a metà tra
l'hip-hop, l'acid e la techno.
Perché comunque la contaminazione è stylish.
JSRF è un gioco perfetto per i Softcore Gamers e se mi chiedete perché io vi dico che la risposta è li,
tra i vostri capelli e la punta dei
piedi. Perché ciò che distingue
Hardcore Gamers da Softcore G amers è, come parrebbe ovvio dal
rimando a luci rosse, l'uso delle
mani.
Il Softcore Gamer di fronte a
JSRF gode. Gode perché vede uno
splendido uso dei colori, una colonna sonora cool, personaggi dotati di
personalità in primo piano veicolati
da una tecnologia a ll'avanguardia e
per questo affascinante. Il Softcore
Gamer è un guardone, si accontenta di osservare, sentire, giocare
facile.
L'Hardcore Gamer, invece, non si
fa abbagliare da un paio di belle
cosce ma guarda anche la sosta nza, quello che riesce a toccare con
mano, e ahimè quello che tocca con
mano è un joypad che usa pochissimi pulsanti proprio perché il
gioco, di fatto, ha un'azione limitata
e alla lunga noiosa. Sfuggire alla
polizia, saltare e grindare ovunque,
trovare gli item nascosti nello scenario e riempire la città di graffiti è
un'operazione affascinante e divertente, ma per un periodo di tempo
limitato.
Se X -BOX non muovesse tonnellate di poligoni e non regalasse una
gamma cromatica così stabile e
calda, se le animazioni non fossero
fluide e variegate, se gli scenari
non fossero così ben differenziati e
caratterizzati non rimarrebbe davvero niente di positivo da met-tere
sul nostro bancone di recensori da
strada.
Perché è ora che anche il Gameplay rientri nella lista delle cose da
rendere stylish.
JSRF è lo specchio della filosofia di
Smilebit degli ultimi due anni. Che
in realtà è poi la filosofia della
maggior parte delle softco Sega,
che piaccia o no.
Smilebit è assolutamente inattaccabile nel "creare" giochi stilosi. I
suoi prodotti colpiscono dritto al
cuore, settano nuovi standard visivi
e sollazzano senza ritegno staffa,
incudine e martello.
:RECENSIONI:
Ring#05
La softco Sega ci dimostra che dietro ai videogiochi ci può essere a rte, fantasia e creatività, ma ci m ostra anche, se ce ne fosse bisogno,
che potenza, tecnologica, classe e
stile non bastano a rendere un videogioco un'esperienza pienamente soddisfacente. Per godere al
massimo di un videogame bisogna
usare anche le mani, nel modo più
variegato e fantasioso possibile. E
la cosa che più rammarica è che il
predecessore su Dreamcast era sicuramente più completo e profondo sotto quest'aspetto. La simpatica idea di realizzare i graffiti
con combo e mezzelune della versione DC, operazione che rendeva
molto più ansiogeno il proprio compito mentre si era circondati da i n-
cazzatissime forze dell'ordine, è
stata rimpiazzata dalla semplice
pressione di un grilletto nella versione per Gatesmobile, e non venitemi a dire che questa è evoluzione.
Perché fare cose stylish è bello,
ma renderle appaganti è meglio.
sOLDATI fRANTUMATI_____________________________
[Contra Shattered Soldiers]
di Gatsu
_______Dalle nebbie del tempo
.:scHEda:._______
gENERE
eTICHETTA
sVILUPPATORE
sISTEMA
aNNO
gIOCATORI
vERSIONE
Sparatutto
Konami
Konami
PS2
2002
1-2
PAL
Molta acqua è passata sotto i ponti
dall’ultima decente apparizione di
Contra su una console casalinga
(le versioni uscite per PSX sono
qualcosa da non consegnare ai p osteri). Era il lontano 1992 quando
Contra Spirits approdava sugli
SNES di mezzo mondo spargendo il
suo credo a base di di-struzione e
riflessi scattanti. Il seme piantato in
quel periodo da Konami non era
solo: molte altre case in quei giorni
gloriosi dedicavano gran parte delle
loro attenzioni agli sparatutto, equamente divisi fra quelli più
piattaformici e quelli di ispirazione
“astronavica”. Ma si sa, le nebbie
del tempo inghiottono un po’ alla
volta tutto quanto, e miglior sorte
non è toccata ad un genere che n egli anni successivi conobbe un
declino terribile e ingiusto, tanto da
giungere alla (quasi) completa estinzione. Lovecraft diceva “non è
morto ciò che in eterno può attendere”, e dopo tutto questo tempo dedicato a giochi dalle meccaniche profonde e dalle trame i ntricate la voglia di blastare e
distruggere tutto è riaffiorata prepotente nell’animo dei videogiocatori di vecchia data… Il palpabile successo commerciale di Ikaruga (Treasure, 2002) è stato il
primo passo. Forte di questa ritrovata nicchia commerciale, Konami
ha pensato bene di rispolverare uno
dei suoi franchise più amati, da
troppo tempo in attesa di una nuova degna incarnazione. Bando alle
ciance, un tasto per sparare, uno
per saltare ed uno per i colpi speciali è tutto ciò di cui abbiamo bisogno…
_________________CONTRAsti
Contra: Shattered Soldier è, nel
bene e nel male, una versione e nhanced di Contra Spirits. Punto.
Se questo era tutto quello che v o-
22
levate comprate Shattered Soldier ad occhi chiusi e non ve ne
pentirete. Se invece pensate che in
un decennio potevano anche venirsene fuori con qualche trovata
originale, beh… fateci un pensierino
lo stesso, perché nonostante non
sia un titolo esente da difetti Contra mostra un level design che
spesso è tanto sopraffino quanto
ostico, in grado di regalare una sfida non indifferente per chi non si
arrende alle prime difficoltà. Partiamo dalla superficie per scendere
poi attraverso i vari strati che compongono il revival Konami. Graficamente Shattered Soldier sarebbe un titolo più che discreto.
Scrivo “sarebbe” perché se pensiamo che è licenziato dalla casa
più esperta nel sottomettere il m alefico hardware PS2 (gli eccel-lenti
motori grafici di MGS2 e di ZOE2
stanno lì come implacabile testimoni di questa affermazione) viene
quasi da piangere. Certo, non tutti i
team sono come quello capitanato
da Mr. Kojima, ma fra Contra e i
titoli sopracitati c’è un abisso che,
senza scherzi, può essere definito
generazionale. Nonostante la fluidità in game sia sempre costante
(presente anche il selettore per i
60Hz) e alcuni effetti e/o passaggi
siano di buona fattura, per la maggior parte degli stage pare quasi di
assistere ad una versione hi-res di
un gioco per N64: texture scialbe,
colori smorti, scelte cromatiche d iscutibili (in alcuni rari, fortunatamente, punti risulta persino difficile
percepire correttamente cosa stia
succedendo) e complessità poligonale molto scarsa. In sostanza: v isivamente Shattered Soldier appare terribilmente nella media dei
titoli PS2, incapace com’è di attingere all’indubbia potenza bruta del
monolite. Chiarito questo punto
(non il più importante, credetemi),
vanno segnalate delle passabili musiche metalleggianti (con doppia
cassa sparata a mille) Ed effetti so-
:RECENSIONI:
nori nella norma. Due p arole vanno
spese per la modalità a due giocatori: fortunatamente il team responsabile è stato così saggio da
non raddoppiare, come spesso a ccade giocando in due, la presenza
nemica su schermo, controbilanciando il tutto con una maggior resistenza dei già fin troppo coriacei
avversari. Inoltre, la possibilità di
usufruire delle vite dell’amico “ancora vivo” apre la strada ad una
partita più tattica e accorta del solito, che vi porterà a elaborare str ategie di attacco niente affatto elementari per massimizzare la vostra potenza di fuoco. Ben fatto.
Sorvolabile invece la trama inserita
fra un capitolo e l’altro (Dio mio,
perlomeno un doppiaggio in inglese, il colonnello nemico appare aggressivo come il compagno di banco di Link…), così come la caratterizzazione dei personaggi (Bill, ex
prigioniero di guerra e la sua “dolce” controparte femminile). Da segnalare inoltre qualche inspiegabile mancanza nei menù: impossibile infatti abilitare il salvataggio
automatico dei dati (nel senso che
se completate due stage con punteggi strabilianti e poi spegnete la
console senza ricordarvi di passare
per il menù Opzioni > Memory
Card, perderete tutti i dati), o
l’impossibilità di uscire dal gioco (!)
prima di aver perso tutte le vite a
disposizione… Insomma, lo avete
capito, non è certo sotto l’aspetto
tecnico che Contra: Shattered
Soldier brilla.
Vediamo dunque cosa invece funziona come sarebbe lecito aspettarsi da un titolo di questa caratura.
_______________Odore antico
Contra: Shattered Soldier è, lasciatemelo dire, come una cipolla
con la sorpresa. Una volta spogliato
dei suoi strati superficiali, il titolo
Konami si rivela per quello che è:
un signor gioco. Innanzitutto è indispensabile qualche seduta per far
pratica con il sistema di controllo
(non eccessivamente intuitivo, ma
ben studiato. Mi domando solo se
non ci sarebbero stati maggiori
vantaggi nel delegare lo stick analogico di destra alla rotazione
dell’arma e i vari L e R al salto e
allo sparo, rispettivamente). Imparare a gestire la possibilità di fermare il nostro eroe e muovere
l’arma, o di fissare l’arma e muovere l’eroe è una condizione irrinunciabile al vostro peregrinare
fra i 6 stage (non molti a dire la verità, ma ci metterete diverso tempo
ad affrontarli con tranquillità). Oltre
a questo, è richiesto uno sforzo
Ring#05
mnemonico che forse non facevate
(volontariamente) da tempo: Contra deve gran parte del suo appeal
all’ottimo level design, che costringe ad una memorizzazione s istematica dei pattern più adatti, a
riflessi sopraffini e a tempistiche
perfette. Difficile superare uno stage per pura fortuna: Shattered
Soldier stimola quei meccanismi
arrugginiti che una volta servivano
per infrangere i record in sala giochi e ci trascinavano nell’irrinunciabile “un’altra partita e poi smetto”.
L’indovinata idea di concen-trare
l’attenzione sui titanici scontri con
boss e miniboss (massicci e bastardi in particolar modo il lombricone
d’acciaio del terzo stage e il mecha
appassionato di sci nautico del
quarto) a scapito dei normali nemici, qui poco più che fastidiose comparse, favorisce quindi il nostro a pproccio tattico e strategico, e stimola quella maledetta voglia
repressa di provare nuovamente a
noi stessi che no, quella fottuta
sventagliata di plasma non è certo
impossibile da evitare. Contra emerge dunque fiero da un mucchio
fatto di tanti contenitori e pochi
contenuti… certo è forse un monumento punteggiato dalle cacche dei
piccioni e rovinato dall’usura del
tempo, ma ciò non gli impedisce di
ricordarci come eravamo noi e il
videogioco appena una manciata di
anni fa, e lo fa con uno stile che
potrebbe perfino accalappiare q ualche nuova leva in cerca di un po’ di
sfida. Ad di là di tutte le considerazioni affettive che si possano fare
su un titolo che porta un nome tanto glorioso, sorvolando pure sugli
evidenti omaggi ai vecchi episodi
della saga (il boss del primo stage,
ad esempio, è una vecchia conoscenza), Contra: Shattered Soldier è un gioco che merita atte nzione nonostante sia tecnicamente
e concettualmente inferiore alle aspettative, perché sotto la sua
scorza poco attraente batte il cuore
puro delle sfide vecchio stampo.
23
Notizia Flash:
BAGHDAD: I Legali del dittatore iracheno Hussein
Saddam, hanno intentato
causa a Sony Computer
Enterteinment. Il procedimento prende luogo a seguito dell' acquisizione, da
parte
del
regime
iracheno, di un lotto di PS2
da impiegare per la guida
dei missili terra-aria. Una
disfunzione di PS2 ha causato l'errato impatto di un
missile iracheno che, giorni
fa, ha raso al suolo un
mercato della capitale. Oltre alla richiesta di risarcimento (per danni materiali e d'immagine), i legali di Hussein annunciano che il Raìs è tutt' ora
indeciso se continuare l'uso di PS2. Hussein si è anche detto insoddisfatto per
l'altalenante
qualità
dei
giochi.
Errata Corrige
Sul
numero
precedente
Ring ha recensito la versione americana di Metroid Prime, premiato dal
recensore con un sonoro
A. Ebbene, dopo attenti esami si è deciso di abbassare il voto da A a C, a
causa di un problema che
inficia pesantemente il titolo dei Retro Studios, e di
cui il recensore non ha fatto menzione alcuna (si sta
indagando
su
eventuali
mazzette pagate da Nintendo): in MP il Game Over non è accompagnato
dal consueto spogliarello di
Samus Aran. Nell’attesa
che quest’assurda mancanza trovi una giustificazione, Ring si scusa con i
lettori per l’imperdonabile
svista.
:RECENSIONI:
Ring#05
pRIMAL dOVERE, pOI iL pIACERE
__
[Primal]
di Cristiano Bonora
.:scHEda:.______
gENERE
eTICHETTA
sVILUPPATORE
sISTEMA
aNNO
gIOCATORI
vERSIONE
Adventure
SCEE
Studio Cam.
PS2
2003
1
PAL
A seconda delle situazioni il
soundtrack alterna sapiente mente gli energici temi rock realizzati dalla band inglese 16 Volt
a brani orchestrali di grande i ntensità.
Titoli di testa. Notte, carrellata su
un trafficato ponte sospeso. Nella
mente sussulta il ricordo di Metal
Gear Solid 2, ma la telecamera
dirotta dal ponte verso un locale
notturno della Londra underground.
Una figura granitica e inquietante si
fa spazio tra i frequentatori del
club, mentre una band hardcore ne
calca il palcoscenico. A fine concerto Lewis, il cantante del gruppo,
abbandona il locale a piedi accompagnato dalla fidanzata Jen. I
due non sanno di essere seguiti, e
dopo pochi metri subiscono la brutale aggressione del losco individuo
di cui sopra. Li ritroviamo ricoverati
in ospedale, sprofondati in coma.
Nella camera di Jen compare una
creatura bizzarra, il gargoyle Scree,
che trasferendo parte delle sue energie vitali nella ragazza riesce a
destarne lo spirito e a condurlo in
una dimensione che trascende la
nostra realtà. Jen varca la soglia di
Oblivion. E nulla per lei sarà più
come prima. A parte il suo spensierato senso dell’umorismo…
La strana coppia accede al Ne xus, punto di convergenza dei
quattro mondi di Oblivion: Solum,
Aquis, Aetha e Volca. Scree fa il Cicerone e illustra a Jen l’equilibrio su
cui si regge Oblivion: i quattro
mondi sono abitati da creature demoniache allineate con le due forze
primarie, Ordine e Caos, rispettivamente personificate in Arella, di
cui Scree è servitore, e nel malvagio Abaddon. L’energia positiva emanata da Solum e Aquis ha sempre bilanciato la negatività sprigionata da Aetha e Volca. Ma ultimamente Abaddon si è insinuato
anche nei mondi di Solum e Aquis,
infettandoli con il germe del Caos,
compromettendo l’equilibrio di tutta
Oblivion e mettendone a repentaglio la sussistenza. Inoltre, per
una reazione a catena di infingardaggine murphiana, con il collasso
di Oblivion svanirebbe anche il
mondo di Jen. Ciliegina sulla torta:
anche lo spirito di Lewis pare sia
stato imprigionato da qualche parte
in Oblivion. Il distino di una manciata di mondi è quindi tutto racchiuso nelle mani di colei che si
scoprirà “mezzo sangue” (mezza u mana e mezza demone), eletta da
Arella per ripristinare l’equilibrio
interdimensionale. L’eletta, manco
a dirlo, è proprio Jen, una fanciulla
poco più che ventenne dai modi
sbarazzini, la battuta facile e l’insa-
24
nabile tendenza a non prendere
nulla sul serio.
____Lasciate ogne speranza voi
ch’intrate
Lasciate
ogne
speranza
voi
ch’intrate, e con essa ogni pregiudizio in merito alle presunte limitazioni dell’hardware Sony. Perché
l’inferno popolato dai demoni di
Primal trasfigura in paradiso agli
occhi dell’utente PS2, frustrato da
anni di aliasing, texture a bassa definizione, colori slavati e 50hz. Jen
e Scree fanno un’entrata in scena
da applauso. Sarà anche in coma,
ma Jen è la ragazza più viva e vera
della storia dei VG, roba che in confronto la Lara spazza-tombe sembra muoversi con una scopa infilata
nel culo. Jen scuote la testa, solleva
le spalle in segno di svogliata accettazione dei precetti di Scree, oscilla tra le anche rivelando uno
scheletro sorprendentemente articolato. E soprattutto comunica attraverso una recitazione gestuale
così espressiva da indirizzare
l’attenzione del suo pubblico più
sulle sue movenza che non sulle
parole pronunciate accademicamente dalla doppiatrice. Infine si
consegna ai comandi del giocatore,
che ne ammira sbalordito la naturalezza della corsa, con le due code in
cui Jen si è raccolta i capelli che
spiovono cedevoli a destra e a sinistra, con il suo timido seno che a sseconda le sollecitazioni delle falcate senza scadere in eccessi di
gommosità tecmiana. È la maestria
con cui è stata ricreata la
femminilità del personaggio a
lasciare basiti. Ad osservare le animazioni di Jen si potrebbe giurare
che il motion-capture sia stato effettuato su di un’attrice donna. E le
parole vengono meno quando la
telecamera si piega intorno alla
fanciulla e il multipass rendering
della pelle dei suoi vestiti simula
routine di environment mapping (e
questo è solo il preludio dei riflessi
che ammantano le armature delle
valchirie del mondo di Aetha). Per
dare vita al personaggio di Scree,
invece, Studio Cambridge non ha di
certo potuto sottoporre a sessioni
di motion-capture un autentico
gargoyle, ma i risultati sono ancora
una volta sorprendenti. Scree
cammina in posizione eretta per poi
sfruttare un’an-datura quadrupede
durante la corsa. In entrambi i casi
il coinvolgimento e la coordinazione
:RECENSIONI:
mento e la coordinazione di tutte le
giunture scheletriche dà esiti stratosferici in termini di flessibilità e
credibilità del modello, a partire
dagli scodinzolii e dal batter d’ali
che ne accompagnano la deambulazione, fino ai movimenti rapidi e
nervosi di quando Scree riabbraccia
il proprio elemento naturale arrampicandosi sulle pareti di roccia. Dulcis in fundo: la semi-trasparenza
delle texture deputate alla resa
dell’impalpabilità delle alucce del
gargoyle, che non va sacrificata
neppure di seguito al morphing che
gli restituisce aspetto e consistenza
di statua. Proprio il morphing impiegato tanto per le pietrificazioni di
Scree quanto per le trasformazioni
in demone di Jen denota una cura
estrema nell’avvicendare nel modo
più fluido texture e modelli poligonali diversissimi, conferendo a queste sequenze l’aspetto di effettive
mutazioni piuttosto che di semplici
staffette fra differenti attori tridimensionali.
Ma il bello arriva quando gli attori
cedono la scena… alla scena. Oblivion è commovente. Panorami drammatici. Orizzonti sconfinati. In superficie mastodontici templi in legno e mattone magistralmente a rredati svettano fino a sfiorare il cielo, instillando un gelido tremolio
nelle gambe del giocatore in preda
alle vertigini. E intanto come reazione all’avanzata del Caos nelle
regioni di Oblivion nel sottosuolo la
terra continua a tremare, accartocciando i tunnel esplorati da Jen e
Scree, visibilmente deformati dai
cedimenti strutturali. La straordinaria irregolarità di ogni singola location denota un intervento diretto su
ciascuna architettura a piegarne le
travi dei soffitti, a sventrarne le fortificazioni, a creparne le superfici,
ad abbatterne colonne e macchiarne di edera, fango e sangue le
pareti. La sistematica demolizione a
cui è stato sottoposto ciascuno dei
quattro mondi di Oblivion svela una
toccante sensibilità archeologica e
un lucidissimo criterio di caratterizzazione degli ambienti, restituiti al giocatore impregnati di una
poderosa carica evocativa, paradossalmente ridimensionata dal
personaggio di Jen, che continuando a ironizzare sulla situazione i nibisce all’universo di Primal quel
respiro sofferto e opprimente che
permeava la Nosgoth scolpita nei
due Soul Reaver. Questo il prezzo
da pagare per un character design
così vivace e una passione di Studio
Cambridge per Buffy l’Ammazzavampiri al limite del deprecabile.
Ma questi sono cavilli, pignolerie
intavolate dai doveri analitici del
critico. La qualità dell’immagine di
Primal è senza pari, e ridursi a
Ring#05
questo punto a parlare di texture
(superbe), anti-aliasing (splendido)
e frame rate (inattaccabile) ci pare
tanto superfluo quanto fuori luogo.
Tale maestosità iconografica, benché soggetta a sensibili ridimensionamenti nei mondi di Aquis e Volca,
è tale da acquisire trasparenza e
concentrare il giocatore/spettatore,
sprofondato nella sospensione
dell’incredulità, sulla parte giocata
piuttosto che sull’assoluta efficacia
delle soluzioni grafiche implementate. Ed è proprio qui che cominciano i guai…
La qualità del doppiaggio italiano non si discosta molto da
quello inglese, tuttavia il personaggio di Scree nell’interpretazione nostrana perde
parte di quel carisma conferitogli dal suo ruolo di guida
oltre-mondana, venendoci restituito un po’ meno Virgilio e
un po’ più aniale domestico
______Lasciate ogne speranza
(di divertirvi) voi ch’intrate
Lasciate ogne speranza [di divertirvi] voi ch’intrate, il paradiso sensoriale sprigionato dall’inferno di
Primal è solo l’abito mendace sotto
cui si camuffa un doloroso purgatorio ludico, apparentemente motivato da una necessaria (?) espiazione
della voluttuosa esperienza estetica
inscenata dagli artisti grafici di Studio Cambridge. E in purgatorio si
soffre, alienati dal volto bello del
dio Videogioco e costretti a vagare
in una dimensione sorda al più b asilare dettame di game design.
Promesse e interrogativi circa un
degno coronamento del progetto
Primal dipendevano dalla buona
riuscita di quelle componenti del
gameplay sbandierate sin dal giorno della sua presentazione in quel
di Londra: interazione tra i protagonisti, esplorazione, sistema di
combattimento. Vediamoli uno per
uno. La tanto decantata interazione
fra Jen e Scree funziona solo a metà, ma risulterà a conti fatti
l’aspetto più riuscito dell’intera parte giocata. La slanciata corporatura
di Jen e le facoltà conferitele dalle
mutazioni demoniache com-pletano
25
la spiccata manualità di Scree e i
vantaggi che gli riserva la sua natura di gargoyle, così da obbligare
l’uno a ricavare un percorso all’altro
a seconda delle situazioni. Se nei
combattimenti ordinari Scree preferisce estraniarsi dalla situazione
pietrificandosi, in caso di avversari
particolarmente coriacei può possedere e animare statue raffiguranti
enormi creature. Il giocatore può
trasferirsi dall’uno all’altro protagonista in ogni momento (o quasi)
premendo il tasto Select, delegando all’IA la guida del personaggio
non controllato. Quest’ultimo seguirà a ruota il compagno, limitandosi,
nel caso di Scree, ad assorbire
l’energia dei nemici abbattuti, che il
giocatore potrà poi trasferire in Jen
in caso di necessità.
La complementarietà del simpatico duo si concretizza nel più delle
volte nella risoluzione di puzzle
molto elementari, che fanno leva
sulle personalissime abilità dei protagonisti affinché si spianino reciprocamente la strada. Ed è proprio
la dubbia implementazione di queste abilità, nella fattispecie il super
salto di Jen e le virtù arrampicatorie di Scree, a motivare i primi d isappunti. In realtà Scree non è a ssolutamente in grado di muoversi
sulle pareti verticali, ma SOLO su
quelle rare pareti su cui è previsto
che cammini. E lo stesso vale per
Jen, che in forma Ferai (la prima
razza demoniaca di cui acquisisce
aspetto e facoltà) nel mondo di S olum potrà spiccare balzi prodigiosi
solo in due (!) occasioni, rimanendo
altrimenti immobile e impotente
davanti ad ostacoli di un metro e
mezzo d’altezza. Per di più azioni
quali il salto e l’arrampicata vengono effettuate automaticamente c ome in Zelda; di conseguenza non
sapendo a priori quali dannate p areti i programmatori abbiano deciso
di rendere scalabili o saltabili, ci si
troverà a spingere i personaggi
contro tutti i muri di tutto il gioco
nella speranza che sia la volta buona. Surreale. Ma soprattutto, quando finalmente la bella mora riuscirà
a balzare oltre un cancello chiuso,
in fondo non avrà fatto altro che
“aprirlo” saltandolo invece che
sbloccandone la serratura. È una
sgradevole sensazione di imbroglio
quella che si sperimenta constatando la presenza scomoda di finte
abilità che di fatto non possono mai
essere utilizzate. Inoltre Oblivion si
lascia percorrere secondo tragitti
così lineari da frustrare qualsiasi
velleità perlustrativa, affossata da
tre ulteriori fattori. Primo: in Oblivion si può trovare ben poco al di
fuori delle rocce di magnetite che
abilitano le trasmigrazioni di Scree
e degli item che ricaricano l’energia
:RECENSIONI:
dei protagonisti; pertanto è solo la
loro spettacolare morfologia a m otivare l’esplorazione vigile degli
scenari. Secondo: se si esclude
l’attivazione di congegni di varia
natura, l’interazione con i fondali si
riduce alla demolizione gratuita di
botti di legno (quasi tutte vuote) e
all’accensione di torce e falò per
illuminare i sotterranei più bui. È un
universo meraviglioso, quello di
Primal, ma essenzialmente nudo e
intoccabile. In altre parole: gli scenari vanno semplicemente attraversati assecondandone le fattezze con
lo stick del pad per arrivare a godersi una delle innumerevoli cutscene che scandiscono la gradevole
(seppur naïf) trama di gioco. Chi
lamentava l’invadenza della materia
cinematografica sulla parte giocata
di MGS2 rimarrà incredulo di fronte
all’esasperazione cui Primal trascina questo suo vizio congenito.
Chiaro di luna, torce, falò: le
sorgenti di luce multiple fanno
sì che gli attori a video proiettino un’ombra distinta per ciascuna di esse.
Terzo: la telecamera virtuale inquadra le spalle del personaggio da
una prospettiva leggermente bassa,
costringendo il giocatore a passare
continuamente alla visuale in “prima” persona per vedere che cosa
effettivamente gli stia davanti. Peccato che quest’ultima sia stata implementata secondo modalità del
tutto particolari: premendo il tasto
R1 l’inquadratura zooma sul coppino di Jen o Scree, che insieme
alla testa continua ad ingombrare
buona parte dello schermo costringendo il giocatore a convulsi armeggi dello stick nel tentativo di
Ring#05
dribblare il testone della fanciulla e
del suo amico roccioso. In una p arola: scomodissimo. A complicare
ulteriormente il tutto si aggiunge il
buio impenetrabile di certe ambientazioni, che per avere un’idea più
chiara di dove mi trovassi mi ha
perfino indotto ad aumentare la
luminosità del televisore e ripiegare
su continue consultazioni della
mappa. La totale inappetibilità della
componente esplorativa si consuma
nel mondo di Aquis: una rivisitazione avvilita di Ecco the Do lphin: Defender of the Futu-re,
del quale riesce a riproporre solo la
monotonia e la lentezza dei livelli
meno ispirati. Infine il sistema di
combattimento è con buone probabilità il peggiore mai adottato in un
action adventure.
Non appena si viene avvistati da
un nemico Jen può passare alla
modalità di combattimento agganciando l’avversario più vicino, per
poi lavorare di switch tra un nemico
e l’altro con il tasto X. Gli attacchi
vengono sferrati combinando non
più di tre tecniche alla volta, eseguibili premendo i tasti L1 (attacco
roteante), L2 (attacco sinistro) e
R2 (attacco destro), mentre il pulsante R1 è deputato alla parata. La
deprimente lentezza della r isposta
ai comandi, l’inspiegabile l egnosità
delle animazioni degli attacchi (autentico tallone d’Achille dell’intero
comparto tecnico: roba che neppure un fascio di scope in culo potrebbe giustificare – nd Lara Croft),
la scarsa varietà e il generale equivalersi delle combinazioni effettuabili denunciano i risultati amatoriali
ottenuti con la sezione picchiaduro
di Primal.
Laddove il mediocre Blood Omen
2 aveva scopiazzato la formula dei
due Soul Reaver sacrificandone
profondità, raffinatezza e coinvolgimento, Primal sembra aver sottoposto tale modello di gioco ad un
ulteriore, selvaggio impoverimento,
illudendosi che confezionando il tutto con una tecnica da sogno la cosa
potesse passare inosservata. Ripensando anche alle sorti della p enultima fatica di questo team, quel
26
C-12 anch’esso rivelatosi un bello
senz’anima, sarebbe il caso che
un’aureola spuntasse intorno a l capo dei sacrificati membri dell’equipe
grafica di Studio Cambridge, e che
la testa di qualche inadeguato game designer cominciasse a rotolare. Non si può sprecare un mondo
digitale così meraviglioso con un
gameplay così insulso, monotono e
anacronistico. Perle ai porci, verrebbe da dire.
E l’implicita sufficienza sancita
dalla C di Ring vuole più che altro
esprimere il nostro riconoscimento
dei traguardi tagliati dai grafici di
Studio Cambridge nel campo delle
visual arts, alla cui magnificenza
non siamo sicuramente riusciti a
rendere giustizia in queste pagine.
dEMONI e gARGOYLE
dEI pAESI tUOI…
Ovvero: paese che vai, d emonio
che trovi. Esplorando Soum, Aquis, Aetha e Volca, Jen acquisisce di volta in volta l’abilità di evolversi in ciascuna delle razze
demoniache che popolano queste
regioni: Ferai, Undine, Wraith e
Djin. In forma Ferai, Jen corre
molto velocemente, spicca lunghissimi balzi ed sfodera temibili
artigli, in cui si materializza
l’energia demoniaca concentrata
nelle sue braccia dai “vanbracciali” (dei miracolosi paraavanbracci
allineati col gusto dark del suo
abbigliamento). Come Undine,
Jen sguazzerà come un pesce nei
fondali di Aquis, agitando dei lunghi tentacoli qualora si ritrovi a
ingaggiare combattimenti subacquei. La forma Wraith, oltre a
munirla di una lunga frusta da
abbinare a una spada durante gli
scontri, le elargisce il dono di
controllare il tempo interrompendone il corso in qualsiasi istante
(si fermano tutti tranne lei). Infine la forma Djin la equipaggia di
due spade che Jen maneggia ricalcando la tecnica del Cervantes
di Soul Calibur.
:RECENSIONI:
Ring#05
bIOFLUGMASCHINEN aUS zUKUNFT___________________
[Panzer Dragoon Orta]
di Emalord
---------.:scHEda:.--------gENERE
eTICHETTA
sVILUPPATORE
sISTEMA
aNNO
gIOCATORI
vERSIONE
Shoot’em up
SEGA
SmileBit
XBOX
2003
1
NTSC
Panzer Dragoon Orta è
un gioco dove si vola e si
spara. Si spara e si vola. Si
vola. Si spara. Si spara. Si
vola. Si…
Ma cos'è davvero Panzer Dragoon
Orta?
È da questa domanda che dobbiamo partire se vogliamo giudicare
nella maniera più obbiettiva possibile il sorprendente prodotto Smilebit.
PDO è innanzitutto un videogame ed in quanto tale dobbiamo giudicarlo sia per la forma che per la
sostanza.
Il suo essere videogame è solo la
punta di un iceberg che sotto il pelo
dell'acqua nasconde tonnellate di
potenzialità espressiva. Ma cosa
succederebbe se osservassimo l'iceberg dal fondale sabbioso? In tal
caso vedremmo tonnellate di potenzialità espressiva nascondere un
videogioco limitato dalla sua stessa
natura di shooter.
Confusi? Sarà forse il senso di
vertigine dovuto all'altezza cui vola
il nostro drago. Allacciatevi le cinture, prendete una boccata d'ossigeno e seguiteci nella nostra analisi di
un gioco che vuole essere profondo
ed immediato nel medesimo ista nte.
Panzer Dragoon [Storia di
Squame, Saturn e Speranza]
Otto anni fa Sega decise di contrastare lo strapotere della console a
32bit Sony immettendo sul mercato
un prodotto innovativo, un franchise talmente originale e carismatico da pompare le vendite di un
Sega Saturn annaspante, ristabilendo la supremazia della casa di
Tokyo sul mercato internazionale. O
almeno queste erano le lodevoli intenzioni.
Panzer Dragoon era la tredificazione
degli
shooter
bidimensionali, uno sparatutto che
scorreva su b inari predefiniti verso
il classico boss finale.
Le caratteristiche che avrebbero
dovuto sancirne il successo mondiale erano l'ambientazione assolutamente inusuale, un affascinante
drago al posto della solita astronave e la possibilità di "voltare lo
sguardo" tutt'intorno la propria biocorazzata poligonale, grazie alla
pressione dei tasti posteriori del
joypad.
Mentre il dragone proseguiva imperterrito verso la sua meta, il giocatore, grazie ad un radar su
schermo, doveva solo preoccuparsi
di abbattere le formazioni avversarie che lo assalivano a 360°, godendosi nel contempo lo splendido
paesaggio circostante seppur senza
27
la possibilità di scattare foto ricordo.
Il seguito, Panzer Dragoon
Zwei, introdusse la possibilità di
bivi nel percorso nonché un inizio
"al suolo", con un drago in fasce
che evolvendosi riusciva infine a
volare.
Infine, Panzer Dragoon Saga
tramutò quello che era un classico
shooter in un RPG, ma questa è un'altra storia che forse un giorno vi
racconteremo. Forse.
Il franchise non ebbe il successo
sperato e il gameplay venne da più
parti tacciato di pochezza ludica e
limitatezza, critiche ricomparse anhe con l'uscita del nuovo episodio
per XBOX. Sembrerebbe quindi che
la sostanza non regga il confronto
con la forma, critica imputabile a
molti altri prodotti Sega. Ma se il
tutto dipendesse da una cornice fin
troppo sexy?
Panzer Dragoon [Sudore, Studio
e Suoni per una Splendida Saga]
Panzer Dragoon è un prodotto estremamente curato fin dalle sue
radici concettuali: tonnellate di
splendidi artworks, una lingua creata appositamente per immergere il
giocatore in un mondo a parte, una
trama che narra di un futuro prossimo venturo dove l'uomo è vittima
del suo stesso sviluppo industriale,
di imperi militari che vogliono emergere e conquistare, di dragoni
che emergono dalle nebbie di un
passato dimenticato per fare da
guida ad un salvatore che ristabilirà
la pace.
Tutto questo si traduce in poesia,
paesaggi incantevoli, bizzarre fortezze volanti, creature a metà tra
fiaba ed incubo. Questa è la ricetta
di base del franchise squamato, a rricchita a sua volta da una meravigliosa colonna sonora ad accompagnare le avventure dei protagonisti.
Una sequenza di musiche a tratti
epiche, a tratti nostalgiche, sempre
all'insegna di un'altissima qualità.
Una cornice di tale forza porta ad
immaginarsi un gameplay della
medesima profondità. Aspettative
che però ingannano, perché uno
shooter, da sempre, segue poche
ma precise regole.
Panzer Dragoon [Shooter e
Semplicità, Senza Sorprese]
Il grande dispiegamento di mezzi
messo in campo da Smilebit pone
di fronte a grandi aspettative per
quanto riguarda la voce "Game-
:RECENSIONI:
Ring#05
play", aspettative che vengono d eluse non per reali mancanze di fondo, quanto dal confronto col maestoso impianto che vi sta intorno.
Da una parte è indubbio che la
cura e la profondità riposta nella
creazione del background stilisticonarrativo-musicale potrebbe apparire soverchiante agli occhi di
chiunque se confrontata con la pura
giocabilità, eppure perdere di vista
quella che è la vera natura del prodotto Smilebit sarebbe profondamente scorretto: PDO è uno
shooter, punto. L'essenzialità fa
parte del suo DNA.
Per sua stessa conformazione,
storia e caratteristiche uno shoot'em' up, passando da Einhänder a
Thunderforce a Rez a R-Type, è
comunque "limitato" al solo fare
fuoco e gestire una sempre maggiore potenza offensiva. L'innovazione nel genere non sempre ha
portato al successo di pubblico [ Ikaruga e Bangaioh sono solo un
esempio di due ottimi prodotti dallo
scarso successo] e quindi Smilebit
ha semplicemente [saggiamente?]
optato di non "abbandonare la
strada vecchia per la nuova".
Eppure, nonostante l'attaccamento alla tradizione, PDO non disdegna piccoli ma convinti passi verso
l'evoluzione, introducendo rispetto
ai prequel due varianti di discreta
profondità: la possibilità di mutare
in tre draghi splendidi per rappresentazione grafica, upgradabili e
dalla caratteristiche profondamente
diverse e realmente|pesante mente incidenti sul gameplay,
nonché la possibilità di accelerare/rallentare per sfondare formazioni nemiche o aggirare boss nemici
per colpirli sul fianco scoperto [funzione "glide"].
E allora mi chiedo: qual è il modo
più corretto per valutare il risultato
finale dell'operato di Smilebit? Dopo
quanto appena osservato, possiamo
davvero dire che la "sostanza" del
prodotto sia inferiore alla sua "forma"?
Panzer Dragoon [Siamo ai Saluti]
Condensando quanto detto sopra,
PDO è un prodotto apparente mente sbilanciato tra una esuberante componente estetica ed una
macilenta sostanza videogiochica.
Ma si sa che l'apparenza spesso
inganna. Se confrontato con altri
capostipiti del genere, la componente ludica del prodotto Smilebit
non è di certo inferiore, brillando
per storyboard, qualità audio-video,
design su tutti i livelli ed impegno
nell'approfondire le limitate meccaniche di gioco dei prequel.
La valutazione globale è positiva,
perché gli shooter necessitano solo
di una trama, di un paesaggio e di
un volume di fuoco prossimo all'infinito e PDO eccelle in tutti questi
campi e non solo, risultando in un
prodotto profondo per concezione,
immediato per natura, emozionante
e mai noioso.
La versione XBOX non fa altro
che valorizzare ancora di più l'impianto visionarrativo, con immaginifiche ambientazioni a metà tra
l'onirico ed il fantastico, effetti particellari ed atmosferici, un azzeccato uso dei cromatismi, uno s crolling
fluido come un olio anche in presenza di intere armate nemiche.
Qualche imprecisione in certe inquadrature, qualche opinabile scelta registica che avrebbe potuto v alorizzare m eglio gli eccezionali boss
di fine livello sono le due uniche
pecche verso cui vale la pena di
puntare il dito.
Il fattore rigiocabilità dei 10 livelli
è garantito dai numerosi bivi nei
percorsi e dal Pandora's Box, con la
sua ampia scelta di extra appetibilissimi tra cui la versione originale
del primo PD discretamente emulata.
aLWAYS cRASHING_______________________________
[Burnout 2]
di Paolo Jumpman Ruffino
______.:scHEda:.______
gENERE
eTICHETTA
sVILUPPATORE
sISTEMA
aNNO
gIOCATORI
vERSIONE
Crash Sim.
Akklaim
Criterion
PS2
2002
1-2
PAL
Fanno quasi paura, quelle quattro
macchine schierate in fila, con quelle fiamme che escono dalle marmitte a riscaldare un’atmosfera fredda.
Sembrerebbe quasi l’alba, con quella luce gelata, le strade vuote. Quasi vuote. Acceleratore. Tre Due Uno. E inizia la gara, il rito della
competizione uomo macchina, sulle
macchine, a chi muore per primo.
E’ un rituale, c’è del sacro in questo
confronto che obbliga a stare in bilico tra questo mondo e quello simulato e quello dell’aldilà. Sì, inomma, Burnout 2 è un gioco in cui
devi andare nell’aldilà e tornare suito il più veloce possibile, è un gioco
a chi riesce a stare più a lungo sull’
rlo del suicidio e poi quando si cade
a rialzarsi prima che sia troppo tardi.
Ed è un gioco bellissimo.
Siamo onesti, noi videogiocatori la
amiamo la morte. La sfioriamo quotidianamente, ci doniamo la possibilità di resuscitare per il gusto di
morire di nuovo. Il game over dura
pochi istanti, è la pausa di relax tra
una vita e l’altra. Vite tormentate e
28
difficili, pericolose, faticose. Al volante di macchine inventate, ci inventiamo nuovi modi per sfracellarsi al suolo o per essere fulminati
da un soldato nemico. In Burnout
2 il bello è far esplodere la macchina a velocità sempre diverse, contro ostacoli sempre nuovi. Ora con
le ruote staccate dal suolo, ora contromano, ora contromano con le
ruote staccate dal suolo. Burnout
2 è un gioco che vive di quell’ istante in cui capisci di essere morto
ma ancora non lo sei, un gioco di
fiato trattenuto e retina impressionata da un camion che sbuca
all’improvviso e occupa tutto lo
schermo. E’ un gioco che rivedi tutta la tua vita in un istante.
Ed è un gioco bellissimo.
Burnout 2 funziona che ci sono
delle gare, parecchie, su un gran
bel numero di circuiti diversi (che si
possono fare a nche al contrario), e
a seconda del piazzamento si hanno dei punti. C’è una classifica e se
si vince si sbloccano nuove auto e
nuove gare. Le corse sono particolari perché facendo azioni sperico-
:RECENSIONI:
late si accumula la barra del boost
e quando è piena con R1 si va ad
una velocità esagerata per un certo
periodo di tempo. Fate abbastanza
pazzie in quei momenti di boost e
ne avrete un altro gratuito, magari
inanellando una serie devastante di
boost consecutivi, a velocità sempre maggiori. E’ questo. Poi ci sono
le gare speciali, quelle contro una
sola macchina avversaria o quelle
in cui in un inseguimento guidando
una volante della polizia dovete
colpire una macchina un certo numero di volte prima che giunga al
traguardo. Poi ci sono le gare in più
giocatori, e poi c’è la modalità
Crash in cui bisogna scatenare un
incidente e causare più danni possibili. Anche questa modalità è disponibile per il multiplayer, ed è
decisamente indicata per chi da
bambino si divertiva a distruggere i
formicai. Tutte quelle auto ordinate,
quel traffico regolare che affronta
l’incrocio con l’aiuto dei semafori,
come si può resistere alla tentazione di sfasciare tutto volando in
mezzo all’ingorgo di camion con un
siluro sparato a folle velocità, facendo capovolgere decine di veicoli
e scatenando una disgrazia a cate na?
Come?
Ring#05
Burnout 2 prende, conquista e fa
divertire. Intensamente, ma per un
periodo non troppo prolungato. Una
volta raggiunti tutti gli obiettivi in
modalità singleplayer, e non ci vuole molto, lo riprenderete solo per
sfogarvi una mezz’oretta o per
sghignazzare con un amico. Ma ne
vale la pena, per quei momenti di
delirio sul filo del rasoio, vale la p ena di provare a correre sull’orlo del
precipizio.
Per una mezz’ora e non di più,
certo.
Noi videogiocatori non apprezziamo
il Cristianesimo, diciamolo. Non per
niente, ma una resurrezione che
prende tre giorni è davvero troppo.
Tre secondi al massimo, questo riusciamo a concedere al mistero della
morte, la pressione di un pulsante
se è proprio indispensabile ma non
di più. Perché siamo come il (video)
giocatore di Dostoevsky, ci piace
giocare per poter perdere sempre
in modo diverso. E non abbiamo
così tanto tempo da perdere perché
le morti vogliamo provarle proprio
tutte. La sconfitta, in Burnout 2, è
spettacolare, è catastrofica, è in
mondo visione, è una strage, è una
ostentazione di onnipotenza. Ed è
ripetuta costantemente, perché i
crash sono frequentissimi nelle g a-
re, è raro che ci sia un momento in
cui qualche concorrente non stia
sgommando per evitare il taxi o il
furgoncino che si sono fermati al
semaforo (come potevi prevederlo
che si sarebbero fermati al semaforo, e che diamine!).
Un inno all’adrenalina, alla violenza, alla devianza da un mondo di
codice stradale. Un’esaltazione
dell’infrazione, intesa come desiderio proibito, quasi morboso.
In Burnout 2 non ci sono uomini
per le strade. Solo macchine. Le
macchine sono un’estensione del
pilota, le macchine da gioco un’estensione del giocatore. Burnout 2
è un gioco di giochi che si rompono,
di morti toccate con un’estensione,
di ideal crash ( dEUS) e always crashing in the same car (David Bowie). Burnout 2 è nichilismo, è voler farsi del male, che poi perché
non ci si può fare del male se ci va?
E’ giocare ad annullarsi, a sognare di morire per poi svegliarsi e
scoprire che davvero si sta per m orire. Solo più lentamente.
Ed è un gioco bellissimo.
Buon divertimento .
dUE gRANDI oCCHI a mANDORLA____________________
[Surveillance]
di Amano 76
_______.:scHEda:._______
gENERE
Yaru Drama
eTICHETTA
Sony
sVILUPPATORE Production IG
sISTEMA
PS2
aNNO
2002
gIOCATORI
1
vERSIONE
Japponese
"E adesso vivi"
Sharon Stone, dopo aver sparato all'impianto di telecamere
nascoste con cui il suo amante,
un vacuissimo Stephen Baldwin,
sbircia dalla mattina alla sera
gli appartamenti di tutto il condomio. Da Sliver, porno-ciofeca
di Philipp Noyce.
"...e così me c'è cascato er cellulare
dentro. Che dovevo fà?! me so tirato su le maniche della giacca, e
c'ho infilato er braccio..."
Fedro, inimitabile protagonista
del Grande Fratello, che racconta la sua leggendaria impresa di recupero del proprio cellulare, caduto nello scarico di
un water pieno di merda.
____Sega, spirito d'avventura o
mania suicida?
Quando Sega non si vergognava di
se stessa. Quando Sega comprava
la licenza di Mazin Saga, nonostante Nagai avesse appena an-
29
nunciato che avrebbe interrotto la
serie a metà per colpa dello scarso
successo.
Sega è leggenda. Come Fantozzi.
E' come quegli gnu che quando c'è
da attraversare un fiume pieno di
coccodrilli, si tuffano per primi.
E il Mega-cd, da buon esempio di
tipico prodotto Sega, è stato lo sfogo per molti titoli paradossali o a ll'avanguardia, tra cui merita di e ssere citato il particolare NightTrap, un caso unico di game design
e di ambientazione (auto-)ironica.
In questo concept senza precedenti
il giocatore impersona un membro
della squadra Scat (Sega Control
Attack Team) incaricata di tenere
sotto sorveglianza casa Martin, villa
che ospita giovani yuppies in vacanza, alcuni dei quali scomparsi
misteriosamente nelle settimane
precedenti. Giunta sul posto, la
truppa prende il controllo del sistema di telecamere a circuito chiuso della dimora, e sistema in ogni
stanza trappole, da innescare a
comando, per cogliere di sorpresa
gli intrusi. Compito dell'utente è
:RECENSIONI:
quello di sfruttare gli otto monitor a
disposizione, alla ricerca delle infiltrazioni degli Ogre (i cattivi del gioco) in modo di poterli prevenire con
tempestività, anticipandoli con i sistemi di difesa o segnalando la p osizione degli intrusi ai compagni.
Questa struttura ovviamente i mplica uno svolgersi della vicenda in
modo altrettanto peculiare: ogni
camera permette di assistere a s equenze differenti, ma dato che l'azione si dipana in tempo reale, il
giocatore è impossibilitato a seguirle perchè costretto a sorvegliare
ininterrottamente ogni angolo della
casa. L'idea, molto interessante,
viene però in parte indebolita dall'
utilizzo di attori in carne e ossa,
che accentuano la pacchianità della
vicenda. Il risultato di atmosfere
ridicole e grottesche è volontario,
d'accordo, ma il concetto di fondo
avrebbe permesso un applicazione
più incisiva, e Surveillance è un
prodotto che lo dimostra.
__Genesi di una favola genetica
Night-trap è solo uno dei padri di
Surveillance. Agli ispirati ideatori
del concept design del gioco per
Mega-cd vanno infatti aggiunti Eichi
Teragawa, produttore di I.G incaricato di supervisionare lo sviluppo
degli yaru-drama [cfr. Ring4 – Kakka Banzai] (che ha avuto la constatazione opportuna di realizzarne
uno senza il tramite di Sugar and
Rockets), Hiroyuki Nishimura, regista delle sequenze animate, e Yukaku Maejima, regista del gioco. E
poi Alien, Matrix, Ghost in the shell.
Il risultato è un titolo che batte ai
punti qualsiasi yaru-drama pubblicato sinora, in qualità tecnica,
spessore narrativo, e approccio.
Surveillance è strutturato in m aniera molto simile a quella di
Night-Trap. Tuttavia una differenza sostanziale, che va a beneficio
dell' immediatezza, è da individuare
nell'interfaccia di navigazione delle
telecamere, che non sono semplicemente indicate da un menu di icone
ma riportate in porzione ridotta sullo schermo, in modo tale che il giocatore possa seguire l'azione su
ognuna di esse e capire a quale d are la precedenza. Ulteriore distinguo poi è il rilevamento sonoro,
disponibile per ogni monitor, aggiunta che a volte si rivela fondamentale per accorgersi di movimenti "mimetizzati" dalle dimensioni e dalla colorazione (a tinta unita) nelle finestre a porzione ridotta.
Il procedimento della missione è
semplice: tutto quel che bisogna
fare è cliccare su particolari o persone sospette, che vengono quindi
Ring#05
inseriti nel mastodontico archivio
fotografico del sistema Surveillance
e analizzati dall'intelligenza artificiale. Gli indizi che non hanno valore allo scopo di completare la missione vengono seplicemente inseriti
nel database, quelli che invece sono
vitali per proseguire senza incappare nelle varie bad ending (ce ne s ono dalle tre alle cinque per missione) segnalati da una spia rossa. Per
portare a termine gli incarichi sarà
quindi necessario rintracciare ogni
indizio di quest'ultima categoria:
trovarli in mezzo a tutta l'azione
che prosegue contemporaneamente
su ciascuna telecamera, costituisce
la sfida e il piacere del giocatore.
____Mi raccomando: riguardati
Che la struttura di Night-trap sia
stata rivisitata con full-motion a
cartoni e non dal vero, si è rivelata
la scelta forse più felice di tutte.
Perchè quello che in un racconto
cinematografico è ridicolo, volontariamente o involontariamente,
quando è interpretato da esseri
umani incapaci raggiunge apici di
goffaggine esponenziali. Così, con
tutti i pregi che può vantare il mezzo animato, come l'abbattimento
dei costi degli effetti speciali, o la
recitazione "controllata" in toto dal
regista e non rimessa alle "facoltà"
degli attori, Surveillance guadagna in credibilità e impatto. A modo
suo, è un pò come i recenti Scream, Pitch Black, o Blu Profondo:
una trama apparentemente ortodossa, costruita su trovate che citano rispettosamente le convenzioni del cinema di genere, ma che
allo stesso tempo ironizzano e a bbandonano i luoghi comuni della
propria paternità.
La premessa è quella di una
squadra speciale destinata a vigilare su un importante missione di
trasporto, a bordo di uno shuttle
che accompagnerà diverse personalità di spicco dalla Terra a Marte
(politici, proprietari di imprese farmaceutiche, giornalisti televisivi),
futura casa di un umanità che ha
mandato in rovina il suo pianeta
d'origine. Addetti alla vigilanza Y usuke S asaki, protagonista/giocatore, e i suoi colleghi della squadra
Shadow Sword, che per un incidente durante la loro prima missione
finiscono coinvolti in un complotto
di guerra biologica che li vedrà tra
l'incudine e il martello.
La narrazione e il gioco s corrono
di pari passo: ogni missione i sei
diversi schermi fanno spazio a s equenze d'azione, dialoghi, fan service, e piccoli indizi che al secondo
passaggio, una volta completata
l'avventura, contribuiranno a ren-
30
dere più comprensibile tutta la vicenda. Nel frattempo Maejima gioca
astutamente con l'utente: lo tiene
sul chi vive, lo "incuriosisce" con un
hostess che si spoglia sulla camera
E, mentre sulla D mostra un tipo
sospetto che ha appena estratto
dalla valigia una pistolona fantascientifica; mette in scena l'interrogatorio del prof. Ryan sulla camera
A, ma riprende nella C e nella E due
squadre di compagni alla ricerca del
mostro che si aggira per i corridoi
della base, mentre lo intrappolano
in una manovra "a tenaglia" che
l'utente vede compiere in te mpo
reale. E' un feeling di gioco assolutamente unico, che va provato per
essere apprezzato come merita,
sottolineato con gusto da una colonna sonora orchestrale che collabora pertinentemente alla forza c inematografica della storia.
_____________Tenere l'occhio
Si potrebbe pensare che la frammentazione dell'intreccio in più sequenze contemporanee rovini tutta
l'efficacia della videoesperienza. Ma
non è così. Con squisita professionalità cinematografica, Maejima
gestisce abilmente i tempi del racconto, e lascia spazio a ogni aspetto narrativo: le dinamiche scene d'azione, i dialoghi rivelatori, i
momenti di tranquillità in cui la naturalezza dei protagonisti trova tutto il suo spazio, o le sequenze dell'ultima, memorabile missione, in
cui i cattivi monitorano i buoni che
monitorano i cattivi, secondo un
gioco di specchi ormai consono nel
cinema moderno e impiegato con
gusto e personalità anche in Surveillance.
Davvero esaltante la qualità te cnica delle animazioni, che non recede in nessun punto e che, a differenza dei vari yaru-drama, ha uno
studio delle inquadrature, delle s equenze, e della colorazione, rivelatrici di uno stile coerente espressamente piegato alla narrazione, e
non alla sterile messinscena di bocce, culi, o amori impossibili. Anche i
colpi di scena, armi improprie nelle
mani di registi incapaci, sono portati avanti con consapevolezza ed efficacia: proprio quando la squadra
sembra intoccabile e il giocatore
comincia ad avvertire una sorta di
invicibilità dai parte dei protagonisti, due dei membri muoiono improvvisamente, gettando un senso
di sconfitta e di pericolo incombente che si mantiene per tutto il resto
dell'avventura. Unico problema di
ordine narrativo è l'iniziale confusione dovuta alle uniformi, che c oprono quasi completamente i visi
dei personaggi e quindi rendono
:RECENSIONI:
difficile distinguerli, ma per il resto
è tutta grande animazione giapponese, con una storia cupa ma dalla
conclusione solare e toccante, d urante la quale persino i "buoni" si
concedono qualche crudeltà e anche i "cattivi" hanno i loro momenti
di redenzione.
Come il battito d'ali d'un colibrì
Tutto questo richiede un prezzo,
quello di copertina, che non corrisponde a quanto ci si aspetterebbe
a ragione da un titolo che costa, al
cambio attuale, i suoi bei sessanta
euro (e metteteci pure la percentuale dei negozi d'importazio-
Ring#05
ne). Surveillance dura, a essere
più entusiasti possibile, sette ore al
massimo, secondo la coefficenza di
coglioneria dell'utente e la sua c onoscenza del giapponese: capire
quale oggetto vada individuato sarà
infatti abbastanza scocciante se
non si possono cogliere gli indizi dei
compagni o del proprio secondo. Gli
ostacoli comunque iniziano e finiscono lì: basterà ripetere una missione due volte e si intuirà con facilità dove cliccare.
Con una durata del genere sarebbe pertanto assurdo proporre di
comprare un prodotto costoso come questo, ma considerata l'esperienza unica che è in grado di offrire, l'alta qualità cinematografica
degli intermezzi, e la trama impeccabile, non c'è prezzo che tenga. Chi può sopportare dialoghi i ncomprensibili in lingua straniera, e
una durata che farà rimpiangere la
spesa una volta concluso il titolo
(ma solo una volta concluso) deve
assolutamente provarlo.
iN mEMORIA dELL’eSSENZIALITA’____________________
[Denki Blocks!]
di Marco Barbero
_______.:scHEda:._______
gENERE
Pr. Invenduto
eTICHETTA
Rage
sVILUPPATORE
Denki
sISTEMA
Gameboy Adv
aNNO
2002
gIOCATORI
1-4
vERSIONE
PAL
Hardcore gamer, non fare finta di
niente, tu sei come me. Ti aggiri tra
gli scaffali del negozio/supermercato/spaccio di ultima categoria e
registri la moltitudine di input che
lo scatolame esposto ti indirizza.
Ognuna di quelle confezioni mostra
supplichevole il suo bollino “scegli
me!”. Novello/a Samus Aran passi
al setaccio ogni anfratto del tuo
pianeta Tallon IV: il tuo mondo di
sogni digitali a buon mercato. Che
tanto a buon mercato poi non sono… Ed è qui che il tuo hardcoregamerismo si incrina fino al punto
di rottura. E’ qui che ammassi vittime su vittime in quella pacifica
guerra commerciale di cui ti senti
incolpevole, ma della quale sei un
volontario in ferma prolungata. Il
portafoglio ti esorta a scartare gli
elementi non idonei, e a volte sei tu
che ci perdi…
_____________Il predestinato
Quella di cui scrivo oggi, caro hardcore gamer, è la vittima registrata
nel file DNKBLCK01, più comunemente conosciuta come Denki
Blocks! Te la ricordi? Probabilmente no e questo rende la sua agonia
ancora più straziante. Ne leggesti
gli elogi tessuti da Edge, in quel
guazzabuglio di incongruenza che è
la sua sezione review. Ne sei stato
attratto perché in fondo al tuo cuore sai che Edge, salvo colpi di testa,
sa ancora riconoscere un buon gioco quando ne vede uno. Edge, da
rivista snob, ama estrarre da terre
sconosciute i borlotti più belli. Probabilmente trova autocompiaci-
31
mento nello scovare i suoi personali
tesori sepolti. Denki Blocks!, inoltre, fu votato miglior gioco dello
show all’ECTS 2001. P oca roba, ne
convengo, ma era un segnale da
non ignorare. Come significativo
era quel “uno dei migliori giochi che
il GBA abbia da offrire” che chiudeva la mezza pagina che la rivista
d’oltremanica aveva deciso di dedicare al titolo Denki. E allora perché
lo hai lasciato sullo scaffale? Perché, nonostante Game Rankings
abbia sentenziato con un 83% il
generale gradimento della stampa
(perlomeno di quella poca che ha
avuto modo di provarlo), hai passato la mano? Eppure, in quella ste ssa mano, la scatola ci era finita.
Quel sabato pomeriggio al Mediaworld l’hai rigirata per qualche secondo, hai scorto la grafica ultraminimale, hai immaginato (facendo
centro) un sonoro allegro ma altrettanto essenziale ed infine il tuo o cchio ha incontrato l’adesivo recante il prezzo. “50 euro per un
puzzle game dall’aspetto primordiale, dall’originalità apparente mente nulla e per giunta creato ad
Aberdeen?!” Tutto questo (tralasciando forse le nozioni sul luogo
preciso di concepimento, che avrai
catalogato con un più generico “in
occidente”) ha generato l’impulso
per riporre la scatola sul suo bel
scaffale bianco. E poi te ne sei uscito con Super Dodgeball Advance. Anche quello definito da
alcuni come un prodotto merite vole, ma differentemente da Denki
Blocks! graziato da origini nipponiche, da una grafica sontuosa e da
un gameplay a tratti letargico. Non
:RECENSIONI:
ti nascondere: spendere tale cifra
per quella pochezza estetico/concettuale ti pareva avventato. Sei
come me, ricordi? Lasciatelo dire,
stimato hardcore gamer, hai fatto
una cazzata. Quello che ti saresti
trovato tra le mani certamente avrebbe risposto all’idea audiovisiva
che ti eri prefigurato, ma quanta
giocabilità in quel giochino nel quale “devi unire i soliti blocchi colorati”…
________Per l’uomo che pensa
Non è il solito puzzle game frenetico, Denki Blocks! è il Tetris per
l’uomo che pensa, è il Puyo Puyo
del videogiocatore riflessivo. In
Denki Blocks! il tempo è un corollario. Prendersi lunghi momenti per
pianificare le mosse è essenziale.
Le regole sono di una semplicità
disarmante: premendo in una delle
quattro direzioni principali i blocchi
(chiamati gumblock) si muovono,
tutti assieme. Incontrando una superficie fissa (chiamata blocker, di
colore bianco) si fermano, dando
così la possibilità di riconfigurarne
la geografia. Quando due blocchi
dello stesso colore collidono, si agganciano e non c’è più verso di
scollarli. Su queste due regole
(l’amplesso cromatico e il movimento compatto) si basa tutta
l’esperienza, si basano tutti (o quasi) i 280 puzzle del gioco. Lo scopo?
Ricongiungere le etnie dello stesso
colore, magari creando la figura
facoltativa (che può essere un
semplice disegno oppure, laddove i
cromatismi in campo siano tre, un
Ring#05
tris di forme geometriche identiche). Denki Blocks! non si carica
di ulteriori di complicazioni. E’ questa la sua più grande vittoria: riuscire ad intrattenere per lungo
tempo basandosi su un pugno di
concetti. E’ l’anima del vero puzzle
game quella che batte nel titolo
Denki. È testamento della bontà
della formula originale che le aggiunte sperimentabili nella trentina
di stage extra (blocchi decoloranti,
buche, passaggi a senso unico…) si
vivano quasi come forzature in una
ricetta che funziona benissimo con i
suoi pochi ingredienti.
Lontano dalle solite forme colorate
in caduta a velocità warp, si ritrova
quella dimensione meditativa troppo spesso relegata in un angolo
dalla ricerca dell’adrenalina. La
mossa che precede il completamento di un livello particolarmente ostico viene pregustata per lunghi
momenti e celebrata per altrettanto
tempo con danze tribali, diti medi
alzati e benevoli vaffanculo indirizzati ai game designer. Schermate
zeppe di blocchi apparentemente
impossibili da coniugare vengono
poco alla volta analizzate, destrutturate e riconfigurate come la soluzione richiede. Ad ogni conquista il
cervello si sintonizza sempre di più
sulla lunghezza d’onda di Denki
Blocks! Poco alla volta il numero di
movimenti pianificati in anticipo si
amplifica a dismisura, arrivando a
toccare vette scacchistiche. E se
proprio si vuole una scarica di azione allora è sufficiente rivolgersi alle
modalità gara (comporre il più v elocemente possibile un certo nume-
32
ro di figure) o a quella scambio
(dove si crea una forma, la si
scambia con i concorrenti e si vede
chi è il più rapido nel ricostruire il
disegno dell’avversario) entrambe
godibili fino in 4 sullo stesso GameBoy Advance (con l’aggiunta di
una modalità a due dove, alternando le mosse con quelle del proprio
avversario, si devono unire il maggior numero di gumblock dello
stesso colore).
_______Chiusura con paternale
Essenziale come la legge del buon
rompicapo vuole, Denki Blocks! è
la perla rara che ognuno dovrebbe
riscoprire, compreso tu, amico
hardcore gamer. Se quel giorno avessi chiuso il cerchio economico
portando la confezione a contatto
col lettore ottico della cassa, avresti
apposto un mattoncino nel muro
del buon gioco, avresti contribuito a
sostenere la creatività, avresti tenuto fede alla tua filosofia “la grafica non è tutto”. Invece sei passato
qualche mese dopo in quello stesso
luogo. Denki Blocks! era stato
traslocato nel settore offerte. Per
15 miserabili euro te lo sei portato
a casa e hai scoperto cosa ti eri
perso, hai scoperto di aver contr ibuito a un mezzo fallimento commerciale. Perché per quanto tu
possa odiare ammetterlo, hardcore
gamer, sei come me. Sei duro e
puro, ma a targhe alterne. E la p enultima copia l’avevo presa io, p ochi attimi prima di te.
:RUBRICHE:
Ring#05
33
rETRObOTTEGA__________________________________
[Me Nintendo #5]
di Gatsu
“Bastardi! Siete tutti dei bastardi! Sto troppo male per uscire e a ndarlo a comprare, ma abbastanza bene per rosicare”
Paolo Jumpman Ruffino, parlando di Metroid – FORUM di Ring
“Rosica che ne hai motivo. Semplicemente uno dei Best Game Ever. Fottutamente splendido. E sono solo al 4 per cento...”
Un’esclamazione estremamente professionale di Federico Res, in risposta a Paolo.
I Retro Studios sono una delle rare
eccezioni che confermano la regola:
quanti di voi hanno mai dato fiducia
a SH attorniate da un’aura fallimentare, tipo, che so, 3DO?
Forse non è noto a tutti ma i Retro Studios vantano una storia intrisa di sfiga e influssi negativi, tanto che prima che Metroid Prime
fosse mostrato in pubblico il team
americano era già dato per spacciato dalla quasi totalità della comunità videoludica. Come Nintendo sia
riuscita a raddrizzare in extr emis
(prima dell’E3 2002) questa situazione sghemba lo possiamo solo
intuire dalle poche informazioni trapelate, ma io mi sono sempre immaginato Yamauchi in vestito sadomaso intento nella fustigazione
non-stop dei dipendenti Retro…
Vediamo di riassumere in qualche
riga la storia di un team che è passato, letteralmente, dalle stalle alle
stelle.
Fondati sul finire del secolo scorso da Jeff Spangemberg, i Retro
Studios hanno sede ad Austin, in
Texas. Quando nel 1999 fu annunciata una partnership con Nintendo,
i dirigenti della grande N non esita rono a definirli la “Rare americana”,
evidentemente già immaginando
quali sarebbero state le sorti della
società inglese. In quel periodo R etro contava già 25 dipendenti e
un’iniezione di altri 100 era programmata per far fronte al nuovo
impegno con Nintendo. Durante lo
Spaceworld 2000 Nintendo presentò il suo nuovo hardware, nome
in codice Dolphin, e vennero mostrate immagini di tutta una serie di
giochi fra cui anche una di Samus
Aran, segno che un nuovo Metroid
era nell’aria. Venne presto rivelato
che ad occuparsi del titolo sarebbero stati proprio i Retro Studios, che nel frattempo avevano
iniziato a lavorare anche su altri
progetti. Per un po’ di tempo scese
il silenzio sullo stato di salute del
nuovo Metroid, e durante il periodo fra agosto 2000 e maggio 2001
ben due progetti (un gioco di football e un gioco di car-combat) dei
Retro Studios furono cancellati per
cause mai specificate. Le nuvole
attorno alla SH di Spangenberg a-
vevano appena iniziato ad addensarsi. Durante l’E3 2001 furono
mostrati due corti trailer: uno riguardava un promettente RPG
chiamato Raven Blade, l’altro l’attesissimo Metroid Prime.
Scoppiò un vespaio, la struttura
FPS del nuovo Metroid aveva p reso alla sprovvista l’intera comunità
videoludica che continuò a discutere di quei pochi secondi di video
mostrati per interi mesi. La sensazione generale era che i Retro avessero violato un tabù nel modificare il concept portante di tutte le
passate edizioni di Metroid. Nonostante tutto, le parole rassicuranti
di Miyamoto (“Non resterete delusi”) placarono gli animi e lasciarono
tutti in spasmodica attesa di maggiori dettagli. Poco dopo l’E3 fu
annunciato che Raven Blade era
stato cancellato e che tutti i membri rimanenti del team che se ne
stava occupando (quelli che non
vennero licenziati in tronco, chiaro)
erano stati riallocati al progetto
Metroid Prime. Fu il chiaro segno
della presa di coscienza da parte di
Nintendo dell’importanza commerciale di un brand come Metroid,
forse sottovalutata in virtù degli
anni passati dalla sua ultima incarnazione. In sostanza, Metroid
Prime avrebbe dovuto essere PERFETTO, anche a costo di uccidere di
lavoro quegli sfaticati dei Retro
Studios, che fino a quel momento
non avevano garantito grosse soddisfazioni a Yamauchi & Co. Ulteriori dubbi sollevò la dipartita pochi
mesi dopo lo Space World del lead
program-mer dal progetto Metroid
Prime, e l’acquisto in blocco della
società (2/03/02) da parte di Nintendo fece presagire nuove ristrutturazioni interne (per inciso, a Jeff
Spangemberg fu pagato solo 1 m ilione di dollari per tutta la rimanen-
33
te quota azionaria, una cifra poco
più che simbolica per suggerirgli di
levarsi dalle palle).
Nonostante il passato burrascoso
della società, forse per merito
dell’acquisizione completa da parte
di Nintendo (come vi dicevo prima,
credo che il team sia stato sottoposto, nei mesi precedenti l’E3 2002,
a ritmi di lavoro inumani) Metroid
Prime venne presentato al pubblico e fu subito il delirio. Nessuno si
aspettava un gioco di qualità simile
dopo le difficoltà incontrate in fase
di sviluppo, e i Retro riuscirono a
riscattarsi agli occhi di tutti collezionando una serie spropositata di
premi (fra cui il premio Game Of
The Year e Excellence In Level Design al Game Developer Choice Award 2002), recensioni che definire
entusiastiche è dir poco e un successo di vendite entusiasmante in
qualsiasi continente.
Sappiamo che per cavalcare
l’onda del successo di Metroid
Prime i Retro sono già al lavoro
per pianificarne un seguito, ma ci è
ancora difficile inquadrare esattamente il ruolo dell’azienda: diventerà una sorta di Poliphony ninte ndiana, dedita praticamente solo alla
serie Metroid, o possiamo sperare
di vedere altri progetti in tempi
brevi? Abbiamo perso Rare, che ci
metteva tre anni a pubblicare un
gioco, e abbiamo guadagnato un’
altra azienda che ce ne mette due
ma per completare un progetto ne
cancella altri quattro… E’ ragionevole sperare che le cose si siano
finalmente stabilizzate?
Noi intanto aspettiamo i Retro al
varco.
Perché Metroid Prime fosse
perfetto, Retro Studios ha dovuto cancellare Raven Blade.
E chi se ne frega…
:TESORI SEPOLTI:
Ring#05
dUE cIELI, uNA sCUOLA____________________________
[Brave Fencer Musashi]
di DarknessHeir
_______.:scHEda:._______
gENERE
eTICHETTA
sVILUPPATORE
sISTEMA
aNNO
gIOCATORI
vERSIONE
RPG
Squaresoft
Interno
PSX
1998
1
NTSC
Sesto: Riconosci il vero dal falso
A quanto pare i giapponesi ce l’hanno proprio con i loro personaggi
storici. E pensare che ne hanno d iversi, e pure decisamente cazzuti,
alla faccia di noi occidentali e le nostre poche (fortunatamente note voli) eccezioni1. In ogni caso, guardiamo ai due Onimusha, ed alla
maniera in cui Nobunaga Oda e J ubei Yagyu sono stati trattati. Da
temibili guerrieri ad (eufemismo)
irrilevanti macchiette (perché, dai,
soprattutto in Onimusha 2 la trama è la quintessenza del trash). Ma
se pensate che sia stata C apcom,
nel 2001, ad inaugurare il trend
della diffamazione ai danni di personaggi valorosi, vi sbagliate di
grosso. I semi del male li ha
piantati Squaresoft, nel lontano
1998, con questo Brave Fencer
Musashi…
_______Quinto: Distingui l’utile
dall’inutile
In molti pensano che sia sufficiente
un mondo a “sblocco progressivo”
di discrete dimensioni per rendere
grande un gioco. Ritengono che basti scaricare in un unico titolo meccaniche di generi diversi, magari
qualche personaggino particolare
(bizzarro, eh, che non fa mai male), un paio di sub-quest, e… Balle.
La questione verte attorno ad una
semplice, inflazionata, ridondatissima parola: dosaggio. Creare un
mondo inutilmente vasto equivale a
generare smarrimento. Spezzare il
ritmo di un gioco d’azione con qualche momento avventuroso o piattaformico significa stressare l’utente
con fastidiose incombenze. Ed i vostri personaggi del c@##o… Teneteveli!
Questo Musashi sarà anche
un’irrispettosa parodia di uno dei
più celebri spadaccini della storia2
(e non solo quella giapponese), ma
il suo lavoro lo sa fare indubbiamente bene. Perché i programma-
tori Squaresoft ancora una volta si
sono dimostrati padroni di un’arte
decisamente rara: il saper dosare.
Suor Germana è una dilettante,
ecco tutto, Suor Germana sta lucidando le maniglie sul Titanic. L’amalgama che costituisce l’ossatura
di Brave Fencer Musashi vanta
tutt’ora, a distanza di cinque anni,
un pregevole equilibrio, giocato nel
continuo avvicendarsi di lineare e
non lineare, incentivo a proseguire
nella trama e “ma dai, che in giro
c’è un sacco di roba da fare”. Un’
amalgama che, guarnita/cotta/ servita/assalita dal videogiocatore
gourmet, rimane calda fino nell’ esofago di quest’ultimo.
Il tutto si presenta come un perfetto equilibrio trai “due cieli”: la
cosiddetta old school che declama il
verbo della semplicità dei controlli
ed una maniacale cura del game
design, e la discussa new school
con il suo free roaming, le sue configurazioni di tasti di complete ma
complesse ed i suoi orpelli da “v erosimile mondo di gioco”. Che dire,
una lettura del manuale potrebbe
mandare in panico il gamer meno
preparato. Le azioni sono tali e tante che gli otto tasti del pad PSX
sembrerebbero insufficienti; analogo il discorso concernente gli elementi da tenere sotto controllo d urante le nostre peregrinazioni per il
regno di Allucaneet. Eppure, skippata l’introduzione (per la cronaca:
pari pari all’antefatto di Bastard!!) e
presi i comandi del nostro samurai
dalla chioma à la Sonic…
ciale” (in fuga da una testa megalitica in una sezione in stile
Crash Bandicoot) e si brutalizza
un boss. Venti minuti netti di gioco,
tre3 stili di gioco diversi. Brilliant.
Attenzione, però, il bello deve ancora venire: scesi al villaggio per
prepararsi ad affrontare la prima
avventura, si ha occasione di gustare la prima dimostrazione di
oculatezza dei designer. Giorno e
notte si susseguono verosimilmente: e questo fatto non serve
solo a compiacere l’utente con suggestivi cambi di cromatismi in te mpo reale e variazioni nell’accompagnamento musicale e nei rumori
di sottofondo. Giorno ed ora sono
riportati a fianco degli indicatori di
energia e status, e vanno tenuti in
eguale considerazione. Poiché d eterminati avvenimenti si verificano
solo in determinate ore e giorni.
Poiché gli alimenti (che assieme
alle pozioni ripristinano salute status alterati) hanno una data di scadenza, superata la quale sortiscono
un effetto contrario. E poi, alle tre
del mattino difficilmente troverete
un negozio aperto… Nel caso si
perda uno degli eventi sopra descritti, comunque, niente paura.
Una semplice pressione del tasto
select, e Musashi entrerà in modalità “sleep”. Ora , soltanto una semplice combinazione di tasti ci separa
dal tuffo nelle braccia di Morfeo.
Sottolineo: semplice. Oltre a ripristinare gli HP e diminuire gli MP
(qui chiamati BP, Bincho Points),
questa pratica accelera lo scorrere
del tempo, premettendo di accorciare l’attesa di un evento sfuggito
la prima volta. Da qui un’altra sfumatura del gameplay: la stanchezza di Musashi (quantificata da un
apposito contatore), una volta o ltre il 70%, inizia ad incidere negativamente sulle sue performance. E
come fare per ridurla? Indovinato,
proprio dormendo.
_____Quarto: Conosci anche gli
altri mestieri
_Ottavo: non essere trascurato
nemmeno nelle minuzie
…Si supera un breve stage di introduzione ai controlli, poi un paio di
schemi basati sulla risoluzione di
semplici enigmi, un evento “spe-
34
Prendi un personaggio, dagli tante
armi/abilità e specifiche occasioni
un cui usarle. Se sei un game designer mediocre, costringerai l’utente a corse tra decine di menù
per adattarsi ad ogni cambio di s ituazione. Se invece sei un designer con la D maiuscola implementerai il tutto in maniera fluida, riducendo il numero di accessi all’in-
:TESORI SEPOLTI:
ventario o deputando un tasto ad
un efficiente cambio rapido. Ma se,
ancora, vuoi lasciare il segno, punta su due armi solamente. Sì, le
stesse due armi per tutto il gioco.
Come, “ma sei scemo”, chiedi? E’
qui che il profeta si distingue
dall’accolito…
Due cieli. Fusion, una katana con
cui sferrare una semplice combo e
(vedi sotto) assorbire le abilità nemiche, e Lumina, un brando di retaggio Fantasy per i colpi lenti&ferali ed una gamma di special
(ancora, vedi sotto). Più una manciata di altre combo il cui apprendimento è sotteso ad una delle subquest. Una scuola. Lanciate Fusion
verso un a vversario, premete furiosamente il tasto corrispondente, poi
gioite: avete appena imparato
l’abilità distintiva di quel nemico.
Ce ne sono di offensive, di “benefiche” (“Mint”, per esempio, ferma
l’incremento della barra di sta nchezza), di “specifiche” (tirate una
bella palla simil-Bowling contro una
parete friabile per abbatterla, ma
anche contro una schiera di nemici
disposta in birillo-style per farvi due
risate) e di “apparentemente inutili”. Perché, allora, arrabattarsi con i
menù quando per ottenere l’abilità
desiderata è sufficiente annichilire
un dato nemico?
Passiamo a Lumina. Recuperando
i leggendari “Five Scrolls” a suon di
boss abbattuti, si possono ottenere
cinque abilità da sfruttare attivamente tanto nella risoluzione degli
enigmi quanto in fasi appositamente studiate, ma anche durante
gli scontri.
_______Secondo: Esercitati con
dedizione
Nel contesto diegetico Lumina è la
spada della luce, l’arma leggendaria
che bla bla bla. In quello extradiegetico, il suo attributo illuminante rischiara l’albo d’oro dei g ame designer. Un (1) accesso al
menù per scegliere se attivare uno
scroll od usare le capacità di base
della spada, e previo caricamento
dell’apposita gauge (che praticamente si traduce nell’effettuare la
parata, bella lì), si ottiene un effetto a scelta tra lo sparare acqua o
fuoco, scatenare un tornado od un
terremoto, volare o creare il vuoto
(no, non il Ku dello Zen) attorno a
sé con una spazzata a 360°. Inutile
dire che l’accuratissima pianificazione delle aree di gioco limita al
minimo le pause di (ri)configura-
Ring#05
zione dell’arma, lasciando il campo
libero all’appagamento più cristallino. Pianificazione, si diceva… Ebbene, in verità è stato proprio Brave
Fencer Musashi ad ispirare (tra
l’altro a mio cognato), l’antico apoftegma “il buongiorno si vede dal
mattino”. Ricordate i venti minuti
iniziali? Perfetto: per tutta la durata
del gioco avventura, piattaforme,
cut scenes, incontri con boss da
picchiare con precisione&strategia
(non esattamente l’Hejo del Musashi storico, ma insomma siamo lì),
e sotto giochi compongono un o rdito variopinto quanto gradevole,
con buona pace di Missoni e dei
suoi seguaci. Capito, Suor Germana? Stai attenta e lascia stare Gualtiero Marchesi, che invereconda un
peccato capitale lo stai già fomentando, con le tue ricette. Si diceva?
Ecco, vedi, a forza di disturbare mi
hai fatto perdere il filo.
cadere.
In Brave Fencer Musashi l’influenza old school, come già detto, è
più che sensibile. Ed in un titolo che
segue questa filosofia, trovare la
non linearità e le molteplici sfumature di un titolo new school è davvero, davvero, davvero difficile.
Questo piccolo gioiello, insomma, è
la “Scuola” nata dal felice connubio
dei “Due Cieli”; una sapiente miscela del meglio di entrambi, che ad
oggi ha pochissimi rivali. Il fatto
che in Giappone ed in America sia
passato quasi inosservato (e non è
nemmeno stato convertito per il
mercato europeo, pensa te) non
deve infastidirci più di tanto. Essere, come recitava questo antico
detto orientale “Per molti, ma non
per tutti” è il carattere distintivo
primo di ogni opera di valore…
Settimo: percepisci anche quello che non vedi con gli occhi
Ora ricordo: le sub-quest. 35 abitanti del castello da salvare per o ttenere benefici di ogni genere (da
nuove tecniche di spada a nuovi
oggetti in vendita nei negozi, ma
anche nuovi strumenti nell’accompagnamento musicale di una
data locazione, and so on), 13 animaletti teneri teneri da detrudere
violentemente dallo schermo per
aumentare il limite massimo degli
HP, la madre (uahahaha…) di tutti
costoro che una volta battuta esploderà in mille goodies, e le
action figures raffiguranti i personaggi del titolo, con cui giocare
(se mai qualcuno possa trovarlo
divertente, si faccia vivo) nella c amera di Musashi. Solo questo aspetto del gioco segue i cliché senza innovare: troverete lo stret-to
necessario in giro, agognerete a
quello che vedrete ma non riuscirete a raggiungere senza un minimo di ingegno, diventerete matti
per “completare la collezione”. Ma
non dimentichiamo che…
_____Terzo: Studia tutte le arti
E’ troppo comodo, dall’era dei 32
bit in poi, giustificare un impianto
di gioco spartano adducendo la
scusa del “vecchio stile”. Così come
è troppo comodo infarcire una
struttura non lineare di collezioni di
“soprammobili” e lezi vari per mascherare la piattezza e la dispersività in cui il gioco “moderno” può
35
_____________________Note
[1] Sto parlando di Alessandro M agno e del dinamico duo ArtùMerlino. Il fatto è che tutti e tre
presentano
forti
legami
con
l’esoterismo, e nonostante l’abbondanza di documentazioni loro inerenti, discernere l’aspetto “storico”
da quello “simbolico” delle vite di
costoro è tutt’altro che semplice…
[2] Musashi Miyamoto è nato nel
1584. Spadaccino di incredibile v alore, in vita sua ha partecipato a
ben 60 duelli senza perderne nemmeno uno. Fondatore della Nitenichi Ryu (due cieli, una scuola), ha
creato la tecnica che prevede l’uso
simultaneo di due spade (la tachi,
spada normale, e la wakizashi,
spada corta) ed elaborato decine di
precetti utilizzati tutt’ora nel Kendo
sportivo. Prima di morire ha scritto
Il libro dei cinque anelli, uno str aordinario testo in cui la strategia
(Hejo), l’arte della spada e lo Zen si
fondono in maniera sublime. Oltre
al suo capolavoro, consiglio di dare
un’occhiata al manga Vagabond di
Takehiko “Slam Dunk” Inoue, eccelso per il tratto, la caratterizzazione dei personaggi ed ovviamente
la trama.
:RUBRICHE:
Ring#05
rACCONTI iNDECISI_______________________________
[KAKKA BANZAI: Le avventure testuali]
di Amano 76
__________Spirito d’avventura
Un vecchio arriva in paese battendo
due piccoli blocchi di legno, uno
sull'altro. Il caratteristico rumore
sordo attira i bambini dei dintorni:
sanno che tra poco ci saranno dolci
per tutti e comincerà il kamishibai.
Fiorito nel dopoguerra nipponico,
il kamishibai (letteralmente: rappresentazione di carta) rispose per
breve tempo alle necessità di comunicazione di un paese che, per
secoli, non solo era stato isolato dal
resto del mondo, ma anche da sè
stesso e dalle regioni al suo interno, a causa di montagne invalicabili
e della scarsa sicurezza al di fuori
dei villaggi che per anni avevano
arginato vicendevoli scambi culturali. Il risultato di una simile
frammentazione fu che spesso coesistessero più versioni di una stessa
leggenda, o anedotti che non avevano mai superato i confini di certe
realtà locali. Gli adulti potevano
colmare le loro lacune (o curiosità)
con la semplice lettura, ma per i
bambini il kamishibai era uno str umento di comunicazione decisamente più consono e immediato;
così, finchè la televisione non raggiunse pieno regime con le sue enormi dosi di cartoni, telefilm, e
varietà, questa particolare forma
narrativa prosperò al punto di raggiungere una dignità che consentì
di sopravvivere, se non al mestiere
in sè, allo spirito che la ispirava e
alla fama che si era guadagnata.
Il narratore di kamishibai esercitava la sua arte sostenendosi economicamente con la vendita di dolci
e merende, che distribuiva ai suoi
piccoli clienti in attesa dell'inizio
dello spettacolo, traghettando racconti popolari da un isola all'altra
dell'arcipelago nipponico. I suoi
strumenti di lavoro erano la semplice voce e un piccolo teatro ambulante, nella cui cornice inseriva
dipinti che riproducevano i momenti
salienti dell'azione.
Il vuoto lasciato da quest'attività,
decaduta intorno gli anni '60, ven-
ne in qualche modo occupato dai
romanzi di genere. L'abitudine di
accompagnare il testo dei libri con
illustrazioni a tutta pagina, che catturassero i passaggi principali dei
racconti dando allo stesso tem-po
volto ai protagonisti della storia,
era sempre persistita nella narrativa nipponica popolare, e si tramandò in modo del tutto spontaneo
nei romanzi per ragazzi, spesso a
tema horror o fantastico, che negli
anni '80 videro fiorire le trasposizioni letterarie dei cartoni telesivi
più popolari1.
È in un retroterra simile che attecchì l'avventura testuale, genere
di origini occidentali (Zork, 1977,
Massachussets Institute of Technology; Mistery house, 1980, Sierra) che in Giappone venne, tipicamente, accolto e trasfigurato secondo i canoni nazionali. Ripercorrerne la storia come genere
videoludico è improponibile: la portata dei titoli prodotti è persino superiore a quella americana ed e uropea, e chiaramente citarne ognuno non corrisponderebbe alla
benchè minima utilità. Quello che
invece importa è riconoscere le
tappe fondamentali, le icone che
hanno sinora contraddistinto la
produzione, e come essa si inserisca nel mercato nipponico (vendite,
popolarità).
_______Giochi d i ruolo al sugo
Le prime avventure testuali furono
un’esclusiva dei personal computer.
Prodotte da Hudson, Dizzney Land
(1983) e La Principessa Pomodoro del regno di Insalata
(1984), avevano uno spiccato accento umoristico e grottesco. In
Principessa Po modoro il giocatore impersonava Cetriolo il coraggioso, l'eroe della storia, che doveva salvare la principessa, figlia di
Re Aglio, rapita dal traditore ministro Zucca. L'interfaccia visuale era
composta da menu a scelta multipla, sempre presenti su schermo,
che incorniciavano immagini fisse
secondo un layout molto simile a
quel kamishibai descritto in precedenza. "L'azione" si svolgeva principalmente attraverso i dialoghi,
punto focale del gameplay, con uno
studio del linguaggio sicuramente
più approfondito e ricercato rispetto
ai vocabolari elementari utilizzati
nei titoli per console. Questa distinzione, da non trascurare, rifletteva
la scissione tra il mercato ludico per
36
pc e quello per Famicom: uno appannaggio di ado-lescenti o adulti,
che potevano permettersi la spesa
per un assemblato e che non venivano
scoraggiati
dalla
nonimmediatezza dei comandi, l'altro
rivolto ad un pubblico meno "elitario" e meno smaliziato, principalmente composto da bambini. Non a
caso, quando Principessa Pomodoro sarà adattato per la console a
8-bit di Nintendo, molti enigmi verranno semplificati e resi più accessibili.
Un tipico "fotogramma", ripreso dalla leggenda di Momotaro
Pur distinguendosi per il retaggio
testuale, la matrice delle avventure
restava tuttavia molto simile a
quella dei giochi di ruolo, genere
che era stato battezzato su personal computer dal Wizardry di Robert Woodhead (1981, Sartech Software) un titolo molto amato dagli
utenti giapponesi, di cui an-cora
oggi vengono realizzati nuovi capitoli e che ha dato luce alla caratteristica inquadratura in soggettiva
mantenuta in molti capisaldi del
mercato orientale, come la saga di
Dragon Quest o quella di Megami
Tensei (conosciuta in occidente c ome Persona). Non è quindi la sola
tradizione del kamishibai a venire
omaggiata dai primi respiri del g enere, com'è evidente dalle connotazioni di Principessa Pomodoro, in cui l'unica differenza rispetto a sistemi di rpg ortodossi
(per i canoni di allora) era la gestione dell'interattività attraverso
menù predisposti e non attraverso
un referente visivo in terza persona: ecco spiegato il perchè nel
titolo di Hudson raggiungere un
qualsiasi luogo implicasse aggirarsi
per autentiche world map, ed il
perchè quando si incontrava casualmente un avversario, come li
fruttivendolo ad esempio, si avvicendasse una classica schermata
di combattimento a turni, che veniva svolto attraverso improbabili
tenzoni di morra cinese.
Il passaggio a questa rigidità interattiva non deve essere frainteso
come un elemento votato a corrompere la giocabilità: in realtà le
:RUBRICHE:
"restrizioni" presenti in Principessa Pomodoro avevano come obiettivo quello di permettere un
maggiore controllo sul testo narrativo da parte degli autori, in modo
da concedere loro di comunicare un
messaggio più organizzato e coerente possibile, non di trovare scorciatoie per diminuire il lavoro da
compiere. E sarà proprio questo il
dna principale dell'avventura "alla
giapponese", che verrà tramandato
da allora in poi: la focalizzazione
sui contenuti, il registro linguistico,
e l'appeal adulto.
__Mondi che fluttuano immobili
L'ispirazione di Wizardry non si estinse in breve. Il gioco di Woodhead aveva infatti colpito profondamente due grandi autori del
patrimonio ludico nipponico, Yuji
Horii (padre di Dragon Quest assieme Kohichi Nakamura) e Hironobu Sakaguchi (padre di Final
Fantasy) che esordirono le loro carriere proprio con delle avventure
testuali. Tuttavia mentre Deathtrap di Sakaguchi fu poco più che
un buon titolo, il lavoro di esordio
di Horii, Serial killer a Port No pia, diede una propulsione notevole
al genere, fornendo l'avvio ad un
impiego massiccio di convenzioni
universali. Il successo di Port Nopia era motivato principalmente
dallo sfruttamento del registro tematico e narrativo del romanzo poliziesco, apparsi per la prima vol-ta
in un avventura testuale proprio
nell'opera di Horii, nonchè dal sano
umorismo fatto di giochi di parole e
slapstick che il regista di Dragon
Quest porterà avanti costantemente in tutti i suoi lavori successivi (come Karuizawa, guida
al sequestro di persona, Chrono
Trigger, e Hokkaido, omicidi a
catena) ma che sarà invece abbandonato dagli altri autori delle
avventure testuali, a favore di un
maggiore accento su toni seri e c upi.
Sia Principessa Pomodoro che
Port Nopia vennero successivamente trasposti su Famicom, tuttavia il passaggio di consegna dai
personal computer alle console
venne tenuto a battesimo da un
altro titolo, Dead Zone (1986,
Sunsoft) pubblicato sull'allora avanguardistico Disk System.
Ring#05
Le peculiarità di questo nuovo supporto analogico furono efficacemente messe a frutto da Nintendo,
che promuovendo le funzioni di r iscrittura, la capienza dei dischi, e la
sperimentazione di nuovi generi,
diede il via a diverse software
house per la produzione di titoli più
complessi rispetto agli shooter e
platform che fino a quel momento
avevano "infestato" il mercato su
cartuccia. Così, nello stesso anno in
cui il pioneristico Horii pubblica l'intramontabile Dragon Quest, Sunsoft lancia il suo celebre Dead Z one, passato alla "storia" per la presenza di alcuni brani doppiati in cui
la spalla del protagonista del gioco,
un robot di nome Carly, suggerisce
indizi o commenta sarcasticamente
gli errori dell'utente. L'effetto, abbastanza elementare, ottenuto attraverso la combinazione di sillabe,
risultava comunque riuscito proprio
perchè riproduceva esattamente il
parlare scandito e metallico di un
robot, e l'idea non mancò di venire
lodata da più parti per la sua arguzia. La trama, decisamente angosciante e claustrofobica, vedeva il
solito "paladino" alla ricerca della
sua ragazza, sequestrata dai cattivi
di turno. La particolarità non era
ovviamente data dal pretesto narrativo, quanto più dall'insolita ambientazione fantascientifica: una
colonia spaziale disabitata, completamente deserta, che il protagonista doveva ispezionare da cima a
fondo (letteral-mente, dato che gli
veniva "chiesto" di farsi strada a ttraverso otto livelli sotterranei),
trovando soluzione ad enigmi, b asati su codici o combinazioni di o ggetti, per aprire porte e garantirsi
accesso alle zone consecutive.
A ricevere gli onori della cronaca
ludica non fu tuttavia il solo doppiaggio, in quanto Dead Zone , a
differenza delle lineari avventure
grafiche apparse sino ad allora, era
costellato di vicoli ciechi e folto di
indizi svianti, che confondevano
l'utente rendendo alcuni passaggi
quasi invalicabili; una pecca che in
pochi dimenticarono di segnalare
vista la difficoltà media dei titoli per
console, notevolmente al di sotto
degli standard del titolo Sunsoft.
Nel frattempo, comunque, l'eco del
successo di Dead Zone (e delle
polemiche circa la scarsa "user
friendship") aveva raggiunto le orecchie di sviluppatori e produttori,
e non ci volle molto prima che la
stessa Nintendo scendesse in campo personalmente, realizzando la
serie Club d'investigazione Famicom e l'esotico Le antiche leggende del Famicom - di nuovo
sull'isola dei Demoni.
37
Il club delle persone particolari
L'isola dei demoni ebbe un buon
successo di vendite. Il suo spirito
scanzonato, la scarsa difficoltà, e il
contesto di gioco, avevano entusiasmato gli utenti del Disk System,
messi di fronte ad enigmi basati
sulla loro conoscenza in materia di
leggende del kamishibai, attraverso
un mondo fittizio popolato da miti
d'infanzia come Kintaro, Momotaro,
la principessa Kaguya, la principessa Oyuki. Il titolo di Nintendo si
poteva quindi apprezzare a più livelli, assumendo un sapore quasi
didattico nel caso dei bambini, distratti inoltre da gag a raffica, o
nostalgico nel caso degli adulti, intenti a "riscoprire" racconti dimenticati. Il clamore suscitato da
L'isola dei demoni toccò anche Il
tesoro magico di Cleopatra
(Dog, 1987, Famicom Disk System), titolo a cui parteciparano
diversi futuri membri del team
Square e che riscosse un buon indice di gradimento grazie alla grafica
notevolmente dettagliata.
Quando due anni più tardi però
vennero prodotti i Club d'investigazione Famicom, il Disk System aveva ormai raggiunto il proprio periodo di declino, con prestazioni sorpassate persino dal Famicom stesso, e con un Pc-engine
che aveva già cominciato a rodere
una fetta di mercato a Yamauchi e
compagnia. Fu così che, per quanto
Nintendo avesse riversato forze e
spese nel portare a termine i due
titoli, il grande pubblico era ormai
diretto verso altri lidi, e alle due
avventure testuali non restò che un
manipolo di appassionati a fare
"passa-parola", nonchè la stima r icevuta da gran parte della critica.
Questo garantì una notorietà costante a Il discendente scomparso (il primo capitolo) e La ragazza in piedi dietro di te (il secondo), al punto che i due sono
oggi considerati capisaldi del genere, con una fama ufficializzata senza mezzi termini dalla presenza del
trofeo di Akane Tachibana (personaggio ricorrente della serie) in
quel Super Smash Bros Melee
recentemente uscito per Gamecube. Questo prestigio decennale fu
dovuto a diversi aspetti, l'eccellente
costruzione delle sequenze più concitate, la grafica dettagliata, e più
di tutti l'intreccio narrativo, che nel
secondo episodio in p articolare d imostra una sapiente costruzione
della rete di indizi e un'accattivante
scenario a metà tra il poliziesco e la
storia di fantasmi, i due generi più
ricorrenti in assoluto nei drammi
televisivi, nei film, nei cartoni, e nei
romanzi seriali giapponesi. Erano a
tutti gli effetti dei racconti interatti-
:RUBRICHE:
vi, perciò se da un lato mostravano
il fianco alla linearità, dall'altro si
avvantaggiavano senza riserve del
loro spessore contenutistico, sfruttando le caratteristiche dell'avventura testu-ale come c ontraltare alla
"piattezza" tematica degli shooter,
dei picchiaduro a scorrimento, e dei
platform, tipologie ludiche maggiormente in voga in quel periodo.
La stessa disfatta colpisce anche
Metal Slader Glory, avventura
grafica di Hal studio che a causa
della sua ritardatissima uscita
(1991, quando Nintendo aveva a ppena annunciato la chiusura della
produzione per Famicom) finirà col
passare completamente inosservata, e con essa la sua preziosa edizione limited, oggi valutata nel
mercato dell'usato nipponico per
qualcosa come 250 euro. Il motivo
di una prezzatura simile non è stato
stabilito dalla sola rarità del titolo:
costato somme ingenti e più di
quattro anni di sviluppo, l'insuccesso di Metal Slader fu tale da
mettere in ginocchio Hal studio2,
ma il risultato fu un "mostro" di 8
mega su cartuccia con un'alta qualità di riproduzione delle immagini,
un character design riuscito, e una
trama cruda che sfruttava a suo
vantaggio l'iniziale tono scanzonato
della vicenda, mettendo in scena
sequenze splatter e anche un pò
"sozzone", come evidente in quella
particolarmente nota (non dalle nostre parti, ovvio) dove un mostro
tentacolare afferra la sorella minore
del protagonista, ammicando alle
situazioni tipiche dei manga e cartoni pornografici.
_________Il fumo salva la vita
Se Principessa Pomodoro è stato
il primo, Dead Zone quello che ha
lanciato il genere su console, e
L’isola dei demoni uno dei maggiori successi, la vera e propria icona delle avventure testuali è Saburo Jinguji, apparso per la prima volta nel 1987, in Arriva Saburo
Jinguji - Assassinio a Shinjuku
(Data East, Famicom Disk System),
in cui il cupo investigatore deve r isolvere un omicidio avvenuto nel
parco di Chuoo, in pieno centro di
Tokyo. La locazione, riprodotta con
spirito realistico nei limiti di quanto
concesso dalla tecnologia a 8 -bit, fu
Ring#05
una delle prime distinzioni con cui
Data East proponeva la sua versione di avventura testuale. Un a ltra fu l'ambientazione hard-boiled,
sino ad allora infrequente nelle
produzioni videoludiche, e un altra
ancora la caratterizzazione del protagonista, compassata e adulta,
delineata da quel Katsuya Terada
che attualmente è uno degli illustratori più accreditati di Atlus e del
mercato nipponico più in generale.
Legato quasi geneticamente al titolo e ai suoi sequel, Terada non ha
mai mancato nessuno dei capitoli
dedicati a Saburo Jinguji (sette fino
ad oggi) contribuendo in modo d eterminante al successo della serie,
che è cresciuto col tempo e non è
mai effettivamente esploso.
Il motivo per cui i l gioco è così radicato nell'immaginario nipponico, è
lo stesso per cui Dragon Quest, F inal Fantasy, Zelda, o Mario sono
considerati prodotti da comprare a
scatola chiusa: perchè l'utente sa
esattamente cosa lo aspetta, perchè nel bene e nel male, tutto
cambia ma resta sempre uguale. E
nella serie dedicata a Saburo Jinguji ogni cosa è immediatamente riconoscibile: il protagonista, l'ambientazione realistica, i dialoghi ricchi di quotidianità e credibilità, e le
sigarette.
A proposito di sigarette: la difficoltà di queste avventure prodotte
da Data East è la croce e la delizia
del suo pubblico. Con un sistema di
salvataggio dei dati che implica il
trascorrere di una giornata, con la
necessità di rientrare nelle scadenze richieste per risolvere i casi
(quindici giorni nel primo capitolo,
per dirne una) e con un cast di personaggi che dispensa indizi e informazioni a seconda del comportamento del giocatore, è facile
immaginare come la risoluzione dei
misteri implichi una "fatica" mentale non esigua. In Assasinio a
Shinjuku, ad esempio, si può per-
38
dere all'istante se si commet-tono
passi falsi come sospettare del
commissario di polizia, o insistere
troppo nel porre domande a persone reticenti, magari incalzandole
troppo bruscamente 3, rischiando
che chiudano definitivamente la
bocca e neghino l'accesso a indizi
determinanti. In questi casi, selezionando il comando "fumati una
sigaretta", Saburo si prende una
pausa virtuale, assume nicotina, e
si lascia folgorare da intuizioni liberatorie che in qualche modo aiutano
a procedere senza eccessivi rischi.
Il bilanciamento in questo senso è il
fattore più riuscito assieme al character design di Terada: non si ha
mai la sensazione di non poter s uperare un momento di empasse, nè
quando si risolve un enigma o si
acquisisce una prova importante ci
si sente colpevoli ad aver sfruttato
l'aiuto del tabacco; col risultato che
la noia e la frustrazione non riescono mai a prevaricare la suspence e
la curiosità del giocatore.
Ovviamente chi esaurisce l'unico
pacchetto di sigarette a disposizione per quei quindici giorni, resta
senza indizi per il resto dell'avventura. Difficile stabilire cosa sia peggio, tra il cancro o il game-over.
_____________________Note
[1] O viceversa, come nel caso della serie Lodoss War.
[2] L'anno successivo la ditta verrà
letteralmente salvata a un passo
dal fallimento da Nintendo stessa,
evento che attesta la stima non s econdaria della compagnia di Yamauchi nei confronti della software
house di Satoru Iwata: Hal studio è
infatti responsabile di blockbuster
come Baloon Fight, la serie di
Kirby, e la serie di Mother. Di recente ha inoltre prodotto il primo
million seller per Gamecube, Super
Smash Bros Melee [Ring 3, Meet
the feebles].
[3] Cosa che invece si può fare l iberamente con la propria assistente
Yoko, che può essere sgridata a
volontà, senza ripercurssioni di sorta, se non il deterioramento della
sottile intimità tra i due protagonisti.
:RUBRICHE:
Ring#05
sMILEBIT_______________________________________
[Sega Saga #4]
di Emalord
Da SEGA SAGA #1 :
“Nell’anno che da sempre identifica l’immaginario di un futuro splendente nascono: Wow Entertainment – Sega-AM2 – Amusement Vision – Hitmaker – Overworks – Smilebit – Sega Rosso –
Sonic Team – United Game Artists – Wavemaster e Visual
Concepts…”
Nell'anno del Signore 2000 una
pioggia di meteoriti si trovò a passare dalle parti del pianeta Sega.
Tre di loro furono portatrici di disastro ad interim: Biliancium, Facturatio e Marketeeng. L'impatto fu
devastante, il pianeta Sega si spezzò in undici ciottoli di dimensione
variabile mentre da alcuni pianeti
vicini lo spettacolo veniva degustato accompagnato da cola, pop-corn
e parate di majorette. Una delle
undici schegge cosmiche di Sega
sembrava non disperarsi particolarmente per quanto avvenuto, anzi. A
vederla da lontano sembrava persino sorridere.
Il 20 Aprile del 2000 il pianeta Sega
si era ufficialmente tramutato nella
galassia Sega. La tempesta fiscale
abbattutasi sulla softco nipponica
aveva dato una potente scossa al
sistema, ma la cosa non e ra necessariamente da vedersi come un
Armageddon, anzi. A guardarlo da
lontano il pianeta Smilebit sorrideva
compiaciuto da dietro gli occhiali
del suo presidente, un Shun Arai
che dal giorno della sua nascita, il
15 giugno 1959, aveva scelto il sorriso come arma per conquistare il
mondo.
Il progetto Smilebit è cosa tutt'altro
che ilare, a dire il vero. Gli uffici,
situati tra il secondo ed il quinto
piano del Sega Building di Tokyo,
sono una realtà pulsante di progetti, iniziative e macchinette del caffè
che lavorano a getto con-tinuo.
Oggi, nel 2003, la softco è impegnata su molti fronti, tra cui la pro-
duzione di videogames per ogni s istema conosciuto, Gameboy e PC
compresi, per sale giochi nonché
per l'emergente telefonia mobile
cellulare. Un'attività inizialmente
concentrata sulla produzione di giochi per Dreamcast che si è in seguito allargata a tutte le macchine della concorrenza per forze di causa
maggiore, vista la mesta dipartita
della console a 128bit di Sega e al
lutto che ne seguì.
__________C'è Poco Da Ridere
Entrare nel sito web ufficiale di
Smilebit [http://www.smilebit.com]
è come entrare in un ascensore,
salvo poi accorgersi che si è entrati
in una lavatrice. La disposizione di
dati all'interno del sito, che di norma dovrebbe essere in r igoroso ordine cronologico A>Z oppure Z>A,
dev'essere stata affidata ad un
qualche asceta fresco di laurea Webmaster. Niente da ridire sui contenuti, peccato che la lista dei titoli
prodotti per i diversi sistemi sia in
rigoroso ordine casuale, un inno
supremo al caos primordiale che
regna da sempre nell'universo ma
che genera in chi stila statistiche di
qualche tipo una certa frustr azione
da "questo lo sposto qui, quello va
messo li", filosofia orientale ben
poco mistica cui anche il sottoscritto ha dovuto adeguarsi. E c'è davvero poco da ridere. Cominciamo
ad osservare la produzione Smilebit
partendo dalla console cui dedicarono le prime, affettuose nonché
materne attenzioni.
Prima di dedicarsi ad una serie infinita di simulazioni sportive, Smilebit ha realizzato la conversione di
un arcade di enorme successo per
la neonata centoventottobittica
console di Sega. Il risultato finale fu
soddisfacente anche se Dreamcast,
invero, avrebbe potuto essere
sfruttato meglio. Sega Rally 2 riuscì
a coniugare grafica, fluidità e giocabilità in un cocktail dal gusto gradevole, anche se l'impressione g enerale era che il coin-op era comunque più bilanciato nei controlli
e meccaniche di gioco.
Let's make Japanese professional baseball team! [1999]
Let's play with Japanese professional baseball team! [1999]
Let's play with Japanese professional baseball Team on net!
[2000]
Let's make more Japanese professional baseball team! [2000]
Let's Make Professional Baseball team and play ball! [2001]
Per la serie Let's, una simulazione
di baseball caratterizzata nella serie
LET'S MAKE da puri elementi manageriali, con tanto di palestra, segretarie, ufficio acquisti e vendite, stadi personalizzabili. Per contro, nella
serie LET'S PLAY venivano estirpate
le caratteristiche più te-diose incentrando il tutto sulla nuda e cruda
simulazione sportiva. La versione
2001, la più recente, riuniva le c aratteristiche di entram-be le saghe
includendo anche le componenti
on-line attivate nel 2000.
____________Sega Dreamcast
La produzione Smilebit per Dreamcast è caratterizzata da una natura
prettamente sportivo-simulativa.
Moltissimi i titoli usciti, riassumibili
però in saghe incentrate su calcio,
baseball e prefisso LET'S, che indicava con LET'S MAKE saghe di tipo
manageriale, e con LET'S PLAY saghe di tipo arcade/simu-lativo.
Sega Rally 2 e Jet Set Radio
sono gli unici due titoli ad avere
conquistato un posto di rilievo fuori
dai confini nipponici, risultato tutt'
altro che biasimabile vista l'importanza rivestita dai due titoli nel panorama videoludico.
SEGA RALLY 2 [1999]
39
Saka-Tsuku - Let's make
J.LEAGUE professional soccer
club! [1999]
Special Edition [2000]
Special Edition2 [2001]
Similmente alle classiche simulazioni manageriali europee, anche in
questa produzione sollevantica lo
scopo primario è vendere/ acqui-
:RUBRICHE:
stare/customizzare squadre, giocatori, stadi. Discreto successo in patria, assolutamente oggetto sconosciuto all'estero, le versioni più
recenti godevano della possibilità di
connettersi tramite modem per
confrontarsi con giocatori reali e
scaricare logo e altre amenità. Mo lto particolare il fatto che, sem-pre
on-line, fosse possibile linkarsi a nche con gli utenti di un altro prodotto in-house, J. League Spectacle Soccer, anche se il tutto si riduceva ad uno scambio di dati vista
la natura differente dei due prodotti
[manageriale uno, arcade l'altro]
THE TYPING OF THE DEAD
[2000]
Prendete il più meraviglioso shooter
con pistola ad infrarossi della sto ria, sostituite la pistola con una tastiera, cercate di comporre il più
velocemente possibile le scritte a
video per abbattere i nemici ed avrete un'idea di cosa sia questo
gioco. Ve lo spiego in un altro m odo: prendete Sega Rally, gettate
dalla finestra Volante e Joypad, collegate le maracas di Samba de Amigo al vostro Dreamcast e cercate di portare a termine la simulazione rallystica di Sega. Ecco,
questo è The Typing of The De ad.
Si scherzava. Si scherzava?
Jet Set Radio a.k.a. Jet Grind
Radio [2000]
De La Jet Set Radio [2001]
Un nome, un franchise, un modo
nuovo di intendere i videogiochi.
Negli anni della clonazione ludica,
della carenza di concept, della piattezza creativa, Smilebit riunisce in
un unico titolo innovazione, classe,
giocabilità, musica da brivido. JSR
introduce la tecnica del cel-shading
per rivestire di pastellosa carto nosità i poligoni degli skaters ed il
ludomondo non sarà più lo stesso.
In altre parole, i personaggi sembrano cartoni animati viventi mentre la musica rap percorre le vie di
una Tokyo da rivestire di graffiti. Il
gioco è semplice, veloce, forse anche banale, ma di certo porta Sm ilebit sulla strada di un modo
"stylish" si concepire i videogames
che, potete scommetterci, sarà il
suo marchio nel terzo millennio. La
versione chiamata De la Jet Set
Radio introduce nuove ambienta zioni, musiche e personaggi, tra i
quali un simpatico botolo [canide,
per i comuni morta li].
90 MINUTES SEGA CHAMPIONSHIP FOOTBALL [2001]
Simulazione calcistica uscita solo
per il mercato europeo, ha dovuto
fare i conti con le superstar del settore, FIFA 2001 e ISS PRO, u-
Ring#05
scendo dallo scontro con il GD-ROM
tutto ammaccato e la rete gonfia di
palloni avversari.
Derby tsuku 2 [2001]
Let's make Derby Horse
Classica, oseremmo dire immancabile, simulazione equino-manageriale. Compra un cavallo, allevalo,
fallo vincere e rivendilo sotto forma
di bresaola. Perché lo sanno tutti
che i giapponesi vanno pazzi per la
bresaola. Battute da salumeria di
borgata a parte il gioco non sarebbe neanche male, peccato per
l'idioma nippostretto che impedisce
di scegliere fra le varie marche di
biada impedendo il giusto feedback
affettuoso tra l'uomo e la superstar
del Vidal.
Hundred Swords [2001]
Incredibile, un titolo Smilebit senza
il prefisso Let's. Solo per questo
gran simpatico. Quello che lo rende
ancora più simpatico è la completa
estraneità con le tipologie di gioco
finora esaminate. Hundred Swords
è difatti un simulatore strategico in
tempo reale, da giocarsi on-line per
sfidare fino a 3 umani sul campo.
Ogni esercito creato e cresciuto
come fosse un figlio può contare
fino a 100 unità carbonio [esseri
umani], per enormi battle royale in
rete, con eserciti fino a 400 unità,
tutte a video.
J.League Spectacle Soccer
[2002]
Altra simulazione calcistica, stavolta esclusiva per il mercato nipponico.
Interessante la modalità "network play" per entusiasmanti sfide
on-line nonché per scaricare dalla
rete logo e aggiornamenti dei roster. Originale la possibilità di linkarsi con gli utenti di SakaTsuku
Special Edition 2 , ma sia a livello
tecnico che di giocabilità non arriva
a sfidare la concorrenza di ISS
PRO e VIRTUA STRIKER.
_______________Playstation 2
A riconferma della scarsa simpatia
che lega Sega e Sony, un solo pro-
40
dotto compare nella line-up di Smilebit per il monolito nero. E non è di
certo uno dei titoli di punta. Se
pensate che sia un caso andate a
vedere che trittico di titoli ha piazzato la casa del sorriso sulla console di Gates e poi ne riparliamo.
Saka-Tsuku - Let's make
J.LEAGUE professional soccer
club! [2002]
Il medesimo prodotto uscito su Se ga Dreamcast, sesta versione del
franchise. Niente da notare, se non
che ora si hanno fino a quattro
splendide segretarie a darci una
mano nel gestire gli affari. Quando
si dice l'innovazione. Quando si dice
l'emancipazione femminile.
____________________X-BOX
Sega e X -BOX. L'amore viene riconfermato anche da Smilebit con tretitoli-tre di discutibile qualità, ma
comunque un chiaro segnale della
direzione dei flussi monetari di casa
di Harai nel settore sviluppo e ricerca.
Gun Valkyrie [2002]
Smilebit cerca di far rivivere gli
shooter frenetici dell'era 2D sulla
gatesmobile ma il risultato è un
parziale fallimento. Ci son validi elementi di concept ma il gioco è
troppo lineare, financo noioso, ed il
level design non è brillante. In attesa di un secondo, più profondo
episodio.
Jet Set Radio Future [2002]
Panzer Dragoon Orta [2002]
Ring vi invita a leggere le recensioni "large", sempre su questo numero
___________Gameboy Advance
Niente di epocale sul fronte GBA a
livello di prodotti, notevole invece
la semplice presenza di questa piattaforma nei piani di Smilebit, prima
casa Sega fra quelle da noi analizzate a prendere in considera-zione
il portatile di casa Nintendo.
Baseball Advance [2002]
Let's make Japanese Professional baseball team! ADVANCE
[2002]
Greatest Nine (Japanese Pr ofecional Baseball Game) [2002]
Let's make J.LEAGUE professional soccer club!
ADVANCE(Tentative) [T.B.A.]
:RUBRICHE:
Ring#05
___________________Sega PC
_____________Sorrisi e Saluti
Smilebit dimostra grande eclettismo convertendo alcuni suoi prodotti già descritti in precedenza anche per i PC.
Far scorrere il proprio sguardo lungo tutta la produzione Smilebit porta ad avere un'idea abbastanza
chiara della situazione attuale della
softco di Shun Arai: soprattutto negli ultimi anni, la casa Sega si è d istinta per qualità estetiche di primissimo livello unite ad uno stu-dio
e progettazione del gameplay che
per, per quanto lungi ancora dall'essere ottimale, denota comunque la dovuta cura ed attenzione.
Una cosa normale, penserete. Ma
non in casa Sega.
Seguitemi in questa breve analisi.
Abbiamo visto nei precedenti numeri di Sega Saga che da sempre,
per Sega, primeggiare è imperativo. E per primeggiare, si sa, il
primo passo è quello di attirare gli
altrui sguardi. In soldoni tutte le
softco Sega, da sempre, danno alla
scenografia, alla grafica, all'esibizione tecnologica un'importanza estrema.
Il retaggio prettamente arcade
della casa madre, ereditato geneticamente dai suoi figli prediletti, ha
invece giovato ben poco ad uno
studio del gameplay che fosse il più
approfondito possibile.
Reduci da una tradizione salagiochistica dove contavano soprattutto
1] immediatezza dei controlli, 2]
rapidità di fruizione e 3] ridondanza
grafica, tutto le softco finora osservate hanno riversato nella produzione home buona parte di quella
filosofia con tutto il bene, ma soprattutto il male, che ne possa conseguire.
Perché è indubbio che una delle
cause della perenne crisi finanziaria
di Sega sia la sua profonda incapacità di rinnovarsi, che non significa profonda incapacità di concept
innovativi, sia bene inteso. La sciando ad altre sedi articoli che
trattino più approfonditamente del
rapporto tra il gioco ed il luogo d ove se ne fruisce, con relativi differenti approcci soprattutto da parte
degli "acquirenti", vediamo di esaminare Smilebit ed il suo rap-porto
con la giocabilità, esame che vi
preghiamo arricchire con i commenti nelle recensioni di Panzer
Dragoon Orta e Jet Set Radio
Future che trovate sempre su questo numero di Ring.
Con un dito nel naso ed uno sulla
tastiera mi accorgo che Smilebit,
pur mostrando il fiatone, è forse la
segasoftco che maggiormente si è
Sega Rally 2 [1999]
The Typing of The Dead [2000]
Hundrd Swords [2001]
Let's make J.LEAGUE professional soccer club [2002]
____________________Mobile
Potevano mancare i giochi per
cellulari in casa Smilebit, dove nessun sistema viene sottovalutato?
Ovviamente la risposta è negativa.
Javakuryo[2001]
Un vero e proprio RPG sul vostro
cellulare. La morte sembra circondare la protagonista del gioco, e
centinaia di fantasmi ne tormentano l'esistenza. Sconfiggerli tutti e
scoprire le cause di quanto sta a vvenendo spetta a voi, armati del
vostro cellulare e… di parecchio
tempo libero.
Typing Jet [2001]
Jet Set radio su Cellulare? Perché
no, anche se stavolta è un semplice
platform seppur con tutti i crismi
del franchise.
____________________Arcade
Solo un titolo, The Typing of The
Dead [2001], versione arcade dell'originale prodotto per Dream-cast
al quale non aggiunge nulla di r ilevante.
41
preoccupata di arricchire il gameplay dei suoi prodotti. Accortasi che
la filosofia arcade spesso e volentieri mal si presta a venire accolta
in casa, ha cercato di dotare i suoi
prodotti di un certo spessore, carattere e personalità.
Che ci sia riuscita è cosa tutta da
verificare, che ci abbia provato è
indubbio.
Se Gun Valkyrie è un monumento all'azione veloce, spietata e
poco ragionata, gli altr i due prodotti
per la hardWAR sono invece dotati
di carisma e qualità ludiche di discreta portata.
PDO è un prodotto bellissimo da
vedere ed assolutamente poco noioso, con un continuo passaggio
delle dita su diversi tasti del joypad
X-Box ad indicare una tutt'altro che
banale e scontata prosecuzione nei
vari livelli di gioco. JSRF è sicuramente meno profondo, è forse un
piccolo passo indietro rispetto al
suo predecessore, eppure è perfettamente calibrato e dotato di uno
spessore assolutamente non paragonabile a quello di un prodotto tipico da sala giochi, più limitato per
sua stessa natura.
Un primato fra le softco finora
osservate, Smilebit sicuramente
l'ha: è senza possibilità di fallo la
softco più stylish di Sega, dove per
stylish si intende quella paella ludica di qualità grafica, stile delle animazioni, studio e ricercatezza dei
minimi particolari, tendenza a rendere unici prodotti appartenenti ad
un genere di massa. Ed è un primato che difficilmente qualcun altro le
toglierà a mio avviso.
La softco del sorriso rappresenta
infine l'ennesima conferma della
politica pro-Gates di Sega. Anche in
questo caso un suo clan schiera i
pezzi migliori sulla Gatesmobile,
lasciando briciole di bit alla concorrenza.
Togliendomi il dito dal naso vi do
l'appuntamento al prossimo mese.
:RUBRICHE:
Ring#05
qUANDO sI pOTEVA eSSERE pERFETTI________________
[PEOPLE: John Hare]
di Paolo Jumpman Ruffino
Riscoprire le opere a cui ha lavorato
Jon Hare significa andare a riscoprire l’età dell’innocenza dei v ideogiochi. Un’età che spesso dimentichiamo ma che, per fortuna,
fa parte di noi. Un’età dell’oro, in
cui bastava saper d isegnare un pupazzetto al computer per sbalordire
il mondo con un gioco di strategia,
uno di calcio e uno di guerra. Tutti
con lo stesso omino. Jon Hare è la
capacità di creare giocabilità infinita
usando un tasto, giochi terribilmente complessi ma perfetti sin
dalla prima partita. Una virtù che
sembra ormai persa del tutto, e in
effetti ci si abbandona facilmente
alla nostalgia.
_________I primi giochi e l’era
Commodore
Jon “Jops” Hare nasce il 20 Gennaio 1966. E’ fondamentale nella
sua gioventù l’amicizia con Chrys
Yates nata nel 1981 ai tempi del
college. Con Yates fonda una piccolo gruppo rock dal nome Hamsterfish, che ha però uno scarsissimo successo. I due, per loro
fortuna, condividono anche un’altra
passione, e cioè quella per i videogames. E’ una passione tanto forte
che i due nel 1985, appena finito il
college, decidono di andare a lavorare alla LT Software. E’ la loro
prima esperienza. Yates lavora c ome programmatore mentre Hare si
occupa della parte grafica e del
game design. La loro prima opera si
chiama Twister, per Spectrum.
Un lavoro che, una volta completato, fa decidere ai due di tentare
più seriamente su quella strada. E’
così che decidono di mettersi in
proprio e fondano a March, nel
Cambridgeshire, la Sensible Software, la software house che produrrà i titoli più venduti e apprezzati di tutta l’era Amiga. Hare
continuerà a suonare in futuro, tanto che di molti giochi ha curato personalmente le musiche, ma di certo
non suonerà mai con nostalgia. La
scelta di darsi al mondo dei videogames infatti lo premierà subito: il
primo gioco di Sensible Software,
Parallax, viene subito comprato da
Ocean per 1000£. Yates ed Hare
festeggiano con champagne e sigari
sul treno per casa. Parallax è uno
gioco d’astronavi con visuale isometrica che permette al giocatore
di muoversi non solo a destra e a
sinistra e davanti e indietro ma a nche in profondità, abbassando o
alzando l’astronave. Ma a ncora non
siamo di fronte a nulla di straordinario. Quello che può essere definito il primo grande successo dei
Sensible Software è WizBall. Uscito nel 1987 per Commodore64,
il gioco fu premiato dall’autorevole
Zzap!64 come “Miglior gioco del
decennio”. Siamo sempre nel genere degli shoot’em up ma questa
volta invece della solita astr onave
controlliamo una palla verde (Wizball, appunto), e l’unico nostro potere è dato da degli oggetti che
possiamo respingere nello spazio
contro i nostri nemici. La storia ci
vede impegnati contro un malv agio
di nome Zark, aiutati da Wizard e
Nifta la gatta. Un gioco tanto stupido quanto irresistibile, da amare
per ore o da odiare sin dal primo
istante. Un gioco che già dimostra
la straordinaria capacità di Hare di
lavorare con la fantasia per creare
cose incredibili praticamente dal
nulla.
Ma l’originalità dal team capitanato da John Hare si deve ancora
manifestare a pieno. Il prodotto più
singolare dei Sensible Software è
sempre del 1987 ed è il famigerato
S.E.U.C.K., sigla che sta per Shoot’Em Up Construction Kit. La
particolarità di questo gioco sta nel
fatto che… non è un gioco! Il
S.E.U.C.K. è un programma per
costruirsi il proprio sparatutto, partendo da delle conoscenze praticamente nulle di programmazione. Il
programma fa nascere una consistente comunità di appassionati,
la semplicità d’utilizzo permette a
tanti videogiocatori di soddisfare un
loro piccolo sogno, quello di costruirsi le proprie astronavi e i propri universi e poterci sparare dentro. Il S.E.U.C.K. viene premiato
con il titolo di “State of the Art for
highly original software”, premio
che contribuisce a diffondere il n ome dei Sensible Software in tutto
il Regno Unito e oltre. Sempre il
1987 vede i Sensible impegnati in
42
un gioco di calcio. Il lavoro gli viene
commissionato da Microprose, che
impone il nome Microprose
Soccer al titolo. Per molti, questo
gioco uscito per Commodore64
può essere considerato la prima
versione di Sensible Soccer. In
realtà i tempi ancora non erano
maturi e doveva passare del tempo, ed un home computer, perchè il
vero gioco di calcio potesse vedere
la luce. Ma già apparivano i primi
tocchi di classe, come il tempo v ariabile, i tiri a banana ed una semplicità dei comandi che, proprio
come nel futuro gioco dei Sensible, non si sa come ma porta sempre ad una terribile complessità
delle azioni.
Le ultime fatiche di Jon Hare su
Conmodore64 sono Internatioal
3d Tennis e Insect in Space, il
primo un titolo poco più che piaceole e su cui si può tranquillamente
sorvolare, il secondo è uno sparautto alquanto bizzarro, ma consierato cosa stavano per ideare i
Sensible con l’arrivo dell’Amiga
questi due titoli passano decisamente in secondo piano.
________________L’era Amiga
Nel 1991 con l’Amiga i Sensible
ideano due capolavori, Wizkid e
Mega lo Mania. Il primo è il seguito di Wizball, e la storia è questa:
Wizball e Wizard si sono sposati
ed hanno avuto un bambino, che è
appunto Wizkid. La gatta Nifta ha
avuto 8 cuccioli, ed il malvagio
Zark è tornato rapendo tutti quanti. Solo Wizkid riesce a nascondersi, e a lui spetta il compito di salvare prima i mici e poi i genitori sfidando personalmente Zark. Un
gioco impossibile da definire, misto
tra puzzle, azione, avventura, arcade e delirio in stile Sensible. La
testa tonda di Wizkid viene usata
per spingere oggetti contro i nemici, quadro dopo quadro. Anche i
livelli sono gestiti in modo delirante. Completato il primo livello, non
si accede al secondo come sarebbe
normale, ma al quarto, e poi al settimo e poi al nono e ultimo. Così si
arriva alla fine del gioco, ma si p otrebbe arrivare senza sufficienti
“gattini”. Ed ecco allora che bisogna
ingegnarsi per trovare i collegamenti nascosti ai livelli segreti.
Semplicemente geniale.
Nell’Ottobre dello stesso anno
ecco che arriva Mega lo Mania, il
:RUBRICHE:
primo capitolo di quella che potremmo definire un’involontaria trilogia. Premiato da Amiga Power
come il sesto miglior gioco per Amiga di tutti i tempi, Mega lo Mania si colloca sulla scia dei giochi
“in stile Popoulus”, anzi proprio dal
gioco di Molyneux prende dichiaratamente ispirazione. Dopo aver
scelto una tra quattro divinità bisogna portare la propria popolazione
da uno stato tribale ad uno avanzato cercando di sgomitare tra le civiltà emergenti nell’area circosta nte, magari alleandosi con loro o s fidandole in guerra. Prima con le
mazze, e poi con gli UFO e i missili
aerei, il giocatore deve arriv are alla
fine a prendere il controllo del globo, per la gioia del loro dio.
Ma Mega lo Mania è forse importante più per un altro motivo.
Perché è da questo che nasce per
caso quello che è l’unico e vero m otivo per cui riteniamo che debba
essere ricordato un personaggio
come Jon Hare. La fase di completamento di Mega lo Mania si stava
dimostrando particolarmente complessa (lo stesso Hare la ricorda
come la fase di conclusione della
produzione di un gioco più difficile
che abbia dovuto affrontare in vita
sua). I ragazzi della Sensible per
rilassarsi passano delle ore davanti
ad un giochino che in quei tempi
stava facendo impazzire gli utenti
Amiga, Kick Off2. Fu a quel punto
che ad Hare viene in mente una
brillante idea. Prende i cittadini di
Mega lo Mania e li veste con delle
magliette di squadre di calcio. La
cosa non è difficile perché sono fatti
con pochi pixel messi assieme. Ora
ne prende undici con la maglietta di
un colore e undici con la maglietta
di un altro colore e li mette su uno
spazio abbastanza verde, con quattro pixel crea un pallone e lo mette
al centro. Lo fa vedere agli altri r agazzi, così per scherzo, ma il collegamento viene fulmineo a tutti: con
i pupazzini di Mega lo Mania si
poteva fare un gioco di calcio. In
fondo avevano spulciato fino in
fondo Kick Off2, ritenuta la migliore
simulazione a quel tempo, e ci avevano trovato una lunga lista di difetti che avrebbero potuto correggere, e poi c ’era l’esperienza di Microprose Soccer. Ed è così che
nasce Sensible Soccer. Un contatto con un giornalista sportivo, il cui
compito era semplicemente tenere
aggiornati degli archivi coi nomi dei
calciatori, permette ai Sensible di
conoscere nome e cognome di migliaia di calciatori. E così riproducono tutti i titolari e i panchinari di 64
squadre di club e una infinità di nazionali. Numero che aumenterà con
le edizioni fino a raggiungere la c opertura totale di tutti i campionati
Ring#05
del mondo con l’edizione Sensibile
World of Soccer. Ogni giocatore
ha un valore espresso con delle
stelle che possono essere grandi o
piccole: quattro stelle grandi è il
massimo. Inoltre di ognuno vengono indicate le tre abilità in cui era
più forte. Le abilità in tutto sono
sette, e precisamente controllo,
tackle, velocità, colpo di testa, finalizzare, forza del tiro e passare.
Con queste semplici indicazioni
vengono caratterizzati tutti i giocatori. Inoltre Jon Hare vuole inserire altre squadre, come se non ce
ne fossero abbastanza, completamente inventate da loro. E così i
Sensible si mettono ad inventarsi
la squadra dei formaggi, quella coi
nomi dei giocatori presi dalla Bibbia, quella coi nomi dei loro amici…
ancora una volta è delirio. Ma è d elirio anche tra il pubblico, un milione e mezzo di ragazzi inglesi comprano Sensible Soccer, per la
gioia di Renegade che fece da p ublisher. Il gioco uscì prima per Amiga, ma poi anche per Megadrive, SNES e PC. A proposito della versione Megadrive c’è un aneddoto simpatico da r icordare. Nel
realizzare la bandiera italiana, che
doveva comparire quando giocava
la nostra nazionale, Jon Hare aveva pensato bene di invertire i colori
facendola rossa, bianca e verde.
Solo per questo motivo Sega lo rifiutò, lo rispedì ai Sensible che avrebbero dovuto correggere l’errore. Il punto è che non c’era stato
alcun errore! Fatta per dritto la
bandiera italiana sembrava identica
a quella francese, visto che non si
vedeva la differenza tra il verde ed
il blu. Così Hare l’aveva capovolta,
ma fu costretto a rimetterla nell’ordine giusto, senza curarsi delle confusioni che potevano n ascere. Ora
però nelle due settimane che si
portò via questo contrattempo per
Megadrive esce un certo Fifa
Soccer, che vende come il pane.
Uscire subito dopo Fifa è praticamente un suicidio e le vendite del
gioco ne risentono terribilmente, e
tutto per non correre il rischio che
qualche patriottico italiano avesse
motivo di lamentela… Il gioco si r ivela comunque talmente geniale da
dare luogo a molti seguiti (vedi la
ludografia a fine articolo) e ad un
comunità di fan via internet. Ancora
oggi è possibile trovare molti siti di
gente che scrive update con le
nuove formazioni, organizza tornei
e cerca le migliori formazioni possibili.
Ma dicevamo di una trilogia. Ed
infatti la genialità di Hare continua
ad essere frizzante, e a quei pupazzini così versatili pensa bene di
far indossare un uniforme e mandarli in guerra. E’ il Dicembre del
43
1993 quando esce Cannon Fodder, una specie di Commandos ante-litteram, farcito però di molto
più umorismo demenziale. Già il
filmato introduttivo, girato dagli
stessi Sensible, introduce ad un
clima di sarcasmo nei confronti della pratica più terribile che l’uomo
abbia inventato. Il motivetto “war
has never been so much fan”, cantato nella canzone di Hare rende
bene l’idea dell’atmosfera del gioco.
Il giocatore deve controllare un
manipolo di quattro uomini e deve
riuscire a farne arrivare almeno uno
al completamento del livello. La
riuscita richiede una certa str ategia
e pianificazione, soprattutto ai livelli più avanzati, e non mancano scene degne di un film sul Vietnam con
ritirate col compagno ferito e lanci
di granate da ripari i mprovvisati. E
poi veicoli, contro di voi ma anche
a vostra disposizione. La gestione
degli uomini a disposizione funziona
in modo da far davvero soffrire per
la morte di qualche soldato che aveva superato a nche solo un paio di
missioni! Praticamente al completamento di ogni missione arrivano
un certo numero di arruolati che
sostituiscono i vostri soldati quando
muoiono. All’inizio sembra di avere
un numero esagerato di leve a d isposizione, ma poi andando avanti
vi sembrerà quasi di mandarli al
macello. I più valorosi aumentano
di grado (e di precisione nel tiro) e
alla loro morte vengono ricordati in
modo particolare nel cimitero. Anche questo gioco piace a critica e
pubblico, tanto da meritarsi un anno dopo un seguito, Cannon Fodder2.
A questo punto inizia un periodo
abbastanza triste per i Sensible.
Le condizioni economiche sono o ttime e il 1996 e 1997 saranno i loro
migliori anni fiscali. Dopo Cannon
Fodder però produrranno solo
nuove versioni di Sensible Soccer.
Solo un gioco nuovo nel 1998,
Sensible Golf, che però può decisamente essere evitato. Il tentativo
di fare un gioco semplice in contr asto alle complesse simulazioni di
golf presenti sul mercato riesce solo in parte.
Ma il problema più grande per i
Sensible è che il mondo sta cambiando, per riuscire nel mercato
dopo l’arrivo di Playstation e co.
non si possono più fare giochi con
:RUBRICHE:
Ring#05
team di sette persone. Purtroppo i
Sensible non si erano mai confrontati con il 3D, ed il passaggio gli
sarà fatale. Sensible Soccer ’98,
uscito solo su PC, è un flop clamoroso e la causa è soprattutto
nella grafica che propone un abbozzo di 3D. Il cambiamento str avolge la meccanica di gioco e gli
appassionati non apprezzano neanche un po’. A questo si aggiungono
dei problemi con i produttori per i
nuovi giochi. Dopo il contratto con
Virgin/Renegade, i Sensible
passano sotto l’etichetta Warner.
Jon Hare e Chris Yates vendono
nel Maggio del 1999 la Sensible
Software a Codemasters. Adesso
tutti i diritti dei precedenti giochi
sono loro, e Jon Hare lavora ad
alcuni progetti come esperto game
designer. Uno dei primi giochi nati
da questa acquisizione è stata la
versione per Game Boy Colour di
Cannon Fodder, uscita nel Dicembre 2000. In seguito, Hare ha lavorato a due giochi di boxe, Prince
Naseem Boxing per PSOne e Mike Tyson Heavyweight Boxing
per Playstation2 e X-Box. Due
titoli interessanti, ma in cui non
viene fuori nulla del genio inglese.
Il nome di Jon Hare è legato a
quello di Sensible Software, e per
quanto continui a lavorare assiduamente la fine di questa casa ha significato anche la fine del suo successo.
Ed è con questa che devono produrre due nuovi giochi, Sex ‘n
Drugs ‘n Rock ‘n Roll, e Have a
Nice Day. Il primo prende molto
tempo per la produzione, ma ad un
certo punto succede il peggio.
Warner viene comprata da GT Interactive, che pone attenzione alla
moralità delle proprie produzioni. Il
titolo dei Sensible viene subito v isto di cattivo occhio a causa dei
contenuti espliciti. Gli attriti tra
Sensible Software e GT Interactive si fanno forti, e alla fine d opo
un lungo travaglio si decide di cancellare i due progetti, con Sex‘n
Drugs ‘n Rock ‘n Roll praticamente completo all’80%.
________________Conclusioni
La storia di Jon Hare è la storia di
un periodo in cui ci si poteva divertire con quattro pupazzini colorati.
Oggi non è più possibile, se per
creare un gioco decente ci vogliono
centinaia di persone ed anni di sviluppo. La grandezza di Hare era
proprio nel riuscire ad avere illuminazioni di gameplay e saperle rendere su schermo in pochi istanti. I
controlli di Mega lo Mania, Sensible Soccer e Cannon Fodder sono un manifesto di intuitività, ma i
giochi sono anche incredibilmente
complessi, tanto complessi che ci
giocano ancora oggi grandi numeri
di appassionati. Jon Hare è stato
ucciso da un mondo che è cambiato, e a cui non si poteva adattare.
Non avrebbe mai potuto continuare
ad esistere una Sensible Software, una software house fatta solo di
passione e colpi di genio. Jon Hare
è forse l’uomo più rappresentativo
di una certa scuola di produzione di
videogiochi, legata ad un periodo
ben preciso, quello degli anni’80,
nata con gli home computer. Una
scuola di pensiero che ancora sembra parlarci, a noi che giochia-mo a
contare i poligoni e ci ubria-chiamo
di hype con campagne pubblicitarie
miliardarie.
Jon Hare è ancora lì, dietro le
spalle di ogni giocatore, a suggerire
di mondi incredibili, semplici, e d ivertenti. Immensi ed infiniti, ma
dove si fa tutto con un bottone.
Dove le fantastiche animazioni ce le
inventiamo noi con l’immaginazione
(a qualunque giocatore di Sensible
Soccer è sembrato prima o poi che
l’attacante facesse un colpo di ta cco per fermare la palla, seriamente). Dove la grafica è bella perché
priva di effetti di luce e antialiasing. Qui non si tratta di dire
che la tecnologia fa schifo, qui il
problema è che nessuno riesce più
a sentire Jon Hare che gli sussurra
nell’orecchio, e cerca di ricordarci
che il gameplay è una cosa semplicissima.
Cerca di ricordarci che c’era un
tempo in cui ci si poteva divertire.
E si poteva essere perfetti.
fUMO, aDUCHEN e L’oBOLO rIGATO__________________
[Il Davide Videoludico #5]
di Nemesis Divina
“Dove preferisco fare sesso? In bagno, credo. Certamente è il posto dove
lo faccio più di frequente. Però con la storia dell’AIDS ho dovuto prendere
le mie precauzioni, so che anche una sola piccola ferita può trasmettere il
contagio, quindi mi sono munito di un guanto. Uso quelli per lavare i piatti,
le zigrinature hanno anche un effetto stimolante…”
Il Davide Videoludico
Una volta al Davide, che era bambino, gli chiedono di fare vedere ‘la bolla’
che stava giocando a Strit Faiter 2, nel bar/gelateria sotto casa. E lui, con
fretta esibita, si cala i calzoni e mostra fiero la mutanda oltraggiata da
marchio marrone d’infame natale. Il Davide non era molto ben visto dal
barista. Il Davide, invece, era un po’ una specie di mito per i r agazzini più
piccoli.
Il Davide c’aveva questo superpotere che in pratica giocava bene ai v ideogiochi, anche se era la prima volta che li vedeva. Ci sapeva tutti i tru c-
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Ring#05
chi: i passaggi segreti del Mario, le mosse del Babol Babol prima che in iziavi la partita, i colpi di tutti i picchiaduro, tranne che di Art Offaitin ché fa
schifo. Una volta aveva pure preso il mitragliatore del mitragliere,
all’ultimo schermo di Dabol Dregon. Il Davide era voluto bene da tutti che
infatti gli chiedevano di vedere le mosse e lui le faceva volentieri che si
sentiva g asato. Tipo che faceva otto shoriuchen piccoli uno di fila all’altro e
sfasciava sempre la ma cchina del primo bonus. Poi finiva i giochi con un
gettone, che una volta erano duecento lire poi trecinquanta poi cinquece nto lire e adesso cinquecento euro, credo… Straider lo finiva senza perdere
un cubetto e pure Dabol Dragon, che era il migliore. Strit Faiter 2 se lo f inivi senza crepare mai vedevi le facce dei programmatori, Gouls end Gost
era da fare due volte, el Davide lo faceva, che se poi non arrivavi a Belzebub con ‘il gelato’ (arma mitica da recuperare negli schermi prima) non
combattevi con Lucifero e dovevi rifare tutto ancora una volta daccapo.
Che poi questa cosa di finire i giochi con un gettone non piaceva mica ta nto ai gestori dei locali che guadagnavano di meno. Così i gestori ricorrevano a subdoli trucchi tipo aumentare il livello di difficoltà dei giochi, mettere
solo due bottoni a Strit Fighter (pugno e calcio deboli), settare meno vite o
meno tempo, tipo che in Aut Ran dovevi arrivare al traguardo in 30 seco ndi che voleva dire che non dovevi fare incidenti e che invece di una Ferrari
ti serviva lo Shattol.
Il Davide era un videogiocatore gradevole, di quelli che era sempre d isposto a darti una mano in caso di bisogno che ti dicono ‘ti faccio il mostro?’’, ‘ti passo lo schermo?’, ‘sei capace a fare il salto?’,’vuoi vedere la
super mo ssa?’, che alla fine di solito gli lasci fare quello che voleva pur di
farlo star zitto. E lui figo, immancabilmente sbagliava e dicevati ‘dovevi
darmi prima i comandi’ ed era game over e allora lui metteva il gettone e
saltava la fila di centoquarantadue persone che aspettano, ormai barbute,
di giocare. Ma il Davide aveva anche un altro potere, che aveva acquisito
ai tempi delle elementari. In pratica lui se vole va giocare ti veniva vicino,
appoggiava il braccio sul cassone e infilava la testa davanti allo schermo e
iniziava un mantra nefasto del tipo ‘adesso muori/ti batte/non hai energia/perdi/ti ammazza/fanno gol’ perché lui era il Davide ma era anche il
Gufo.
Allontanare un gufo era impossibile, ma lo si poteva mettere in difficoltà
disponendo di un amico e di uno zaino ingombrante: appropinquatisi al
cassone, si posiziona l’amico nel posto accanto a noi, l’altro versante del
cassone va reso inagibile ponendovi il nostro zaino. Normalmente i gufi
svolazzavano verso prede solitarie e più vulnerabili ma accadeva che qualche volatile iettatore finisse con il calpestare lo zaino, pur di prender p osto. Alcuni gufi, particolarmente intraprendenti e corpulenti, si pre ndevano
invece la libertà di calpestare l’amico… poi i gufi dominavano altre tecn iche, oltre la sfiga verbale, per infastidire i giocatori; essenzialmente si
trattava di tecniche personali, elaborate in anni di esperienza, ma ce
n’erano anche di comuni a tutti i gufi. Per esempio c’era la pressione del
tasto di regolazione dell’immagine (solitamente posto sotto la plancia dei
comandi), il gufo aveva cura di pigiarlo nel momento più critico e incasinato possibile provocando così un traballamento dello schermo. Ovviamente
era una tecnica da usare contro i novellini, che non conoscevano
l’esistenza del subdolo pulsante. La tecnica definitiva co mportava l’azione
sulla levetta che spegneva il gioco, il difficile stava nel non essere scoperti
e nel riaccendere immediatamente il gioco in modo che andassero perduti i
dati della partita (con conseguente G ame Over) e che tuttavia lo schermo
s’annerisse per una singola frazione di secondo. O vviamente il gufo doveva
dimostrarsi subito incredibilmente affranto per cotal disgrazia di provenienza divina, alcuni si strappavano ciuffi di capelli e altri si gettavano a
terra in preda a crisi epilettiche di pianto, forse eccedendo in zelo recitativo.
Il Davide era di casa in sala giochi che ci andava spesso, specie negli orari d i lezione però solo quando riusciva a fregare abbastanza soldi al portafogli di papà che sennò stare in giro costava troppo ed era meglio sca ldare i banchi. Se aveva pochi soldi e c’era qualche esame particolarmente
ostico (tipo di ginnastica o religione) allora Davide andava nel bar dietro la
scuola che c’era Mario che con un gettone ci facevi 3 ore comodo comodo.
Davide gli piaceva tanto andare in Sala Giochi che in pratica tutti lo co-
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noscevano e quando passava lo salutavano tipo toccandosi i testicoli co me
segno d’augurio di fertilità; al Davide non interessava avere figli ma gradiva comunque. All’inzio la sala giochi era un bel posto con bella gente, tanti
amici adiposi e quattrocchiuti con cui stare zitti tutti assieme, non pensando alle ragazze e tendendo l’orecchio ai ‘plin’ ai ‘blam’ ai ‘pirulì’ e agli ‘adesso muori/ti batte/non hai energia/perdi/ti a mmazza/fanno gol’.
Poi tutto cambiò.
Non fu una cosa rapida ma ciò nonostante percettibile. Il primo segnale
di pericolo poteva essere ascritto alle fa ttezze del gestore delle sale giochi,
normalmente brutto fuor di misura, possibilmente obeso, barba incolta,
bava rappresa sull’angolo della bocca e sguardo da maniaco. Poi la sala
giochi divenne ritrovo del vizio e della perdizione, non già videoludica (in
tal caso doverosa e pretesa), quanto piuttosto imposta da quella marmaglia di nullafacenti, totalmente privi di cultura videoludica, il cui unico scopo era trovare riparo durante le ore di scuola, un riparo possibilmente is olato… scansato dal resto dell’umanità… buio… dove un gestore compiace nte poteva chiudere un occhio in cambio di moneta frusciante. Così vedevi
‘sti qua che arrivavano e cambiavano un deca e poi scendevano
nell’interrato, dove c’erano i giochi meglio… e se poi andavi giù lì sembrava
un raduno arabi fumaioli, ragazzini che marinavano scuola per gustarsi il
fascinoso proibito di una sigaretta. D opo qualche anno arrivarono gli arabi
veri. Perché la sala giochi dove andava il Davide era nel quartiere più orribilmente malfamato della sua città; per le stesse ragioni che attiravano i
nullafacenti minorenni, la Sala Giochi era apprezzata da questi signori. Dopo qualche mese vedevi i ragazzi che scendevano nell’interrato e risalivano, dopo un’oretta, con gli occhi vitrei, inebetiti, barcollanti e pallidi. Quelli
erano i videogiocatori consueti. Altri invece venivano su con lo sguardo
spiritato, la mano tremula, il passo pesante e la salivazione triplicata.
Quelli erano i videogiocatori con specializzazione Picchiaduristica. Talvolta
vedevi salire gente che rovistava nervosamente nelle t asche dei pantaloni.
Specializzazione Puzzle -Sporcellosi. Quelli che non risalivano per niente erano i clienti degli arabi che se poi scendevi trovavi tutti sdraiati sulle scale
con gli occhi pallati e un obice di maria stretto fra le mani, impegnati a
sbuffare bianche volute di fumo. I primi tempi dell’Invasione, Davide continuò ad imporre la propria stoica presenza dando continuo sfogo ai suoi
due poteri. Davide scendeva di sotto e, incurante di sguardi torvi a lui rivolti, varcava l’aula e si presentava gonfio d’orgoglio dinnanzi al cassone
con rapporto gettone/durata più va ntaggioso. Fu difatti un tristo giorno
quello in cui il Davide s’accorse che il VG che offriva il divertimento più
longevo era a conti fatti la macchinetta per cambiare i gettoni… Ormai
l’industria proponeva solo megacassoni le cui partite costavano 8 gettoni
l’una e che offrivano una longevità media di mezzo minuto… però solo se
eri mostruosamente bravo. Il proliferare di macchinette mangiasoldi (al
secolo videopoker) diede il colpo di grazia ad un Davide sempre meno a ffezionato al luogo di ritrovo per eccellenza. Fu proprio in questo periodo
transitorio che il Davide si avvicinò anima e corpo all’ambito
dell’intrattenimento casalingo, certo che l e console l’avrebbero potuto co nsolare. Il tapino non sapeva che nel nuovo mondo egli avrebbe perduto la
posizione sociale che con fatica e coraggio, sprezzante di calci al basso
ventre e gomitate al setto nasale, s’era conquistato in sala giochi. Se prima tutti provavano un timore reverenziale, ora non sarebbe stato più nessuno… eppure Davide fece il passo e abbandonò il gettone. Solo di recente
un sorriso sardonico appare sul viso davidiano, egli finalmente sente il r ichiamo dell’antico lignaggio e cova la bestia della iattura binaria con amorevole cura, attendendo che lo spalancarsi dell’online gaming srotoli innanzi a lui i prati rigogliosi del trolling più totale e distruttivo. Connettetevi con
timore e apprensione, miseri infami, perché accanto a voi, sempre e d ovunque, ci sarà un Davide pronto a infila rvi un coltello in schiena, a rubare
il vostro oro, a sbattervi fuori di pista senza alcun vantaggio suo, a fare
autogol, a mandare all’aria l’approccio stealth della vostra divisione antiterroristica o, più semplicemente, a sussurravi via microfono “adesso mu ori/ti batte/non hai energia/perdi/ti ammazza/fanno gol”.
[continua]
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