I duecent`anni del - Il Saggiatore musicale

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I duecent`anni del - Il Saggiatore musicale
XX Colloquio di musicologia del «Saggiatore musicale»
Bologna, Laboratori delle Arti, 18 novembre 2016
Tavola rotonda I
Buon compleanno, Figaro! I duecent’anni del “Barbiere di Siviglia”
Coordina
LORENZO BIANCONI (Bologna)
Intervengono
MICHAEL ASPINALL (Napoli)
PAOLO FABBRI (Ferrara)
PAOLO GALLARATI (Torino)
ROBERTO GIGLIUCCI (Roma)
SAVERIO LAMACCHIA (Udine-Gorizia)
LORENZO MATTEI (Bari)
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Il menu della tavola rotonda sui 200 anni del Barbiere di Siviglia prevede una serie di
hors- d’œuvre, entrées, garnitures e desserts tutti incentrati, quale più quale meno, su
un’unica domanda. Questa. Perché mai è toccato proprio al Barbiere di Siviglia – e non
(per dire) al Tancredi, all’Italiana in Algeri, alla Cenerentola, alla Gazza ladra o alla
Semiramide – il destino d’essere la prima opera italiana mai uscita di repertorio? La
prima opera che non abbia mai subìto un’eclisse nei cartelloni dei teatri italiani grandi e
piccoli, e in quelli d’Europa e del mondo intero, seguita poi – parecchi anni dopo – da
La sonnambula, Norma, L’elisir d’amore, Lucia di Lammermoor, e infine Ernani, Il trovatore,
Rigoletto, La traviata?
Nei termini della storia della musica: col Barbiere ha inizio in Italia il fenomeno del
repertorio, ossia la persistenza e permanenza sui cartelloni dei teatri di una selezione di
poche opere squisite ed esemplari non assoggettate all’avvicendamento delle mode e
all’usura dell’assuefazione. (Nei paesi tedeschi era avvenuto un po’ prima col Don
Giovanni, spesso ridotto a Singspiel.)
Nei termini dell’estetica della recezione: Il barbiere di Siviglia fu la prima opera che
ogni spettatore melomane – molto prima dell’invenzione del fonografo – ha potuto
incontrare non una ma tante volte nel corso di una vita: da ragazzo, da adulto, da
vecchio. Un’opera per la quale non si è dunque data la necessità di un repêchage, di una
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‘Renaissance’. Il Barbiere, tutti l’hanno dato, tutti lo diamo per scontato, per risaputo.
Non sarà un caso che sessant’anni fa il Rossini di Luigi Rognoni – una tappa decisiva
nella riscoperta intellettuale di Rossini – saltò a piè pari il Barbiere, troppo conosciuto; e
che la prima monografia degna del nome sul Barbiere sia stata scritta soltanto una decina
di anni fa (Il vero Figaro o sia Il falso factotum di Saverio Lamacchia).
Il barbiere di Siviglia entrò precocemente e durevolmente in proverbio, è penetrato nel
tessuto profondo della cultura media dell’italiano contemporaneo, in un bagaglio che
ogni cittadino, anche di modesta cultura, ha posseduto e forse ancor oggi possiede (ma
ne siamo così sicuri?): un po’ come I promessi sposi; o forse il paragone più pertinente
sarebbe col Bertoldo e Bertoldino di Giulio Cesare Croce, e col Pinocchio di Collodi.
Come e perché è potuto accadere?
Il barbiere di Siviglia non nacque con l’aspettativa di dover durare più di quanto
durassero mediamente in Italia le opere buffe di successo: una ventina d’anni
suppergiù. Non fu un fiasco: dalla seconda sera suscitò un «fanatismo indicibile»;
scrivendo alla madre, Rossini lo descrisse come «un capo d’opera … essendo questa una
musica spuntanea ed immitativa all’eccesso». Ma non dovette nutrire soverchie
speranze circa la sua persistenza e propagazione, visto che ne riutilizzò ben presto
singoli scampoli o interi pezzi in opere di poco successive: il motivetto del crescendo
della «calunnia» adibito all’uxoricidio dell’Otello, il tema e variazioni della grand’aria di
Almaviva rifuso nel rondò finale della «bontà in trionfo», La Cenerentola,…
Il barbiere di Siviglia non è un’opera perfetta. Nacque, lo sappiamo, sotto il segno della
fretta e della casualità. La scelta del soggetto e la lista dei pezzi furono stabilite in
extremis, il 17 gennaio 1816; la ‘prima’ ebbe luogo meno di quattro settimane dopo, il 20
o il 21 febbraio. Tempi magari non inconsueti all’epoca, ma comunque proibitivi per
stendere da zero il libretto e la partitura e per metterla in prova. In ogni caso, la
necessità di aggiungere all’ossatura della commedia di Beaumarchais e dell’opera di
Paisiello «parecchie nuove situazioni di pezzi musicali … reclamate dal moderno gusto
teatrale» – in ispecie l’introduzione e il finale primo – ha determinato cospicue
incongruenze e vistose smagliature nell’ordito di fabula e intreccio.
Il barbiere di Siviglia non è mai stato un capolavoro intangibile. La fortuna dell’opera,
documentata dai libretti e dalle partiture manoscritte e stampa, è una storia di precoci,
reiterate, tenaci alterazioni, omissioni, manomissioni, intrusioni, deturpazioni,
banalizzazioni: che però non ne hanno compromesso la vitalità. Di conseguenza, è
anche una storia di edizioni critiche (o presunte tali), forse la più nutrita nella storia
della musica italiana: dalla partitura tascabile Guidi (1864), esemplata sull’autografo
entrato di fresco nel Liceo musicale di Bologna, alla prima edizione Zedda (1969)
all’edizione Brauner-Gossett (2008) alla seconda Zedda (2009).
Il barbiere di Siviglia è stato un caso limite di metamorfismo vocale: con le trasposizioni
di tono, le fioriture aggiunte, e soprattutto con la trasfigurazione delle parti dei due
protagonisti – Rosina tramutata da contralto in soprano leggero und zurück, il Conte da
tenore eroico in tenore leggero und zurück – rappresenta forse (accanto all’Orfeo di
Gluck) il culmine del trasformismo canoro. Con conseguenze stilistiche ed
ermeneutiche incisive.
La malleabilità della struttura drammatica e della costellazione vocale ha di sicuro
favorito la sopravvivenza dell’opera, nelle mutevoli condizioni del mercato operistico.
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Questa è però una qualità passiva, non attiva: e come tale aiuta a comprendere come
mai Il barbiere di Siviglia abbia potuto sostenere felicemente la ‘selezione naturale’ del
repertorio. Ma non spiega ancora perché proprio al Barbiere, tra tante partiture di Rossini
che sprigionano la stessissima verve, energia, velocità, allegria, grazia, strafottenza ed
eleganza, sia toccata questa sorte. Bisogna che specifiche qualità intrinseche, o
circostanze estrinseche, abbiano innescato questo caso da manuale di darwinismo
musicale. Tocca agli storici della musica e della cultura porsi l’interrogativo.
Il tema non riguarda soltanto la fortuna di Rossini. I processi storici e storico-artistici
sono sempre complessi: quelli della storia della musica – la ricostruzione della memoria
di un’arte immateriale ed evanescente – ancora di più. Già nell’Ottocento il perdurante
successo dell’opera di Rossini ha avuto in itinere effetti riflessi. Non tanto sulle altre
opere di Rossini – questo è accaduto solo nel corso del Novecento – quanto sul presunto
precursore del Barbiere di Siviglia, ossia l’opera omonima di Paisiello: la quale ebbe il
singolare privilegio – una rarità assoluta, per l’opera del Settecento – di un’edizione in
partitura (1868): la pubblicò lo stesso editore fiorentino, il già citato Guidi, che poco
prima aveva edito la partitura del Barbiere rossiniano, quasi intendesse ricomporre
idealmente un dittico ‘monumentale’. Negli stessi mesi l’editore Lucca rimise in
circolazione lo spartito del Barbiere di Paisiello, decisamente fuori repertorio all’epoca, e
gli appioppò anche il nome di un librettista, Giuseppe Petrosellini, che di sicuro non ne
fu l’autore, ma che al libretto adespoto del Barbiere pietroburghese è poi rimasto
appiccicato fino ad oggi.
Quale fu dunque l’innesco della precoce (e riuscitissima) canonizzazione del Barbiere
di Siviglia? Questo è il tema della tavola rotonda.
La critica ha offerto tante spiegazioni diverse. Si è voluta cogliere la novità del Barbiere
nel ruolo eponimo, nell’‘invenzione’ di un tipo vocale – il baritono inteso come uomo
intraprendente, padrone del proprio destino – che in Figaro si concreterebbe in termini
categorici e imperativi. È stata decantata l’irrefrenabile vitalità sonora e canora con cui
Rossini inscena la competizione per la conquista della pulzella in palio (Rosina) da parte
del protagonista (Almaviva), del suo fautore (Figaro) e dell’antagonista (Bartolo). Sono
stati evocati gli sconfinamenti nel teatro dell’assurdo, la absurdité nécessaire de la musique
(così la chiama Stendhal, il quale, per la verità piuttosto refrattario al fascino del
Barbiere, trovava stucchevole il terzetto del second’atto); il paradigmatico surrealismo
del «quadro di stupore» (così lo chiama Sterbini nel suo libretto), quel tableau vivant –
alla maniera dell’ultima scena nel Revizor di Gogol’ – che nel finale primo del Barbiere è
spavaldamente squarciato dallo sberleffo di Figaro («Guarda don Bartolo, | sembra una
statua…»); il clangore esorbitante della cavatina di Figaro all’alba per le strade deserte
di Siviglia («si direbbe che arrivasse in sua vece, colla sua banda, il reggimento del
Colonnello amico del Conte», osservava sornione Carlo Ritorni nel 1824); l’acrobatica
abilità del menare musicalmente il can per l’aia nel quintetto del curiale inesistente e
della fittizia scarlattina di Basilio. È stata tirata in ballo anche la cupidigia del
proletariato – la cifra musicale embrionale di una coscienza di classe storicamente in
fermento – nell’insistita frenesia metrica di Figaro che pregusta, mimandolo in musica,
il conteggio delle monete (nella cabaletta del duetto con Almaviva). Eccetera.
Non è improbabile che la chiave del successo irresistibile del Barbiere di Siviglia vada
ricercata in una specifica, irripetibile combinazione degli elementi e dei coefficienti che
ne determinano la comicità. Materia notoriamente difficile da definire, da agguantare, il
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comico: da Aristotele in qua. Ma se vogliamo distinguere il Barbiere dalle altre opere
buffe di Rossini, bisognerà forse puntare proprio lì, sulla frizzante miscela di letizia
guascona e sarcastica aggressività che trasuda dalla partitura, in concorrenza con la
macchina comica della commedia di Beaumarchais (da Beaumarchais stesso così
eloquentemente descritta nella Lettre modérée sur la chute et la critique du ‘Barbier de
Séville’).
Ancora una osservazione prima di concludere. Nei termini della critica letteraria
francese, Il barbiere di Siviglia, come la pièce donde è tratto, è comédie d’intrigue più che
comédie de mœurs o men che meno comédie de caractère. Eppure. Nel solco – alla lontana
un po’ – della commedia dell’arte, ossia della forma peculiarissima che il teatro italiano
ha offerto al mondo nell’epoca in cui nacque il moderno professionismo istrionico, Il
barbiere di Rossini presenta una collezione abbastanza sensazionale di ‘tipi’ comici, ma
così iperbolici, così madornali, da assurgere al rango di emblemi universali. Non è forse
Figaro la personificazione dell’astuzia manovriera, lo spaccone allegro e smargiasso,
doppiogiochista impunito? Bartolo l’epitome dell’albagìa, della spocchia altèra del
professionista imparato (l’italico ‘Lei non sa chi sono io’), che non arretra dal terrorismo
psicologico e dal sequestro di persona? Basilio la maschera imperitura dell’ipocrita
opportunista e servile, maldicente untuoso e insinuante, intimamente portato a tradir
l’amico? Rosina – l’ha detto Stendhal – una ‘scaltra vedovella’, un’acqua cheta, all’atto
pratico civetta per sette e maliziosa per settantasette? E il Conte d’Almaviva? un
aristocratico criminale che non si perita di ricorrere alla sostituzione di persona, alla
violazione di domicilio, alla violenza privata, alla corruzione e alla minaccia a mano
armata per soddisfare le proprie brame. Tutte qualità morali – chiamiamole così – che la
partitura di Rossini rappresenta con una intensità, uno sbalzo, un’energia stupefacenti.
Si salva forse la vecchia Berta. In compenso c’è pure la Polizia (che manca in
Beaumarchais): brutale coi deboli e deferente coi potenti. Una combriccola egregia. Un
quadretto lusinghiero. Il ritrattino coi fiocchi di una società davvero armoniosa e felice.
Preoccupante, commedia di costume o di carattere che sia.
Parafrasando la famosa definizione dell’Evgenij Onegin data dal grande critico
letterario Vissarion Belinskij, essere cioè il romanzo in versi di Puškin una «enciclopedia
della vita russa», potremmo spingerci a vedere nel Barbiere di Rossini una involontaria
ma azzeccata e copiosa «enciclopedia della vita italiana»? della vita italiana del 1816 e
forse della vita italiana di sempre? Donde la domanda successiva: potrebbe questo
‘ritratto dal vivo’ essere stato uno dei fattori che hanno poi fatto – quasi all’insaputa dei
suoi autori – la fortuna del Barbiere in Italia e anche fuori?
Se la risposta fosse sì, rimarrebbe da porre un’ultima domanda. Una domanda
anch’essa un po’ inquietante. Se a duecent’anni di distanza questa rappresentazione
esilarante e feroce della nostra beneamata ‘repubblica dei furbi e dei fessi’ continua a
convincerci e a rallegrarci; se siamo così lusingati e compiaciuti di riderci sù, cioè di
ridere di noi stessi: non sarà questa stessa letizia dell’(auto-)irrisione un’ulteriore
caratteristica dell’indole nazionale? La spiegazione dell’ultimo quesito la si può forse
trovare nelle pagine di un altro illustre marchigiano, di poco più giovane di Rossini: ma
questo è un altro discorso.
LORENZO BIANCONI
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